Shamoto, padre premuroso e preoccupato, nonchè gestore di un piccolo negozio di pesci tropicali, si troverà coinvolto in una serie di omicidi messi in atto da un suo, ben più realizzato, collega, Murata, il quale lo ha avvicinato con uno stratagemma, cioè mediante Mitsuko, la figlia di Shamoto, sorpresa a rubare in un supermercato e da Murata "salvata". Da lì in poi Shamoto si ritroverà in un vortice di orrore che muterà irreversibilmente la sua psicologia e la sua idea di morale.
Sion Sono che qui in Italia conosciamo in misura del clamore che giunge ogni volta da Berlino o Venezia o Cannes, circa durate fiume, fiumi di sangue o, sin dall’inizio della sua fama, fiumane suicide (mentre al prossimo Festival di Torino ce ne sarà una retrospettiva completa), è innanzitutto poeta, e così, mediante la declamazione dei suoi versi, si era ritratto nel suo primo I am Sion Sono (1985) ed era stato incluso quale personaggio importante della cultura postmoderna giapponese, dai due registi francesi Jackie Bastide e Jean-Jacques Beineix nel loro documentario Otaku del 1994. Sarà per questa (nativa) prerogativa allo spazio polimorfo della scrittura, e per la fiducia ripostavi pur dentro lo scenario di dissipazione e frammentazione del contemporaneo, a far sì che Sono sperimenti molteplici vie espressive, spesso ossimoriche, dentro l'estesa e imprevedibile vena creativa. Proprio lo scorrere continuo del fiume (preso nelle sue variazioni semantiche) per niente secondario in Cold Fish (2010) lì dove diventa ricettacolo di corpi dissipati, frammentati appunto, e l'enorme quantità della sostanza (sbalzante o residuale) che lo forma e che diversifica il testo (nel tempo), costituiscono l’ampio terreno su cui si dispiega uno stilema che gli è proprio, cioè il pastiche.
Come in Love exposure (2008), questa eterogenea testura – alimentata dalla (con)fusione dei referenti ora barocchi o grottesco-surrealistici ora iperrealisti o lirici ecc. – consente in quest’ultimo Cold Fish, lo squadernamento completo e incisivo dei temi fondamentali della poetica di Sono, tale che avrebbe meritato di essere esposta nel concorso principale della scorsa Mostra di Venezia (anziché nella sezione parallela di “Orizzonti”), tanto più che lì v’era un ben più misero “pasticcio” (a tratti insipido) firmato da De la Iglesia.
Così si ritrovano i residui, le scorie disturbanti di Suicide circle (2002) nell’ostensione del metabolismo adolescenziale in balia dello scintillio mediatico, rappresentato lì, è bene notarlo, dal reticolo-internet, additato addirittura più criticamente e ancora prima del recente The Social network1. Ricompare lo sfaldamento, registrato sul turgore organico dei corpi (superfici su cui si esercita il cinema postmoderno), dei membri, della famiglia (Noriko's Dinner Table, 2005), luogo dell’incomprensione e della violenza, della vanificazione dell’ultimo sedimento d’umano, condotta da quello spinto rigore/irregimentazione e dalla risaputa pressione della società giapponese. Così come emerge la divertita e inquietante iconoclastia di Love exposure, sulla scorta del ricorso di croci, alabastrine madonne, candele, cappelle, in cui non solo non si prega, ma si consumano squartamenti alla John McNaughton.
L’intreccio di rappresentazioni, dal comico dimenarsi burattinesco di Murata, alla lucidissima riflessione sociologica riguardo la figura di donna giapponese dimessa e repressa ispirata dalla matrigna (nel senso di una ripresa dell'iconografia a partire almeno da Mizoguchi); allo splatter più cruento (e ironico); fino al ritmo pop dettato dalle movenze disinvolte di adolescenti in gonnellini; sgranano una dinamica schizofrenica in cui corpo (devastato e ridotto a manichino monco) e sesso (negato o istericamente profuso) sono i cardini di una vicenda e di una filosofia solida, nonchè i termini della verifica di un'alienazione raggelata. Dove, dietro la prima impronta ludica, la subitanea consumabilità del derma-cinema-postmoderno, del seno-spettacolo (quello tracimante della matrigna, o delle commesse discinte del negozio di pesci), si nasconde – per emergere violentemente alla fine – l'impietosa requisitoria, da parte del regista umanista (e del poeta in regime di luziana orfanità umanistica), del corpo-capitale, della pratica di svuotamento psicofisico dell'umano, di meccanizzazione e mortificazione della smodatezza o della sterilità erotica, in uno scenario, il contemporaneo, dominato dall'attrito di arti monchi-merce in assenza di idee corpose. Penso a Klossowski.
Note
1 In effetti mi sembra che il film di Fincher si concentri più sui meccanismi abumani della nuova finanza, che sulle aporie dei ritrovi telematici. Su questo film cfr. lo speciale presente su “Filmcritica” n. 611/612.
Titolo: Tsumetai nettaigyo
Anno: 2010
Altri titoli: Cold Fish
Durata: 144
Origine: GIAPPONE
Colore: C
Genere: THRILLER
Produzione: SUSHI TYPHOON(NIKKATSU), STAIRWAY
Regia: Sion Sono
Attori: Denden; Mitsuru Fukikoshi; Megumi Kagurazaka; Hikari Kajiwara; Asuka Kurosawa; Tetsu Watanabe.
Sceneggiatura: Sion Sono; Yoshiki Takahashi
Fotografia: Shinya Kimura
Musiche: Tomohide Harada
Montaggio: Junichi Itô
Scenografia: Takashi Matsuzuka
Costumi: Satoe Araki
Reperibilità
http://www.youtube.com/watch?v=HmQPIBNPFBE