Grazia Paganelli

marion-cotillard-joaquin-phoenix-the-immigrant-james-grayGuai a pensare a The Immigrant come un film sugli immigrati europei in America. L’approccio di James Gray ad un tema tanto ricorrente nel cinema, é nuovo e al tempo stesso antico, lontano da tutti gli stereotipi possibili e vicino alla sensibilitá e alla esperienza privata del regista, che trasforma questa storia di sradicamenti e tradimenti continui in un melodramma fiammeggiante eppure cupo e violento.

 

Due uomini si contendono una donna appena sbarcata ad Ellis Island dopo un viaggio terribile dalla Polonia a New York. Nulla si sa di quanto sia successo a bordo della nave stipata di emigranti, solo accenni svelti di esperienze indicibili che hanno segnato la bella Ewa condizionando il suo sogno americano ancora prima di poterlo sognare.
Anche il suo arrivo a New York é di quelli che non si dimenticano. Sperduta e sola, si insinua tra le strade del Lower East Side, popolato da immigrati ebrei (lei, invece, é cattolica), e ne resta sepolta, anzi, intrappolata dall’oscuritá densa che contamina tutto il film.

 Vive di notte e nell’ombra, non solo perchè é costretta ad esibirsi in un locale di bourlesque per proseguire, poi, come prostituta, ma anche perchè, fin dal suo arrivo, é destinata a combattere contro il “non essere”, il non esistere, parole che ritornano spesso nei dialoghi di questo film tanto intenso e preciso. Ewa, così, esce ed entra nel/dal nero, ribellandosi in silenzio, osservando, fuggendo, accettando, infine, la sua condizione di attesa. In chiesa entra nel confessionale e l’oscuritá la inghiotte per un istante in un’immagine che occupa tutto lo schermo. Non c’é nulla da vedere, solo il forte senso di spaesamento dipinto nello sguardo acuto e ferito di lei, in cerca sempre di un’arma per difendersi o una via attraverso la quale fuggire. In questa storia di dialoghi tesi e profondi (tornano alla mente quelli di Two Lovers con cui The Immigrant ha molte analogie), il controcampo é quasi negato, come segno profondo della solitudine di ogni personaggio. Nessun interlocutore e nessuno di cui fidarsi. Si ha l’impressione che Ewa, Bruno, lo stesso Orlando, si muovano e si parlino evitandosi, evitando la frontalitá schietta, ma cercando il controllo l’uno sull’altro, l’attimo di debolezza, il punto debole da sfruttare per sopravvivere.

In questo film fatto di stratificazioni visive e sonore, con immagini e situazioni costruite per accumulazione, l’una sull’altra, l’una dentro l’altra, le parole (dette e non dette) hanno la capacitá di capovolgere le cose, trasformare tutto, l’intera visione del mondo. Eppure tutto resta uguale, trattenuto, immobile, pietrificato nell’impossibile cambiamento. Solo Ewa, determinata ad esistere in un microcosmo di fantasmi, lei, che ha giá modificato molte volte la sua vita, riesce a sottrarsi all’oscuritá in cui sono conficcati tutti gli altri corpi. Si allontana in barca, nel chiarore dell’acqua, e la sua immagine si perde oltre il vetro di una finestra, visione insolita, quasi impossibile.