tree_of_life_jessica_chastainSaggio tratto da "Filmcritica" n. 615/616

«Colui che si spande come una sorgente, viene conosciuto dalla
conoscenza» (Rainer Maria Rilke)

È qualcosa di incommensurabile che si espande da The Tree of Life, sono punti di sguardo senza misura che si intercalano e trapassano in un montaggio che sembra avvenire senza mediazioni nel cosmo visivo e nella mente, la nostra? Quella di una famiglia archetipica (paterno, materno, filiale intrecciati in un incessante incesto visuale, come se le immagini originassero prima della loro origine e quindi travalicassero il prima e il dopo, l'interno e l'esterno.

La valle dell'eden dove l'albero del sapere e quello della vita, il piacere e la conoscenza, il dolore e la memoria, si intrecciano. È il movimento del filmare di Malick qualcosa di incommensurabile che interseca il prima e il dopo, l'essere da qualche parte sempre in rapporto con un succedersi e un precedere, un essere dove si era e un sarà dove si è stati (il senso della domanda di Giobbe, ripetuta e ri-evocata nel film, nelle pieghe di un tale movimento di sguardo: «Dov'eri?»). Dove siamo? Dove siamo stati ? Dove tu eri, dove io sono ? Dove il transpersonale che ci appare? Dov'eri? Quando, in un punto incollocabile nel tempo, tutto aveva origine, e l'origine continua sempre in un altro punto che sta cominciando, e che, con una presa dolce e insieme potente, ogni volta ci accompagna e ci sospinge di spalle, sospinge e rende luogo e grazia ai corpi che nel film agiscono, vanno, camminano, così come procede il soffio del pensiero. Dove e quando siamo, e avviene l'essere?: è la domanda, appunto interminabile e incollocabile, la domanda del Libro di Giobbe che Malick ripete “differentemente” ogni volta ricominciando da un punto di sguardo appunto incommensurabile.

Ciò che viene messo in visione da Malick è l'inglobante, al di là della distinzione tra soggetto e oggetto, come viene ricordato a un certo punto, punto diffratto, del film. Se c'è una mistica nel film è una mistica negativa che attiene a un dio oscuro, piuttosto a una demonicità nel senso antico ed etimologico del daimon, che è uno scintillare, un apparire della luce come pulviscolo da un buio paradossalmente multiforme e multicolore. Malick scopre nell'atto stesso del filmare un «tratto demonico della chiaroveggenza» che solca l'esperienza del moderno, laddove gli dèi perduti baluginano, come diceva Benjamin, nelle parvenze minime, intime: un profumo, la piega di un abito, la piccola ferita sulla pianta di un piede, questi  «sono lenti cangianti attraverso le quali balena il lumen supranaturale» (Walter Benjamin).

La danza cosmica degli elementi, allora nel film, disegna un paesaggio oltrenaturale e nello stesso tempo immanente, il sentimento psichico della natura, onnipresente in Malick, questa volta è come se si autoltrepassasse in una esperienza certo “trascendentale” (nel senso della tradizione “moderna” del trascendentalismo americano di Emerson e Whitman cui Malick evidentemente si richiama) ma anche immediatamente corporale, un corpo incommensurabile, frammentato, ma anche una carne empatica che palpita con le immagini e traspone la natura in un flusso materializzante il pensiero. Allora il gonfiarsi delle nuvole di fuoco, l'accavallarsi di sorgenti acquoree, che si sfaldano in una terra che viene trasportata dal vento cosmico, corporalizza la plurivocità che si espande in campo e fuori campo contemporaneamente, diffonde in un continuum di luce-fuoco la demonicità delle immagini che si formano e si diffrangono in un luogo fisico e mentale e la rende in tal modo un divenire dinamico. «Il campo semantico di daio converge intorno al tema del fuoco e della fiamma: dais, -idos significa torcia, fiaccola [...] mentre il senso abituale di daio è accendere, bruciare o anche divampare» (Cuniberto 2010, p. 88).

Si tratta quindi del turbinìo, del disseminarsi, di una epifania illocalizzabile in cui ciò che distribuisce sullo schermo, la potenza seminale, è anche la parte, il luogo che viene distribuito, che si sforma e riforma sotto i nostri occhi e nelle nostre menti e se, da un lato, è genesi cosmica, dall'altro, appare come con-formarsi di retaggio familiare, di nominazione delle cose e insieme di dolorosa separazione da esse, insorgere dell'esperienza e, immediatamente, della memoria e insieme della perdita della stessa, il tutto convergente e rifluente in una risacca sabbiosa, in un pelago delle anime-corpi, dei soffi-parole. Cosmogonia nominale che fa e disfa il mondo e che fa resistere il resto, fa luccicare il residuale, quei resti sono immagini e daimones, sono voci e gesti che toccano letteralmente lo schermo, si allontanano in una profondità di campo inaudita e si formano nel fondo della mente che si fa sensibilità aptica: una iperdimensionalità che “fa fuori” l'interno e l'esterno: l'unico modo di filmare dopo Avatar o dopo gli spazi-corpi ruotanti sul nastro di Moebius atmosferico di Zemeckis.

