Giampiero Raganelli

SERRADopo aver realizzato il film definitivo su Don Chisciotte, con Honor de cavallería, il folle cineasta catalano Albert Serra arriva a stendere una pietra tombale, facendo tabula rasa di tutto il cinema precedente e non solo, anche sul mito di Casanova e su quello di Dracula. Fa incontrare i due leggendari personaggi nel Nordeuropa, dove l'ormai anziano libertino si è ritirato.


Un film sul crepuscolo e sulla notte, sulla transizione tra la luce del Settecento alle tenebre del Romanticismo, sulla vita e sulla morte. E così la Storia della mia vita di Casanova diventa la “storia della mia morte”.

Abituati alla ricerca cromatica estrema del regista, pure con la luminosità del bianco e nero di El cant dels ocells, anche qui abbiamo un forte senso di pittoricismo, che lo avvicina a certi lavori di Sokurov, Madre e figlio e Faust. Si passa dai lumi, dalle lanterne che squarciano l'oscurità, ai riverberi di luce romantici alla Friedrich. Un cinema contemplativo, estatico, con una recitazione estremamente pacata degli attori. Un grado zero drammaturgico, dell'azione e della narrazione, che corrisponde all'ozio speculativo cui sono dediti i personaggi, alla loro dimensione epicurea. Passeggiate nei prati, banchetti, vino, aragoste, chiacchierate dotte che esprimono un senso di classicismo ma che rivelano anche l'aleggiare della Rivoluzione, aneddoti, lunghi tempi morti scanditi dalle campane. Un placido flusso narrativo che Serra sa interrompere con stacchi netti. Un cinema natura morta, dove un quadro può prendere vita e viceversa. Un cinema materico e carnale, disseminato di sangue, escrementi e carcasse. Ma anche un cinema alchemico, dove la merda può diventare oro.