Festival

Luigi Coluccio

Luigi Coluccio

halimaspath2Fine anni Settanta. Salko e Halima vivono da soli. La loro famiglia è composta dal fratello del primo, Mustafa, e dal fratello della seconda, Avdo, entrambi sposati e con figli, quello che i due non possono avere. Tra i nipoti della coppia c’è Safija, ripudiata dal padre perché innamorata e incinta di Slavo, serbo e cristiano mentre il resto della famiglia è croata e musulmana. Dopo che Slavo è costretto a scappare via per aver ferito Avdo che stava picchiando quasi a morte la figlia, Safija dà alla luce il bimbo, che tiene nascosto al ragazzo (dicendogli che è nato morto) per paura di ulteriori ritorsioni. Slavo, dopo qualche tempo, torna dalla Germania dove si era rifugiato e aveva trovato lavoro, e porta con sé Safija. Salko e Halima, gli unici ad aver aiutato la ragazza, adesso si occuperanno del piccolo.
25 anni dopo, le cose sono molto cambiate: nella guerra seguita alla dissoluzione della Jugoslavia, Salko e il ragazzo a cui era stato dato il nome di Mirza, hanno perso la vita. Il cognato Mustafa e il nipote Aron sono gli unici rimasti ad Halima, che è da anni che lotta per ritrovare i resti del marito e del figlio. Salko viene individuato in una fosse comune, ma per identificare Mirza serve un campione di sangue di un suo familiare. Halima, dunque, è costretta a mettersi alla ricerca di Safija e Slavo…

Luigi Coluccio

Luigi Coluccio

nesma1Youssef e Claire Slimane sono una coppia felice, felice del loro amore e della loro posizione, un passato da attivisti politici, un presente da agenti immobiliari di proprietà di lusso. Accanto a loro c’è Syrine, figlia della cameriera, che si appresta a scoprire l’estate tunisina, i primi amori. Un giorno Youssef riceve la visita di un poliziotto che lo informa che la sua identità è stata rubata e che qualcuno sta effettuando acquisti a suo nome. Pian piano gli eventi precipitano, collassando tutti verso la villa che i due non riescono a vendere, Nesma, che in arabo significa “brezza”…

Luigi Coluccio

Luigi Coluccio

yema2Ouardia, vedova, ha due figli: Tarik, primogenito, soldato; Ali, secondogenito, capo di una milizia islamica. Il primo è morto, forse ucciso dal secondo. La madre riporta il corpo del figlio nella loro casa natia, arroccata sulle montagne algerine e proprio al centro del territorio conteso tra militari e miliziani. Ali, per evitare che gli succeda qualcosa, manda a proteggerla e sorvegliarla uno suoi uomini, un ragazzo che era l’artificiere del gruppo e che in una fallita incursione ha perso una mano. La situazione si complica quando viene portato a casa anche il figlio appena nato di Malia, la donna amata dai due fratelli, morta di parto…

Luigi Coluccio

Luigi Coluccio

acab2Grecia, Atene, oggi. Elektra si divide tra l’attivismo, il lavoro, la famiglia, l’amore. L’attivismo: un collettivo anarchico che ha perso uno dei suoi membri, quel Manousos che aspetta il processo per rapina a mano armata e terrorismo; il lavoro: baby-sitter a tempo quasi pieno di Petros, bambino di otto anni lasciato troppo solo da una madre troppo presa dal lavoro; la famiglia: genitori che affondano le radici negli anni Sessanta, che hanno educato la figlia ai quei principi, a quella storia; l’amore: Manousos, in carcere.

Luigi Coluccio

Luigi Coluccio

rockthecasbah3Un gruppo di giovani soldati cammina sulla spiaggia di Gaza. È il 1989, è la Prima Intifada. Tomer, Ariel, Aki, Haim e Ilya sono lì per tenere a freno gli arabi in rivolta con i sassi e gli scioperi. Durante un pattugliamento, Ilya viene colpito a morte da una lavatrice lanciata da un tetto. In risposta al silenzio della famiglia proprietaria dell’abitazione, l’ufficiale al comando piazza i restanti quattro di guardia alla zona, per scoprire chi è stato ad uccidere Ilya.

Luigi Coluccio

Luigi Coluccio

rengaine2Dorcy è africano, cristiano, attore; Sabrina è algerina, araba, musicista. Insieme, vogliono sposarsi. La madre di lui e gli amici di lui sono contrari; la famiglia di lei anche. Soprattutto la famiglia di lei, con i suoi quaranta tra fratelli e sorelle, con a guidarli il maggiore tra loro, Slimane. Ma anche Slimane nasconde qualcosa nel suo cuore…


Luigi Coluccio

Luigi Coluccio

theattack1Il chirurgo Amir Jaafari ha appena ricevuto il più importante premio per un dottore israeliano. Ma l’assegnazione, stavolta, è maggiormente significativa: Amir Jaafari è un arabo che oramai da quasi venti anni vive e lavora a Tel Aviv, sposato con la conterranea Sihem, e con cui conduce una vita agiata e piena, piena di successi, riconoscimenti e passaporti. Il giorno dopo la premiazione, un attentato scuote il centro della città, e corpi su corpi si accalcano nelle sale operatorie dell’ospedale di Amir. La vita del dottore cambierà per sempre quando lo Shin Bet lo informa che sua moglie è l’autrice dell’attentato. Inizia così il suo viaggio alla ricerca delle ragioni della donna…

Luigi Coluccio

Luigi Coluccio

comingforthbyday2Suad è una giovane donna che passa tutto il suo tempo a casa, impegnata come è ad accudire il vecchio padre colpito da un ictus e oramai incapace di svolgere ogni minima funzione vitale. La madre si divide tra l’assistenza del marito e il suo lavoro all’ospedale. Un pomeriggio, Suad esce…



Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

saatvin-sair-3Un uomo cammina. È un pittore che vaga nella foresta e vi si addentra attratto da una misteriosa e seducente melodia. Si riposa sotto un albero e vede se stesso camminare e dipingere. Un frinire di cicale quasi ininterrotto.



Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

der unfertigeKlaus è un commercialista sessantenne. Così si qualifica al pubblico, nella prima scena di questo documentario, apparendo subito nudo, dal corpo inevitabilmente sfatto per l'età, incatenato, con numerosi anelli metallici attorno al pene. Klaus si racconta durante il film e, con grande spontaneità, parla della passione su cui tutta la sua vita è incentrata, quella del ruolo di schiavo in incontri sessuali sadomaso gay. E il regista lo segue, nella parte finale, in un campo di schiavi, un resort turistico dove gli ospiti vengono sistematicamente frustati.

Giampiero Raganelli


blue-planet-brothersUna panchina tra il verde urbano, in una Tokyo congestionata, diventa il ritrovo abituale di tre bizzarri personaggi. Un samurai proveniente di epoca Edo con una valigetta con lo stemma della sua casata feudale. Un alieno che arriva dal pianeta Cygnus. Una fata o folletto. I primi due si lamentano per i rigorosi divieti antifumo in vigore rispettivamente nel castello in cui è al servizio il primo e nell'astronave del secondo.

Leonardo Gregorio


Tir Festival di RomaÈ un film da difendere Tir, altro titolo in concorso, tanto più quando c’è chi scrive che sarebbe “l’esempio perfetto dello stato comatoso in cui versa il cinema italiano”. E invece giunge il piacere dell’imprevisto.




Leonardo Gregorio


another meÈ un territorio, quello del cinema-congegno, fra i più straordinari e insidiosi. C’è chi come Fincher vi si muove all’interno anche con potente, disperato parossismo, chi come Soderbergh ne è attualmente il più importante e lucido interprete e smontatore (cos’è Magic Mike fra i suoi film più recenti?) o, ancora, chi come Nolan ha forse frainteso.

Leonardo Gregorio

Leonardo Gregorio

VolantinCortao11Nel cileno Volantin cortao ci sono dei momenti – sono momenti fugaci, attimi - in cui il volto di Paulina sembra farsi, o poter diventare, quasi pelle dello schermo, ruvida carezza, oggetto sfuggente nel disegno di Diego Ayala e Anibal Jofré. In un film, cioè, che fruga in modo irregolare fra i Dardenne, più che assorbirli, e al contempo tenta di inseguire nella sua fragilità, nella sua insicurezza, altre strade, altre immagini, altri corpi.

Luigi Abiusi


corpi estraneiL’inizio di Out of the Furnace di Scott Cooper (tra i produttori anche Ridley Scott) è una splendida pagina di cinema: scena violenta in un drive-in (con wurlstel infilato in gola a una donna, che fa il paio col pollo di Friedkin in Killer Joe) mentre sullo schermo scorre un film ad alta velocità, a cui contribuisce la dolcezza dell’arpeggio di Release di quei Pearl Jam che con Ten (1991) avevano dato inizio al grunge (poi non saranno mai più gli stessi) e il cui spirito qui è presente solo nelle camicie a quadri del protagonista; che poi, secondo me, per aprire una parentesi, raggiungerà il suo vertice (il grunge) con Dirt degli Alice in Chains (concentrato a mostrarne il lato oscuro, tragico, di sicuro più dissonante: e qui ci sarebbero cose da dire almeno sui Soundgarden - eh sì i Nirvana, certo -; ma poi mi pare che il cinema abbia usato poco la vasta temperie di questo genere, se non per puntellare le atmosfere del Corvo o di Giovani carini e disoccupati o Singles, ecc., tutta una congerie di problematiche e sentimentalità che non erano posticce e gratuite alla metà degli anni Novanta), quando manco diciottenni si suonavano i CCCP rinchiudendosi nei monolocali mucidi, senza bagni, senza finestre, senza termosifoni, e si pisciava nelle bottiglie di tè, che poi arrivava Vito all’improvviso, mentre gli altri frustavano le teste e facevano ballare le chiome, e senza chiedere nulla s’attaccava alla bottiglia assetato per poi sputare e vomitare.

Nicola Curzio


MaeMarAlla ricerca di un mito reale e perduto sulla spiaggia di Vila Chã, cerchiamo le donne di mare chiamate “pescadeiras”, in uno dei pochi luoghi al mondo con donne timoniere. Ma dove sono? E dove sono le 120 barche da pesca artigianali? Rimangono 8 barche e una sola pescatrice. In una terra di coraggiosa gente di mare, filmiamo la passione della pesca, la passione del mare. [Dal catalogo del Festival Internazionale del Film di Roma]

Luigi Abiusi


las brujasÈ arrivato l’autunno nella sua faccia più ieratica e rigida, di quelli che si specchiano sulla lamina delle pozzanghere, per godere del proprio giallo celestiale mentre camminano per i viali affondando nei baveri; sparso sull’erba dei parchi e sulle strade di ghiaia dove razzolano i piccioni, si azzuffano per le croste, si beccano, si sferzano con le nere unghie e spesso sanguinano e si trascinano afflitti sul ciglio, divenendo, pestati sul terreno, pura opacità: folate di vento freddo sulla nuca (che ustionano la testa fino ai timpani) mentre si fa la fila anche solo per un kebab (disgustoso), ammasso di frattaglie di non so cosa, carne di cane in decomposizione sul ciglio della strada, con ketchup e merda gialla.

Nicola Curzio


a vida invisivelDifficile non perdersi in quest’opera maestra che segna il ritorno alla regia di un grande cineasta qual è Vítor Gonçalves. Memoria, o forse sogno, di un tempo perduto, riattivato dalle immagini di un film in 8mm trovato in un appartamento abbandonato; immagini che nascondono uno sguardo, che sussurrano qualcosa, che conservano un enigma, nella grana che le compone.

Luigi Abiusi

herAbbandonati alla domenica, dalla domenica, mattina romana, lastrico grigio, vischioso, cielo cinereo e sibilo, un chiosco floreale canta Moonlight Shadows come quando nell’83 camminavo per le stradine di un rione che non conoscevo, oltre il ponte (esotico per me come una giungla, intrico di fusti, cespi, ragni svelti), per vedere lei anche solo da lontano (godere del soffio al cuore che mi veniva quando appariva,  bianca e con gli occhi romantici, mandorlati; del senso di appartenenza dentro le invisibili corrispondenze che mi dicevano che ero vivo), cortili che s’aprivano all’improvviso al silenzio dei muschi, dei tufi corrosi che erano una porta, del pallone che sbatteva contro il muro, calciato forte (come atto virile) dai monelli già catarrosi (da invidiare per quello spurgo giallastro attagliato all’asfalto con rumore sordo, di cadavere), che pensavo avessero coltelli in tasca e parolacce da sguainare, pronti a derubare, anche dell’amore (soprattutto gli sconosciuti, i bambini ricci venuti da prima del confine, che i ricci erano discrimine sufficiente per ghignare e azzuffare, rubando palloni, quelli di cuoio avuti dallo zio di Milano, una chimera, di quelli che vedevi in televisione carezzati da Bruno Conti, mentre era già tanto se si giocava con il Tango, che se ce l’avevi ed eri pure grasso e ammutito,  ti chiamavano al citofono gridando e sputando sentenze sul pisciacchio di tua madre, squascianato, e ridevano e si tiravano i capelli, perché serviva il pallone, quello pesante, per una qualche sanguinosa disfida in un cortile, quando non erano alle prese, i monelli, con roghi di rane o con la fame che li faceva appostare fuori da una drogheria, prima del vecchio ponte, dove in vetrina campeggiavano le merendine al cioccolato, splendide imitazioni delle Fiesta) e una luce che non parlava che di lontananza, di desiderio e di assenza, quella che Hugo nella Vita invisibile di Vitor Goncalves si ferma ad osservare negli anditi e nelle stanze scricchiolanti di cui è pieno questo film splendido, anzi di cui è fatto, fantasmatico, svuotato, muto.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

mantoManto acuífero, secondo lungometraggio di Michael Rowe (Caméra d’or a Cannes nel 2010 con Año Bisiesto), si apre con inquadratura che per altezza richiama alla mente Ozu: Caro, una bambina di otto anni, parla con un insetto, mentre alle sue spalle si muovono alcune mezze-figure; “mezze” perché eccedono i limiti del quadro, intervenendo nello spazio solo parzialmente, non essendo mai totalmente accettate all’interno di esso; “mezze” perché non diverranno mai veri personaggi, ma resteranno per tutta la durata della pellicola messicana solo tratti grossolani privi di concreto spessore.

Luigi Abiusi


diarioroma1Che poi alle cinco de la tarde è già tardi, è già sera, e «la piedra es una frente donde los sueños gimen/ sin tener agua curva ni cipreses helados./ La piedra es una espalda para llevar al tiempo / con árboles de lágrimas y cintas y planetas» (la pietra è una fronte dove i sogni gemono/ senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati./ La pietra è una spalla per portare il tempo/ Con alberi di lagrime e nastri e pianeti), ed è accaduto che a mano a mano… che si facesse tardi… (ma la sala stampa è un troiaio di telefonate, di donnine isteriche e occhialute che biascicano vontrier, di nerd urlanti; e allora inforco le cuffie e metto Stars are our home, traiettoria infantile tra i pianeti, ma se mi viene il mal di testa cazzo, devo starmi buono con l’oki e poi c’è la promessa di bersi una cosa, ma la sublimità, l’accorata [I don’t mean to] Wonder m’aiuta a ricordare); un presentimento, poi la constatazione, no, il timore di perdere ancora (non so cosa)…  è accaduto che il paesaggio campano curvasse vertiginosamente fino a Caserta dove a fianco alla ferrovia un arbusto si scrollava, pieno zeppo di una zazzera di foglie. Che poi la distanza tra due punti vivi si risolve in quel serraglio vegetale, o anche solo sulla superficie di una foglia morta, di un occhio di donna da rifuggire (col suo bagaglio di via vai nei tram, la sera), della cappa biancastra de la tarde o di una scarpa con tacco sonante, una patata, un bicchierino di tè. I got your love.

Giampiero Raganelli


belaUn elicottero che sovrasta il set, creando un fortissimo vento sottostante. Dei giganteschi ventilatori e degli inservienti che lanciano foglie secche, attingendo da una gran quantità di sacchi, in modo da farle volteggiare in aria sfruttando l'immensa forza eolica che viene così generata. In un paesaggio già di per sé desolato e marginale, colpisce il macchinoso e artificioso intervento sulla realtà per ricreare quel mondo aspro, estremo, quella finis terrae, la rarefazione primordiale, il caos degli elementi, di A torinói ló, l'ultimo immenso film di Bela Tarr, il cui backstage è ripreso in questo documentario di Jean-Marc Lamoure sul cineasta ungherese.

Luigi Abiusi

sao-karaoke-karaoke-girl-di-visra-vichit-vadakan

Mi limón, mi limonero
entero me gusta más
Un inglés dijo yeah, yeah
y un francés dijo oh lala
[…]

Me siento malo morena
cabeza hinchada morena
Que no me paro morena mmm, voy voy voy
[…]

Giuseppe Gariazzo


torinoCi sono filmografie costituite di un solo film. O che potrebbero esserlo. Per l’originalità del punto di vista, l’approccio deambulante e irripetibile individuato per scavare solchi apolidi nell’immagine e nella narrazione. L’algerino Mohamed Zinet, attore di teatro e cinema e regista teatrale, realizzò un unico film, Tahya ya Dîdû (Viva Didu - Algeri insolita, 1971), che rimane una pietra miliare della cinematografia algerina. Il tunisino Mohamed Ben Smaïl esordì nel 2000 con il sorprendente Ghodoua Nahrek (Demain, je brûle…), presentato a Venezia, a tutt’oggi la sua unica regia. Si pensa a questi cineasti, per limitare il campo al Maghreb, e alla unicità delle loro opere, vedendo il primo lungometraggio della cineasta algerina Narimane Mari Loubia Hamra (Red Beans). Che potrebbe avviare una filmografia meravigliosa o rimanere un isolato gioiello prezioso.

Luigi Abiusi


histoire-de-ma-mort-historia-de-la-meva-mort-23-10-2013-2-gSe c’è un pregio di Carlo Mazzacurati è quello che ama i suoi personaggi, sempre carenti (per lo più di pecunia), lacunosi, bistrattati. Che poi sembra difficile non amare il Fabrizio Bentivoglio della Lingua del Santo (adesso ripreso in un cameo esilarante in cui, insieme a Silvio Orlando, interpreta la parte di un venditore di dipinti su un canale televisivo, inventandosi immantinente, movimenti pittorici, stili, motivazioni semiologiche di questa o quella tela) o il Mastandrea di questa Sedia della felicità (nella sezione “Festa mobile”) mentre va alla ricerca di un tesoro nascosto in una sedia, che poi si tramuterà nella conquista dell’amore.

Luigi Abiusi


Frances-HaTra l’altro Noah Baumbach implementa le potenzialità luminose di quella Greta Gerwin che già risplendeva ne Lo Stravagante mondo di Greenberg, nonostante una goffaggine che lì era marcata dal suo sovrappeso, una cacofonia che per Baumbach era essenziale a puntellare la cisposità, la faticosa noia della realtà in cui si muoveva lo stesso Greenberg, antieroe verso cui indirizzare più risentimento che partecipazione.

Massimo Causo

alt

Per un cinema di sincronie. Tra gesti e materia, tra figure e spazi, tra l’emozione del filmare e la struttura della messa in scena. Non sempre è facile, anzi non lo è quasi mai. Poi però ti imbatti in un lavoro come Counting di Jem Cohen (Forum) e ti sembra quasi una cosa naturale, un gioco da ragazzi impilare frammenti di vita filmata, come fosse inspirare ed espirare, automatismo del vivere con la stessa eleganza con cui, per esempio, i gatti attraversano i film di Chris Marker...

Massimo Causo

Massimo Causo

altLa fine del tempo, o qualcosa del genere. Dipende da come guardi le cose, se le prendi dal verso della durata, e allora lavori per lo spirito, sulla lunghezza d’onda della verità interiore, o da quello dell’intervallo, e quindi ti tieni in contatto con la statica delle emozioni, con l’attesa incombente dell’esistere. Pablo Larrain, Alexey German Jr., Wim Wenders, alla Berlinale 65, si muovono in questo arco: tre film, i loro, che slargano il rapporto con il tempo, lo rendono persistente nella sua drammaticità interiore, fluido nella staticità del dramma - di volta in volta morale, storico, esistenziale - che elaborano.

Massimo Causo

Massimo Causo

altLiquido. Si tratta di lasciar dissolvere le tensioni del filmare nello scorrere acquatico degli elementi, forse in cerca di una immaterialità del cinema che gli appartiene da sempre (emulsioni, pixel...). Un cinema liquido, dunque, in questo primo scorcio di Berlinale 65, a prescindere dalle siccità desertiche del magnifico Herzog...