Malick riattinge al carattere memoriale del cinema enucleandone l'insistenza nomade (come aveva fatto Ruiz nel suo Proust) e ripercorrendone filogeneticamente il transito stellare (come aveva fatto Kubrick in 2001), e il valore politico delle sue immagini sta in questa intransigente volontà di preservare e curare il residuo, il resto memoriale si fa genesi coscienziale e genesi di una comunità avveniente e im-possibile, e così sono i daimones immaginali che ci abitano e ci sospingono, che diventano destinali, rigenerazione singolare di un sentire collettivo. «L'aspetto propriamente residuale incomincia ad apparire quando il daimon, il frammento lampeggiante, ha perso per così dire la memoria del nome da cui proviene. Succede allora che la sfera demonica-l'intermedio [...] continua sì a balenare, ma come spaesata, ridotta a una condizione nomade di anima in pena» (ivi, p. 89).

È la situazione terrena, mondana, di un purgatorio visivo, in cui le immagini stesse ripercorrono il fuoco del pensiero bruciando in un turbine rigenerante e purificatore, la
dinamica di questa fluttuazione purgante e assolutamente immanente è il trasfondersi nel film di Malick del pensiero nel corpo metamorfico dell'apparire e del formarsi di una natura che si fa e si disfa immanentemente, e ciò come natura proteica del guardare-essere guardati, filmare-essere filmati, pensare-essere pensati: «Io penso significa l'attività stessa che pensa, che si muove, cresce e mi risveglia, che si sviluppa come edera in un luogo male assegnabile che sembra avere qualche collocazione in me. [...] quando penso l'albero, sono l'albero, quando penso il fiume, sono il fiume, quando penso il numero, sono da parte a parte e dai piedi alla testa, numero [...] Proteo. Penso dunque sono Nessuno (Serres 1988, p. 108).

L'invocazione del film, attraverso il fiato femminile è, fin dall'inizio, a un momento, nullificante sofferente e beante, di grazia, ma nel senso riferito alla sua ombra, a un sentire del corpo e del lavoro che immette la grazia nella linfa e nel suo cammino lungo l'albero vitale della terra, lungo una filogenesi, così come intendeva la grazia Simone Weil, in un senso necessariamente ateo e al contempo religioso, in cui essenziale è il nostro andare, con l'universo, dall'altra parte dello schermo, che è come scendere e risalire le fibre dei nostri corpi che accendono di immagini la mente: «Questo mondo è la porta d'entrata. È una barriera. E, al tempo stesso, è il passaggio.[...] Che l'anima dell'uomo prenda per corpo tutto l'universo. [...] L'anima si trasferisce, fuor del suo proprio corpo, in altro. Si trasporti dunque in tutto l'universo. [...] Mutar rapporto fra sé e il mondo come, mediante la pratica dell'apprendista, l'operaio muta il rapporto fra sé e l'arnese. Ferita: il mestiere rientra nel corpo. Che ogni sofferenza faccia rientrare l'universo nel nostro corpo. [...] Che l'universo sia, in relazione al mio corpo, quel che è il bastone del cieco in relazione alla sua mano.[...] Debbo amare di esser nulla. [...] Amare con la parte dell'anima che è situata dall'altra parte dello schermo» (Weil 1985).

In The Tree of Life avviene un sorvolo del soggetto, la mediazione “eccedente” e “mancante” tra occhio e sguardo avviene con lo schermo e con ciò che dello schermo, con lo schermo, fa macchia, uno spazio ottico che non è più attraversabile ma è una opacità che si trasforma e ci trasporta, in qualche modo ci traspone, affondandoci in qualcosa che dentro di noi ci proietta fuori, e ci attraversa, piuttosto che estroflettere e attraversare lo schermo per porci in una condizione di attraversamento del paesaggio che fuoriesce dallo schermo, in tal senso la tridimensionalità si introflette e si piega in una “quarta dimensione”, una quadrimensionalità che materializza il paesaggio interiore come presa e punto di schisi tra occhio e sguardo nel momento stesso in cui si proietta fuori non venendoci incontro ma trasportandoci a un incontro nella dimensione dell'ulteriore, che è quella della luce. Come scrive Lacan: «Qui c'è qualcosa che fa intervenire quello che è eliso nella relazione geometrale-la profondità di campo, con tutto ciò che essa presenta di ambiguo, di variabile, di assolutamente non padroneggiato da me. È piuttosto lei che mi prende, che mi sollecita in ogni momento e che fa del paesaggio qualcos'altro rispetto a una prospettiva, qualcos'altro rispetto a ciò che ho chiamato quadro» (2003, p. 95).

