altLe atmosfere sono quelle di sempre, sospese, indefinibili, avvolte in una sorta di nebbia invisibile che, però, sembra trattenere il tempo. In Captives, il regista canadese Atom Egoyan riprende vecchie ossessioni e vecchi sguardi, ma li trasfigura in nuove dinamiche narrative, recupera il racconto come trama sfilacciata, e lo rende visibile nella frammentazione, o meglio, nella polverizzazione dei punti di vista e nei punti di osservazione. In questa storia di rapimenti, pedofilia, indagini, dolori e sensi di colpa, si segue un percorso tortuoso e virtuoso per arrivare al punto di partenza.


Cassandra ha nove anni e fa pattinaggio su ghiaccio quando viene rapita da un pedofilo mentre aspetta in auto il ritorno del padre, uscito per acquistare un dolce. Seguono anni di ricerche da parte della polizia e dei genitori, mentre, rinchiusa in una stanza, la vittima, ormai adolescente, è usata dal suo rapitore per adescare nella rete altre bambine che chattano con lei anche in video. Ma il cortocircuito di chi guarda ed è guardato non si esaurisce a questo. Egoyan mischia le carte e mette la prigioniera Cassandra davanti ad un monitor che mostra le immagini di sua madre al lavoro, mentre pulisce le stanze di un albergo. Lei la osserva, mentre al piano di sopra il suo carceriere osserva entrambe e se stesso davanti ad uno specchio. Il disorientamento, allora, è totale e profondo, e coinvolge lo spettatore proprio come i personaggi che innescano il meccanismo. Serviranno strategie diverse per sciogliere il groviglio, che nel frattempo si complica. Sono tutti sotto controllo e dispersi al tempo stesso, prigionieri, ingannati, manipolati, eppure soli, senza corde di salvataggio che li tengano legati.

Perché, come sempre accade, non c’è una sola realtà con cui fare i conti, ma le realtà di tutti i microcosmi individuali, le relazioni, esplicite o indicibili, tra le persone, gli ambienti, i tempi e i pensieri. E poi ci sono le immagini, che non rappresentano più la superficie “sintetica”, il doppio o l’imitazione del vero. Sono contesti in grado di raccontare verità più o meno sommerse, e allacciare vere connessioni con la vita quotidiana, talvolta in grado di salvare, altre volte di imprigionare. Tenta di tenere tutto insieme Egoyan, non mettendo i punti in ordine uno dopo l’altro, ma isolandosi in un inverno senza tempo e scomponendo il quadro. Prima e dopo e presente e passato si sovrappongono e si confondono, ma solo così si riesce a trovare la via. Come quando il padre Matthew nasconde il suo cellulare nell’auto di chi crede essere il rapitore della figlia. Sarà sufficiente seguirne il segnale per trovare la sua casa. Questione di immagini che si perdono e si ritrovano. Altrove. Non vediamo il rapimento, infatti, perché la macchina da presa si “distrae” e si concentra sul negozio di dolci. Questa mancanza sarà il vero nodo attorno al quale far ruotare tutte le immagini (e di conseguenza tutte le ipotesi del thriller), soprattutto quelle che non si vedono. Neppure il volto di Cassandra, trovato nel mare della rete, sarà mostrato, mentre si ritorna insistentemente sull’amico pattinatore della ragazza, che calza un pattino nero e uno bianco per distrarre una ipotetica giuria. “Artificio inutile” si dicono padre e figlia in auto, che si trasformerà, invece, in enigma essenziale, punto di arrivo di una falsa partenza. Egoyan gioca come sempre con l’intensità con cui filma le sue storie e gioca con stereotipi e generi. Si impone l’altrove, appunto, come immagine cui tendono tutti gli sguardi, gli enigmi lasciati sospesi, il senso di smarrimento, si diceva, che non ci abbandona, neppure dopo la fine.