Massimo Causo

Massimo Causo

Partiamo con un sogno dimenticato. Forgotten dream, naturalmente... L’avventura della grande scoperta disincarnata nel gioco di specchi tra il disposiitivo filmografico e iconico (la grande narrazione cinematografica della Storia) e la disarticolazione della verità nascosta, del segreto mondo, dell’altrove presentificato...



Massimo Causo

alt

Cinema fluviale, in galleggiamento tra acque, figure, battelli e fantasmi d’amore, come un Atalante alla deriva nel presente della Cina: Crosscurrent (Chang Jiang Tu) è l’opera seconda di Yang Chao, in Concorso alla Berlinale 66, film in sospensione lirica tra tempo e spazio, sospinto sul fiume Yangtze che taglia la Cina dal Tibet sino a Shanghai.

Massimo Causo

Massimo Causo

altIl corpo assente (e permanente) della rivoluzione

La cristologia rivoluzionaria fa tutta riferimento al corpo assente nella risurrezione, al continuo rimandare la verità della liberazione: Lav Diaz ne è ben consapevole e fa di A Lullaby to the Sorrowful Mystery una testimonianza sacrale del tempo tradito dell’attesa rivoluzionaria del popolo tagalog. Come fosse una sacra rappresentazione, facendosi carico con la consueta laica consapevolezza del portato cattolico dei vissuti popolari della sua gente, Lav Diaz si spinge in un fluviale racconto che disloca la storia nel mito e il mito nella verità astratta della natura.

Massimo Causo

Massimo Causo

altUna casa, anzi due, contigue e alternative, come è sempre un po’ tutto nel cinema di Kiyoshi Kurosawa. Il suo nuovo film, Creepy (a Berlino 66 in Berlinale Special), resta immancabilmente ancorato all’idea di un mondo in cui la specularità e lo sdoppiamento sono la chiave di accesso alla natura implicita dell’esistere. Lo avevamo lasciato in Kishibe no Tabi (Vers l’autre rive, lo scorso anno a Cannes) sospeso alla transitoria immaterialità della vita reale, in bilico tra la quotidianità di una vedova e l’altrove di un marito morto anni addietro, eppure ancora presente nel suo tempo.

Massimo Causo

Massimo Causo

altIl nocciolo della questione coloniale continua a percorrere il cinema portoghese, una sorta di eco che risuona nelle trame di un filmare fatto di distanze da coprire con un immaginario che prende forma dalle ombre della Storia. Basti pensare al recente John From di João Nicolau, visto al Torino Film Festival, o alle avventurose deviazioni narrative di Miguel Gomes in Tabu. E’ tutto un gioco di elaborazioni in trasparenza, tra testo lontano, contesto presente, allitterazioni immaginifiche che suscitano fantasmi rimossi della coscienza o anche flussi di memoria che appartengono ad altre generazioni e ritornano nel presente come una manciata di coriandoli che non riesci a toglierti di dosso.

Massimo Causo

Massimo Causo

altLa questione con il cinema di Gianfranco Rosi sta sempre nel livello di astrazione che cerca. Il discorso vale anche per Fuocoammare (Berlinale 66, Concorso), che si colloca a Lampedusa, in quello che è stato l’avamposto dell’emergenza umanitaria degli immigrati ora diffusa su altri fronti di avvistamento e ammassamento dei profughi. Il suo punto di contatto con la realtà si sposta sempre un gradino più in alto del suolo, assume una prospettiva simbolica che è, allo stesso, tempo, la ragione del suo fascino e il motivo del sospetto che può generare.

Massimo Causo

Massimo Causo

altIl contrasto, nel cinema di Jeff Nichols, è sempre tra la fuga e il ritorno: credi sempre che le sue siano storie in cui tutto ruota attorno alla necessità di fuggire, fisicamente o anche solo psicologicamente, moralmente, ma poi ti accorgi che la partita si gioca solo e soltanto sull’esigenza di tornare al punto di origine, di concentrarsi in un centro in cui tutto può trovare una sua collocazione. E’ così anche in Midnight Special (Berlinale 66, Consorso), che in tal senso spinge ancora più oltre questo criterio logico.

Massimo Causo


altLa scena – a volte, spesso... – è la crisi. E la guardi come un'esposizione placida e oscena del dissidio interiore, o anche esteriore, di luoghi e figure che mostrano e nascondono la loro sofferenza. I tempi sono quelli che sono, del resto, e il cinema da sempre se ne fa carico. La scena è la crisi e il filmare la trasforma in una drammaturgia che interferisce sul rapporto intimo tra luoghi e i corpi, eppure tra i drammi e la forma che assumono: transfert, lapsus, allucinazioni, semplici distrazioni negli spazi della memoria o del presente. La Berlinale 67 volge al termine (scrivo a poche ore dall’Orso d’Oro, hoping in Aki...) e si porta dentro questa scena, esposta in alcuni dei film più belli di un Concorso forse troppo discontinuo.

Massimo Causo


altPartenze dopo l’approdo. Derive fluviali visionarie nell’estrema libertà dell'ignoto mondo amazzonico, dopo l’arrivo portuale in una Ellis Island che diventava costrizione, prigione. The Lost City of Z dopo The Immigrant: James Gray affronta il suo sogno esotico, l’accensione di un film d’avventura (ancora un film “in costume”) seguendo la linea di una fuga prospettica verso l’ignoto, che incarna il solito dissidio grayano tra la realtà che si abita e il sogno che si sente a portata di mano. Il luogo dell’appartenenza (la famiglia, la città, il destino) è lo spazio di una coscienza che sta stretta e la materia del desiderare è sempre lì a portata di mano, intangibile nella sua vicinanza.

Massimo Causo


Berlinale 67, figure in campo in tre film del Concorso: Final Portrait di Stanley Tucci, The Dinner di Oren Moverman e The Party di Sally Potter. C’è prima di tutto lo spazio, che accoglie le mutazioni in corso, lasciando implodere la materia di cui sono fatti i personaggi nel loro ritrovarsi faccia a faccia con la scena, stretti in un’azione che si conclude in se stessa e si consegna al lavorio dei caratteri, all’evoluzione relazionale della drammaturgia. Il setting è teso a segmentare la teatralità dell’assunto in un impianto filmico che implode nella concretezza del set, non tanto il luogo dell’azione quanto l’azione nel luogo: un’implosione di psicologie che dissimulano la drammaturgia nella fatale convivenza scenica e nella implicita connivenza psicologica. L’esclusione del fuori concede alla concatenazione di eventi lo spazio di un faccia a faccia che gioca con la frontalità tra i personaggi che duellano, ma anche tra scena e spettatore. Il film resta in mezzo, quasi un happening, spesso prigioniero di se stesso, di una drammaturgia da sceneggiatura, di una potenza da (over) acting che si affida alla materia grezza e sublime della prestazione attoriale.

Massimo Causo


altBerlinale 67, primi giorni. Tracce al femminile da due registe europee dell’Est, Ildikó Enyedi e Agnieszka Holland, ungherese l’una polacca l’altra, entrambe in fuori quota generazionale, nel senso che non sono certo ultima leva (classe ’55 l’una, ’48 l’altra) come sembra necessario oggi per essere nell’attenzione critica, eppure entrambe capaci di un cinema che ha ancora dentro i segni del rinnovamento di cui, magari marginalmente, sono state portatrici. In Concorso, con On body and Soul la Enyedi e con Spoor la Holland, entrambe hanno segnato questo esordio della Berlinale con due film in cui una sorta di visione magica della realtà, le connessioni tra vita reale e vita spirituale, le transizioni tra relazioni umane e relazioni sociali si coniugano nella traccia di un cinema potentemente visivo, sensibilmente filmico per quanto distante dall’algida materializzazione per così dire realistica della contemporaneità, che preferisce osservare invece di maneggiare, elaborare. Entrambi sono film che hanno a che fare col mistero della natura, con la molteplicità della vita, e nel fare questo elaborano una visione dell’esistente che transita dall’uomo alla società e attraversa la trasparenza visiva del filmare.

Matteo Marelli

silent_souls

Tanya è morta. Miron e Aist, rispettivamente marito e amante, decidono di congedarsi dalla donna celebrando il rituale d’addio come previsto dalla tradizione della cultura Merja, antica etnia ugro-finnica. Sanno che così facendo possono scongiurare la minaccia della distruzione del mondo da cui provengono e soddisfare, di conseguenza, il bisogno di salvezza ad essa congiunto.

Matteo Marelli

forgottenspaceIl container come unità fisica di misura attorno a cui si organizza l’economia mondiale. I percorsi di transito lungo cui questo si sposta ridisegnano la mappatura terrestre. Tracciati aventi un’unica coordinata geografica, il profitto mosso da logiche di sfruttamento consumistico. Il mondo non è più pensato come «una casa per tutti, ma un mercato per ciascuno»1.

Matteo Marelli

venus_noireÈ un percorso esistenziale in caduta libera quello di Saartjie Baartman, più conosciuta come Venere ottentotta. Quello che compie è un inarrestabile inabissamento che dai sobborghi londinesi, dove interpreta la parte dell’osceno fenomeno da baraccone, la porta prima ai salotti libertini parigini, a soddisfare le pruriginose voglie della buona società borghese, e poi giù, sino ai più squallidi gironi postribolari. Una progressiva distruzione che non si arresta neppure una volta morta. Il suo corpo, venduto all’Accademia reale della medicina di Parigi, è sezionato per dare legittimità scientifica alle più estreme teorie del “darwinismo sociale”.

Diego Mondella


cirkuscolumbia«Qualche volta sento che nel 1992, quando cadde il comunismo, ci siamo ritrovati sul bordo di un abisso. Il resto del mondo guardava in silenzio dall’altra parte. Siamo stati costretti a saltare, ma non siamo arrivati dall’altra parte. Stiamo ancora cadendo» (Denis Tanović).

«Mentre i mezzibusti non trovano accordo, versione di Caino,
la macchina della storia fa dei cadaveri il suo carburante» (Joseph Brodskij, Tema della Bosnia).

No Man’s Land, Triage, Cirkus Columbia. Durante, dopo, prima. La trilogia sul conflitto nei Balcani di Tanović è un viaggio di ricognizione nel “buco nero” della storia recente dell’Est Europa, che, a distanza di vent’anni dal suo tragico inizio, grava ancora sulla coscienza di chi non fece abbastanza per evitarlo (l’Onu, la Nato e l’intera comunità internazionale). La scelta temporale compiuta dall’autore non è cronologica. In quanto gli stadi della memoria, che sfuggono ad ogni criterio di ordine e razionalità, sono dettati invece dall’emozione e, a volte, dalla casualità.

Lorenzo Esposito


road-to-nowhere-hellmanArticolo tratto da "Filmcritica", n. 608, ottobre 2010.


1.


Ci sono delle linee di forza che tramano le immagini, che le spostano e le disorientano, testandone la disponibilità e la resistenza a flussi incongrui, a iniezioni eclettiche, a energie anomale. Assomigliano a delle volumetrie, i cui setacci, in altro senso, tramano alle spalle delle immagini stesse, magari facendo appello a una esplosiva fisica erotica, oppure diluendo nella miscela una pura chimica spettrale: Machete di Robert Rodriguez e Ethan Maniquis e Jianyu (Reign of Assassins) di Su Chao-Pin e John Woo, rispettivamente e tanto per cominciare (il sistema delle coppie, col raddoppio dei nomi alla regia, benché poi sia inesorabilmente chiaro chi fa da spalla a chi, non spiega del tutto la trama né il complotto produttivo, ma fa parte della medesima geometria cubica. E chissà che, di tale laborioso duettante laboratorio, non stia passando qualcosa in certo cinema italiano, su cui torneremo prossimamente, che a Venezia quest’anno è parso radiografarsi nell’ombra: Maderna/Pozzoli, De Angelis/Di Trapani, Zamagni/Ranocchi e, ovviamente, Gaudino/Sandri).

Matteo Marelli

the_nine_muses«Ha da passa’ ‘a nuttata»
(Eduardo De Filippo, Napoli milionaria!)

Che cos’è il cinema? È sempre utile partire da buone domande per poter elaborare delle risposte adeguate. Questo interrogativo, così carico di echi baziniani, torna a riproporsi con urgenza, perché il cinema, da “occhio del Novecento”, mezzo espressivo primario, serbatoio di tensioni storiche e mitologie popolari, di ossessioni morali e grovigli sociali, si trova oggi ad occupare una posizione marginale in un paesaggio che privilegia altri media. «Ciò che caratterizza il cinema dell’epoca postmoderna è il fatto di non essere più il medium trainante, ma il tassello di un sistema più vasto» (Buccheri 2010, p. 124). È quindi il contesto mediale che impone di porci il dubbio ontologico sul senso attuale del cinema: quale spazio rimane alla settima arte in un’epoca in cui «ogni immagine scivola nelle altre», per dirla con Deleuze? Che cos’è successo al cinema come fenomeno artistico, culturale, sociale?

Luigi Abiusi

Cold_Fish_Coldfish1-512x341Versione riveduta e ampliata dell’articolo Corporale, pubblicato su “Filmcritica”, n. 608, ottobre 2010.


Cold Fish

Una delle tracce meglio rinvenibili da sotto la concrezione di film accuratamente eteromorfa, dell’ultima mostra veneziana, rivela numerose declinazioni corporali (apodittiche, stupefacenti, spesso vischiose) e di conseguenza le differenti, o addirittura antagoniste, concezioni del corpo-cinema, da quello laconico e fibroso nella misura di morto carname di Larrain, fino a quello più patinato, delle scenografie sessuali e muscolari di De La Iglesia (che non va oltre lo spettacolo “epidermico”, a dispetto di un inizio straniante) e di Rodriguez (impegnato, pur nei consueti giochi corrivi, ad alludere a una qualche eversione degli ultimi, dei marginali), passando per l’autentico pastiche di Sion Sono, che in Cold Fish (sezione “Orizzonti”)  genera una dinamica schizofrenica in cui corpo (squartato e ridotto a manichino monco) e sesso (negato o istericamente profuso) sono i termini di un'alienazione raggelata.

Matteo Marelli

DELBONO«Non ho altro modo di conoscere
il corpo umano che viverlo,
cioè assumere sul mio conto
il dramma che mi attraversa
e confondermi con esso».
(Maurice Marleau-Ponty)



È il dolore ad esigere che venga lasciata una traccia di sé. Solo salvandola dall’oblio del silenzio è possibile dare alla sofferenza un’occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza.

Luigi Abiusi


faust_4-4Già la barca sballa sulle onde nell'ultimo tramonto che, come sempre, tacita la marina vastità verso Murano: strisce di terra annerita e spoglia, su cui razzolano stormi di chissà cosa dal collo oblungo, e poi, la calma acquea dove galleggia una piccola barca a pesca e una darsena di travi e piattaforme. Mentre le banchine di Murano bisbigliano per non svegliare i fantasmi sprangati nelle case, ripenso alle ultime cose viste.

Gemma Adesso


4.44-last-day-on-earth_low_1-300x168E' Dio che limita le cose del mondo, ma non conosciamo quali sono i limiti dell’inferno e
soprattutto: dov’è la frontiera dell’uomo?” (Sokurov)

L’11 settembre è il giorno ideale per le conclusioni...
Questa 68esima mostra è stata una collezione di capolavori, inevitabilmente qualche grande film (penso a quelli di Ferrara, Friedkin, Naderi…) è rimasto fuori dalla premiazione, riflettiamo sulla fine e consoliamoci.

Michele Sardone


Kotoko_2«Il cinema finisce con Kotoko. D’ora in avanti vedere film sarà come assistere a una retrospettiva» (Luca “Quasimodo”). Un giudizio estremo per il capolavoro di Tsukamoto: cinema portato allo stremo, un cinema della crudeltà che suscita violente reazioni emotive nello spettatore, i cui nervi angosciati vibrano a lungo usciti dalla sala.

Luigi Abiusi


andrea_arnold-wuthering_heightsSe proprio devo tenere in vita il diario - questa farragine in preda ai mutamenti atmosferici (oggi è scesa una cappa d’afa, una diarrea di luce attraverso i palazzi), agli spazi cosparsi di aghi di pino e di gambe cinesi, all’impressione, l’orrore del ritorno - quando magari mi piacerebbe riposarmi almeno un’ora, immergermi nella pace del nostro monolocale di via Zara, che odora di silenzio di là dai muri, nel giardino frusciante di natura morta, di rampicante, di cancello cigolante, e poi dimenticandomi nel sonno), allora devo iniziare dalla fine (o quasi), da Wuthering Heights di Andrea Arnold, non perché sia una storia di infanzia e di perdite (dell’infanzia, e dell’amore), ma perché ciò è espresso da blocchi di esperienza rigogliosa e ruvida, eterea e terragna.

Michele Sardone


THE_INVADER_STILL_01-thumb-600x337-25492Un biondo pettignone femminile, lasco in favore di camera, squarcia per cinque metri lo schermo: un cretto pantagruelico, pronto a fagocitare l'invasore, lo straniero alla conquista del Vecchiomondo, e il suo desiderio di dominazione e sottomissione.

 

 

Matteo Marelli


darkhorse_300Per quanto si sia portati a pensare ai personaggi solondzani come a delle propaggini dello stesso autore, in realtà il regista, a differenza di Abe, protagonista del suo ultimo lavoro, con Dark Horse ha dimostrato di riuscire finalmente a lasciare andare personaggi, temi e situazioni così a lungo "coccolati" nel corso del suo percorso filmografico e cominciare un nuovo discorso.
Per Solondz era diventata quasi una sorta di cifra stilistica quella di far cortocircuitare tasselli della propria filmografia creando continui rimandi tra l’ultima regia e i lavori precedentemente realizzati.

Michele Sardone


HimizuUn film compresso fra due catastrofi, quella di Fukushima e una seconda ancora a venire, ma presagita, forse agognata, più temibile perché il suo rombo già incomincia a farsi sentire nella disgregazione delle coscienze. Himizu è la talpa che erode dall’interno i corpi, per svuotarli delle loro forze e rendere più soffocante l’oppressione del dover credere nella ricostruzione dopo lo tsunami, sperare nel futuro del proprio paese, sognare una nuova vita per i giovani.

Gemma Adesso


terraferma“Venite adoremus. Dominum”

È così, avanti a destra c’è più cinema. Provate a vederlo Terraferma di Crialese da questa prospettiva, provate a fermarvi in questo lento annegare: dall’isola si vede tutto un mondo nuovo: la vertigine del viaggio che consuma le speranze, le aspettative alimentate dall’attesa di arrivare e vedere se quello che si dice è vero, se perdersi in questo frammento è possibile, se si può sopravvivere alla realtà invece che tuffarsi a occhi chiusi da una barchetta stipata di turisti sculettanti sulle note di Maracaibo.

Simona Tell e Matteo Marelli (a cura)


2439109_height370_width560C'è sembrato che in quest'ultimo lavoro presti ancor più attenzione al dettaglio, a tutti quei brand, e  a quegli oggetti, diventati nell'immaginario collettivo dei veri e propri status symbol. Quella che prende forma è una società dominata  totalmente dalle merci, dalle etichette, quasi fossero rimasti gli unici contrassegni ancora capaci di funzionare come dispensatori di identità.

Michele Sardone


pelesjan

Siamo abituati a considerare il montaggio cinematografico come un esercizio di associazione fra le  diverse sequenze che compongono il film: il regista armeno Pelešjan invece ingaggia la sua lotta col tempo nella distanza che si viene a creare fra le inquadrature, nello spazio che le separa, per misurarne la durata nella linea di sutura che c’è fra loro o intrappolarlo nel fermo di un’immagine.

Matteo Marelli


poulet-aux-prunes-2011-20190-858507840Cucinandogli il "pollo alle prugne" Faranguisse riesce a conquistarsi fuggevoli parole d'affetto da suo marito Nasser-Ali, il miglior violinista della sua generazione. Sa che ciò che ha permesso al proprio sposo di diventare un vero e proprio artista e non rimanere soltanto un virtuoso dello strumento è stato l'amore. Ma non verso di lei.

Luigi Abiusi


shame-gb-2011-di-steve-mcqueen-L-tKXIZVLa morte a Venezia è questo muto grondare delle cose, la loro assenza bagnata che ti pone in lontananza, ti dilaga, ti polverizza. Anche le immagini che ha filmato Saverio (operatore di Uzak, artefice di immagini, ecc.) al suo primo giorno al Lido, il montaggio che ne ha fatto, dice questo sbiadirsi dei passi, come un annuvolarsi, uno smarrimento letto in fondo a una pupilla.
Alle 9 entro nella Sala Darsena per Shame, di Steve McQueen che ho amato al tempo del suo Hunger, fenomenologia dell’autodistruzione nel presente per poter ritrovare l’infanzia. Ma qui non è la stessa cosa, perché a fronte di un inizio folgorante che lascerebbe presagire lo svolgersi di una variazione (video)artistica sul melò (del resto McQueen viene dalla videoarte), il film pur mantenendo un livello sufficiente di espressività sembra sfilacciarsi in alcuni punti del finale.

