altTorna a casa molte volte Lu Yanshi, professore e intellettuale evidentemente scomodo al potere, la cui vita felice è stata completamente travolta dall’avvento della rivoluzione culturale. Torna a casa dopo essere evaso. O almeno ci prova, ma la figlia Dandan, che aspira a diventare prima ballerina non può permettersi scandali e denuncia il padre e ostacola l’accoglienza della madre. Ritorna dieci anni dopo, quando, finalmente liberato, cerca il volto della moglie alla stazione. Non ci sarà, perché Feng Wanyu si è da tempo rifugiata in un mondo tutto suo e aspetta un uomo che non sa riconoscere.


È tutto qui Gui Lai, il film con cui Zhang Yimou si allontana dallo splendore formale di certi suoi film e ritrova la flagranza di un cinema semplice e sincero. Sorta di controcampo di La strada verso casa, con una vena di sentimentalismo in più e una ripetizione che, però, è il centro di questo racconto. Come fare a far tornare la memoria ad una donna ferita? Si cercano soluzioni immediate. Déjà vu, micro traumi, sollecitazioni sul piano delle emozioni. Non funziona nulla perché l’unica soluzione sarà quella di assecondare il presente, lo stato delle cose, e adattarle come in un film imprevedibile, in cui si impone la necessità dell’improvvisazione continua, appunto.

A questo punto il melodramma è pronto per essere scritto giorno dopo giorno. Padre e figlia si riuniscono per mettere in scena ogni volta uno stratagemma diverso. Le lettere dal carcere, scritte e mai spedite lette alla moglie, fingendo, però, di essere il vicino di casa, il pianoforte riaccordato che risuona la melodia degli anni felici, una foto di gioventù andata a cercare chissà dove. Ma il tempo è nemico in questo film, perché allontana le persone e ricuce male le ferite. Come e più della Rivoluzione, forse, che ha lasciato dietro di sé le foglie morte della malinconia.

Non è certo il più bel film del regista cinese, che ci ha incantato con l’intensa freddezza di Lanterne rosse o Ju Dou, ma colpisce la morbidezza dello sguardo, una sorta di docile osservazione delle piccole cose. Gesti, parole, fotografie. Il fatto è che manca sempre qualcosa alla completezza, un gradino alla felicità che non arriva, come le foto da cui la figlia aveva tagliato il volto del padre. Niente immagine e niente memoria. Serve costruirsi una nuova identità, ma anche in questo caso, incompleta, perché Lu Yanshi non cerca un nuovo nome e una nuova vita. Semplicemente rincorre quella che non ha potuto vivere (come tagliata via dagli anni di prigionia) e si adatta, come un musicista che segue la melodia e disegna tutt’intorno la sua personale interpretazione. O un ballerino che riempie gli spazi che restano vuoti della scena. In questo senso Gui Lai ha i tratti del musical più tradizionale e più rassicurante. Commovente e nostalgico, rielabora in termini del tutto personali e parziali una pagina di Storia che non può trovare esaustività.