È il film stesso che si incarna sullo-nello schermo, e che ci riprende. Malick riesce a farci fare questa esperienza proprio con un espandersi-montarsi della luce elementale in quanto “daimonicità”: «In ciò che si presenta a me come spazio della luce, ciò che è dello sguardo è sempre un certo gioco tra luce e opacità. È sempre un luccichio [...] è sempre ciò che mi trattiene, in ogni punto, nell'essere schermo, nel far apparire la luce come scintillante, che lo deborda. [...] E io, se sono qualcosa nel quadro, è anche nella forma dello schermo che prima ho chiamato macchia» (Ibidem).

Il film si apre e si chiude, o meglio si schiude e si riapre, nel luccichìo di una forma spiralica, similmente a una cifra di infinito che mentre si ripiega verso il centro si espande ed evolve verso il circostante. È il miraggio speculare che si introflette proprio mentre si piega nell'emanazione esterna, attorcigliandosi, voltandosi proprio nel punto in cui si ama in te qualcosa più di te, e questo debordare, e mancare alla presa, scivolare alle spalle dell'oggetto-a come voce e come sguardo è una incidenza di movimento che ci trasferisce, è l'amore di transfert, che ha, per Lacan, una forma simile al moto infinito, quella cifra che ruota intorno a un otto, come a una doppia onda che si frange, e nel ri-frangersi genera un terzo punto di sguardo, impossibile e originario, come inattingibile nel suo av-venire, ciò che Lacan suggerisce come una sorta di cifra dello sguardo d'amore: la forma stessa di questa spirale che si sviluppa verso un centro (ivi, p. 267 ).

Ed è la pulsionalità del soggetto in formazione ricacciato fuori dall'Eden primigenio e insieme riconvocato a ripercorrere con il lavoro dell'immagine l'albero filogenetico che ne dà insieme il sapore e il sapere, come riattingere quel punto e come dis-centrarsi da quel punto per esservi rigenerati? È il tragitto del film che dispiega «in che modo un soggetto, che ha attraversato il fantasma radicale, può vivere la pulsione? Questo è l'al di là dell'analisi e non è mai stato affrontato» (ivi, p. 269 ). Se in tal senso c'è un «al di là dell'analisi», Malick (anche nel senso di un film autoanalitico, che ripercorre una genesi personale su un piano tangente transpersonale e ri-proiettando il formarsi del corpo-pensiero sia prima che dopo, filmando il processo resurrettivo in modo rivoluzionario, come hanno fatto nei loro film recenti Eastwood, De Oliveira, Ruiz, Cameron, e come libri “impossibili” come Finnegan's Wake di Joyce o Kotik Letaev di Belyi, hanno tentato), persegue un “al di là della diegesi”, della stessa filmabilità.

E qui gli oggetti-a dello sguardo e della voce, entrambi perduti e rilanciati così come riconvocati, di cui ci parla Lacan: «Ricordate quello che vi ho articolato sulla funzione dello sguardo, sulle sue relazioni fondamentali con la macchia, sul fatto che c'è già nel mondo qualcosa che guarda prima che ci sia una vista per vederlo, che l'ocello del mimetismo è indispensabile come presupposto del fatto che un soggetto possa vedere ed essere affascinato, che il fascino della macchia è anteriore alla vista che scopre. Cogliete, al tempo stesso, la funzione dello sguardo nell'ipnosi che, in fin dei conti, può essere soddisfatta [...] da qualsiasi cosa, purché brilli. [...] la voce, quasi planetarizzata o stratosferizzata dai nostri apparecchi, e lo sguardo, il cui carattere invadente non è meno suggestivo poiché da così tanti spettacoli e così tanti fantasmi non è tanto la nostra visione a essere sollecitata quanto, piuttosto, lo sguardo che è suscitato» (ivi, pp. 268-70).