Gemma Adesso


04-1589928_0x410“Che sarà di Dio se dovessi morire?” (Schreber)

Dicevo: un festival di nevrastenici, e aggiungo: compiaciuti cultori della patologia.
Dopo un considerevole numero di film, in questo quarto giorno di permanenza al Lido, mi sembra di poter dire con una certa sicurezza che il corpo è soggetto privilegiato della 68esima mostra del cinema.

Luigi Abiusi


louis-garrel-monica-bellucci-un-ete-brulant-00In questo cabotaggio circuitale, andirivieni di un chilometro a passo sostenuto, che sono le giornate alla Mostra, mentre le biciclette vanno a passo d'uomo su uno sfondo di capanne da spiaggia, non mi ero mai accorto che alla finestra della sala stampa (sempre lei: luogo di osservazione/riflessione) non si vede solo un qualche gabbiano puntuto, a volteggiare in mezzo ai filamenti delle nuvole e fino al bordo delle inferriate, come scrutando questi omini (inutilmente) formicolanti, chini sulle tastiere; ma anche le cime degli alberi, già un po' gialli, ondeggianti, che adornano e intristiscono le aiuole della cappella in cui si celebra il funerale di Frédéric (Louis Garrel) in Une été  brûlant.

Michele Sardone


louise_wimmerUn fantasma s’aggira per l’Occidente, lo spirito del capitalismo. Louise Wimmer potrebbe essere un eponimo contemporaneo, un revenant del modernismo decadente, la tipica parabola pseudoamericaneggiante dell’eroe che contando sulla sola sua virtù riesce nell’impresa.



Michele Sardone


poucetMangia o verrai mangiato: è la legge di natura che regola i rapporti di potere (che sono sempre rapporti di forza) fra gli uomini, bestie fra le bestie, a seconda dei casi prede o carnefici. Lo capisce bene Pollicino, protagonista  della fiaba in costume riadattata da Marina de Van, e a proprie spese: anche i legami familiari vengono meno dinanzi al dittato della natura, in base al quale i suoi genitori, morenti di fame, decidono di abbandonare lui e i suoi fratelli.

Matteo Marelli


dangerousSi era certi che nessuno, meglio del Profeta della "nuova carne", si potesse confrontare con la dovuta dimestichezza e senza eccessivi timori reverenziali con la vicenda che ha per protagonisti  Gustav Jung, Sabina Spielrein (sua paziente, amante e collega) e Sigmund Freud.
Chi meglio di Cronenberg, sempre attento nell'osseravre l'uomo nei suoi tentativi di manipolazione dell'esistente, avrebbe potuto gestire il cortocircuito umano e professionale tra il padre della psicanalisi e il suo più brillante, ma allo stesso tempo "indisciplinato" discepolo?

Michele Sardone

Michele Sardone

alpisLa vertigine di Alpis si sente una volta fuori dalla sala, tornati al livello del Lido: si insinua surrettizio il dubbio che ciò cui assistiamo sia solo una recita, il mondo sia un teatro, il nostro apparire una posa sedimentatasi in anni di convenzioni,  i rapporti umani siano ascrivibili a un tacito canovaccio.


Luigi Abiusi


alpsMAIN11Nel sopravvenuto sentore del sonno, specie di apocatastasi della giornata, mi accorgo che quando sono qua, tendo a non guardare mai in alto, quando mi sveglio, per sapere se c’è o no quel sole appiccicoso, che ti scotta la schiena, mentre stai a scrivere di copertine celesti nella sala stampa e di cinema e scrittura che parlano di sé, parlano da sé nella demiurgia di ciò che sfugge miracolosamente all’egida del vuoto, poi uno sguardo dietro, mentre un cinese fantastica sullo schermo del suo computer (le luci elettriche della sua città dove la sua ragazza balla specchiandosi in una vetrina), e alla finestra, il mare.

Michele Sardone


cut_3Il terzo pezzo su Cut, il terzo uomo che entra in scena di sbieco (pensando più a Totò che a Carol Reed) come il terzo elemento che nell'inquadratura ha ragion d'essere solo in rapporto agli altri due, e che pure ha la sua funzione prospettica. Sebbene in Cut il terzo elemento nell'immagine abbia valore fortemente simbolico: il pacco regalo con i resti del fratello morto; il sacco da box, indolente e ipnotico come un impiccato, presagio del massacro di là da venire; la poltrona vuota, segno del potere impersonale e ancor più invincibile grazie alla sua assenza.

Gemma Adesso


Birmingham-Ornament-still"In sostanza, l'idea è di fare in modo che le etnie, la politica, le razze e le nazioni si trasformino tutte in oggetti non esistenti... - simili a ovali, scatole, grumi, armadi!
- Potreste pensare che sia vero "qualcuno", un vero "rappresentante del popolo", ma in realtà è solo un rappresentante di battiscopa, di macchie di caffè e nient'altro.
- In sostanza invettive politiche che bisognerebbe percepire solo come invettive poetiche. - In sostanza, spalmare la geopolitica dalla geologia alla poetica.
- Potete farvi venire in mente qualsiasi altra cosa!"

Luigi Abiusi


5964652930_5453509f6fAll’improvviso il temporale scarica sul lido la sua congerie di pozzanghere, di foglie fredde, mentre compare a vista il nodo dei palazzi del cinema, ingessati tra i recinti e i cantieri. Un senso di provvisorietà - in attesa della stabilità che darebbe il nuovo palazzo del cinema - che è tutt’uno con la sorpresa di avere una proiezione in meno a disposizione della stampa. E allora le file sono assembramenti selvaggi di giornalisti (quelli col lasciapassare rosso interessati a quel tale tacco della diva o a quel tale pacco del divo) e critici vari a vedere Polanski e, a sera, Garrel, quando cominciano a venire fuori, come le zanzare, le femmine sui tacchi e i ragazzoni coi pacchi, per una movida stagionale che si pavoneggia qui, prima di tornare alla desolazione autunnale.

Matteo Marelli


un-ete-brulant-2011-21245-1365208259Garrel sembra voler portare alle estreme conseguenze l'immagine-tempo, svincolando questa da qualsiasi subordinazione di tipo narrativo. Compone le inquadrature come se fossero delle nature morte, facendone un'unità a sé stante, letteralmente indipendenti, autosufficienti dal contesto. Muove la sua macchina da presa per una Roma volutamente fotografata al di fuori degli abituali tracciati turistici, dal luccichio ingessato delle immagini da cartolina.

Gemma Adesso


Ruggine-05

Un film giocato tutto sull’ostentazione di contrasti visivo-sonori e su un eccesso di semplificazione dei caratteri e dei ruoli dei protagonisti: la distanza dei genitori dai figli si riflette sulla incommensurabile differenza dei due mondi; la luce accecante del primo fa sempre da contrappunto con la claustrofobica oscurità del secondo; i grandi giocano a mascherare l’ipocrisia che si addice ai loro ruoli di sorveglianti, educatori, dottori mentre i bambini sono impossibilitati a uscire dall’interpretazione di una rigida violenta gerarchia che li vorrebbe adulti.

Gemma Adesso


cut2
Cut (A. Naderi) – Orizzonti
«Maestro Kurosawa, il cinema sta morendo. Io voglio sopravvivere».

Incolonnati in una smilza fila per la Sala Grande con i nostri fieri accrediti legati al collo e le poche ore di sonno ad appesantirci le palpebre. L’aspettazione sconsolata che ci faceva affermare con una certa sicurezza che le due di pomeriggio “volgono già il giorno verso sera!” (QuasiModo) si declina in un’attesa di sogno (che fa stringere la mano di Ghezzi e lascia teorizzare tattiche sulla disposizione dei posti a sedere - in prima fila a destra c’è più cinema -; la corsa per i posti centrali, quelli dietro la nuca di Naderi; e Müller nel suo impeccabile abito che sa di mondi lontani…) prima della visione.

Michele Sardone


mcelwee20-20photographic20memory295Un regista non riesce a comunicare con il figlio adolescente. Per segnare un campo in comune, tenta allora di cercare nel ragazzo un riflesso del ricordo che aveva di sé da giovane: ciò che otterrà non sarà uno specchiarsi, ma una sovrimpressione straniante. Photographic memory prende come pretesto il naturale fraintendimento che intercorre fra le generazioni per riflettere su quel legame capriccioso fra tempo e immagine che è il ricordo.

Matteo Marelli

Carnage-Polanski-film-2011Il dio della carneficina non arma solo il braccio delle schiere degli eserciti. S'annida ovunque, pronto a scatenare il gioco al massacro appena l'occasione lo consente. Nessuno può credersi escluso, anche se appartiene alla schiera della cosidetta gente per bene, quella che i problemi li risolve dialogando. Persone boriose, che sotto la scorza dell'ostentata superiorità morale, covano, come tutti, meschini desideri di ripicca. E proprio questo sforzo di celare le loro reali pulsioni li rende il ventre molle della "civile" coscienza borghese.

La redazione


berlinguertivogliobene1UZAK è in partenza. Direzione Venezia.
L’organizzazione della 68° Mostra del Cinema, ritenendo la nostra rivista «molto bella e congruente» (queste le parole dell’Ufficio Stampa), ci dà modo di essere presenti come testata durante la manifestazione lidense. Siamo pronti a ricambiare l’onore concessoci facendoci carico dell’onere della partecipazione. Stiamo tracciando traiettorie che non ci facciano inabissare nel mare magnum del programma festivaliero, mai stato, in questi ultimi anni, tanto ricco e succulento.

Comunicato stampa


mostra-internazionale-cinematograficaIl premio della critica online torna alla
68^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia
Il riconoscimento verrà attribuito dai collaboratori di 49 tra le migliori webzine italiane

Venezia, 31 agosto 2010. Il Mouse d'Oro torna alla 68^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Il premio, istituito nell'agosto 2009 su iniziativa di Hideout.it, è assegnato da una speciale giuria formata dai collaboratori di 49 tra le migliori  webzine italiane di cinema, e viene assegnato ai due migliori film scelti dalla critica online: Mouse d’oro per il primo classificato del Concorso e Mouse d’argento al primo classificato tra le sezioni collaterali.

Michele Sardone

gebo_1

È possibile girare un film davvero ribelle al fascismo estetico e formale del cosiddetto postmoderno, magari risalendo nel tempo a ciò che vi era prima del cinema, al teatro delle ombre. In O Gebo e a Sombra la finzione è subito palese: dal caos buio antecedente ad ogni creazione vengono fuori mani gigantesche, rapaci, pronte a muovere sulla scena i destini delle figurine, delle quali vediamo, come se al posto dello schermo fosse stato montato sulla quarta parete un telo proto-cinematografico, le loro silhouette, proiettate dalla luce irreale di una lampada ad olio.

Gemma Adesso

Venezia-2012-The-Millennial-Rapture-video-della-conferenza-stampa-di-Sennen-no-Yuraku

«O amore che tutto crei
sublime eterna carità,
la tua fiamma è più forte d'ogni cosa,
più forte della morte.»

(Giovanni della Croce)

La sensazione di trovarsi di fronte a un’opera epica sull’esistenza è evidente già dall’inizio di Millennial Rapture; il mito entra prepotentemente nelle vicende individuali e le stravolge seguendo la magnifica prevedibilità del ritornello “si vive. Si muore.”: in una grotta arroccata nell’oltre mondo, Izanami brucia dando alla luce Ho-Masubi, il dio del fuoco, origine di ogni distruzione.

Luigi Abiusi

PHMzhB0uu8EBPT_1_mSpesso non si sente la stanchezza, una volta entrati in Darsena (dove ronza, rimugina all’improvviso, addirittura accenna un goffo passo di danza, la stampa, in coda a Korine), e si resta lo stesso a occhi spalancati (nonostante il poco sonno, il pasto frugale, la cappa di umidità che forma sul volto un sudario di occhiaie), di fronte allo schermo, come vivificati, nutriti, dalla farandola di immagini brulicanti, nostro malgrado.

Matteo Marelli

imagesSu tutto, lo straodinario impiego del contrappunto musicale. E in particolare la sequenza, già conquistatasi uno spazio di diritto nelle future antologie di manualistica cinematografica, che fotografa con lucida spietatezza l'inabissarsi delle protagoniste oltre i limiti del decoro morale causticamente commentato da Everytime di Britney Spears.
L'opera di Harmony Korine mostra il lato ferino, orgiastico, brutale, che cova al di sotto del superficialmente innocuo e patinato immaginario pop-giovanilistico.

Michele Sardone

Venezia-2012-Linhas-de-Wellington-clip-poster-e-immagini-del-film-di-Valeria-Sarmiento-12La Storia avanza intruppata e trascina dietro di sé una carovana di straccioni, esuli, nobili decaduti, ognuno portatore di un frammento di vissuto, o dell’immagine di un volto (magari dell’amore perduto) su cui la camera indugia come a voler ricomporre un quadro cui manca sempre un dettaglio per essere compiuto. Dalla Storia si fugge andando oltre le Linee di Wellington, fortificazioni tanto imponenti da essere leggendarie, descritte come appartenenti a un mito, quasi irreali quindi insuperabili: dinanzi a loro la storiografia si ferma e lascia il posto al fantasmatico.

Matteo Marelli

Dennis-Quaid-in-At-Any-Price-di-Ramin-BahraniChe senso ha realizzare un film che ripropone gli scricchiolii, i primi segnali di cedimento interno, di un sistema, quello neoliberista, di cui stiamo già assistendo al collasso? Che poi questo sistema, nonostante l'evidente sfacelo, stia attraversando la crisi, da lui stesso generata, senza perderne l'egemonia, è un altro discorso.
Ramin Bahrani con At any price firma un'opera anacronistica, fuori tempo massimo, sia per il discorso affrontato che per l'iconografia utilizzata.

Luigi Abiusi

intervallo

Sognare i termini della disgiunzione, e del soffocamento (si dovrebbe sognare solo a occhi spalancati, di fronte a una sinfonia tarkovskiana), equivale allo svegliarsi in una stanza ravviata dal temporale, oramai rappreso dentro uno scuro riverbero d’alba, da cui parte la striscia di sangue sull’asfalto. Kim Ki-duk fa ancora della poesia sangue, Pietà, sulla strada di quel rigore “digitale” che era già di Arirang e confermando lo spostamento della sua ricerca etica, dai rapporti amorosi (governati, come si sa, dalla coercizione, dalla violenza, da un senso di carcerazione e di perdita spesso irrevocabile) a quelli che si instaurano all’interno della società, in nome della profittazione e del sopruso.

Gemma Adesso

pieLa straziante e lucida confessione di Arirang era il preludio al soffocamento di Pieta: Kim Ki-duk non smette di elaborare questo discorso disperante sulla lacerazione attraverso l’incisione dei corpi, il senso di colpa che si abbatte sulle generazioni e scarnifica l’umano.
La mancanza di pietà travestita da solidale partecipazione alla sofferenza degli altri è l’aspetto più efficace per descrivere l’attuale sistema sociale fondato sulla violenza del debito. Sopravvivere al bisogno significa rinunciare necessariamente a qualcosa; l’umanità subalterna nascosta in bui e metallici sotterranei cede ciò che le avanza, la parte di corpo ancora funzionante, utile al sistema.
La descrizione dell’uomo indebitato non può quindi che eccedere nella esibizione del dolore, nello spargimento del sangue che massacra gli affetti più cari e condanna a una sopravvivenza insostenibile.
È una visione che precipita progressivamente sottoterra, costringendo a spalancare gli occhi mentre il nodo stringe la gola, taglia il respiro, abbandona l’aria. Il denaro è il gancio che tiene insieme la solitudine e l’assenza degli affetti, la mancanza e la paura della perdita, il senso di colpa e la vendetta, la condanna e la morte.

Michele Sardone

outrage-beyond-894487_0x410Kitano non è morto, sebbene ci sia qualcuno che dica il contrario da cinque anni, da quando è uscito Kantoku banzai!, il film con il quale ha provato a suicidare la propria immagine gloriosa, già sezionata e frammentata (forse per sopportarne il peso un po’ alla volta) in Takeshis’.
Outrage beyond
è oltre il semplice vilipendio alla gloria del filmaker, è la contraddizione di non voler fare un film attraverso la sua messa in opera.

Luigi Abiusi


somethingintheair.top_Fuori, l’arco delle giornate, dello stanco via vai, ruminare, ritornare, l’odore di pioggia, è per lo più sentimento di privazione, mancanza delle immagini, del loro spessore diafano, danzato, ridondante, che gronda spazio, passaggi di luce tra foglie e una sinfonica, solitaria erranza; fuori si passa il tempo cercando di dare senso all’assenza (di immagini), a un’attesa come infantile che misura da sola il sé, e il se. L’erranza apre To The Wonder, capolavoro di Terence Malick, e già dall’inizio non se ne vorrebbe più uscire; lirico incedere d’esseri (tre api perse su un soffitto) nel freddo atmosferico, sempre minacciato dalla dispersione, disaffezione, da una sedimentazione di lontananze.

Michele Sardone

apres-mai-14-11-2012-1-gDopo il Maggio francese arriva un été brûlant, la stagione in cui vengono bruciati i sogni rivoluzionari di ogni giovane generazione. Come fosse uno scorcio impressionista, il sogno appare: una ragazza vestita di bianco passeggia in un bosco e fa entrare in quadro il suo giovane pittore. Egli prova a farla sua, ma la visione gli sfugge via. Il ragazzo tenta allora di inseguire la bellezza attraverso la lotta contro il potere che deturpa il volto di ciò che gli si oppone: fa di un quadro un manifesto politico mentre un graffito propagandistico lo compone come fosse un collage performativo.

Matteo Marelli

to-the-wonderPrima di tutto e soprattutto è l’enorme talento. Un talento capace di coniugare la magniloquenza mainstream hollywoodiana con una complessità di scrittura propria del cinema d'autore più radicale. E il risultato più portentoso di questo difficilissimo equilibrio espressivo continua a rimanere The tree of life. Impresa prometeica, vera e propria cosmogonia universale, afflato di trascendenza che aveva scaturigine dall'immediata contingenza; film generoso, sovrabbondante. Manierista, ma di un maniersimo denso e dolente. To the wonder è la sterile ripetizione di questa maniera, affascinante ma pur sempre ripetitiva, in cui compaiono tutti gli elementi della poetica del regista, forse, ancor più elevati a potenza (su tutti il totale azzeramento della costruzione narrativa, della progressione drammaturgica, per lasciare completo spazio alla riflessione spirituale).

Grazia Paganelli

focaSfuggire i cliché e capovolgere il senso comune delle convenzioni. Questi i talenti della regista Solveig Anspach, islandese trapiantata in Francia che sa descrivere le piccole cose con lo sguardo incontaminato di chi sa osservare le linee del reale. Così, l’incrocio di due gru nel cielo di Montreuil ha posto le basi per Queen of Montreuil (presentato nel programma delle Giornate degli Autori), storia stralunata e imprevedibile di Agathe e della sua famiglia improvvisa e improvvisata, che le si stringe attorno al ritorno dal Vietnam, dove il marito è morto lasciandola sola. Ma la solitudine va cercata in questa casa piena di oggetti e di fiori, con le finestre che si aprono ad accogliere tutti e dove, pare, confluiscano strade verso luoghi immaginari di pura poesia.

Gemma Adesso

e-stato-il-figlio.jpg_t1344276887823Il film di Ciprì è un’interrogazione intelligente sull’obbedienza arcaica che trascende in sacrificio della carne. La società italiana attuale si riflette in una famiglia siciliana preistorica attraverso la tragedia di un conflitto generazionale che non può trovare una soluzione differente dal martirio del giovane corpo inetto disadattato dislocato del figlio.Occupare lo spazio non basta a essere corpo, la materia deve trovare una giustificazione attraverso il dispendio di se stessa, l’esibizione di una dolorosa confessione indotta dallo spettatore della tragedia: che si tratti della bambina uccisa in un attentato mafioso, o del fratello - interpretato prima dal giovane Fabrizio Falco e poi del maturo Alfredo Castro -, la presenza del figlio scompare in funzione di una storia incombente che lo vuole strumento sottomesso a delle regole incomprensibili, inchiodato a delle sovrastrutture alienanti (Famiglia, Stato, Chiesa) rese attraverso rappresentazioni oniriche e ironiche che ricordano gli sketch stranianti di cinica memoria.

