lc2Lone Man è un killer solitario che si muove tra Madrid e l’Andalusia con lo scopo di portare a termine una missione non ben precisata. Il suo viaggio è scandito da gesti che si ripetono, da luoghi che ritornano ossessivamente e dagli incontri con i suoi contatti con i quali si scambia delle scatole di fiammiferi dalle quali estrae un biglietto con un codice cifrato che poi ingoia.

 

 

 

 

«È dunque essenziale alla cosa e al mondo
di presentarsi come «aperti» [...], di
prometterci sempre «qualcos’altro da vedere»
(Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia delle percezione)

Road movie come falso movimento, è questo The limits of Control di Jim Jarmusch. Lone Man si muove, in continuazione, e senza apparente direzione, attraverso ipnotici spazi dilatati che sembrano infiniti. Anche quando si trova in un ambiente chiuso, non si percepisce quali siano i confini di questo luogo, la luce li dissolve e li annulla.
Lone Man è un killer solitario, un samouraï melvilliano, che segue un inflessibile codice comportamentale per l’esecuzione precisa dei suoi lavori. Non ha un nome, esattamente come gli altri personaggi che incontrerà anch’essi definiti dal loro ruolo o da una loro caratteristica. Il protagonista di questo film conserva alcuni dei tratti tipicamente jarmuschiani: è un uomo solitario, schivo, di poche parole, auto-emarginatosi dal mondo. Tuttavia ciò che lo differenzia dai suoi precedenti è che questi erano in fuga "dalle regole", in un certo senso anarchici (Stranger than Paradise e Daunbailò), oppure in fuga dalla loro assenza (Dead Man) mentre Lone Man, come Ghost Dog, fa delle regole il motivo fondamentale della sua vita. Le sue parole sono imperscrutabili. Il linguaggio del suo corpo è impenetrabile; ogni movimento è trattenuto, compresso (anche quando si distende al fianco di sinuose nudità femminili, non le tocca, «niente sesso quando sono in servizio…» racconta), il significato delle sue azioni, come quello degli esercizi di thai-chi che esegue con disciplina ogni mattina, è precluso. Lone Man è un non-personaggio; si atomizza, sprofonda nella struttura del film. «Non si possono […] formulare opzioni sul suo conto, non si può provare per lui nessun tipo di sentimento: si assiste semplicemente al gioco delle sue apparizioni, sparizioni» (Vanoye 1998, p. 57). Incontra persone.

Queste gli sottopongono temi esistenziali, gli impartiscono come istruzioni pillole di saggezza. Conversazioni criptiche, solenni, il cui senso può variare da orecchio a orecchio. Ci si aspetta che queste sentenze fungano da indizi verso l'incontro successivo, che però non è altro che una variatio del precedente. Jarmusch non rinuncia alla sua peculiare cifra stilistica nel presentare una descrizione di ambienti e personaggi basata sul tratteggio e sulla stilizzazione, anzi in questo caso il grado di astrazione raggiunto risulta direttamente proporzionale alla cerebralità dell’enunciato.
The Limits of Control è un film che si basa sull’iterazione esasperata di gesti e di situazioni, su quadri di assoluta e anti-dinamica fissità emotiva, ovviamente sui silenzi, dove alla fine il tutto diventa ipnotico, diventa un gioco di attese, una vera e propria fenomenologia dell’assenza. Il regista ordisce la complessa trama di un universo simbolico attraversato da una fitta rete di rimandi non solamente (meta)cinematografici e decostruisce contemporaneamente i codici del thriller e del road movie elaborando un tipo di linguaggio che fa leva sulle situazioni piuttosto che sull’azione pura, dove il gesto diviene metonimicamente l’ellisse dell’azione drammatica. Jarmusch non racconta mai esplicitamente i motivi per cui il killer è in azione, quali sono le colpe delle sue vittime, chi sono i curiosi personaggi che incontra lungo la sua strada. Si determina così un orizzonte di non-senso, dove vivono, in un’erranza senza fine, soggetti metropolitani deboli, declinanti, sradicati, che trovano nel nomadismo la cifra costitutiva del loro esistere. Soggetti, in definitiva, postumani, «senza nome, senza famiglia, senza qualità, senza ego né io» (Deleuze 1971, p. 150).