Quel ri-formarsi e riformularsi del grumo visivo che si scioglie in un flusso vorticante è la cifra arcana che presiede al film, non a caso un cifrare cui, a proposito del punto di sguardo, Lacan richiama, e che ci richiama lo sfarfallìo pulsante e attorcigliantesi, il luccichìo demonico con cui, in modo strabiliante, Malick filma l'impossibile da filmare, uno sguardo prima dello sguardo, una vista interna che non si dà se non estroflettendosi:  «l'otto interno, quella doppia curva che vedete [...] ripiegarsi su se stessa, e la cui proprietà essenziale è che ciascuna delle sue metà, succedendosi l'una all'altra, va ad affiancarsi in ogni punto alla metà precedente. Supponete semplicemente che una metà della curva si dispieghi, la vedrete ricoprire l'altra» (ivi, p. 266). Qualcosa di simile perseguiva l'immaginità ejsensteniana, nel punto in cui lo spiraliforme presiedeva al taglio-rivolgimento del montaggio conflittuale e della genesi organica delle immagini.

Il «nome perduto» allora dribbla il nome del padre stesso e ripercuote la genealogia filiale allontanandosi e ricongiungendosi alternatamente con il flusso materiale e materno, con una potenza amorosa in cui viene elaborato l'abbandono: «L'amore [...] non può porsi che in questo al di là in cui, in primo luogo, rinuncia al proprio oggetto. È questo che ci permette anche di capire che ogni riparo in cui possa istituirsi una relazione vivibile, temperata, di un sesso con l'altro, necessita l'intervento [...] di quel termine medio che è la metafora paterna» (ivi, p. 271 ).
Ciò che è mirabile è come, così fu anche per Kubrick, questa genealogia si fa contemporaneamente stellare, cosmica e intima, immersa nel ventre mentale: «Una stella di quinta o di sesta grandezza, se volete vederla- è il fenomeno di Arago, non fissatela direttamente. È precisamente guardando un po' accanto che essa vi può apparire. [...] Quando, nell'amore, domando uno sguardo, quello che c'è di fondamentalmente insoddisfacente e di sempre mancato è che - Tu non mi guardi mai là da dove io ti vedo» (ivi, pp. 100-101).

Il panteismo del film non è indiscriminatamente unanimista, e per accorgersene bisogna accedere obliquamente al significante, porsi di spalle e di lato, scivolare negli interstizi che Malick dischiude in modo attento e preciso, come tagli di pietà e sacrificio, come immensità di stupore catartico, e qui il tragico del film diventa rituale. Lacan, da parte sua, spiega come la presenza di un Altro, che ha chiamato dio oscuro, venga suscitata da un rimbalzo tra desiderio e sacrificio, in modo che si possa il desiderio «confondere con un amore trascendente», per cui quell'essenza desiderante dell'uomo possa distaccarsi in una universalità radicale, pensabile solo nella funzione del significante, «riduzione del campo di dio all'universalità del significante», così lo psicanalista chiama il preteso panteismo di Spinoza. In questo senso panico è inscritto il dolore personale, quello del mondo, l'amore transpersonale e la pulsionalità dei corpi, in un film che non solo riprende le pulsioni intime e cosmiche, materiche e spermatiche della grana filmica e del pensiero filmante di Brakhage e Dwoskin, ma risale alla genesi luminosa, al noise visivo della pittura di Turner.

I Colour Beginnings di Turner, e i dipinti della sua fase tarda, hanno un procedere sequenziale, cinematografico, «una sorta di linea di produzione», i suoi cieli, i suoi banchi di nubi, le mutevoli nebulose di qualità luminosa assumono il modo in cui la percezione del mondo si muta nell'apprensione trascendentale; Turner lascia immettere l'esperienza della luce come un momento di spettacolo interiore che si performa nell'attuarsi eventuale e mutevole, «una sorta di anticipazione della performance art, un'arte dal vivo, è dalla macchia che infatti procede la visione e il suo discollocarsi continuo, “l'atmosfera è il mio stile”, i fuochi che si riflettono nell'acqua, il mondo moderno si fa sublime» (Warrell 2004, pp. 33 sgg. ).

E se in un dipinto dedicato al supplizio di Attilio Regolo, il taglio delle palpebre e l'esposizione alla luce accecante del sole, Turner costringe anche lo spettatore a sostenere il bagliore della luce, Malick altrettanto trasfonde e trasporta nella luce emergente dallo schermo la nostra percezione in modo da ripercorrerne la genesi insieme all'emergere del sentire coscienziale dei corpi che vivono sullo schermo, trasfusi nel pensiero e materializzati dal tattiloro presentarsi, ritornanti come spettralità sonore e insieme plasticamente assorbite dal rumore naturale come vita nascente.
Quando nel film la sonorità si dipana, anche attraverso l'irrompere kubrickiano di ampi lacerti musicali, oltre e prima del formarsi animale dei corpi, del generarsi preistorico di forme che dal serpentino si manifestano come arborescenze, come membrane acquatiche, come sauri favolosi, allora il paesaggio risuona come morfologia del pensiero e il pensiero immagina la sua stessa conformazione, diventa carne animale e “anima mundi”: «Il paesaggio è dentro di noi prima di essere intorno a noi. […] a partire dalla configurazione della mente di un bambino e dalla costruzione del suo senso di appartenenza, il paesaggio è la prima immagine del mondo […] è uno dei campi privilegiati di verifica dei processi in base ai quali i pensieri divengono, e di fatto sono, azioni» (Morelli 2011, p. 15).