Michele Sardone

fill_the_voidCome in ogni film in cui viene descritta una comunità chiusa e integralista, il gioco combinatorio fra i personaggi segue l’avvilupparsi del reticolo dei codici e delle meccaniche intorno a una predestinata vittima sacrificale. Appare quindi una vergine 18enne, circonfusa di una luce aurorale che polverosa le accarezza il bianco del vestito, del collo e delle guance, come in un quadro di Monet.

Gemma Adesso

Superstar_Recensione_film«La sfera pubblica si privatizza nella coscienza del pubblico che consuma; la sfera pubblica diventa la sfera di pubblicazione di biografie private, sia che essa porti alla luce le casuali vicende del cosiddetto “uomo della strada” o quelle di stars deliberatamente costruite, sia che si travestano con una maschera di privatezza e si rendano incomprensibili per eccesso di personalizzazione sviluppi e decisioni di pubblica rilevanza. Il sentimentalismo verso le persone e il corrispondente cinismo verso le istituzioni che ne derivano con socio-psicologica ineluttabilità, limitano poi naturalmente la capacità di un dibattito critico nei confronti del pubblico potere, quand’anche fosse ancora possibile.»
(J. Habermas)
 

Michele Sardone

the-master70 mm sono forse anche pochi per contenere, in una sola inquadratura, tutta la possanza epica del film di Anderson: eppure grazie a questo formato la nitidezza dell’immagine è tale che nessun particolare può sfuggire, tutto è sempre a fuoco, lampante, chiaro. È chiaro che non c’è uomo che non possa vivere senza padrone, che ognuno aspetti il proprio messia che gli dia un posto dove stare, un indirizzo al suo agire, in una parola, un senso, uno purché sia. 

Matteo Marelli

loadgallery322049631.jpegw640Il furore iconoclasta di Ulrich Seidl tocca, in questo film, una durezza e una spietatezza adamantina. E, così come non concede attenuanti ai suoi personaggi, non permette fraintendimenti agli spettattori. L'esasperazione dei toni e delle situazioni è da leggersi in questa prospettiva; i sui film sondano i punti deboli di una comunità, il dramma sociale, l'endemica irrequietezza evolutiva che porta gli antagonismi a venire allo scoperto. Come una peste, il cinema di Seidl è un’alterazione, un’esagerazione, un’ipertrofia; crudele, tutt’altro che consolante, esorta a guardare con onestà e coraggio ciò che sta al di sotto della sovrastruttura civile, dentro il collasso morale. È un contraccolpo che annienta la falsità, rappresentata, in questo caso, da una fede completamente svuotata di senso, reificata a feticcio, ridotta a suppellettile.

Vito Santoro

monicelliSono passati quasi due anni da quando Mario Monicelli decise di porre fine alle sue sofferenze e farla finita con la vita. Oggi nel film documentario Monicelli. La versione di Mario – presentato a Venezia 69 nella sezione "Classici" – lo ricordano con affetto, ma senza alcuna retorica, cinque registi, Mario Canale, Annarosa Morri, Felice Farina, Wilma Labate e Mario Gianni. Il racconto è affidato alla voce inconfondibile dello stesso Monicelli, cui fanno pendant foto, immagini di repertorio e le testimonianze di quanti hanno avuto di frequentarlo, frutto di un lungo e accuratissimo lavoro di ricerca (del resto, a Canale e Morri si devono alcuni tra i più importanti documentari sul Cinema realizzati negli ultimi anni, tra cui ci piace ricordare almeno Marcello una vita dolce, Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro, Vittorio D.).

 

Luigi Abiusi



heavensgate2
Lido, rado via vai da primo giorno, e sole a picco sulle teste, alle due del pomeriggio, a rischio di insolazione. Squali a parte, iperbole di catastrofi, tutte insieme: una rapina (con morto), un maremoto, squali appunto, famelici, vaganti tra i reparti di un supermercato allagato; cavo ad alta tensione che sfrigola a pochi millimetri dal pelo dell’acqua; assassini appollaiati sugli scaffali, tra le merci in macerie, pronti ad accoltellare, sparare (con ghigno); e cavalcata improvvisa di ragni pazzi dai condotti di areazione; insomma, tutta una casistica e un bestiario (in cui non mancano serpenti d’acqua) nell’acquario di sagome animate, pupazzi straripanti, che è Bait 3D di Kimble Rendall; a parte questo (rozzo) baraccone di divertimento, la cosa migliore vista finora in questa Mostra è il capolavoro di Michael Cimino, I cancelli del cielo, nella versione integrale di quasi quattro ore, che ridà sostanza a quell’epica dell’America violenta e sentimentale, come inscatolata invece (ma in qualche modo affiorante ancora) nella versione passata nel 1980 nelle sale. Dissertazione straordinaria non già limitata al contesto storico di riferimento (il versante nord-orientale degli Stati Uniti, proiettato verso l’ovest, tra il 1875 e il 1903), bensì pienamente calzante con il contemporaneo, con l’appannaggio, come si sa, delle borghesie abbienti (senza meriti, se non quello dell’appropriazione indebita) a discapito di maggioranze affamate (senza demeriti, che non siano quelli relativi al biologico germinare, come sempre).

Matteo Marelli

lcaterra-quattrini-impenetrable-295In sottotraccia scorre il tema misteriosissimo di tanto teatro tragico greco, quello della predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Un tema che investe tanto la dimensione intima, personale, quanto quella collettiva, generazionale. E «non importa», come scriveva Pasolini, «se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. È il coro che si dichiara depositario di tale verità». E la colpa è stata di credere che la storia neocolonialista, liberista fosse l'unica storia possibile; che la povertà fosse un male assoluto. È stato il trionfo dell'assolutismo consumista, dei meccanismi di mercificazione attraverso i quali il modello capitalista è diventato l'unico riferimento possibile.
Un dato di fatto; un dato perverso. Quello contro cui è costretto a scontrarsi Daniele Incalaterra, che ritrovatosi in eredità 5.000 ettari di foresta vergine in Paraguay, acquistati dal padre sotto la dittatura di Alfredo Stroessner, decide di restituirli al popolo originario, i Guarnì.

Michele Sardone

izmena_2.jpg-500-480x319Un uomo e una donna raccattano indizi, frammenti, situazioni per comporre un’immagine che per metà film è solo suggestionata, suggerita: l’immagine del tradimento, degli oggetti del desiderio che poi si compongono tra loro, s’incastrano e la cui visione è insostenibile, persino per il balcone che dovrebbe reggerli in scena. Una sodomia alla finestra, come quella in Crash, o (solo suggerita, suggestionata) in Tokyo decadence e immancabile qui a Venezia (l’anno scorso con Shame e The invader), con i corpi che si consumano, cercano l’annullamento del peso di sé fino a precipitare nel vuoto orgasmico.

 

La redazione

stray-dogs

Vengono dai ruderi abbandonati. Girano come pazzi, come cani senza padrone. Guardano sul mondo, come i primi atti del Dopostoria, dall’orlo estremo di qualche età sepolta.

 

 

 

 

La redazione

jalousie

La Jalousie è una carezza dataci da Philippe per mezzo delle lunghe mani di Louis, cesellate, intonse, preservate alle volgarità della fatica. Fuori dalla Storia, i personaggi si appartengono non essendo di nessun tempo. Ancora una volta deux Amants Réguliers, che ripercorrono puntualmente tutte le tappe del disinnamoramento in una vera e propria liturgia dei corpi, una cerimonia che li erge a centro e punto di partenza di ogni processo figurativo.

Luigi Abiusi


tsai1. Verso la fine. Me la prendo comoda, e me la prendo con me stesso, che sono rimasto steso stamattina, e offeso (anche solo dalla luce dalla tenda blu, nonostante Nicola ieri l’abbia chiusa con premura, prevedendo l’invasione di quello stesso stridulo grido di sempre che è la mattina), steso a penetrare il mistero del soffitto bianco, su cui appaiono fantasmi ferrigni, esoscheletri su cui si innestano pulsioni e proiezioni, che non si sa più cos’è reale cosa no, che si vorrebbe vivere sempre in questa dimensione falsa (il cinema, la poesia) liberata dalla verità, e invece si deve tornare, per ritrovarsi in una casa vuota, per strada mentre la polvere e stracci di foglie fanno il loro solito ballo autunnale, le ragazze parlano al telefono, nei negozi imperano le cineserie, e la fontana semplicemente scroscia.

Vincenzo Martino


Moebius 2E sono ancora silenzi, in quel coacervo di emozioni che il festival comporta; silenzi assordanti; e d'altronde, quando a (dis)perdersi è il significato (concettoso, narratologico), a che servono le parole? A che servono i discorsi quando  l’immagine impera, comunica?


Michele Sardone


feng-aiA Wang Bing riesce quello che i matematici hanno dimostrato essere impossibile, ovvero far quadrare un cerchio. La circolarità temporale della ripetizione, il loop della coazione alla quotidianità di giorni sempre uguali cui sono costretti i reclusi di un manicomio dello Yunnan (stessa regione cinese del suo precedente Three sisters) trova la sua perfetta spazializzazione, coincidente nel camminamento quadrato che viene percorso in continuazione, notte e giorno, dalle figure evanescenti dei condannati all’inferno.

Matteo Marelli


tom at the farm poster-620x350«Each man kills the thing he loves». Ogni uomo uccide la cosa che ama.
Così cantava Lysiane in Querelle de Brest. Così potrebbe cantare Tom, deciso a salutare, un’ultima volta, il proprio compagno, pur sapendo di doversi calare in un ruolo che lo costringerà a mascherare la reale natura dei suoi affetti.
Perché non esiste democrazia nei sentimenti, ma solo un'applicazione più o meno drammatica del sadomasochismo.

Gemma Adesso


Moebius 1Il taglio, voluto e subito, è il soggetto principale dell’ultimo film di Kim Ki Duk che, si vocifera, potrebbe uscire amputato nelle sale (sicuramente in Corea molte parti verranno censurate). Un’operazione non meno dolorosa della visione integrale e per molti insostenibile di una storia di perverse santificazioni.

Luigi Abiusi


Moebius 4Tsai Ming Liang lo vedrò tra poco in Sala Grande, ma ho già sentito di piani sequenza e randagi, e silenzi: è il film che più aspetto (almeno da maggio), quello da cui potrebbero arrivare le soluzioni (plastiche, coreografie, corrispondenze) più nuove ed emozionanti, ancora ricordando il materasso galleggiante alla fine di I don’t want to sleep alone,  che reinventava l’amore, e l’acqua, gli stomaci macerati dei palazzi.

Nicola Curzio


NightMovesIl cinema di Kelly Reichardt riparte da una diga, un muro di cemento armato che separa le certezze del sogno americano dalla reale presa di coscienza dello stato delle cose, secondo l’idea dei giovani protagonisti del film.

 

 

Michele Sardone


Medeas 8I primi istanti del film di Pallaoro sembrano rubati al cinema degli spazi aperti contemplati da Malick, Cimino, Rafelson: simile atmosfera diafana, luce incantata, con una famiglia in riva a uno specchio d’acqua; e si potrebbe essere nell’Ottocento, se non fosse per l’apparizione di una macchinetta fotografica a molla: click, ed ecco il primo sussulto temporale.

Vincenzo Martino


Miss-ViolenceTorte, candeline; sorrisi, come quello che Angeliki ha ancora sul viso avvolto dal sangue, denso e purpureo, dopo essersi lasciata cadere nel vuoto: gesto estremo di fuga, evasione silente. E quindi, mentre scorrono i titoli di testa, silenzio.



Gemma Adesso - Lorenzo Esposito


andereNon è solamente l’Heimat - luogo fisico connotato senza incertezza -  ma soprattutto l’aggettivo indefinito “altra” ad aggiungere e segnare uno scarto concettuale nel tema del ritorno ribaltando la questione e invertendo l’ordine della ricerca.
Il movimento avviene da fermi ed è un viaggio che porta lontano. Colui che più di tutti sogna di partire, colui che informa il territorio natio di parola e utopia (quelle degli indiani, che l’immaginazione situa nella giungla amazzonica) non intraprenderà mai il viaggio, ma sarà l’unico a restare aggrappato alla visione, la cui cronaca è ciò che definisce l’immagine in gioco.

Gianfranco Costantiello

ruin

Dopo una settimana di festival, i film cominciano a definirsi come un unico grande film, con le storie e le immagini che scivolano l’una dentro l’altra, secondo una muta corrispondenza che sembra passare attraverso l’acqua e, in particolare, attraverso un fiume. Fiume che, in Ruin, Memphis e La belle vie, sembra assumere una valenza metafisica. A comporre altre magnifiche visioni ci sono il bianco e nero di Die andere Heimat e il fiammeggiare di Medeas.

Luigi Abiusi


Medeas 3Il vento si è alzato stamattina e ora spazza i capelli, le gonne a pieghe, le ramure lungo i viali e le ferrovie, e gli aerei di carta. “Il vento si è alzato. Bisogna tentare di vivere”: su un treno in corsa, inseguendo un cappello sbalzato da una folata, Jiro e Nahoko si scambiano (con voce tenue dissolta nel vento) i versi di Valery, che dicono la necessità di assecondare quell’accensione di tempo e di spazio che è il nascere e il crescere, il creare (animare), aprendosi al dolore, al tempo, alla morte, all’esorcizzazione della morte dentro la spianata cerulea dell’immaginazione. È il capolavoro (in concorso) di Miyazaki (The Wind Rises), rastremato, asciugato da quelle strabilianti invenzioni anamorfiche che erano già nel Castello nel cielo, pieno di immagini di una storia ancora più vera se è il sogno a superarne gli abomini (gli aerei da guerra), e la poesia, “Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!” vero centro pulsante e volatile di tutto il cinema di Miyazaki.

Luca Romano


avranasTutto si apre con una caduta, il film stesso è la caduta. Lei, l’undicenne sorridente, cade. Si sporge e va al di là della sua possibilità di corpo, subisce la gravità e affonda. Un po’ come andare al di là delle proprie possibilità, guardare fuori e credere di poter far qualcosa di simile al volare. Scavalca e subisce il peso del suo stesso corpo giovane e destinato alla morte.

Giovanni Festa

friedkinIl salario della paura è il film dell’ultra-amplificazione sensoriale, dove lo sguardo si trascina fuori da se stesso diventando altro, scoprendosi  orecchio che ascolta: ma di orecchio inverosimile si tratta, ingrandito fino a negare se stesso e divenire una specie di sonda, capace cioè di fare ciò che il microscopio fa con lo sguardo: estrarre una singolarità da un evento complesso ingrandendola fino alla grana setosa e nascosta.

Michele Sardone

Michele Sardone

miyazakiI sogni fanno male: non tanto al sognatore che persegue tenacemente il sogno, quanto ai suoi affetti, che si vedono logorare i legami e che, a loro volta, non possono che bilanciare tanta incuria nei loro confronti se non con superiore attaccamento, fino a distruggere se stessi. Le forme carnali e imperfette dei corpi infatti non possono sostenere l’eterea natura dei sogni se non diventando a loro volta evanescenti come fantasmi, ricordi o rimpianti, nebulosi come i respiri di una malata nel gelo di una montagna.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

die-andere-heimat-04-Die aSi presenta Die Andere Heimat di Edgar Reitz. «Ne sono grandemente impressionato e turbato, poiché, sebbene nella mia visione tutto ‘corrisponda’ esattamente alle riproduzioni del quadro da me conosciute, essa ‘mi appare’ nondimeno assolutamente modificata e carica di una tale intenzionalità latente che […] diventa ‘d'improvviso’ per me l'opera […] più densa, più ricca di pensieri inconsci» di questa 70° Mostra del Cinema.

Michele Sardone

Michele Sardone

redemption--3Miguel Gomes  recupera immagini di repertorio delle epoche più svariate (dal cinegiornale al filmino familiare fino a una sequenza di Miracolo a Milano) e le fa entrare in collisione con i ricordi personali di quattro personaggi di altrettanti paesi europei: una lettera di un bambino portoghese all’epoca della caduta dell’impero coloniale, il primo amore di un vecchio milanese (bambina evocata come fosse una “Rosebud”), la confessione di un francese della propria inettitudine ad essere padre, lo sforzo di una sposa tedesca di togliersi dalla testa il motivo del Parsifal di Wagner.

Lorenzo Esposito

Lorenzo Esposito

CanyonsPaul Schrader infrange la passeggiata newyorchese di Manhattan con uno slittamento letteralmente octopus, agitando braccia-microcamere che sfidano e in qualche modo desertificano la propria stessa ansia di controllo.



Nicola Curzio

Nicola Curzio

curran tracksAnni prima che Christopher McCandless decidesse di intraprendere il suo cammino verso l’Alaska, un’altra adolescente, Robyn Davidson, in un’altra parte del mondo, affrontò un lungo viaggio nel deserto australiano. Se il paragone tra queste due persone è, perlomeno qui, di scarso interesse, non lo è invece quello tra i loro personaggi al centro, rispettivamente, del film di Sean Penn (Into the Wild, 2007) e di John Curran (Tracks, 2013).

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

gravity articleLa tecnica non fa altro che esporre l’uomo dinanzi alla sua fine. Fine imminente che pare dominare l’immaginario americano e, soprattutto, hollywoodiano, degli ultimi anni. Così in Gravity, primo film di Cuarón dal respiro mainstream, in un 3D quanto mai calzante, ci si trova a un passo dalla tanto sussurrata fine, quando detriti sfreccianti minacciano, d’improvviso, nella quiete sospesa del vasto nero spaziale, il viaggio dello Space Shuttle e la vita dell’astronauta Matt Kowalsky e quella della dottoressa Ryan Stone (rispettivamente George Clooney e Sandra Bullock in scafandro).

Vincenzo Martino

Vincenzo Martino

gravityTrambusto. Poi silenzio, pace, sensazione di assenza, di gravità e quantità; spazio e spazi, blu tenebra e azzurro cielo a confronto: ė dipinto in questa cornice l'incipit di Gravity, presentato fuori concorso a Venezia, ultima fatica di Alfonso Cuarón che ancora una volta si (re)inventa, abbracciando nuovamente una produzione milionaria e scegliendo l'alta quota, quella siderale, come strada/mezzo per esorcizzare un lutto - quello della dottoressa Rayan Stone, nome e fisionomie mascoline che tanto sembrano rievocare la Ripley di Alien -  tramite una (ri)nascita che parrebbe (nella dovuta misura) anche riproposizione (genuflessa) del 2001 archetipo kubrickiano; e difatti proprio laddove si interrompevano (se così si può dire) le avventure del discovery one e del suo equipaggio - e dunque l'orbita terrestre - prende piede la breve odissea di Rayan e del pilota Matt, per poi concludersi tra le terre rosse di un'Africa deserta (evidentemente attraverso un percorso inverso ma disseminato di citazioni: e penso a penne sospese e corpi fluttuanti in posizione fetale).

Matteo Marelli

Matteo Marelli

danteIl percorso spettacolare di Emma Dante ha da sempre una forza centripeta, una chiusura, un ripiegamento ombelicale che ambisce a contenere in sé il mondo. Una costruzione sineddotica che attraverso iperboli grottesche della rappresentazione lascia trapelare significati metaforici. Senza rinunciare al racconto, sebbene asciugandolo, riducendolo all’essenziale, presentando e indagando situazioni già date più che svolgimenti di conflitti e azioni.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

sono hell teaser-thumb-630xauto-38159Quest’anno s’è arrivati in motoscafo di radica e di poltroncine filigranate a leoni rossi e gialli: vento nei capelli, occhiali da sole a intorbidire screzi cirrosi; i canali di Murano, con uno o due artigiani che cianciavano di reti e di legni, e poi la cosa imprevista, da gelarti il sangue nelle bluastre incrinature del polso chiamate vene: lo scafista ci scarica all’attracco della Darsena, che più in là ci sarebbe un supplemento da pagare, che se volevate scendere a Santa Elisabetta… ma me lo dovevate dire prima; ora se volete vi porto all’attracco dell’Excelsior, ma sono venti euro in più. E allora scendiamo alla Darsena dove c’era un serraglio di fotografi e video-operatori (con alle spalle delle fantesche adorne con cura e classe, che si mettevano in punta di piedi per poter guardare i feticci arrivati dal mare e potersi bagnare così nelle mutande odorose di mughetto) i quali, visto lo scafo lustro, battente bandiera veneziana con polena leonina a prua, e sonante dai Boose della vociona di Michael Bolton, hanno cominciato tutta una farandola di scatti e di riprese, e lampi ed epifonemi tutt’intorno, credendoci attori famosi o chissà magnaccia e mignotte della televisione o del parlamento; e un eunuco in giacca rossa e guanti di raso bianco lì a stappare una bottiglia e a fare tinnire i bicchieri di Swarovski.

