altUn’immagine porta sempre inscritta la traccia di un’emozione. Nascosta nei chiaroscuri, rivelata da un’imperfezione, celata da una falsa prospettiva che può rendere invisibile addirittura un elefante. Come in un paesaggio di J.M.W. Turner. È sempre oltre la fallace pretesa di “oggettività” che si nasconde il regno informe della vita, la tempesta emotiva, la voragine dei non detti: un’immagine, un quadro, cos’è in fondo se non uno specchio deformato di chi la produce/guarda? Ecco, il film che il vecchio Mike Leigh dedica agli ultimi anni del vecchio William Turner (il più celebrato pittore paesaggista inglese dell’Ottocento) è proprio il paziente e intimo svelamento di questa verità: la creazione di un’immagine oggettiva, la perfetta veduta, fa una terribile fatica a celare il mare in tempesta che si agita nelle sue pieghe. E allora la stessa immagine non può che tradire la sua ontologica natura impressionista e soggettiva, romantica e ambigua.


Mike Leigh non rinuncia a nulla del suo approccio minimalista ed essenziale (il suo collaudato cinema nacked), affidandosi totalmente al fidato alter ego Tymoty Spall che qui sfodera una prova altissima di (s)velamento emotivo. Un film che si avvicina pian piano alla complessa e pulsionale creazione turneriana, sfuggendo intelligentemente ogni facile ammiccamento psicanalitico e facendo intuire il marasma emotivo dell’uomo solo nell’atto di creazione delle sue opere. Perché è lì che si creano differenze, scarti emotivi, chiaroscuri che rendono complessa e insondabile la vita: dall’apparente distacco dettato dal pudore borghese agli improvvisi istinti ferini che spingono a compiere atti “fuori forma”, grugniti, gemiti, lacrime.

Mr. Turner è un film sottilmente imparentato con l’estetica di un tardo free cinema unita al Rossellini televisivo e “didattico”, quello delle biografie dei grandi, sempre in bilico tra la nettezza frontale dell’inquadratura e un visibile che aprendosi costantemente all’invisibile interfaccia al reale. Turner è un pittore apprezzato e di successo, si è creato una gabbia dorata e redditizia, il suo paesaggio perfetto. Lo stesso degli impeccabili campi lunghi di Leigh, che in questo film raggiunge probabilmente l’apice della sua lunga ricerca: la forma è sostanza, l’inquadratura è soggetto, lo sguardo è narrazione. Perché Leigh è Turner. Disegna una gabbia filmica di impeccabile bellezza coreografica (persino a rischio sterilità emotiva) ma la sporca con sublime e ironica impertinenza: il Turner di Tymoty Spall diventa letteralmente quella macchia di colore rosso che sporca il suo quadro creando scandalo e dileggio nella galleria popolata dai pittori paesaggisti.

La luce, del resto, la si crea con lo sputo impastato al colore. Con la rabbia e con le dita impazzite che formano texture sulla tela. Luce, ombre e movimento impressionano la vita e Turner diventa pian piano un regista (palese il riferimento alla nascita della fotografia e alla riproducibilità tecnica delle immagini): splendida la sequenza dove si incatena a una nave in tempesta per poter vedere/sentire/guardare la tormenta da (ri)produrre su tela. Uno sguardo che lo denuda, che lo fa soffrire e grugnire dinanzi alla bellezza sublime di una prostituta sdraiata e ancora da “spogliare” con la sua matita. Un uomo che si consuma sotto i nostri occhi come un romantico personaggio di Jean (o Auguste?) Renoir, lasciando in eredità flebili tracce emotive negli occhi sorridenti o piangenti delle sue donne. Le immagini create da Turner e Leigh vivono in quegli sguardi, poi nei nostri, oltre il pudore e la perfezione formale di questo film sublimemente imperfetto.