Giuseppe Gariazzo

altSu un’inquadratura sfocata, di un bosco dal quale avanza un uomo, raggiungendo il primo piano e la messa a fuoco della sua figura, si apre Saul Fia (“Il figlio di Saul”), lungometraggio d’esordio del trentottenne cineasta ungherese Nemes László. Un’inquadratura, come tutto il resto del film, collocata in un formato desueto, ristretto, con i bordi alonati che ricordano il 16 mm se non il Super 8, e il cinema muto. Non a caso quest’opera sorprendente di Nemes, assistente di Tarr Béla sui set di Prologue e L’uomo di Londra, è stata girata in pellicola: “era il solo mezzo per preservare un’instabilità nelle immagini”, afferma il regista. E l’instabilità fisica della pellicola – fino a ritrovarvi quello che il digitale ha bandito, ovvero la fragilità, la precarietà, e quei puntini luminosi che si insinuano tra un fotogramma e l’altro come germi che si nutrono di essa e che la nutrono – è, diventa un segno profondamente semantico, nel quale Nemes affonda il suo sguardo nel descrivere, come mai si era visto prima, la lunga morte, il suo lungo processo, in un campo di concentramento.


Quella prima inquadratura, sfocata/a fuoco, dice la scelta formale compiuta da Nemes. Di filmare (non) mostrando, di rendere il fuori campo, sonoro e visivo, vero e proprio corpo presente che si fa visione insostenibile, accanto a, e più di, quello che si vede, che Nemes decide di fare vedere, ma in modo strabico, alterato da una estrema vicinanza con i corpi (a partire da quello del protagonista Saul), vicinanza che nasconde sia gli spazi claustrofobici nei quali essi agiscono sia la moltitudine, solo intravista, percepita in tutto il suo orrore, dei cadaveri ammassati, trascinati dentro e fuori le stanze della morte. Le inquadrature, le scene, spesso in piano sequenza, sono dense, materiche come da tempo non accadeva di incontrare al cinema, pittoriche, magmi visivi dove l’occhio, e l’orecchio, deve, come quella inquadratura iniziale, ri-posizionarsi destreggiandosi nel labirinto, negli anfratti del vedere/non vedere costruito da Nemes. Per un viaggio all’inferno senza possibilità di fuga.

Portando sullo schermo un fatto poco frequentato dalla letteratura sui campi di sterminio (il ruolo dei membri dei Sonderkommando, vale a dire i deportati scelti dalle SS per accompagnare i condannati fino alle camere a gas, poi per estrarre i cadaveri, bruciarli e ripulire in fretta quelle stanze, per l’arrivo di altri convogli, in un lavoro senza sosta), Nemes si sofferma sull’odissea di un singolo individuo per rappresentare la globalità di quella tragedia, costruendo il film addosso a un personaggio, aderendo con empatica fisicità filmica alle tappe estenuanti affrontate da Saul nel tentativo di seppellire con rito ebraico un ragazzo (che egli sostiene essere suo figlio, ma l’ambiguità regna, rendendo ancora più universale il suo gesto), facendo di tutto per non consegnarlo ai forni, affrontando, con altri compagni di resistenza, pericoli e guardie naziste, allestendo una fuga nella foresta e lungo un fiume. Ma non ci sarà salvezza per Saul, costretto infine a abbandonare il corpo del giovane alle acque del fiume non riuscendo più a trattenerlo, e i suoi compagni, rifugiatisi in un capanno, scoperti e mitragliati (ancora nel fuori campo) dai soldati. Solo un bambino, apparso sulla soglia del capanno a Saul come una visione, forse usato dai tedeschi per fare da esca e da loro lasciato libero dopo la sparatoria, nell’ultima inquadratura si allontanerà nella foresta. Una foresta diversa/uguale da quella da dove Saul, in un ideale controcampo, era apparso all’inizio.