Luca Romano

Luca Romano

movie-die-frau-des-polizsten-s2-mask9La fragilità è la capacità dell'uomo di salvarsi dai frantumi, ma non quella di rimanere intatto. La pelle mantiene gli organi vicini, intatti, li tiene uniti ed evita che il corpo si frantumi. Il film è frantumato in milioni di pezzi, forse meno, forse 59 capitoli, forse ogni fotogramma. Ogni capitolo inizia e non cede al secondo il suo spazio, ma finisce, si conclude. In ogni capitolo c'è il frammento di una storia inenarrabile in un insieme, incomprensibile insieme. La fragilità è in ogni spazio della narrazione, è nei canti con gli occhi negli occhi degli spettatori, nella memoria che non concede il ricordo di tutte le parole. La fragilità è nel passo degli animali, nella loro morte, negli incidenti che lui fotografa, nei corpi morti a bordo strada, negli steli d'erba dell'orto improvvisato, nei lombrichi che affondano nell'acqua nell'innaffiatoio; in tutto c'è una fragilità che frantuma e salva dai frantumi.

Michele Sardone

Michele Sardone

labruceLa gerontofilia del titolo sembra rivolta, più che ai corpi decadenti e azzimati, a un certo cinema vecchio, il cosiddetto “classico”: sceneggiatura ammiccante , inquadrature da incorniciare, montaggio al servizio della narrazione, fotografia patinata. Bruce LaBruce tenta di sovvertire il concetto di bellezza, ma si arrende comunque alla gerarchizzazione: non contesta la bellezza in sé, ma prova solo a invertire di posto quel che viene definito attraente con ciò che è disgustoso, lasciando invariato il sistema formale.

Serge Daney

Serge Daney

daneySe il film è per me, io sono per lui: di fronte a lui e dentro di lui. Ripenso […] a proposito del “posto dello spettatore” davanti a un film, sul fatto che c’è una doppia scena, un doppio modo di esistere davanti al film: come corpo inerte tra gli altri, e come sguardo vivo tra le inquadrature. L’amore dell’inquadratura è quello degli interstizi in cui infilarsi, di nascosto o ben nascosti dallo svolgimento del film.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

altDa Nine Lives of a Wet Pussy Abel Ferrara ha sempre messo al centro del proprio cinema la narrazione della corporeità del personaggio. Gli uomini e le donne protagonisti della filmografia ferrariana sono materia tragica, un coagulo esperienziale e carnale per mezzo del quale l’autore ha potuto affrontare con furia profanatoria l’esperienza registica.
Una profanazione che deve essere intesa nel significato etimologico del termine, ovvero d’incursione, da profano, nello spazio sacro (quello cinematografico), aggredito sensibilmente, fino all’invasività, alla violenza, alla riflessività.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

leopardi2Dice come si permette quello di toccare il più importante e amato (amato? paradosso scolastico, adolescenziale, o pura mistificazione) poeta italiano e di ridurlo a macchietta? E per giunta di rappresentarlo mentre va a puttane (e certo, sempre per quella mistificazione scolastica, Leopardi non potrebbe che essere corifeo di una sorta di platonismo romantico, privo di carnalità, desiderio, ecc.: appunto, ora sì macchietta; ma cos'è quel piacere su cui disquisisce con tanta veemenza se non piacere erotico?).

Gemma Adesso

Gemma Adesso

altLa camera di Delaporte è lo strumento musicale che accompagna le rincorse di Victor in una fuga tragica verso la meraviglia sgomenta del suono. Più che da vicende particolari (l'allontanamento dalla madre malata, l'avvicinamento a un padre estraneo ma famoso direttore d'orchestra, il gioco del calcio, l'innamoramento) Victor è percorso da una dimensione periferica, ventosa, di spazi aperti ricomposti in passaggi di sguardi e gesti interrotti, in riprese e rincorse che hanno il privilegio della penombra.

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

altTsili accenna passi di danza dentro il buco della storia: qualcosa è stato cancellato, dimenticato, qualcosa le è stato strappato e lei resta così, senza sfondo, senza direzione. È tutto qui, racchiuso in quella "danza sul nero" dei  titoli di testa: non si tratta nemmeno di un ballo ma di un inquieto "tarantolare" alla ricerca dello spazio su un piano senza piano alcuno. È un movimento verticale come un eterno scivolare, che è metafora della eterna condizione del popolo giudeo assegnato a una perpetua diaspora.

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

altTra le cose più belle – col Pasolini di Ferrara, of course – viste a questa mostra di Venezia, brutta e noiosa, c’è senza dubbio Zerrumplet herz (The council of birds) di Timm Kroger. Ed è sorprendente scoprire che, dopo Dancing with Maria di Ivan Gorgelet – documentario sulla figura carismatica di Maria Fux, una danzaterapeuta argentina che ci parla del ritmo, del movimento, del suono, dell’energia, dell’invisibile, e dunque, indirettamente, del cinema – anche quest’altro debutto folgorante arrivi da La settimana della critica.

Luca Romano, Michele Sardone

Luca Romano, Michele Sardone

Alla domanda di Max Brod se ci fosse speranza nel mondo, Kafka rispose che “sì, c’è speranza, infinita speranza. Ma non per noi”. Per chi c’è speranza quindi?





Matteo Marelli

Matteo Marelli

altSi può pensare di rappresentare la crudeltà sfuggendo il dottrinale massacro visivo (per cui, volendo mostrarsi, si cancella riducendosi a esibizione predeterminata di immagini violente)?
Sì.



Gemma Adesso

Gemma Adesso

Il cinema di Costanzo è connotato da un rigore raro a formare un’idea di spazio decomposto ed esatto nel quale i personaggi si muovono (o non si muovono) assorbendolo, diventando parte integrante di un sistema di forze che si diramano da un “quadro” centrale e invisibile.
Più che un punto di vista interno che incide e modifica il senso della composizione generale e ne orienta la morale, è nell’irruenza del contrasto tra interno ed esterno, nell’assenza cioè di un punto di vista specifico che possa dare un indirizzo alle opinioni; è nel disorientamento che segue al passaggio da una scena all’altra che progressivamente si (spro)fonda la visione.

Michele Sardone

Michele Sardone

Il cinema di Tsukamoto è stato sin dall’inizio un cinema di fusione: se in Tetsuo a fondersi erano uomo e macchina, in un grigiore metallico e umbratile, in Fires on the plain (remake dell’omonimo film in bianco e nero di Ichikawa) la fusione è tra la carne e giungla (resa non solo come opprimente groviglio di vegetazione pullulante, ma soprattutto sotto forma di intrico di forze, di pulsioni energetiche e decadimenti purulenti), nella fosforescenza del più spinto cromatismo.

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

«Così ho pensato di andare in fondo alla grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso» (Anna Maria Ortese, 2001.)
Le luci sono spente, gli occhi in attesa e, d'un tratto, la nebbia avvolge i corpi, qui, tra le sedute rosse della sala, li sullo schermo, dentro il viale che porta a Recanati. Una melodia da carillon segue i passi di un bambino, il sogno di un'infanzia trascorsa fatta di giochi di spade tra fratelli. La musica continua sospesa in un tempo dove gli occhi di un poeta aprivano lo sguardo, li, al di là del colle, al di là di ogni limite fisico a rimirar “l'eterno”, a “naufragar” col pensiero.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altRicucire lo strappo, o meglio la ferita, il taglio, colmare, cioè, quella distanza che tiene lontani, che separa: ricongiungersi. È il sogno utopico di un popolo fantasma, disperso, quello armeno, vittima di uno dei più gravi massacri che la Storia ricordi, anzi che non ricordi, considerato che ancor oggi sono poche le nazioni che riconoscono ufficialmente questo terribile genocidio perpetrato tra il 1915 e il 1916 dal governo dei «Giovani Turchi».

Michele Sardone

Michele Sardone

Maresco ha girato probabilmente il suo F for fake: come nel film di Welles, ad essere messa in questione è la supposta distinzione fra verità e finzione, fino alla conseguente trasvalutazione di valore tra ciò che è originale e la sua copia. Un fake è sicuramente Belluscone, un suono emesso dalla voce del popolo che lo idolatra, che lo ha fatto divenire immagine e simbolo di un sogno, divenuto poi sogno berlusconiano, a sua volta copia italiana dell’originale americano; un simbolo che diviene autonomo dal suo calco originario, un suo doppio, tanto che del Berlusconi vero, originale, poco ci interessa e ancor meno resta da dire, dato che di lui ormai tutto è già dato sapere.

Luigi Abiusi


altNella sezione Orizzonti, Heaven Knows What, dei fratelli Safdie, all’inizio fluttua lattescente, in amenza d’eroina, o forse steso in mezzo a un nevaio; e l’amplesso è vibrare d’elettronica, ipnotica, come oboi sintetici a scandire spirali che inghiottano, e minimog lanciati ad alta velocità dagli altoparlanti della Darsena, che ti tengono attaccato allo schermo, con gli occhi spalancati, tanto che penso vuoi vedere che vediamo il primo capolavoro della mostra? continuasse così, come un enorme, inquietante videoclip, sarebbe una pacchia: una specie di film di fantascienza, straniato, proprio dalla musica e dal dominio del bianco, fatto di cose elementari, realistiche; povere cose di un futuro, o di una realtà alternativa in cui regnano solo le gote bianche di Harley e gli occhi blu di Ilya. Ma col passare del tempo il film svela la sua natura (più) realistica, perdendo molto di quella estraniazione che straziava ed esaltava (così come quella musica così provvidenzialmente invasiva), ma mantenendo comunque un livello di rappresentazione degno, mentre la mdp dei Safdie sta addosso ai personaggi e ai loro deliri, vaniloqui, consunzioni di randagi (che sembrano richiamare il Van Sant di My Own Private Idaho), con picchi emotivi improvvisi, coincidenti con smarrimenti, perdite, vuoto vagare dentro la ruvidità degli spazi metropolitani.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altUna grande scatola nera, una bara, si muove tra le strade di un piccolo villaggio cinese ai piedi di una montagna, trasportata in lungo e in largo da un pugno di uomini che progressivamente, nel corso del film, dovranno ricredersi sull’identità del defunto. A chi appartiene il corpo carbonizzato all’interno dello scuro sarcofago? Si tratta della giovane Huan Huang, scomparsa ormai da quasi un giorno? O forse è di Chen Zili, che pure manca e il cui documento di riconoscimento è stato ritrovato a pochi passi dai resti del cadavere? Ma vi è davvero un cadavere in questa bara che a qualcuno sembra essere troppo leggera?

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

altAdam, figlio di immigrati irlandesi, si sarebbe dovuto stabilire, una volta cresciuto, nel mondo sicuro della fattoria di famiglia. Ma l’epidemia di afta epizootica del 2001 ha distrutto tutto. Dopo la catastrofe, la famiglia di Adam è implosa e il ragazzo è andato via di casa, trascorrendo gli anni successivi ai margini nomadi della società britannica, passando da un lavoro temporaneo all’altro e da un rapporto transitorio all’altro e andando alla deriva lontano dalla sua famiglia e dal suo passato. Quando il fratello minore Aiden lo contatta per annunciargli la nascita del suo primo figlio (Adam sta per diventare zio), oltre al messaggio gli dà un ultimatum: torna a casa ora o non tornare mai più. (dal sito della biennale)

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

altIl cortometraggio del 1961 L’amour existe di Maurice Pialat (presentato alla mostra del cinema in versione restaurata nella sezione "Venezia classici") scava nel paesaggio periferico francese, attracca sui margini delle ferrovie, dei borghi lontani, sui cappotti stanchi degli uomini che passano indistinti, come fiumi nella ruggine dei tram confondendosi nei giorni. Uno sguardo che si perde in un viaggio continuo, senza centro: dai palazzi alle villette fin dentro gli angoli del salotto.

Gemma Adesso

Gemma Adesso

La ricerca di “un posto” nel mondo nuovo è solo nel titolo del film del regista iraniano Nima Javidi: un posto, non importa dove, nel quale si resta o dal quale si fugge, in assenza di spazi aperti in cui respirare.
L’assenza d’aria che compone le prime scene di abiti liquefatti in un sottovuoto definitivo, si riempie di una colonna sonora fatta di squilli suonerie assillanti di cellulari mai spenti fastidiose videochiamate allarmanti citofoni. L’appartamento (quasi speculare ai corridoi labirintici del teatro mentale di Iñárritu, dove la necessità della ricerca diventava però volo immaginifico), sempre troppo affollato e dal quale sembra impossibile riuscire ad allontanarsi, diventa il luogo di un inesorabile e progressivo svuotamento di aspettative e di speranze generazionali soffocate in un sonno neonato (forse mai-nato); è allora che la partenza diventa fuga, i sogni sensi di colpa, le parole dovute confessioni impossibili.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

Che Ulrich Seidl fosse pittore d’agonie lo si era capito da tempo. E non tanto per la scelta dei soggetti coinvolti nella messinscena (comunque non per questo ininfluente) quanto per la loro messa in quadro. La componente figurativa del suo percorso filmografico raggiunge in Im Keller uno splendido fulgore che ci porta a leggere quest’ultimo lavoro più in termini pittorici che cinematografici.

Michele Sardone

Michele Sardone

altSe ogni favola ha in sé una prova da superare, She’s funny that way di Bogdanovich la pone all’inizio chiedendo di fingere di credere in se stessa; superata questa condizione preliminare, ci si lascia prendere dal gioco di classici meccanismi cinematografici, che trovano nella coincidenza il dispositivo capace di far funzionare tutto il congegno filmico a meraviglia, sempre più freneticamente, fino a dare l'impressione di farlo girare a vuoto.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

Nell’aria sonnolenta del primo giorno di mostra, in mostra già nella moquette rossa, a tratti ancora in allestimento sulle passerelle, gli scalini; nei tabernacoli che raccolgono la polvere del tempo, i fasti di vecchio velluto (drappi, saloni lucidi legati misteriosamente alla parola casinò e a uno scorcio di mare sciroccale, con anatre), anche le facezie di trina delle dive svolazzanti sugli attracchi, e, tra i cartelloni, le locandine, che raccolgono l’immagine di un festival che era ringiovanito grazie a Muller, tanto da diventare bambinesco, schizofrenico caleidoscopio di visioni, e ora sembra rattrappirsi, invecchiare nella carne purulenta della narrazione (ma neppure una bella narrazione, sfaccettata, inventiva: piuttosto una congerie di storie stanche, banali, come uno di quei ritornelli di Allievi in cui non si vede prospettiva, invenzione di spazi, se non quella di uno smottamento intestinale, improvviso); e in aria di deontologica detrazione di Iñárritu, artificioso, spesso tronfio si sa, Birdman delinea gli spazi tortuosi della mente (deteriore) di un attore di cinema passato a fare teatro dopo i successi del personaggio che interpretava, il supereroe Birdman, attraverso (l’illusione di) un unico piano-sequenza, niente affatto tendenzioso, e invece giustificato dalla conformazione stessa delle quinte di un teatro di Broadway, serraglio di cunicoli, camerini, depositi di vario teatrale ciarpame, con improvvise e fumide aperture sulle strade di New York. La cosa più interessante del film, oltre all’interpretazione di un beffardo (eppure tenero) Edward Norton, è il discorso metacinematografico (pure condotto icasticamente) e, come dire, di economia del cinema, perché a intellettualismi, elitarismi premessi da certa critica e certa cultura “alta”, Riggan Thomson risponde con la gioia, la libertà, la “volatile” follia del suo istinto (anche per plot carveriani) che celebrano film di puro, “ignorante” dinamismo, come Transformers e Godzilla.

Luca Romano

Luca Romano

alt«Se le lacrime vengono agli occhi, se possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini... Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva sarebbe niente meno che la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo»

Michele Sardone

Michele Sardone

altIl quasi ininterrotto piano sequenza di Birdman sembra ricalcare la più classica delle tradizionali regole teatrali, l’unità di azione, tempo e spazio nella tragedia. Ma già Angelopoulos e Tarkovskij avevano mostrato come in un unico piano sequenza potessero confluire e convivere tempi ed epoche diverse, accomunati dall’aver avuto lo stesso luogo d’azione, in riva al mare o in una dacia: il cinema scandisce i tempi e declina gli spazi in base al movimento (dello sguardo, nel caso del piano sequenza, anche quando resta immobile, basta attendere una variazione di luce per percepire il trascorrere di una notte in pochi secondi di visione) non secondo l’ordinaria cronologia diegetica.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

altDa Pietà Kim Ki-duk cerca di emendare il proprio gesto registico dall’artificio cifratorio non privo di derive estetizzanti che ha segnato il secondo corso della sua parabola cinematografica, quella, per intenderci, dei grandi riconoscimenti internazionali, cominciata con Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, una lunga stagione non priva di un certo compiaciuto calligrafismo.

Vanna Carlucci, Nicola Curzio

altÈ nel continuo palesarsi di un’ombra, nel suo espandersi attraverso gli spazi vuoti eppure quasi claustrofobici delle stanze e dei locali, della notte riversa sul cemento dei palazzi, dei corridoi deserti di un ospedale, che David cerca, con tenera inconsapevolezza, di uscire dal bozzolo buio della sua adolescenza.


Luigi Abiusi


altMontanha (nella Settimana Internazionale della Critica) di João Salaviza dimostra ulteriormente quanto il cinema portoghese, senza tante storie, riesca a essere espressivo, manipolando, anzi lasciandosi manipolare dalla luce, che assume uno spessore cubico; e dal suono impregnante di bisbigli, sibili, stridori lontani, la superficie porosa dell’immagine.

Gemma Adesso

altCome in una incisione ulteriore delle Carceri d'invenzione di Piranesi, il film di Bellocchio si sviluppa attraverso moltiplicazioni e sdoppiamenti che sfuggono (e sfuggendo paradossalmente lo affermano) un tempo specifico, sfasano lo spazio del piccolissimo-vasto mondo bobbiese e scompaiono nell'inconcepibile che abbaglia.


Michele Sardone

altIl selfie soddisfa due esigenze attuali: da una parte, si presenta come tentativo di risposta alla domanda «chissà come mi vedono gli altri?», domanda da cui traspare una certa insicurezza del soggetto e del suo sguardo, travolti entrambi da un flusso di immagini dal quale cercano di emergere per affermare il proprio esserci; e quindi, in seconda istanza, il selfie ci dà l’illusione che ogni istante della nostra esistenza sia degno di essere vissuto e immortalato, sortendo però l’effetto contrario: se ciascun momento è importante nella stessa maniera in cui lo è il successivo o il precedente, allora non lo è davvero nessuno. Il selfie si pone allora sia come ipotetica soggettiva di un fantasmatico altro che ci osserva (e forse ci giudica), sia come contributo involontario alla proliferazione dell’indistinto immaginale dal quale tentiamo di sottrarci.

Alberto Libera

altNon essere cattivo è destinato ad essere l'ultimo film di Claudio Caligari. Malato da tempo, l'autore si è spento prima ancora di apporre il sigillo del final cut alla propria opera.
Forse, nella storia del cinema italiano, Caligari - a dispetto dell'esigua filmografia - si può ben designare come uno dei pochi eredi del magistero pasoliniano. Non solo nelle intenzioni o nelle dichiarazioni programmatiche: il suo cinema racconta storie di borgatari ed emarginati (i drogati, transessuali, barboni e papponi di Amore tossico, oppure i rapinatori "proletari" de L'odore della notte) con un'intensità che sfugge il rischio della serigrafia.
Anche Non essere cattivo assume a modello il cinema dell'autore di Accattone, raccontando la storia di due tossicomani e spacciatori del litorale romano.

Vanna Carlucci

Un al di là e un al di qua, due tempi e spazi che ininterrottamente si avvinghiano l’uno sull’altro, nel cinema di Bellocchio.  Le porte si aprono, i corridoi vengono attraversati e siamo dentro; non sappiamo cosa abbiamo visto, chi, un fantasma, un vampiro, un morto, un vivo ma la presenza di questi personaggi quasi si preannunciano nella loro assenza, nel fatto stesso di non esistere affatto. Bobbio è il quadro sognante, “è tutto qui” il mondo in cui si annida la polvere del tempo, tempo che si concretizza sempre in immagini ben definite, riviventi nel sogno.

