bertolucciDimmi ragazzo solo dove vai/Perché tanto dolore?... Vorrei cantarvela, la versione Mogol di Space Oddity cantata in italiano dallo stesso Bowie, ma poi vi dovrei anche spiegare uno degli abbracci più belli della storia del cinema e raccontare come Bertolucci si libera e fa un film sulla liberazione, sulla svolta che tocca una volta tutte le vite (qui un fratello e una sorella), mettendosi e mettendoci per un attimo alle spalle tutto l’armamentario fiaccante del cinema italiano (soprattutto di quello che crede basti saper girare mirabolanti piani sequenza e dolly vertiginosi per fare un film), recuperando luce, amore, intensità, chiarezza di pensiero, incendiaria ambiguità, politica-poesia (smarrite entrambe), semplicemente dicendo: io per rivoluzionare la vita sono disposto a scendere sottoterra. Io e te di Bernardo Bertolucci, magnifico, picco di tutto il festival.


(Si abbracciano anche – e la commozione è simile – fratello e sorella in una Sarajevo solo apparentemente pacificata, ma dove la guerra continua. Il finale di Djeca della bosniaca Aida Begic lenisce alcune ferite e lascia aperto il senso, come i piani sequenza insieme nervosi e composti che seguono il dolore senza concessioni di una cittadinanza velata e avvilita).

Da un capolavoro all’altro: Holy Motors di Léos Carax.  Ci sono film rari che parlano a una comunità. Una comunità che, in quanto tale, sanno smarrita e segreta - qualcuno non c’è più, qualcun altro ha scelto il silenzio - e per questo sono film inconfessabili inattuali non conformi (non si dà comunità se non si è pronti a mutar se stessi in favore dell’estraneo). Carax affronta la grazia perduta con la stessa rabbia e estasi di chi quotidianamente la sfinisce. Eva Mendes col velo integrale che contempla senza battere ciglio Denis Lavant nudo e in erezione che le si addormenta sulle ginocchia. Kylie Minogue che canta come in un film di Jacques Demy. Un parcheggio notturno di limousine che discutono fra di loro. Una stanza di motel con vista sull’aeroporto e se si prova a uscire si entra in un cinema.

(Una risposta potrebbe darla lo stupefacente Sueño y Silencio dello spagnolo Jaime Rosales, bianco e nero struggente che ribalta su se stesso il tema della perdita di cui racconta, avanzando per suture tragiche, derive, bruciature, piani en plein air tanto misteriosi quanto di rara bellezza, col mondo che fila fuori campo lasciandoci in un vuoto giusto e difficile.  Ma le risposte, per fortuna, sono poche. E si sa, le prime a essere inoperose sono le immagini).

Limousine anche in Cronenberg, Cosmopolis. Si sappia che è il suo film più sperimentale, in cui l’estrema verbalità scompare mentre si dice (come la prostata asimmetrica del protagonista ispezionata analmente a fondo), dove non c’è zona cui aggrapparsi, il potlàch finanziario lascia il rilancio delle cifre a metà, rimpallandoci il mondo insonorizzato dentro e l’insurrezione fuori, campo controcampo, taglio, dialogo, richiesta d’aiuto. Andiamo?