altEloise Godet, una delle due donne misteriose di Adieu au langage 3D di Jean-Luc Godard, ha una cicatrice che parte dalla narice destra e arriva fino al labbro. Mia Wasikowska, la protagonista novella Carrie di Maps to the Stars di David Cronenberg, ha sul collo e sulle braccia segni di bruciature risalenti a un incendio da lei stessa appiccato. I due uomini (o uno solo?) di Godard defeca(no) davanti a tutte e due le donne. Julianne Moore in Cronenberg defeca davanti a Mia Wasikowska. Poi ci sono due vampiri innamoratissimi ma per una volta spaiati: Kirtsen Stewart stupefacente in Sils Maria di Olivier Assayas e Robert Pattinson nuovamente (dopo Cosmopolis) con Cronenberg…


I fantasmi si aggirano ovunque. A Los Angeles i morti viventi camminano alla luce del sole, sotto le palme che sferzano l’orizzonte di giorno e marciscono la notte. In Patagonia perdono se stessi, oppure si sognano protagonisti di un’ultima fuga (la vera alice delle meraviglie di chabroliana memoria) in 4:3, memoria infranta di un 16mm museale: Jaujua di Lisandro Alonso.

(Era davvero un 16mm il capolavoro di Tobe Hooper The Texas Chain Saw Massacre restaurato in 4K per la Quinzaine. Ancora una volta un restauro con troppa luce che smarrisce in parte quel conflitto unico fra ombra e violenza fulminea, celibe, visionaria che ad ogni nuova visione continua a sconvolgere in questo che resta uno dei film più disturbanti di tutta la storia del cinema).

Sorprende invece la luce ottenuta da Bruno Dumont in una serie televisiva in quattro puntate da lui stesso diretta e scritta per Arte, P'tit Quinquin. Una luce tutta interiore che accompagna il racconto divertentissimo (il capo della polizia di un piccolo paesino francese affetto da Parkinson è qualcosa di geniale e irripetibile, neppure Chabrol o Blake Edwards sono mai arrivati a tanto) e via via sempre più inquietante, hard (anche un bacio con lingua fra due bambini), malato, lividamente omicida e irrisolto. Come in Hooper: l’inferno in terra.

(Chissà se è importante segnalare come anche in Queen and Country di John Boorman serpeggi un registro ironico-comico fra Jerry Lewis e Richard Lester, visto che è solo il corollario di un cineasta immenso, uno che ha fatto la Storia, e che ora giustamente ride della sua autobiografia, uscendo a ottanta anni con il film più bello e semplicemente meraviglioso di Cannes in termini di inattualità e ritrovamento dell’arte perduta dell’immagine semplice e difficilissima insieme, continuamente inabissata come solo lui sa fare, fra moti ondosi panici (un fiume può portare dal suicidio alla nascita del cinema) e storie minime che virano sideralmente all’universalità).

Solo alla prima visione Godard sembra ludico come un poemetto perfetto. Invece è un poemetto perfettamente tragico, disperato, malinconico, con l’umanesimo di Chaplin e il fendente anarchico di Keaton. Alla seconda visione si vede infine se stessi nell’accecamento, nel punto in cui l’immagine acquista o perde senso (secondo Straub basta un fotogramma, per Godard è sufficiente la sovrimpressione che smaschera l’idiozia dell’immagine in 3D rendendola non più affine al nostro occhio e rendendo l’occhio semplicemente non funzionante). La vera esperienza interiore (via Bataille): vedere che non ci sono più occhi per vedere.

(E il cane? È andato via, e non si sa se tornerà. Ah. Oh. Nero)