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Una giovane donna pensa a un cortometraggio ispirato a una regista francese conosciuta durante un festival. E il film di Hong vola subito alto, perso olimpicamente in uno stato di leggerezza soave, fatto di nulla. Inquadrature precise, qualche zoom in avanti volutamente sporco e netti stacchi di montaggio. Rohmer è solo un ricordo, perché Hong ormai vive e filma in un ecosistema tutto suo, dove il mondo è fatto di sentieri interrotti che si sdoppiano senza mai offrire, però, una soluzione. Le soluzioni non esistono.

 

E non è un caso che Isabelle Huppert, che sembra girare in tondo per tutto il film, cercando un ombrello che dimentica sempre in giro, alla fine s’allontana in campo accompagnata solo dallo sguardo innamorato del regista che probabilmente sa che la sublime francese si sta portando via un pezzo del suo film. Tra il cinema e la vita non c’è mai molto da scegliere, per Hong. Tutto si muove come in un’onda silenziosa. Il cinema è molto più della vita forse, ma alla vita il cinema non basta mai. E dunque si ripete tutto, come in un film da fare. Come in una speranza di fare meglio. Di provarci ancora. Addolcire la perdita. Ma no. Non è vero. Non si addolcisce nulla. Si perde solo. Ed è forse questo perdere che il cinema di Hong filma con stupefatta grazia incantata. Come se il cinema giunto alla fine della sua storia, ricominciasse ancora una volta in un altro paese.