La narrazione è volutamente dispersa ed enigmatica, ma The Limits of Control  non è un film vuoto, bensì  svuotato. È un film-rebus, il più teorico e formalista di Jarmusch, è un film sulla percezione e sulla persistenza di immagini e suoni, onde luminose e onde sonore; un’esperienza audio-visiva di devastante e delirante bellezza. Un film altamente cerebrale, scevro di gravità emotiva o eccitazione viscerale, che chiede allo spettatore di godersi il puro momento cinematografico.
Ma il gioco, l’inconsistenza, la debolezza non si traducono in insignificanza. Indicano, piuttosto, uno svincolarsi dalla rappresentazione, uno svanire nell’irrappresentabile, uno sfuggire alla tirannia soffocante del senso. «Evidenziano, precisamente, un rifiuto delle nozioni forti, alludono alla desostanzializzazione del soggetto, chiamano in causa il processo di dereferenzializzazione del reale» (Tone 2010, p.25). Il film produce un andamento ellittico fatto di sospensioni, inabissamenti e si attesta su una traiettoria onirico-allucinatoria che anziché guidare lo sguardo dello spettatore, sembra disorientarlo di continuo su zone lacunose, azioni inconcluse e in fase di stallo: anche gli spazi, privi di scopo e di punti di riferimento, sembrano costruiti appositamente per confondere, generare incertezza, confusione. Quello messo in scena in The Limits of Control è un mondo ridotto a mera superficie pellicolare, «dove l’immagine ripete se stessa perdendo il suo referente, il soggetto si dissocia, si fa portatore di una cifra allucinata dell’esistere» (Tone 2010, p.19). L’immagine che domina non appare mai come immediatezza, presenza pura, ma sempre come reduplicazione, moltiplicazione. Nel film c’è predominanza di superfici riflettenti, lo stesso Lone Man entra ed esce di scena come immagine riflessa e in più dialoghi emerge il tema della simulacrità: una prima volta è Blonde a dire sibillinamente: «Niente è vero. Ogni cosa è immaginata», mentre poi sarà Mexican ad affrontare direttamente la questione affermando: « Per me a volte i riflessi sono molto più reali della cosa riflessa».

In The Limits of Control si registra una progressiva smaterializzazione del reale, della verosimiglianza dell’immagine filmica, e un’affermazione di simulacrità, da intendersi, nell’accezione datagli da Baudrillard, come forma illusoria che ha in se stessa il proprio principio e la propria fine, un’immagine che sorge sull’assenza dell’origine e che ha soppiantato la realtà, in quanto il suo esistere dipende esclusivamente dalla categoria della ripetizione. Le immagini riflesse, come sostiene Paolo Bertetto, evidenziano «il carattere artificiale, fittizio dell’immagine filmica, il suo essere un prodotto illusivo […], evocano indirettamente la sua struttura di simulacro» (Bertetto 2007, pp. 136-137). Nella sequenza finale l’immagine speculare di Lone Man è potenziata da una sua moltiplicazione esponenziale in altri specchi. È la visione di una visione di una visione, che rimbalza. È un’inquadratura caratterizzata da un fortissimo coefficiente di illusione e che sembra intenzionalmente sottolineare l’illusività del cinema. Cancellata la differenza tra produzione e riproduzione, tra originale e derivato, tra processi primari e secondari, tutti gli atti di esperienza del protagonista risultano, infatti, inevitabilmente inseriti nella sfera della ripetizione pura, dove è assente ogni possibile termine ultimo. È cinema che riflette su se stesso, che ha consapevolezza di essere  forma d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
I limiti di controllo evocati dal titolo sono quelli che dev’essersi dato lo stesso Jarmusch, una sorta di termine ultimo sul processo di frammentazione della narrazione e di decentramento e dislocazione dei personaggi oltre il quale può esserci soltanto una struttura anulare, fatta di spazi, tempi, figure, corpi, e immagini che si piegano su se stessi disegnando quadri che debordano il vedere. Una messa in abisso di senso e rappresentazione che estenua l’occhio e la mente mescolando le carte di continuo, avvoltolando i sensi e non concedendo appiglio alcuno. Oltre sembrerebbe esserci soltanto la deriva più estrema e delirante della visione impazzita, ovvero Inland Empire.



Bibliografia:


Vanoye F. (1998): La sceneggiatura. Forme, dispositivi, modelli, Lindau, Torino

Deleuze G. (1971), Differenza e ripetizione, Bologna, Il Mulino

Tone P. G. (2010), USA 1980-1989. Cinema d’autore ed estetica della tardamodernità in Cassini E (a cura di), La superficie e l’abisso. Percorsi culturali e politici nel cinema americano degli anni Ottanta, ARACNE editrice, Roma

Baudrillard J. (1979), Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano

Bertetto P. (2007), Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Studi Bompiani, Milano

 

 


 

 

Titolo: The Limits of Control
Anno: 2009
Durata: 116
Origine: SPAGNA, USA, GIAPPONE
Colore: C
Genere: DRAMMATICO, THRILLER
Produzione: ENTERTAINMENT FARM, POINTBLANK FILMS

Regia: Jim  Jarmusch     

Attori: Isaach  de Bankolé (Solo); Alex  Descas (Creolo); Jean-François  Stévenin (Francese); Bill  Murray (Americano); Hiam  Abbass (Autista); Gael  García Bernal (Messicano); John  Hurt (Chitarra); Youki  Kudoh (Molecola); Tilda  Swinton (Bionda); Paz  de la Huerta (Nuda); Luis  Tosar (Violino)
Soggetto: Jim  Jarmusch     
Sceneggiatura: Jim  Jarmusch     
Fotografia: Christopher  Doyle     
Musiche: Boris        
Montaggio: Jay  Rabinowitz     
Scenografia: Eugenio  Caballero     
Costumi: Bina  Daigeler     
Effetti: Pau  Costa; Raúl  Romanillos; Eric J.  Robertson

 
Reperibilità

 

http://www.youtube.com/watch?v=XPFRaCnkVzE

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