Gemma Adesso

alt

Un attimo prima di scomparire nel vuoto, il figlio sorride al padre. La vicenda della famiglia Puccio coinvolta nell’organizzazione di una serie di sequestri nell’Argentina degli anni ’80 è nel film di Trapero il pretesto per indagare la fallibilità dei rapporti, o meglio, i ripetuti tentativi di interrompere dei legami di asservimento. La Storia è la scena dalla quale si diramano altri sistemi di influenza che coinvolgono, in un processo di inarrestabile corruzione, il rapporto vittima-carnefice, padre-figlio, famiglia-Stato. Ogni specifico sistema è l’esempio di un servizio dovuto e reso ad un organismo panottico, in apparenza felicemente funzionante (i riferimenti al Kynodontas di Lanthimos sono evidenti) in cui il dettaglio imprevisto inceppa il piano, fa crollare l’organizzazione, affonda il contesto sicuro nel quale ricevere un ruolo.

Michele Sardone

Si rimane affascinati dal film di Guadagnino come lo si sarebbe dalla visione di una figura femminile che è stata per troppo tempo bella ma che si ostina a mantenere una sua aura da donna fatale, e a viverci dentro, a indossare abiti sgargianti e zirconi lucenti, incurante del tempo che passa e del sentore di morte, e che vede nella sua civetteria fintamente fatua un rifugio dall’evidenza della realtà delle cose.

Nicola Curzio

Un toro fosforescente corre in un’arena oscura. Due ombre a cavallo lo fiancheggiano, e in un attimo lui è a terra. Il tonfo della caduta è coperto dagli applausi del pubblico.






Matteo Marelli

altAmos Gitai, dopo The Arena of Murder, torna a fare i conti con l’assassinio di Rabin, episodio che segna la fine brutale dell’utopia, il progetto di pace tra Israele e Palestina. Del resto per lui l’atto di filmare ha sempre coinciso con l’essere al servizio di una memoria collettiva o col farsi eco di una catastrofe. La prospettiva adesso non è più quella dell’universo intimo e caotico, ma della coscienza collettiva.

Alberto Libera


«L'immagine filmica non è il mondo, né un'immagine specchio, ma il risultato di un lavoro di messa in scena che produce un simulacro (del) visibile.»

Partire da questa considerazione di Francesco Casetti per riflettere su un film di Frederick Wiseman, ovvero di uno tra i massimi documentaristi di ogni tempo, può sembrare un paradosso. Eppure, lo stesso autore ha sempre rifiutato la succitata qualifica, preferendo invece paragonarsi ad un romanziere dell'Ottocento. Addirittura, in un'intervista afferma: «mi considero semplicemente un regista che gira film drammatici basati su eventi reali.»

Michele Sardone

In occasione di un compleanno di Gropius, ognuno dei maestri del Bauhaus gli dedicò un disegno ispirato ad un’unica fotografia in bianco e nero, ritraente un grammofono appoggiato sul davanzale di una finestra e rivolto ad una piazza piena di gente in ascolto. Klee raffigurò una tromba di grammofono dalla quale veniva fuori una freccia rossa che puntava un solo grande orecchio posto in alto, unico referente in scena, sparite la piazza e la folla.

Matteo Marelli

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«Un medium sa quando assopirsi.
Lasciamolo dormire.»

È questo potente, ineludibile senso “della fine” che pervade Francofonia di Alekandr Sokurov, che è soprattutto progetto, lavorazione: un film en train de se faire; “un film in corso di realizzazione”, di cui non si vedrà la versione definitiva, ma solo frammenti, apparizioni, lacerti sparsi. È più cinema che non film. Un’elegiaca opera di montaggio che celebra la scomparsa di un certo modo di vedere, pensare, e interpretare il cinema (e la modalità specifica in cui “quel” cinema aveva configurato il mondo), capace, allo stesso, di sorprenderne la forza rigenerativa che lo sta facendo rinascere, diverso eppure in continuità con sé stesso.

Luigi Abiusi

altApoteosi di donne incinte come alto feticcio filmico, sessuale; corpo femminile che si fonde senza inibizioni, in piena liberazione, all’estraneo (il padre è assente), a cui aggrapparsi nel caos o nella dimenticanza (di orizzonti). Una è quella di Banat di Adriano Valerio (nella Settimana della critica), Clara posta sotto la luce di una stamberga di Banat appunto, in Romania, mentre torce il ventre sopra Ivo (ma la scena più bella, tra le più gioiose viste finora, è quella in cui lei canta Se t’amo t’amo di Rossana Fratello: il resto è fragile, forse verboso, non so…); l’altra, Geise, nel film di Gabriel Mascaro (Orizzonti), che s’accoppia con Iremar su un tavolo di una fabbrica di vestiario, in una penombra che però svela la realtà tanto carnea, proprio atomica, dell’amplesso, quanto, ad esempio, è anodino e dimenticabile quello tra Nia e Silos in Equals (in concorso) di Drake Doremus.

Vincenzo Martino

altDue anime s'incontrano nella notte: Ivo è in partenza per la Romania, un posto da agronomo che lo attende; Clara si è appena trasferita, in una settimana ha perso lavoro, fidanzato e cagnolina della sua padrona di casa.



Michele Sardone

Il tempo è un nodo. Lega un’idea con un’immagine, un’immagine a un suono, un suono con un ricordo. Ma il tempo, annodandosi su se stesso, mette in contatto in modo inatteso spire a prima vista incongruenti, un’idea con un’immagine emersa per chissà quale associazione, un’immagine con un sonoro posticcio, un rumore con un ricordo che non ci appartiene. Capita quindi di trovarsi immersi in un flusso di visioni che si sottraggono a qualsiasi tentativo di decodificare, di connettere e di legare.

Valentina Dell'Aquila

Valentina Dell'Aquila

alt«Uno dei più grandi misteri è il motivo che induce migliaia di persone a passare i loro fine settimana estivi in ex campi di concentramento guardando forni in un crematorio» (Loznitsa). Sintomo di un imperialismo che è guerra spirituale, il turista, privo di una reale consistenza corporea, è un fantasma ossessionato da rovine, in cerca di cultura, di spettacoli di una cultura: non è davvero lì, si muove attraverso astrazioni, defunte iconografie, raccogliendo immagini anziché esperienze, e la vacanza non è che una nuova miseria sulla miseria altrui (cfr. Bay).

Mariangela Sansone

Mariangela Sansone

Sprazzi di luce lacerano l’oscurità delle tenebre, una notte eterna, in cui il tempo è sospeso in un perenne presente, ferita da freddi bagliori, luminescenze si aprono come sguardi scrutanti su una realtà cupa e fredda in un non-luogo. Dai neri vinilici e compatti affiorano corpi ed oscure figure che si muovo lente, folate di vento ostacolano il loro incedere, tutto ristretto in un piano sequenza, profondo e obliquo, che riporta allo sguardo un’immagine inclinata strutturata come lo squarcio di una lama.

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

Dopo aver perso casa, lavoro e fidanzata in un solo giorno, un giovane tenta di ricominciare una nuova vita, ma i suoi piani vengono dirottati quando incontra una donna che condivide la sua abitudine più strana: mangiare i capelli. (dal sito della Settimana della critica)




Nicola Curzio

Nicola Curzio

alt«Io sono una pietra. Lo ripeto: una pietra. So che non potete capirmi; dovrei spiegarvi queste quattro parole una per una e a gruppi di due e di tre e poi tutte insieme: cosa voglio dire quando dico io, e quando dico essere, e pietra, e cosa vuol dire essere pietra, e una, una pietra… Forse in questo mondo di pietra non c’è un prima né un poi: il tempo delle pietre è concentrato nel nostro interno dove si addensano le ere. Neanche lo spazio che ci circonda conosce il tempo, per cui possiamo restare sospese lasciando che la forza di gravità si eserciti tra le nostre masse che si fronteggiano immobili. Ma anche noi nella nostra superficie scavata e scheggiata e rotta ci portiamo addosso una storia, tracce di eventi irrevocabili che non si situano in un quando e in un dove.» (Italo Calvino, Essere pietra)

Sergio Grandolfo

Sergio Grandolfo

altDall’illuminarsi del proiettore cinematografico, che volge il suo fascio di luce cigolante verso il centro dell’immagine, Spira Mirabilis appare un’opera di immagini che dialogano e scorrono libere, quanto una prominente emersione di suoni: è il deflagrare del tuono, nella grandezza del cielo, nella notte bruna; lo staccarsi rovinoso di un’enorme lastra di marmo, il fragoroso e frusciante cadere di lunghi alberi: un concerto dirompente che si leviga cavalcando lungo l’acqua immobile, immergendosi verticale nell’ascolto del suo respiro, nella profonda sonorità del silenzio.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

alt«Quando gli dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere». Avrebbe potuto sposare un uomo comune; fare la dattilografa; avere una vita modesta. È lei stessa a dirlo. Invece Jackie ha scelto di stare affianco a John F. Kennedy, colui che si impose nell’imaginario come un nuovo Re Artù che volle seduti alla sua Tavola Rotonda luminosi cavalieri e raffinati intellettuali capaci di “respingere i barbari oltre le mura del castello”.

Valentina Dell'Aquila

Valentina Dell'Aquila

Scriveva Jay Ruby: sarebbe proprio la maniera marginale di praticare e interpretare un certo tipo di cinema per così dire storico-documentaristico a contribuire alla disfatta dello stesso; maniera, probabilmente poco interessata alla stessa istanza che lo muove, fors’anche carente di teorie, di  poetiche oltre il dato… Nello stesso volume si citava l’assunto di Heider & Hermer secondo cui all’immagine sarebbe necessario integrare il mezzo della scrittura affinché questa si possa definire efficace strumento d’apprendimento.

Gemma Adesso e Michele Sardone

Gemma Adesso e Michele Sardone

223 frustate, 20 milioni di riyal, 1 anno di carcere: questa la pena inflitta dalla giustizia iraniana a Keywan Karimi per aver offeso la sacralità islamica con il suo documentario Writing on the City (2015), cha racconta trent’anni della storia dell’Iran attraverso i graffiti sui muri di Teheran, dalla rivoluzione islamica del 1979 alla rielezione di Ahmadinejad del 2009.

Luigi Abiusi


Dopo giornate di afa cisposa, e di escursioni termiche al limite della sopportazione, tra sale-frigo e l'esterno in totale balia del sole e della cappa vaporosa proveniente dal mare, e lì sul tardo pomeriggio, l'epifania dei bambini che spruzzano in una scena di cristallo, sospesa, per una strana inclinazione del sole, pestando le pozze salmastre a riva, e, per una volta, neppure l'ombra dei vecchi veneti, di quelli tutti azzimati che senti sbraitare sugli autobus, con il loro bieco fascio-dialetto, contro i giovani dalla pelle un po' più scura della loro, invece livida o di cartapecora, per il solo fatto di essersi seduti là dove loro sarebbero “padroni a casa loro”, un sedile, una panca, un semplice palo a cui aggrapparsi, ma in realtà per l'impossibilità, dopo tanti anni, di poterlo buttare al caapranzi1 non alla mummia consorte, ronfante in baldacchino di raso, ma alla badante in bella carne che sparecchia; ieri dopo il meraviglioso Monte di Naderi, fuori s'è scatenato la ridda di vento e piovasco.

Vanna Carlucci

Vanna Carlucci

«Muere lentamente / quien se transforma en esclavo del hábito, / repitiendo todos los días los mismos trayectos, / quien no cambia de marca, / no arriesga vestir un color nuevo / y no le habla a quien no conoce…»: versi che sono solo parte di una poesia letta da Manu, una dei cinque sopravvissuti di Los Nadie di Juan Sebastian Mesa, presentato all’interno della Settimana della Critica; lei sfoglia le pagine, recita parola per parola come un gesto di salvezza che le viene in soccorso, lei come gli altri, aspirante giocoliere - della vita e della morte - in bilico per le strade colombiane, quelle dove la speranza è da ricercarsi fuori dai propri confini e i giorni passano nel tentativo di  riempire il tempo che scorre senza pause, senza trovare pertugi, senza il lampo meravigliato degli occhi che si dilatano, vuoti nel consumo di alcool e fumo mentre ancora, lentamente si muore.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altDi che colore sono gli occhi di Amy Adams? Chi è al Lido di Venezia dovrebbe avere la risposta in tasca visto che l’attrice statunitense è l’indiscussa, mirabile, protagonista di due pellicole americane in gara per il Leone d’Oro. Il suo sguardo s’incrocia innanzitutto in Arrival di Denis Villeneuve, dove interpreta la dottoressa Louise Banks, una linguista affermata a cui è affidato il difficile compito di comunicare con alcune entità aliene misteriosamente comparse sulla Terra, prima che scoppi un’altra guerra dei mondi.

Gemma Adesso

Gemma Adesso


altI giorni sono quelli che si contano tra la fuga e l’inseguimento; la Francia è lo spazio atipico e notturno di un abbandono. 
Un uomo, prima di scomparire, illumina con la luce fioca di un cellulare il suo amante mentre dorme; al risveglio, il cellulare sarà lo strumento di una ricerca disperata attraverso una app di incontri al buio, tra sentieri sconosciuti.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

altFrançois s'en va-t-en guerre. Quella del 1914 – 18. Segue la strada tracciata da Lubitsch con L’uomo che ho ucciso, melodramma antimilitarista a sua volta ispirato all’omonimo lavoro teatrale di Maurice Rostand; Ozon coglie nel testo quelle insorgenze che gli permettono, pur nel rispetto della fonte, di far scorrere sottotraccia alcuni dei temi forti della sua poetica registica («In Frantz si ritrovano molte delle mie ossessioni. Ma il fatto di affrontarle in un’altra lingua, con attori differenti, in luoghi diversi dalla Francia, mi ha costretto a reinventarmi e spero che questo abbia dato nuova energia e una nuova dimensione a quei temi»).

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altPersa l’apertura di Chazelle, è Cianfrance la prima visione di Venezia73, ma troppo melò e stucchi e crinoline di dama, troppa ridondanza melica delle musiche per essere almeno interessante; alcuni gorgogliano il giorno dopo, prima del capolavoro di Wenders, gonfiandosi il petto di colombo per via della frase-tipo “scritto male”: come se c’entrasse davvero qualcosa scrivere, il compitare, con cose come il cinema, di fronte al quale non si può fare altro che equivocare i significati.

Luigi Abiusi e Matteo Marelli

Luigi Abiusi e Matteo Marelli

alt«Tutto sta per scomparire. Bisogna sbrigarsi se si vuole ancora vedere qualcosa». Su queste parole di Cézanne Wenders chiudeva nel 1983 il corto Letter from New York. Che il pittore francese sia amato termine di riferimento del regista tedesco è cosa nota, lo dimostrano, oltre all’interludio provenzale realizzato per Al di là delle nuvole di Antonioni, le parole dello stesso Wenders che a riguardo dichiarò: «Prima di lui c’era la pittura del Salon: illusione degli spazi profondi, prospettiva rinascimentale... Ogni cosa doveva avere un “aspetto reale”. Cézanne rompe con questo».

Pietro Masciullo


altNella New York Public Library come At Berkeley, nella National Gallery come nelle strade di Jackson Heights, tornando indietro e indietro, sino alla Northeast High School di Philadelphia o ai corridoi del Bridgewater State Hospital di Titicut follies… il filo rosso che unisce ogni singola inquadratura di Frederick Wiseman è quel raccordo (im)possibile da cercare tra lo schermo e la vita. I protagonisti dei film di Wiseman siamo noi: individui immersi nella collettività che creano l’istituzione di diritti e di doveri.

Michele Sardone


altCapita che alcun i film ritornino alla mente, in quello strano limbo tra memoria e sogno (e del resto, anche il sogno non si vive realmente, si ricorda soltanto) in cui le immagini persistono a prescindere dalla nostra volontà. Ad esempio, girando fra i padiglioni dell’Arsenale ci si imbatte in Grotta Profunda, Approfundita di Pauline Curnier Jardin, videoinstallazione (“a body for a film” recita la didascalia di presentazione di questo work in progress che dura da sei anni) che già nel suo allestimento è, con presuntuosa e tenera ingenuità, una reminiscenza della caverna platonica.

Luigi Abiusi


altNon ho resistito più di un’ora in Darsena per My Love di Kechiche (in concorso): è da un po’ che non sopporto più la stoppa, il ristagno cinematografico dentro i dialoghi serrati; forse è un mio problema, un desiderio di campi lunghi, silenzi, apnee d’opale. Resta il filmare ossessivo (splendido) dei culi, un inno alle natiche che tracimano dai pantaloncini; una certa sensibilità nello scegliere e filmare la bellezza femminile; poi una bellissima sequenza di ballo su musiche dell’Orchestre Nationale De Barbes, sempre fissa sui culi stipati in vestiti estivi.

Mariangela Sansone


alt«Il loro malessere cresceva al calar della sera…si sentivano distratti, sviati proprio al margine del sogno. In verità partivano per altri lidi: rotti all’esercizio che consiste nel proiettarsi fuori da sé»
(Jean Cocteau, I ragazzi terribili)



Vanna Carlucci


Una dossologia del vento che si trasforma in acqua, prima odore, poi sparizione. Drift non è un racconto e se lo è esso è solo l’inizio di una leggenda raccontata dentro i bordì di un cafè e di due donne - Josephine e Thereza - che ad un certo punto si separano e tutto ciò che accadrà dopo sarà solo l’inizio di un viaggio, attraversando l’oceano, annullando confini, limiti, parole. Drift è sguardo che conduce, ipnosi o movimento allucinato del mare che annienta, dissolve, si lascia attraversare.

Michele Sardone


La cura maniacale del dettaglio di alcuni registi è pari a quella per l’ordine tipica delle casalinghe: esse vedono la loro casa come un set in cui ogni cosa ha il suo posto, ogni collocazione ha un senso, e questo senso deve essere intellegibile attraverso la sua armonia. Una volta allestita la casa-set, tutto è pronto per la messa in scena dello spettacolo quotidiano (un drammone sentimentale, un massacro familiare, una commedia nera, poco importa), ma ecco che si palesa l’incubo del regista casalingo, ovvero che nulla vada secondo i piani: tanto lavoro, infinite cure e attenzioni, e poi magari qualcosa inizia a non andare per il verso giusto (piccole cose, come bruciare la colazione o fulminare una lampadina), dopo avvengono le prime liti, i dissapori, la tensione cresce e gli errori aumentano, immancabile arriva anche un incidente grave e, come accade secondo il classico effetto palla di neve, tutto va a rotoli nel peggiore dei deliri possibili e deflagra in un clamoroso disastro: non si salverà nulla, se non la voglia di tentare ancora.

Mariangela Sansone


«Sapere di essere, per quanto debolmente e in modo fallace, al di fuori di me, un tempo mi aveva commosso. Si diventa selvaggi, per forza. A volte c’è da chiedersi se siamo sul pianeta giusto. Anche le parole ci abbandonano, figuriamoci».
(Samuel Beckett, Lo sfrattato).

Matteo Marelli


alt«Los versos del olvido parla della necessità etica di ricordare il passato e resistere alla violenza dell’oblio come forma di riscatto personale. Una riflessione sulla politica della memoria». È lo stesso regista, Alireza Khatami, a indicare la rotta di un film che procede come un percorso di stazioni lungo la linea delle celle mortuarie di un remoto obitorio disperso tra “il nulla e l'addio”.

Luigi Abiusi


First Reformed di Paul Schrader (in concorso) resta tutt’ora, anche dopo aver visto stamattina Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin Mcnonagh (che è un gran film), la cosa migliore di questo festival e comunque uno dei film più belli degli ultimi anni. Un lirismo essenziale, esatto, fatto di corpi dolenti, ruvidi, che si aggrappano l’uno all’altro, si mettono uno sopra l’altro stando attenti a non sfregarsi, per non farsi più male, sormontati all’improvviso da uno scroscio di capelli profumati, da cui inizia un viaggio tra nebulose e costellazioni, fino a degradare poi alla terra, fanghiglia, miasmi. Randagi della vita, il reverendo Toller e Mary, stagliati con gli occhi sgranati nel freddo, bianco ecclesiale, che subito diventa l’America al tempo di Trump, concussa, bellicosa, defecante scorie sulla crosta terrestre.

Michele Sardone


Difficile stabilire, senza essere accusati di dispotismo moralista, il limite fra quel che può e non può essere visto o rappresentato. Il limite ha però lo scopo di garantire una distanza tra colui che guarda e l’oggetto della visione. Paravel e Castaing-Taylor decidono, nel loro Caniba, di porre la telecamera vicinissimo al volto del cannibale protagonista, raggiungendo il limite (e a volte superandolo) della possibilità della visione, in una sorta di effetto “eyes wide closer”: più si avvicina lo sguardo al soggetto più questo, superato il limite di messa a fuoco, tenderà a sparire e a liquefarsi in macchia, alone, evanescenza sullo schermo.

