risultati per tag: Carlos Reygadas

  • Nuestro Tiempo è un film a rilascio lento, ritardato, congegno a riverbero, perchè teso tra la dimensione istintuale, animale - tori che si scornano, scorazzano nella prateria, sventrano asini, tra il ronzio delle mosche calate immancabilmente sulle interiora: una rude poesia, una ruvidità dell'immagine evocativa, che è di Reygadas sin da principio del suo cinema - e quella cerebrale, mentre dispiega le dinamiche di una coppia emancipata del nostro tempo.

    È per questo che anche volendolo istintivamente "estrommettere dai confini dell'io" (perchè magari non ti dà emozioni subitanee), poi ritorna, si sedimenta sulla scorta di un repertorio di immagini che prevedono l'estroflettersi del corpo, dell'amplesso, e d'altra parte di una fitta rete di dialoghi intorno al proprio essere nel mondo, tra poesia e praterie, e al proprio essere con l'altro nel mondo, nel tentativo di esorcizzarne la solitudine.

    È un discorso sul sesso, sull'amore (sfere distinte che però possono toccarsi), sul desiderio intrinsecamente legato per Reygadas alla pratica del guardare le cose, evocarle, da parte del poeta, e prima di tutto il corpo dell'amata, desiderata, metterlo in una posizione tale che attraverso gli occhi, attraverso il controllo cupido e incantato degli occhi, se ne possa godere, cioè quel tentativo prometeico di mettere tutto a fuoco, sotto la luce disvelante della macchina da presa, dello sguardo che si nutre di forme, di coreografie, di luce: Post Tenebras Lux.

    Ha ragione Beatrice Fiorentino quando parla di tensione verso il fuori-campo, verso tutto ciò che sfugge alla vigilanza (indice della brama di possesso) da parte di Juan-Reygadas. È quell'ossessione di vedere ciò che costitutivamente è fuori dal campo visivo, è nascosto dalle tenebre; che si tratti degli interstizi di un'automobile in corsa su uno sterrato (e allora la macchina da presa ne riprende da sotto le ruote il percorso nel fango, i sobbalzi, il protendersi verso il tripudio di ciottoli, o, posta sotto il cofano, le vibrazioni del motore, di pistoni e ingranaggi) o di sua moglie, della sua psicologia, che del resto aveva provato a sottrarsi a questa sorveglianza, nascondendo i messaggi ricevuti sul suo telefono da parte dell'amante.

    Il poeta Juan ha l'ossessione, la bramosia di portare tutto alla luce, di appropriarsi del visibile, quel potenziale di forme che sibila al di là del visto e che sa, suona, odora di desiderio; e allora si affida al sorvolo della macchina da presa, vede, immerso nella luce silenziosa, l'eterna schermaglia tra maschi e femmine (chiudendo su tori in lotta): prima tra i bambini asserragliati in un gommone, mentre giocano a spingersi in acqua, poi tra gli adolescenti sdraiati a riva che scoprono lo scarto provocato dal desiderio, tra sessualità e affettività, quando suo figlio mentre fornica con la fidanzata di un suo amico dichiarandosene innamorato, si sente rispondere "facciamolo" e poi impaziente "mettimelo dentro", sullo sfondo arioso, sibilante di una luce livida.

  • Nuestro Tiempo è un film a rilascio lento, ritardato, congegno a riverbero, perchè teso tra la dimensione istintuale, animale - tori che si scornano, scorazzano nella prateria, sventrano asini, tra il ronzio delle mosche calate immancabilmente sulle interiora: una rude poesia, una ruvidità dell'immagine evocativa, che è di Reygadas sin da principio del suo cinema - e quella cerebrale, mentre dispiega le dinamiche di una coppia emancipata del nostro tempo.

  • Se penso a film che rappresentino il nostro tempo, concitato, tecnocratico, eppure ancora ferino; e che lo mimino attraverso il linguaggio, il gesto cinematografico, mi viene in mente un'opera prima lucente, sonante, passata per il Festival di Locarno qualche tempo fa, Verão Danado del portoghese Pedro Cabeleira – estasi techno-pasoliniana di un'ultima estate, con l'ariosità e la trasparenza dell'immagine in trepidazione, respirazione, e cioè la sacralità della presenza, della movenza anche disperata, alla fine della giovinezza – e Nuestro Tiempo di Carlos Reygadas, in concorso a Venezia lo scorso anno, attualizzazione di un'educazione sentimentale (che alla fine non è che il dis-adattamento dell'individuo alla vita) già abbozzata in Post Tenebras Lux, tra conflitti, impossibilità comunicative, perversioni propedeutiche all'eternazione dell'amore.

  • Un’idea del cinema. Un’idea che ne rivela il suo strano e affascinante destino: poter essere la forma che più di ogni altra lavora la materialità del mondo, e poterlo fare attraverso la quasi totale immaterialità delle sue immagini, digitale o analogica che sia. Questa stranezza è, lo si sa bene, la potenza stessa della settima arte, che spazza via ogni prevalenza del narrativo rispetto alla potenza del mondo, che fa piazza pulita di ogni simbolismo davanti alla flagranza del reale che si dispiega di fronte alla macchina da presa. Ambivalenza costruttiva, feconda. I corpi, il mondo sono lì davanti ai miei occhi, eppure essi al tempo stesso non sono più.

  • Se l'etimo della parola Tempo è collegato, come sembra, al dividere, al separare, il "nostro" tempo si identifica forse per una divisione, per una separazione, generate da un eccesso di con-divisione. Esistono molte specificità per cui il tempo in cui viviamo possiamo chiamarlo specificamente “nostro”, ma per Carlos Reygadas la più importante è quella che ce lo rende estraneo, o comunque davvero poco “nostro”.

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