timthumb.phpIl giorno successivo all’attribuzione del Palmarès a The Tree of Life di T. Malick, sulle pagine di cronaca di «la Repubblica» C. Maltese raccontava e commentava a caldo: «Continua invece e andrà avanti chissà per quanto il dibattito della critica, divisa tra entusiasti e stroncatori al limite dell’insulto. Fra i secondi, molti ideologi dell'ateismo, che trovano intollerabile e reazionaria la fede mistica di Malick. Ed è un po’ avvilente stare a discutere ancora nel 2011 se un cattolico può amare Buñuel e un ateo può adorare Bresson, se a un sincero [democratico] è consentito ammirare il filonazista Céline o se è giusto separare le parole di Lars von Trier dal suo cinema, magari per decidere che non piacciono entrambi. A parte questo, se c'è uno che può convincere un non credente dell'esistenza di Dio, nel mio caso vorrei che fosse Terrence Malick» (23-5-2011).


La critica dunque si è divisa. E dei suoi paradossali orientamenti due esempi è forse utile indicare fra ciò che è stato significativamente scritto da contrapposti punti di osservazione. Il primo riguarda il senso del film, rinvenuto, dalla verve micidiale della curatrice per «Il foglio» della rubrica “Cinema. Spettatori per una settimana”, in «un gigantesco spot che reclamizza la creazione, con i suoi ralenti al posto giusto, i dinosauri, il meteorite che li distrugge, le cascate, i canyon, le meduse, i vulcani, le nuvole, i girasoli, i pesci martello, il vento tra le fronde» (21-5-2011). Per Mariarosa Mancuso, se non fosse “insopportabile” il film sarebbe “bellissimo”, come finisce per credere anche il critico di «Nice Matin» che lei medesima segnala: se non fosse «stretto tra lo spot liricheggiante e il finale new age dove tutti si abbracciano nel deserto di sale», mentre «l'intera storia dell’universo – pare – abbia perpetrato la disgrazia», la morte (proprio per annegamento?) del figlio preferito di una famiglia tipica della middle class texana degli anni Cinquanta (il padre: metafora della natura, la madre: metafora della grazia, il figlio sopravvissuto: incunabolo della ribellione).


Al contrario – il secondo esempio – con l’articolo che Alessandro Baricco ha dedicato alla recente fatica di Malick nel «Venerdì» ancora di «Repubblica», emerge un’opposta, e condivisibile, visione delle cose: nella tutt’altro che miope valutazione, per il film, di «un modo di tenere alta l’asticella dell’immaginazione, del coraggio o, semplicemente, della bellezza» (20-5-2011). In questo contesto, così Baricco centra l’obiettivo: «Film anomalo e largamente indefinibile», dove la vita stessa, quella quasi perfetta di una famigliola americana, appare un «mistero» e la storia degli O’Brien è «riflessione sul nascere e sul morire», è «cifra del tutto», dalla creazione a noi, alle nostre diverse passioni ed esperienze e al futuro perfino agghiacciante dopo di noi (Sean Penn tra i grattacieli del postmoderno). Il visionario Malick avvita, in una «sua grammatica e in una lingua sua, un cinema che non ci sarebbe se non ci fosse lui»: senza mimetismi pseudorealistici dell’obiettivo (campi-controcampi, campi lunghi-campi stretti); senza limiti d’azione, e dove «si usa il montaggio per sfasciare» con il vagabondare quasi divino – a strappi improvvisi e dolcissimi – della macchina da presa, dove si finge perfino la luce naturale.


Ha ragione qualcuno ad affermare che chi, in questi nostri stessi giorni, si prova a sfogliare le prime pagine di Libertà di J. Franzen, già si trova, anche nella letteratura, su questa stessa lunghezza d’onda di acuto realismo e miracolo visionario: è l’America di oggi, ancora capace – in virtù di fascinosi parametri formali e calzantissimi contenuti – di parlarci con forza dei novissima e anche oltre. Con The Tree of Life ci si imbatte, allora, proprio in questo universo semantico, che è inesplorato e appunto, al tempo stesso, indefinibile, imperfetto, anomalo, straripante, inevitabile. Probabilmente la teodicea – attraverso i lamenti di Giobbe – non è soltanto roba da teologi: il cinema, come la letteratura è, con Malick, il filo sottile che permette la sostenibile conoscenza che, alla fine, corre tra scienza e vita.