Massimo Causo


altPiù una presenza olografica che una figura oleografica, un corpo che forza la sua bidimensionalità nella sagomatura sfuggente del suo essere assente a se stesso. Don Diego de Zama risuona nel film di Lucrecia Martel come uno spettro visivo che staziona fuori luogo nel Paraguay del XVIII Secolo, marionetta di un potere coloniale che lo ha dimenticato lì, disperso nell’attesa di un ritorno a Buenos Aires che non arriverà mai. Assenza perfettamente coerente col cinema della Martel, interamente costruito sulla distanza che separa il tempo vissuto e lo spazio abitato dai suoi personaggi in una divaricazione fluida, acquatica, dell’essere dall’esserci.

Matteo Marelli


alt«Siamo in tempi d’emergenza» ci diceva tempo fa Gualtiero De Santi, «dunque serve anche dotarsi degli strumenti necessari, […] in senso intellettuale e culturale, ma anche di indispensabile militanza civile». La più incalzante delle urgenze è quella dei nuovi flussi migratori che le recenti scritture della catastrofe raccontano come se si trattasse di una cellula tumorale sull'orlo di metastizzare il cosiddetto primo mondo. È necessario dare voce allo scompenso, ma altrettanto indispensabile farlo riuscendo a smontare le strategie retoriche messe in atto dal terrorismo massmediatico.

Michele Sardone


altUna delle interpretazioni del termine “diavolo” (letteralmente “il calunniatore”) ne sottolinea la valenza divisiva: il diavolo (da dia-ballo) è colui che separa, che distingue. Nel paradiso terrestre, dove tutto si dava per vero, pone la possibilità del falso e insinua la sua calunnia: quel che vedi non è vero, se mangi del frutto dell’albero i tuoi occhi si apriranno per davvero (e ti vedrai per quell’essere fragile e nudo che sei).

Michele Sardone


altPrima scena: Lee Kang-sheng è seduto sul divano e presumibilmente – non si vede bene – si masturba, in presenza di una donna anziana; finito, aziona degli elettrodi che gli stimolano la schiena. Probabilmente non siamo altro che questo, noi spettatori di The Deserted, film in realtà virtuale di Tsai Ming-liang: siamo onanisti stimolati elettronicamente; oppure, aggiungendo una dimensione a specchio, ci riflettiamo nello sguardo assente della donna, che sembra vedere senza essere vista, come se Lee presentisse la presenza di lei, senza esserne pienamente cosciente.

Michele Sardone


C’è qualcosa di più difficile da filmare di due persone che parlano in una stanza? Forse no, soprattutto se il dialogo diventa un campo di battaglia, una continua tensione alla ricerca della parola non detta e non scritta perché impronunciabile e inesprimibile: è la parola ultima, oltre la quale non c’è neanche l’immagine, se non dissolta in una chiusura in nero.



Massimo Causo



cosmopolis-cronenberg_07La limousine bianca, che attraversa il corpo ribollente di New York, taglia un tragitto che è tutto mentale (la determinazione di un atto irrazionale – tagliarsi i capelli mentre tutto crolla), traccia un viaggio sino alla fine del mondo as we know it, ovvero alla fine del capitalismo, al termine del profitto e dell’ordine e all’inizio del conflitto e del disordine…

 

 

Lorenzo Esposito



bertolucciDimmi ragazzo solo dove vai/Perché tanto dolore?... Vorrei cantarvela, la versione Mogol di Space Oddity cantata in italiano dallo stesso Bowie, ma poi vi dovrei anche spiegare uno degli abbracci più belli della storia del cinema e raccontare come Bertolucci si libera e fa un film sulla liberazione, sulla svolta che tocca una volta tutte le vite (qui un fratello e una sorella), mettendosi e mettendoci per un attimo alle spalle tutto l’armamentario fiaccante del cinema italiano (soprattutto di quello che crede basti saper girare mirabolanti piani sequenza e dolly vertiginosi per fare un film), recuperando luce, amore, intensità, chiarezza di pensiero, incendiaria ambiguità, politica-poesia (smarrite entrambe), semplicemente dicendo: io per rivoluzionare la vita sono disposto a scendere sottoterra. Io e te di Bernardo Bertolucci, magnifico, picco di tutto il festival.

Giampiero Raganelli



Vous-nevez-encore-gall4«Tu non hai visto niente a Hiroshima. Niente.» Una delle frasi più famose della storia del cinema, l’incipit durasiano di Hiroshima mon amour. Dopo 53 anni Alain Resnais se ne esce con un’opera dal titolo Vous n'avez encore rien vu, “Voi non avete visto ancora niente”.




Giona A. Nazzaro



holy_motorsI cineasti veri dialogano sempre tra di loro. A Cannes quest'anno s'è prodotta la triangolazione Resnais-Carax-Bertolucci che dice moltissimo su ciò che resta di un'idea di cinema e di mondo e dunque di comunità. In Resnais un regista mette in scena la sua finta morte per richiamare alla vita gli interpreti che hanno lavorato un'intera vita per lui; in Carax un corpo palinsesto viaggia a bordo di una macchina-studio producendosi in un caleidoscopio di possibili miraggi di identità; in Bertolucci due ragazzi si separano dal mondo per crearne un altro.

Grazia Paganelli


resnaisImmaginiamo che un drammaturgo, prima di morire, decida di mettere in scena la sua ultima piéce utilizzando non solo gli attori, ma anche le parole, le situazioni, le storie raccontate in tutta la sua lunga carriera. Immaginiamo che il teatro dove verrà mostrata venga letteralmente trasfigurato in un luogo inclassificabile, inedito spazio della visione che è al contempo anche
rappresentazione. Il celebre scrittore Antoine d’Anthac, lascia agli attori che hanno nel tempo interpretato la sua “Eurydice” una lettera con le sue ultime volontà: riuniti in una casa dovranno vedere in video la messa in scena della stessa opera da parte di una compagnia di giovani attori. A loro il compito di giudicarne la nuova trasposizione, interamente ambientata in un vecchio capannone abbandonato.

Lorenzo Esposito


miikeÈ ancora giusto credere nella messa in quadro, diaframma espanso che non ti fa distinguere fra la fotografia e il cinema, fra l’angolo di un paesino francese e il deserto. Tutte le immagini diventano così un giornale intimo, dove il soggetto è a sua volta l’oggetto primario delle immagini. Una vita intera di cinema apolide, quella di Raymond Depardon, un altro Joris Ivens perduto nella luce dei suoi scatti, rivista attraverso out takes e scene smarrite o scartate: Journal de France

Grazia Paganelli


kiarostami1Dopo Amir Naderi con Cut, anche Abbas Kiarostami trova in Giappone una nuova, sorprendente svolta e, come Naderi, lo fa lievemente, senza apparenti straordinarie trasformazioni. Like Someone in Love è di fatto un film giapponese per produzione e cast, ma anche per l’essenzialità di uno sguardo che si fa impalpabile, fluido non-racconto tutto riflesso sui vetri o semplicemente lasciato intravedere attraverso la trasparenza ingannevole dei finestrini  di un’auto.

Giona A. Nazzaro


huppert-another-country

Una giovane donna pensa a un cortometraggio ispirato a una regista francese conosciuta durante un festival. E il film di Hong vola subito alto, perso olimpicamente in uno stato di leggerezza soave, fatto di nulla. Inquadrature precise, qualche zoom in avanti volutamente sporco e netti stacchi di montaggio. Rohmer è solo un ricordo, perché Hong ormai vive e filma in un ecosistema tutto suo, dove il mondo è fatto di sentieri interrotti che si sdoppiano senza mai offrire, però, una soluzione. Le soluzioni non esistono.

Lorenzo Esposito


Ral_RuizChe l’immagine sia un virus ce lo diceva di continuo William Burroughs (se poi del virus avviene il risveglio allora ci pensa Romero). La coltura, la diffusione e il sistema-virus in sé che resta dopo e oltre l’immagine. Difficile dire se per Brandon Cronenberg i film del padre abbiano lasciato l’immagine per farsi unicamente virus (forse il padre ha intuito qualcosa ed è di corsa tornato a Freud/Jung), ma certo in quel solco, come se fosse stato da sempre lì, si re-inietta, trovando una propria dimensione stupefacente, disincarnata, virusizzata appunto, mentre ancora fuori lecca il sangue che cola dal feticcio restante del corpo che fu. Si intitola Antiviral questo nuovo crime of the future.

Giona A. Nazzaro


ANTIVIRAL_DAY9_0323Per quanto ci riguarda, la vera riflessione sulla società dell’immagine è Antiviral di Brandon Cronenberg. Piuttosto che veloce sociologia, il rampollo Cronenberg, che si mostra degnissimo di cotanto padre, compone un saggio filosofico sulla natura virale dell’immagine.



Giampiero Raganelli


paradise_loveAncora un film canicolare per Ulrich Seidl, un ritorno a quel caldo torrido e soffocante che intorbidava la vita e i comportamenti dei personaggi del film che ha fatto conoscere il regista austriaco nel 2001. Nel raccontare di quattro attempate “tardone” austriache e del loro viaggio in Kenya, il regista trasferisce così in Africa la sua poetica ed estetica. Già il prologo del film, in Austria prima della partenza, ripropone quella stessa luminosità estiva, afosa, che in quel paese si registra solo pochi giorni all’anno. E il clima torrido è palpabile per tutto il film, reso da tanti elementi visivi come i vestiti impregnati di sudore.

Giona A. Nazzaro


dolan1jpgNon è un cineasta molto amato Xavier Dolan. Ma Laurence Anyways potrebbe agevolmente cambiare le cose. Cosa racconta il nuovo film del ragazzo prodigio canadese? Nient’altro che un abissale amore per il cinema. Il cinema che ti divora la vita. Il cinema che diventa la vita stessa. Dolan crede al miracolo del cinema. E non spreca una sola inquadratura, un solo taglio di montaggio, un solo attacco musicale. Per raccontare un amore folle, Dolan compone un film infinito e folle, colorato, pieno di musica, che assomiglia a un’invocazione a tutti gli Dei del cinema, della vita e della morte.

Lorenzo Esposito


laurenceCurioso che sia la ragazza-Tahrir di Nasrallah (Baad el mawkeaa), sia il protagonista anti-Pinochet di No del cileno Pablo Larraín siano due pubblicitari. L’arte rivoluzionaria dello spot? Non perfetto Pablo Larraín, che pure prova a inseguire il Ruiz antichissimo di Nessuno disse niente, ma intelligente per questa scelta di messa in costume (siamo nel 1988, l’anno del plebiscito con cui i cileni dissero qualcosa: NO a Pinochet) attraverso il supporto usato per le riprese che ricrea il mondo televisivo degli anni ottanta: la rivoluzione vista in vhs.

Grazia Paganelli


cannes-65-quinzaine-the-we-and-the-i-michel-gondry-00Inaugurazione in grande stile per la “Quinzaine des Réalisateurs” che ha inaugurato il suo programma con il nuovo film di Michel Gondry, The We and the I, girato completamente a New York su un autobus di linea che riporta a casa gli studenti di un liceo del Bronx nel loro ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive. Riflessione in movimento sul mondo adolescenziale che, però, si rivela essere un caleidoscopio di sguardi sovrapposti e in sequenza ad analizzare non solo le relazioni che esistono, seppur anch’esse in movimento, dei protagonisti, ma anche il loro stesso gesto di osservazione della realtà.

Lorenzo Esposito


dredo1C’è un hotel su un fiume dove una ragazza scopre che sua madre è un fantasma e a lungo si parla di confini e di acque pronte a inabissare un nuovo tsunami. Mekong Hotel, il nuovo Apitchapong Weerasethakul, lento disincanto, blandamente etereo, in attesa della fine.

Giuseppe Gariazzo

jarmusch2Ipnotico lo è sempre stato, il cinema di Jim Jarmusch. Only Lovers Left Alive (titolo magnifico) ne è la conferma preziosa. Un film che dice tutto di sé fin dalle inquadrature iniziali, che esiste e si definisce, e da lì si espande, nel doppio movimento circolare e ripetuto del disco che gira sul giradischi e della macchina da presa che circonda, dall’alto e poi sempre più da vicino, i corpi addormentati/svegli, lontani/vicini, degli amanti senza tempo e senza età (Tilda Swinton/Eve e Tom Hiddleston/Adam). Perché Only Lovers Left Alive è inondato dell’umorismo minimale che contraddistingue il lavoro del cineasta americano, qui dichiarato, com sublime tatto, soprattutto nella scelta dei nomi dei personaggi. Solo gli amanti restano vivi, solo loro sopravvivono nei secoli di fronte a un’umanità che sa solo, anche in questo caso ciclicamente, perpetuando i disastri già commessi, auto-distruggersi.

Grazia Paganelli

Grazia Paganelli

marion-cotillard-joaquin-phoenix-the-immigrant-james-grayGuai a pensare a The Immigrant come un film sugli immigrati europei in America. L’approccio di James Gray ad un tema tanto ricorrente nel cinema, é nuovo e al tempo stesso antico, lontano da tutti gli stereotipi possibili e vicino alla sensibilitá e alla esperienza privata del regista, che trasforma questa storia di sradicamenti e tradimenti continui in un melodramma fiammeggiante eppure cupo e violento.

Grazia Paganelli

Grazia Paganelli

diazLa vita e la morte. O meglio, il vivere e la sua opposizione. Norte, the End of History, il settimo film del filippino Lav Diaz (in concorso nella sezione Un certain regard) è un racconto semplice e al tempo stesso densissimo di umanità, nella messa in scena di un tempo piano e ipnotico e nella descrizione di personaggi che proprio con il tempo si confrontano in ogni istante.

Giuseppe Gariazzo

Giuseppe Gariazzo

Behind-the-Candelabra-tra-001Se la filmografia di Steven Soderbergh dovesse terminare, stando alle dichiarazioni del regista, con Behind the Candelabra, si chiuderebbe con un capolavoro, proprio a Cannes dove nel 1989 iniziò con un’altra opera sublime, Sesso, bugie e videotape. Con quell’esordio, Soderbergh a 26 anni vinse la Palma d’oro.

Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli


a touchIn Platform dieci anni di storia cinese sono rievocati in un luogo chiuso, il teatro, attraverso gli spettacoli che vi vengono rappresentati, in The World nello stesso spazio del parco tematico coesistono tantissimi luoghi di tutto il mondo, in I Wish I Knew la città di Shangai è il risultato dell'accostamento di immagini, anche di cinema, del suo presente e del suo passato.

 

Lorenzo Esposito

Lorenzo Esposito

inconu du lacFinalmente la messa in scena. Non la sceneggiatura, e non solo la buona ripresa. Ma lo spazio messo in scena alla ricerca dello spazio, e per mettere a nudo l’occhio. L’occhio, questo sconosciuto: L’inconnu du lac di Alain Guiraudie.


Grazia Paganelli

Grazia Paganelli

Bling RingUna storia vera che sembra un film a partire dai protagonisti e dall’ambiente in cui tutto si consuma: The Bling Ring, il film che Sofia Coppola ha portato al Festival di Cannes (aprendo la sezione Un certain regard) racconta la straordinaria avventura di un gruppo di adolescenti che in poco tempo ha messo a segno furti milionari nelle case dei divi di Hollywood. Arrestati grazie alla telecamere di sorveglianza, sono tornati alla ribalta della celebrità in seguito ad un’intervista pubblicata da Vanity Fair da cui anche il film prende il via.

Grazia Paganelli

Grazia Paganelli

Le-Passe-Past-Poster1Dopo quattro anni Ahmad torna a Parigi da Tehran per portare a termine le procedure formali del divorzio da sua moglie Marie. Una storia semplice e in qualche modo già nota per il primo film francese del regista iraniano Ashgar Farhadi Le passé, in competizione ufficiale al 66esimo Festival di Cannes e tra le opere più belle e inquiete viste fino ad ora. Come sempre accade nei suoi film, l’intreccio catalizza ogni attenzione e ogni sforzo: i personaggi e gli ambienti attorno a loro, il passato e il presente che li tiene uniti e li separa al tempo stesso. Ci si avvicina lentamente ad Ahmad e Marie, eppure si ha la sensazione di precipitare dentro le loro vite fin dall’inizio, sul volto della donna che aspetta dall’altra parte del vetro che l’uomo esca dall’aeroporto. Si parlano senza sentirsi e si ritrovano in auto, sotto la pioggia, nel travagliato viaggio di ritorno in città. Basta poco al regista iraniano di Una separazione per mettere in campo tutte le tensioni che saranno declinate via via, anche quelle non dette, ancora insospettabili, sepolte nelle scatole abbandonate in cantina o in messaggi mai letti o mai mandati.

Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

young-beautifulUna giovane ragazza prende il sole in topless, su una spiaggia. Si lascia accarezzare la pelle, liscia, dai raggi del sole. Un corpo conturbante, acerbo, catalizzatore di turbamenti e perversioni, come lo era Ludivine Sagnier in Swimming Pool. Ozon ce la mostra subito attraverso una soggettiva da cannocchiale, uno sguardo voyeuristico enunciativo di quello che sarà il film. E poco dopo si scopre che a spiare la ragazza, Isabelle, è il fratellino. Ancora il regista francese esplicita quel coacervo latente di istinti incestuosi, edipici, tensioni omosessuali che si annidano dietro il perbenismo della famiglia borghese.

Pietro Masciullo

Pietro Masciullo

altStrano oggetto filmico questo Sils Maria. Sfumato, sfuggente, informe, proprio come quelle nuvole impassibili in cui più volte scioglie il suo punto di vista. Olivier Assayas, cineasta tra i più consapevoli, ha bisogno periodicamente di tornare a riflettere su se stesso e sul cinema (Demonlover), sulle persone che lo animano (Irma Vep) o sulla scintilla nascosta che lo origina e può ancora giustificarlo (questo Sils Maria). L’attrice/star interpretata da Juliette Binoche è colta subito in viaggio, su un treno, nel più classico topos di movimento che il cinema ricordi. Ed è su quel treno che viene a sapere della morte del suo talent scout, un anziano regista svizzero che stava andando a trovare e che l’aveva fatta esordire diciottenne e inesperta. La morte del “regista” provoca un terremoto emotivo nella sua “musa”: un trauma, la messa in dubbio improvvisa del suo statuto d’attrice, artista, persona. Tutto molto “classico”, è vero.

Giona A. Nazzaro


xavier dolan mommy affiche 0Xavier Dolan o del piacere. Lo senti che a stare sul set lui gode. Un piacere così radicale non si trova facilmente. Dolan adora intossicarsi nelle materie vive del suo cinema. Lui, davvero, crea un altro mondo. Un universo pieno di correlati oggettivi. Robe da toccare, annusare, accarezzare nel corso della realizzazione del film. Perché si capisce che il suo piacere deriva dal fare, dal processo della realizzazione del film. Set: casa dell’altra vita. Ci piace immaginare Dolan come un visionario sarto che mette insieme la sua tela del mondo selezionando le stoffe più pregiate, permettendo di indossarle solo alle persone che ama o che soddisfino il suo sguardo. Il suo piacere degli occhi. Dice: Dolan ha solo il cinema alle sue spalle. Nient’altro.

Lorenzo Esposito


altEloise Godet, una delle due donne misteriose di Adieu au langage 3D di Jean-Luc Godard, ha una cicatrice che parte dalla narice destra e arriva fino al labbro. Mia Wasikowska, la protagonista novella Carrie di Maps to the Stars di David Cronenberg, ha sul collo e sulle braccia segni di bruciature risalenti a un incendio da lei stessa appiccato. I due uomini (o uno solo?) di Godard defeca(no) davanti a tutte e due le donne. Julianne Moore in Cronenberg defeca davanti a Mia Wasikowska. Poi ci sono due vampiri innamoratissimi ma per una volta spaiati: Kirtsen Stewart stupefacente in Sils Maria di Olivier Assayas e Robert Pattinson nuovamente (dopo Cosmopolis) con Cronenberg…

Giona A. Nazzaro


altFilmare il lavoro. Un’utopia, l’unica cosa che conta davvero per Daney. A modo suo, Assayas prova a fare un film “comunista”, non alla maniera di Straub, né tanto meno di Godard. No. Lui s’installa al centro del cinema. Prende due corpi d’attrici, e come in uno specchio bergmaniano, mette in scena un serrato dialogo ibseniano, e scava una vertigine invisibile, che si potrebbe persino confondere per un cinema di retroguardia.

Grazia Paganelli


altTorna a casa molte volte Lu Yanshi, professore e intellettuale evidentemente scomodo al potere, la cui vita felice è stata completamente travolta dall’avvento della rivoluzione culturale. Torna a casa dopo essere evaso. O almeno ci prova, ma la figlia Dandan, che aspira a diventare prima ballerina non può permettersi scandali e denuncia il padre e ostacola l’accoglienza della madre. Ritorna dieci anni dopo, quando, finalmente liberato, cerca il volto della moglie alla stazione. Non ci sarà, perché Feng Wanyu si è da tempo rifugiata in un mondo tutto suo e aspetta un uomo che non sa riconoscere.

