Massimo Causo

altNel controcampo della morte

Non c’è un’unica disposizione del filmare. Fare Cinema è declinare l’idea nella sostanza della materia, attraversare la fatica del dire: Gus Van Sant ne è consapevole da sempre, come ogni grande autore, e il cammino che intraprende in The Sea of Trees ne è la prova.


 

La giustezza di questo film, che pure tante perplessità ha sollevato nel suo passaggio a Cannes 68, sta proprio nel farsi carico di questa fatica, nell’elaborare il senso di un attraversamento della morte nella duplicazione dell’evento terminale: Arthur cerca la morte e si reca nel luogo più giusto per darsela (la foresta Aokigahara, ai piedi del monte Fuji: è Google a suggerirgliela…) come a mettere in pratica, da quell’uomo di scienza che è, la simulazione di un evento che sta soffrendo non sulla sua pelle, ma nella sua anima. Cerca quella stessa morte che ha preso sua moglie, Joan, per attraversare il suo stesso cammino, come in una illusione orfica che nega se stessa. In altre parole, è come se cercasse il controcampo del non esserci più di Joan: la morte di quella donna che ha tanto (non) amato, riflessa nella propria morte.

Sicché, ci aspetteremmo da Gus Van Sant un film di movimento, un attraversamento dello spazio della morte più o meno simbolico, come in Elephant, Last Days, Gerry, e invece inciampiamo in un film labirintico, incastrato in un dedalo di flashback, in uno smarrimento che cerca una via d’uscita: le briciole di pane di Pollicino nello slittamento di senso della favola di Hansel e Gretel evocata dal libro acquistato da Joan… La fatica del narrarsi, del lasciare una traccia e del trovare una trama: dirsi perché si è sofferto, attraversare il senso del proprio dolore, della deriva intrapresa, delle direzioni morali giuste o sbagliate seguite… Che poi è il punto sostanziale di tutto il cinema di Gus Van Sant, ora assunto in una chiave linguistica segnata dal rigore, dall’astrazione, ora incantato nella formula della narrazione piena.

E allora The Sea of Trees è un film giusto proprio perché dissuade dalle aspettative dello smarrimento, nega l’ipotesi pretestuale di una riscrittura dell’astrazione pura di Gerry o dell’orfismo solitario di Last Days, tanto quanto l’incanto di un confronto frontale col tema della morte, come in L’amore che resta. Qui Gus Van Sant costruisce un’ipotesi differente sulla ricerca della morte come atto fisico, cercato materialmente, per elaborare in realtà una determinazione spirituale, la cristallizzazione di un percorso magico, fantasmatico: lo spettro del suicida giapponese che gli si presenta dinnanzi con la sua ricerca di salvezza è la giuda di un altrove che si apre dinnanzi ad Arthur imprevisto. Cerca la realtà definitiva di una morte fisica, questo matematico, e trova la sostanza di una topografia spirituale per lui tutta da scoprire.

E’ come se a Van Sant interessasse proprio questa inversione di senso, il capovolgimento di prospettiva di un uomo che cerca la materia e trova lo spirito, vuole definire gli errori della sua vita e ottiene l’offerta di una rilettura della sua realtà (quella che ha vissuto e quella che non ha vissuto). Ci attendiamo due suicidi e troviamo due dispersi in cerca di salvezza, ci viene offerta la promessa di un addio e incappiamo in un disperato SOS…