Una sintesi esemplare di alcune tipiche reazioni della critica si ritrovano, peraltro, anche nella “radiografia” di «Duellanti». Procedendo da un’avvertita nota metodologica sulle sofferenze cosmo(a)goniche della parabola di Malick (M. Toscano), vi è, nel fascicolo della rivista di cinema di luglio 2011 (n. 71) una lettura del film che contrappone il suo manierismo al netto realismo dei fratelli Dardenne (A. Pezzotta, Il manierista di fronte al sublime); e, di contro, una lettura di approfondimento, tra l’altro, del delicato tema dello stile new age (R. Menarini, La natura del cinema) che collabora a rendere centrale il fattore-spiritualità nel cinema di Malick, non senza l’ausilio dell’acuta intuizione teologica dell'aldilà come contemporaneità della trascendenza, nel sogno dell’architetto O’Brien (Penn). Già per Toscano la grandezza di The Tree of Life trova la sua «apoteosi di autorialità» nel manifestare il conflitto costitutivo della realtà e nel saper catturare i «frammenti cosmogonici» come aperture all’“imponderabile” piuttosto che alla linearità materialistica delle cose.

Di qui – da questa realizzata intensità spirituale attraverso i singoli fotogrammi – le potenzialità di fruizione analogica dell'opera: che ha il suo punto di forza nella rappresentazione del mondo che si rigenera attraverso un «atto di misericordia» piuttosto che nella logica evoluzionistica kubrickiana (Menarini). Del resto – è sempre Menarini – «tra l’altro, chi ha accusato Malick di avere un atteggiamento new age finge di non sapere che quel movimento culturale, banalizzato per le sue espressioni più bizzarre e caricaturali, possiede punte di grande interesse, ispirate appunto al panteismo classico» (ivi, p. 9). Allora, una sorta di prospettiva laicamente umanistica, in cui si collocherebbe il nichilismo naturalista di Malick, può combaciare – pur accogliendo attraverso l’infanzia e la maturità l’«impronta del divino» - con lo struggente nichilismo leopardiano: «Ed è proprio nell'impari sfida tra il volere e l’accadere che l’autore traccia la desolazione delle cose di questo mondo e, insieme, il costante stupore che sorprende ogni qualvolta la vita mostra i propri margini, i suoi precipizi, le soglie ultime» (F. Marineo, Dentro e oltre, p. 13).

Magari in Malick, in qualche modo, latita, come in Leopardi, la rappresentazione dell'intensità del piacere che è sottesa dalla valenza tragica con cui la guerra dell'eros finalizza la sessualità nella natura non-angelica della creatura umana (suggestivamente allusa, invece, dalla vicenda romantica estrema de I giorni del cielo, e per la lezione, altrimenti, del Kubrick di Eyes Wide Shut).

A sua volta, sulle pagine del «Corriere della Sera» (30 maggio 2011: Natura e fede secondo il film come una tragedia greca), il filosofo Emanuele Severino cerca di penetrare nell’enigma metafisico del regista americano: da un lato escludendo, nella fede di Malick, l’indifferenza della natura secondo l'ottica senza Dio di Nietzsche e soprattutto di Leopardi; e, dall’altro, ricavando però, proprio dallo Zibaldone, l’idea della festa come immagine di vita e di morte sublimata nei miti – del teatro greco per le polis di ieri, del cinema presso le masse di oggi – dalla fusione di rito e arte. La fede del cristianesimo riaperta dalla porta del «Solo un Dio ci può salvare» (l’Heidegger studiato e tradotto da Malick) non si identifica però, per Severino, con quella della tradizione religiosa americana (formalmente edificante, catechistico-puritana, tendenzialmente bigotta), sicché il film «parlerebbe un linguaggio che per un verso è d’avanguardia ed enigmatico, per l’altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell'amore e a una natura splendida e sovrana».

La fede di The Tree of Life è invece, forse, frutto di più – alla maniera del cristianesimo europeo – di «lotta continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato». Negli americani, «il dramma, più che risolto è tenuto via dallo sguardo» (e la riconciliazione nell'amore di tutti e nella resurrezione ne è la conferma), mentre per il cristianesimo – per Malick – «la bellezza della natura non è l’indifferenza, incapace di rendere sopportabile il dolore, ma è la forza con cui l’immagine festiva, facendo sentire la morte, dà vita all’“anima”». Appunto, per Severino: l’immagine festiva del film come opera d'arte è comunque (provvisoriamente... plurimillenario) atto salvifico.