Giona A. Nazzaro


altE quando ti fai il conto dei film che ti porti dentro, ti ritrovi sempre con i soliti nomi. Nomi che ovviamente consideri anche amici tuoi, ormai. Amici che ovviamente ti tocca difendere, cosa che capita sempre, ma non è mai stata così frequente come in questi anni, quando il parlare cinema sembra essere diventato una lingua perduta o morta.

Grazia Paganelli


altInizia e finisce con due proposte di matrimonio e due impiccagioni il secondo lungometraggio da regista di Tommy Lee Jones The Homesman ed è ambientato nel Nebraska inospitale del 1854. Lo attraversano un uomo e una donna, mal assortiti compagni di un viaggio nato per portare in salvo, nell’Est della civiltà, tre donne. Sono impazzite improvvisamente, disorientate dalla durezza di un territorio selvaggio e rigido. In realtà Mary Bee Cuddy parte sola, ma incontra George Briggs con un cappio al collo e lo salva. Vagabondo solitario con bisogno di soldi, aveva occupato una casa di altri e per questo era stato punito.

Pietro Masciullo


alt“Il western è il cinema americano per eccellenza” diceva anni fa qualcuno che ci sta tanto a cuore… un genere che continua miracolosamente a mutare pelle conservando gli stessi codici, continua ad adeguarsi alle epoche preservando i propri canoni estetici, continua il suo infinito e commovente racconto del Mito riflesso nel Cinema.

Grazia Paganelli


altFanno pensare alla rivoluzione islamica in Iran le immagini di Eau argentée, Syrie auto-portrait di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan, alle descrizioni in ricostruzione della violenza che si è consumata sulle strade delle città e nel cuore profondo dei suoi abitanti. Così le abbiamo immaginate, così le abbiamo viste nei film, così le abbiamo lette nei romanzi. Gli spari, la paura, la gente, il sangue. E il buio. Solo che questa volta verrebbe da dire “è tutto vero”.

Lorenzo Esposito


altL'infinita battaglia fra luce e oscurità e il dramma della parola che, mentre si affianca, resta muta. Il lavoro, proprio il restauro dell’immagine, che scopre quadri nel doppio fondo dei quadri, cornici fuori cornice. E i quadri vivono nonostante tutto (Straub neanche vorrebbe che li si vedesse), ci fissano anche guardando altrove, primi piani e punti di fuga che cercano umanità nelle lunghe file di turisti. Chi guarda chi? E cosa si trattiene dell’immagine? Cosa ci trattiene dal non rubarli! Ma poi loro si ammalano e altri di noi puliscono anno dopo anno alla ricerca della luce perduta. Tutto questo è il nuovo capolavoro di Frederick Wiseman National Gallery.

Grazia Paganelli


altLe atmosfere sono quelle di sempre, sospese, indefinibili, avvolte in una sorta di nebbia invisibile che, però, sembra trattenere il tempo. In Captives, il regista canadese Atom Egoyan riprende vecchie ossessioni e vecchi sguardi, ma li trasfigura in nuove dinamiche narrative, recupera il racconto come trama sfilacciata, e lo rende visibile nella frammentazione, o meglio, nella polverizzazione dei punti di vista e nei punti di osservazione. In questa storia di rapimenti, pedofilia, indagini, dolori e sensi di colpa, si segue un percorso tortuoso e virtuoso per arrivare al punto di partenza.

Pietro Masciullo


altUn’immagine porta sempre inscritta la traccia di un’emozione. Nascosta nei chiaroscuri, rivelata da un’imperfezione, celata da una falsa prospettiva che può rendere invisibile addirittura un elefante. Come in un paesaggio di J.M.W. Turner. È sempre oltre la fallace pretesa di “oggettività” che si nasconde il regno informe della vita, la tempesta emotiva, la voragine dei non detti: un’immagine, un quadro, cos’è in fondo se non uno specchio deformato di chi la produce/guarda? Ecco, il film che il vecchio Mike Leigh dedica agli ultimi anni del vecchio William Turner (il più celebrato pittore paesaggista inglese dell’Ottocento) è proprio il paziente e intimo svelamento di questa verità: la creazione di un’immagine oggettiva, la perfetta veduta, fa una terribile fatica a celare il mare in tempesta che si agita nelle sue pieghe. E allora la stessa immagine non può che tradire la sua ontologica natura impressionista e soggettiva, romantica e ambigua.

Giuseppe Gariazzo


Una gazzella attraversa l’inquadratura, corre, è in fuga da uomini che le sparano, per spaventarla, non ucciderla. Si apre in questo modo, senza preamboli, Timbuktu di Abderrahmane Sissako (primo film di un concorso che meglio di così non sarebbe potuto cominciare). Una bambina, sopravvissuta alla/e guerra/e evocata/e mostrata/e nel corso del film, corre, frontale, senza fiato, nell’inquadratura finale, fino a dissolvere nel nero che chiude quest’opera politica ancor più tale perché il discorso tematico e di denuncia affiora da una scrittura filmica poetica, da uno stile rigoroso e al tempo stesso libero, da un umorismo minimalista ma sferzante (affine per tratti a quello di Elia Suleiman), da una sintesi visiva che fa di ogni immagine una pluralità di immagini che producono senso, memoria di cinema e di un cinema pan-africano come da tempo era raro vedere.

Giuseppe Gariazzo

Giuseppe Gariazzo

altUn film di recinti nello spazio dell’immensa natura selvaggia islandese. Una contraddizione che esprime, espande restringendolo in una serie di micro-luoghi, l’isolamento, la fatica del vivere e del sopravvivere, la solitudine e l’incomunicabilità radicate nei corpi delle persone, le parole pronunciate con difficoltà, i silenzi e i gesti, i comportamenti che, ben più dei dialoghi e talvolta sconfinanti in un umorismo trattenuto, anch’esso recintato eppure folgorante, evidenziano antiche o recenti separazioni. Al tempo stesso, quell’isolamento è fonte di fierezza, di indelebile attaccamento a un ambiente respingente ma che non si ha la forza di abbandonare perché quei contadini, quei pastori anziani (a differenza dei giovani che, di fronte a un ennesimo ostacolo, decidono di trasferirsi), non potrebbero risiedere che lì, per loro impensabile adattarsi ai ritmi di una città. Reykjavík è lontana da quella valle dove uomini e animali condividono ogni istante di ogni giorno, fin dai tempi remoti.

Pietro Masciullo

Pietro Masciullo

Vita. Quando inizia (?) Mountains May Depart e vedi Zhao Tao ballare al ritmo di Go West, pensi subito a The World e alla sua travolgente voglia di “evadere” dal simulacro del mondo ricostruito in un parco divertimenti. Quando la vedi camminare poggiando lo sguardo sulle cose e portandosi dietro il cinema nella contingente “scoperta” (della memoria) dei luoghi, pensi subito ad I Wish I Knew e alle sue improvvise sopravvivenze di passato, oppure a Still Life e alla personale cartografia immaginaria dello spazio. Ancora, quando la scopri alle prese con due uomini innamorati nel paese di Fenyang, un operaio e un rampante uomo d’affari, pensi inevitabilmente a Platform e ai lenti moti interni della società cinese che oggi stanno cambiando il mondo.

Massimo Causo

Massimo Causo

altL’inversione di segno tra vita e morte incide ogni fotogramma di Kiyoshi Kurosawa, il suo è da sempre un cinema di transizioni a vista, mutazioni in atto che ormai travalicano la traccia horror degli inizi e si confondono in un filmare che discorre con la quotidianità drammatizzata della vita: un po’ romance un po’ Kammerspiel, sempre alle prese con figure in sottrazione di energia, con stati di esondazione esistenziale.

Giona A. Nazzaro

Giona A. Nazzaro

altUn viaggio nel tempo sotto mentite spoglie. S’inizia in macchina, nel traffico di Bucarest, città dall’altissimo tasso di traffico. Costi (Toma Cuzi) è ingoiato da un ingorgo, che resta fuori campo, assieme al figlio che è andato a prendere a scuola.




Grazia Paganelli

Grazia Paganelli

altLa storia di un amore impossibile ma inesauribile. Il nuovo film di Hou Hsiao-Hsien The Assassin ci porta nei territori enigmatici del sogno, dove la bellezza si confonde con la crudeltà, ma il silenzio è sempre sinonimo di riflessione e attesa.

 

 

Lorenzo Esposito

alt(As mil e uma noites – Volume 2, O desolado di Miguel Gomes. Desolato è prima di tutto il regista che non vi potrà accontentare con un seguito pedissequo, e mentre il canto di Sheherazade prosegue e si affastella, è pur sempre un canto di lotta, una nenia incantatrice ripetuta per la propria sopravvivenza, e allora la struttura falsa vieppiù se stessa, dilatandosi e insieme convergendo sul nucleo di un affresco sfrigolante malviventi – che in realtà sono gli ultimi partigiani –, processi a una società intera, mosaici di fantasmi che abitano i sogni delle periferie, e dove anche i cani devono affrontare il proprio doppio.)

Giona A. Nazzaro

altUn ragazzo di Fenyang, recita il titolo dello straordinario documentario di Walter Salles dedicato a Jia Zhang-ke. E proprio come in Xiao Wu e Platform, si riparte sempre da lì, da Fenyang. Come se non si potesse che tornare sempre a casa, pur nella consapevolezza (come non evocare Nick Ray?) che a casa non si può tornare mai.

Grazia Paganelli

Grazia Paganelli

altUn film femminile su una società matriarcale governata dagli uomini. Suona come un paradosso il tema attorno al quale ruota il film di Ida Panahandeh (e con lei molto cinema iraniano). Inserito nella selezione Un certain regard, Nahid è il primo lungometraggio di una regista coraggiosa (fino ad ora ha diretto cortometraggi, documentari e film per la televisione) che riflette sui contrasti di un paese dal tessuto sociale contraddittorio e pieno di storie da raccontare.

Pietro Masciullo

Pietro Masciullo

altSuperfici. Todd Haynes torna ossessivamente a “immaginare” gli anni ’50, il laboratorio (post)moderno che ha cullato la nostra epoca, configurando luoghi e tempi talmente iconizzati dalla cultura popolare da risultare superflua qualsivoglia operazione filologica che ne rintracci un lontano referente. Qui adatta un romanzo di Patricia Highsmith, chiama in causa due donne e la passione non-dicibile che le divora e (im)pone i loro corpi nelle gabbie intime/culturali che le separano. Haynes depura il suo stile e decuplica il lavoro sulla “forma”, si allontana ancora di più dal Paradiso e ci riconsegna un on the road apparentemente cristallizzato nel suo set. Carol diventa così un’esperienza estetica tutta potenziale perché occultata nelle pieghe di un’immagine diventata ormai l’unica “verità” su cui ragionare. Oggi.

Giona A. Nazzaro

Giona A. Nazzaro

altCome parli di un paese soffocato da una crisi finanziaria senza precedenti? Come rimetti all’ordine del giorno il cinema senza cadere negli schematismi ideologici che impediscono il farsi di qualsiasi discorso? E ancora, come smarcarsi rispetto all’idiozia dominante (e del cinema e della politica) restituendo al gesto filmico la sua libertà insurrezionale che in questi giorni di festival si rivela clamorosamente assente se si prescinde da Garrel, Desplechin, Apichatpong Weerasethakul?

Giuseppe Gariazzo

Giuseppe Gariazzo

altSu un’inquadratura sfocata, di un bosco dal quale avanza un uomo, raggiungendo il primo piano e la messa a fuoco della sua figura, si apre Saul Fia (“Il figlio di Saul”), lungometraggio d’esordio del trentottenne cineasta ungherese Nemes László. Un’inquadratura, come tutto il resto del film, collocata in un formato desueto, ristretto, con i bordi alonati che ricordano il 16 mm se non il Super 8, e il cinema muto. Non a caso quest’opera sorprendente di Nemes, assistente di Tarr Béla sui set di Prologue e L’uomo di Londra, è stata girata in pellicola: “era il solo mezzo per preservare un’instabilità nelle immagini”, afferma il regista. E l’instabilità fisica della pellicola – fino a ritrovarvi quello che il digitale ha bandito, ovvero la fragilità, la precarietà, e quei puntini luminosi che si insinuano tra un fotogramma e l’altro come germi che si nutrono di essa e che la nutrono – è, diventa un segno profondamente semantico, nel quale Nemes affonda il suo sguardo nel descrivere, come mai si era visto prima, la lunga morte, il suo lungo processo, in un campo di concentramento.

Massimo Causo

Massimo Causo

altNel controcampo della morte

Non c’è un’unica disposizione del filmare. Fare Cinema è declinare l’idea nella sostanza della materia, attraversare la fatica del dire: Gus Van Sant ne è consapevole da sempre, come ogni grande autore, e il cammino che intraprende in The Sea of Trees ne è la prova.


Lorenzo Esposito

Lorenzo Esposito

alt(Una certa tendenza del cinema contemporaneo: la struttura come specchietto per le allodole. L’apparenza di una scrittura che finge di svilupparsi su strati, i quali, invece di accumularsi, saltano tutti nel vuoto, inseguendosi come onde infrante sugli scogli. Così il film è nel risucchio, non ti aspetta, danza all’indietro e di lato, e mentre ti affanni, ormai quasi cieco, ti assesta pugnalate, ti deride, scherno e schermo delle immagini. E fa bene. The Lobster di Yorgos Lanthimos, svuotato d’amore, disseccato, crudelissimo, cinico, fa di questa non-planimetria la geografia fantastica di un cinema futuro. E ora piantatevi un coltello negli occhi).

Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

SERRADopo aver realizzato il film definitivo su Don Chisciotte, con Honor de cavallería, il folle cineasta catalano Albert Serra arriva a stendere una pietra tombale, facendo tabula rasa di tutto il cinema precedente e non solo, anche sul mito di Casanova e su quello di Dracula. Fa incontrare i due leggendari personaggi nel Nordeuropa, dove l'ormai anziano libertino si è ritirato.

Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

sangueUn'agenzia viaggi dalla saracinesca serrata, rifiuti, macerie, muri sbrecciati, palazzi contraffortati, transenne. Pippo Delbono torna a L'Aquila, città fantasma, città martoriata dal terremoto, mai ricostruita nonostante le promesse dei politici. L'Aquila, metafora dell'Italia, in cui Delbono aveva ambientato alcune sequenze del suo precedente lavoro, Amore carne, che precedevano il sisma, serve a incorniciare le situazioni dell'ultimo film del regista, Sangue.

Cecilia Ermini

Cecilia Ermini

cartolina01Une autre vie (concorso)

Con romanticissimo sprezzo del pericolo, Emmanuel Mouret compone un falso melodramma teorico di scene madri abortite e di amplessi ellittici. Il mèlo rivisitato con gli occhi del fotoromanzo.




Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

rosso cenereUn ritorno a “Stromboli”, inteso sia come l'isola sia come l'omonimo film di Rossellini del 1950. Una terra estrema, un territorio roccioso, impervio, dalla vegetazione rada, dove la parte antropizzata è il risultato dell'operosità secolare dei suoi abitanti (che nel film era evidente nella scena della tonnara), che sono riusciti a ritagliarsi una porzione vivibile, lottando e imparando a convivere con la forza imperiosa della natura.

Giampiero Raganelli

altSoia amara. Così potrebbe intitolarsi, parodiando il film di De Santis, l’opera seconda del regista sudcoreano Park Jungbum, anche attore nei suoi film. Protagonista di Alive è un lavoratore in un piccolo stabilimento, a conduzione famigliare, che produce pasta di soia. La sua ambizione è quella di raggiungere una quota di produzione minima pattuita in modo da affrancarsi da quella condizione e poter migrare nelle Filippine. Ma la fermentazione della soia va a male causa una muffa nera.

Nicola Curzio

vecchiali

«Obscurité, tu seras dorénavant pour moi la lumière» (André Gide)

Una dolce melodia riecheggia in riva al mare, unendosi al suono delle onde che s’infrangono silenziose contro un molo. È l’alba e la luce del sole fatica ancora a riscaldare l’aria gelida lasciata dalla notte. Un uomo, colto di spalle, immobile ai piedi della banchina, con lo sguardo rivolto verso la tavola d’acqua salata, fissa un punto indefinito. La sua mente e il suo cuore, però, sono altrove.

Giampiero Raganelli

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Per i pugili di Day of the Fight di Stanley Kubrick si trattava di una giornata di lavoro. Così è per cablatori, facchini, poliziotti, steward, giardinieri, tecnici, tifosi e calciatori nelle ore prima di una partita allo stadio di San Siro, come ritratti da Yuri Ancarani. Una routine stanca che si ripete a ogni incontro che assume la valenza di un rito. Una tipica giornata uggiosa milanese, sullo sfondo l’imponente sagoma dello stadio, con i suoi anelli. La nebbia si confonde con il grigio del cemento armato della grande costruzione. Il giallo degli impermeabili dei cablatori, le ombre sull’asfalto bagnato, e ancora il grigio delle transenne. E poi si passa al verde del prato e al giallo degli spalti.

Nicola Curzio

Nella pancia di un mostro metallico, tra le cupe cavità addominali del suo organismo vivo, nel suo stomaco a ingranaggi, nel suo intestino vibrante, tra membrane molli che si dilatano e si contraggono ritmicamente, tra succhi gastrici ed enzimi digestivi: è in un luogo del genere che si muove, rigida, la telecamera di J.P. Sniadecki, entrata da chissà quale orifizio, come quegli apparecchi sottili e invasivi che la nuova chirurgia medica utilizza per raggiungere le zone più remote del corpo umano. E lentamente, superando lamine e tessuti pulsanti, fra gli stridori del ferro e i gemiti dei macchinari, lo sguardo contratto della mdp torna in superficie e permette di scoprire l’identità di questo essere abnorme e ansimante: si tratta semplicemente di un treno, che sfreccia a tutta velocità nel continente cinese.

Nicola Curzio

altUna giungla incantata e pericolosa. Una donna con il marito. Un bambino e un’adolescente che sembrano fratello e sorella. Un’altra ragazza con due uomini provenienti da un’altra epoca. Colpi di fucile. Una fuga. Una cascata e una tempesta. Amore. Passione. Morte.



Nicola Curzio

ora

Presentato in “Signs of Life”, la nuova sezione del Festival che si propone d’indagare i territori di frontiera del cinema, tra nuove forme narrative e innovazione del linguaggio, l’ultimo film di Hervé Pierre-Gustave, in arte HPG, è un’opera molto personale, quasi un autentico filmino di famiglia, che però ha la capacità di non chiudersi nel suo universo domestico, ma di dialogare con chi guarda, rivelandosi essere «per prima cosa e soprattutto una commedia, realizzata con lo stile di un documentario», per usare le parole dello stesso regista/attore (tratte dall’intervista presente nel pressbook).

Nicola Curzio

La pellicola del brasiliano Gabriel Mascaro, presentata nel Concorso internazionale, curiosamente, comincia con un’immagine simile a una vista in un altro film in corsa per il Pardo d’Oro, il bellissimo Mula sa Kung Ano ang Noon di Lav Diaz. La mdp è fissa e inquadra la prua di un’imbarcazione che scivola lungo un canale, immergendosi in un paesaggio naturale che ospiterà l’intera vicenda e che assumerà, proprio come in Diaz, un ruolo fondamentale. Perché il mare e la terra, in Ventos de Agosto, sono i due poli entro cui si dimena quella forza invisibile e selvaggia, che attraversa e consuma l’immagine, e che il regista sogna di catturare: la forza trainante del vento.

Giampiero Raganelli

La narrazione nel cinema di Lav Diaz funziona secondo processi di condensazione lenta, raggrumandosi progressivamente attorno a quelli che via via si definiscono come i nodi narrativi principali, partendo da un caos indifferenziato di immagini, scene, tessere di un mosaico che piano piano prende forma. Cosa che comporta un ruolo attivo dello spettatore, chiamato a incasellare, mettere ordine, collegare, comprendere i fili narrativi.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

Dopo aver prestato il corpo a Jonathan Glazer (Under the Skin) e la voce a Spike Jonze (Her), Scarlett Johansson si immerge in un'altra produzione sci-fi, questa volta inquadrabile nel genere action, seppur vissuto alla maniera di Luc Besson, con una buona dose di umorismo da un lato, e di momenti esistenziali dall’altro. Lucy è l’ultima eroina del cineasta francese cui è affidato il compito di inaugurare la 67a edizione del Festival del Film di Locarno e di stregare il pubblico della Piazza Grande.

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