Giampiero Raganelli


a touchIn Platform dieci anni di storia cinese sono rievocati in un luogo chiuso, il teatro, attraverso gli spettacoli che vi vengono rappresentati, in The World nello stesso spazio del parco tematico coesistono tantissimi luoghi di tutto il mondo, in I Wish I Knew la città di Shangai è il risultato dell'accostamento di immagini, anche di cinema, del suo presente e del suo passato.

 


Il cinema di Jia Zhang-ke è una stratificazione e un crocevia di tempi, luoghi e non solo. Così in un'inquadratura di A Touch of Sin, coesistono un grande manifesto della Vergine Maria, trasportato da una camionetta, e una statua di Mao sullo sfondo. Due icone che rimandano a diverse ideologie, a diversi momenti della storia. Il cinema del regista di Still Life è un contenitore di contrasti, di disarmonie.
A Touch of Sin, nella forma del racconto di quattro storie di ordinaria follia, quattro episodi di cronaca, tre omicidi e un suicidio, è un susseguirsi di immagini, un ritratto di una società a diverse velocità, piena di contrasti. Paesaggi estremi, panorami naturali imponenti, gole, dirupi, stradine abbarbicate di montagna, ciminiere, casolari rurali circondati da orti con lo sfondo di grattacieli high tech, vecchie casette scrostate, campi brulli, smog, lusso ostentato della nuova classe borghese esibito negli stessi locali dove ballerine danzano con costumi tradizionali, cibo occidentale (whisky, panettoni), un edificio fatiscente dove vengono stoccate statue di Buddha.

Ancora una volta la costruzione dell'immagine di Jia raggiunge il sublime. E poi antinomie musicali, con i brani elettronici del compositore, sodale di Jia, Lim Giong e quelli tradizionali del teatro dell'Opera cinese e della banda locale; linguistiche, nel gran numero di lingue e dialetti parlati nel film; negli stili di vita, i vecchi che giocano a carte, i party esclusivi e le Maserati, la vita dei minatori, i volti scavati dei contadini, la catena di montaggio degli stiratori, lo spettro dell'AIDS. E naturalmente la stratificazione è anche di cinemi. Il titolo internazionale richiama palesemente A Touch of Zen, il capolavoro del genere wu xia di King Hu. Jia ne riprende gli schemi narrativi spogliati di tutti gli elementi spettacolari. E non a caso il riferimento è a un regista, King Hu, che ha operato una decostruzione del genere tradizionale di cappa e spada cinese, andando verso una rarefazione delle piroette, per distillarne i significati morali buddhisti. E così i personaggi reali, artefici di esplosioni di follia omicida, diventano al contempo i cavalieri erranti del wu xia, individui isolati che si pongono in antitesi alla società, e i killer di Kitano, produttore del film, capaci di improvvise scariche di adrenalina, sparatorie e violenza. E poi c'è il richiamo al teatro dell'Opera cinese, che costituisce la base del cinema di King Hu. E poi gli apologhi morali, l'uso delle simbologie degli animali (come non pensare a Imamura o a Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera di Kim Ki-duk). Dietro la ricostruzione cronachistica, dietro la dimensione sociologica, Jia sublima gli elementi archetipici della cultura cinese, o meglio delle varie cinesi, per ragionare sull'evoluzione di una grande civiltà.