Questa empatia restituisce una fisiognomica all'ambiente e permette di filmarne la visione compartecipante, a “bioimmaginarle”: «In questo genere di esperienza il campo del visibile mostra elementi normalmente invisibili. La nostra visione della natura è come posseduta da un demone che trasforma i paesaggi e noi stessi.. […] Nella mobilità del nostro sguardo e del nostro sentire osserviamo le cose svolgersi attraverso sequenze di segni e rappresentazioni che ci accompagnano e ci corrispondono. […] Immagini vive che ci appaiono come una fluttuazione di tipo musicale e di difficile riproduzione. […] estasi della percezione […] che ci porta a pensare di essere, noi stessi, osservati da ciò che stiamo contemplato» (Milani 2002, p. 241).

Partecipiamo a una trasformazione e insieme trasformiamo noi stessi quello che vediamo, come un'onda che ci investe e di cui investiamo il nostro sguardo come partecipazione-appercezione: è il movimento proprio di questo film, la sua dinamica che si configura con quel ritornante scroscio di sorgente entro e fuori del quale si forma il film con la nostra cooperazione empatica, che è la stessa dello sguardo pensante-filmante di Malick, che a sua volta si trasfonde nella dinamica relazionale tra i corpi bambini e il loro incedere, il loro crescere, vibrare, librarsi, posare e levare il piede da terra, come in quella «icnografia» di cui scrive Michel Serres, l'icnografia è il rumore di fondo, traccia del passo, impronta, ichnos del piede (il piede umano nel film, la sua impronta si sfalda e si ricompone nel passo e nel procedere del fenomenico): «L'icnografia è il possibile, o il conoscibile, o il producibile, è il pozzo dei fenomeni. Essa è la catena completa delle metamorfosi del dio marino Proteo, essa è il Proteo stesso» (Serres 1988, p.93). «Il rumore, mare grigio e la brezza che si infrange, il rumore, il fiotto, è una molteplicità della quale non conosciamo la somma. […] Ogni passo si assomiglia, flussione, ogni salto, ogni fluttuazione conserva la sua singolarità. La fluttuazione passa attraverso la maglia delle biforcazioni. Un piede su due.

Anche la bella noiseuse fa vedere un solo piede, l'altro è in aria, assente. Un piede su due: come un rumore di folla che tuona e che rotola, e ora crolla, e ora ingrossa. Ecco di ritorno la nostra coda di rondine, la nostra instaurazione, e il vecchio tratto avvelenato. Tutto ricomincia, la fluttuazione sceglie ad ogni passo, qui a ogni strofa, catastrofe, di morire o di crescere» (ivi, p. 150 ). Dappertutto un inclinarsi e un fluttuare, un filmare per inclinazione «Il crepito largo del rumore di mare si frammenta in fluttuazioni. […] Mille, centomila, singolari […] all'estermità di tre o quattro code di rondine, sono ritornate al mare grigio e nella brezza. Tanti piccoli lampi che si oscurano velocemente, tanti bisbigli che si elevano, credevo di udire un appello tra il baillamme, un segnale tra il rumore confuso, l'onda, sollevata per un momento, ricade. Perché quella, singolare, non si perde? Risposta: perché le altre, singolari, si sono perse? Una certa testa sorge dalla folla, occhi, bocca, collo, forse anche, talvolta, le spalle. […] Ascoltate in forma multipla come iniziano le cose immense che la nostra pretesa chiama storia. Concepite senza concetto come può cominciare il tempo. Il muro prende la flessione e pende, inclina. L'eco ridice la voce, il rumore scorre come un'onda. L'inclinazione è stata l'avvio del movimento che torna, la spirale del vortice ne é il risultato» (ivi, pp. 151-52 ).

In questa “dunamis daimonica” del film, il senso del paesaggio introiettatto e schizzato nell'emulsione pellicolare arriva, più che negli altri suoi film, a un paesaggio daimonico che emerge e inonda con il film di Malick, riattingendo le origini del trascendentalismo e la parola che si fa grafo di immagini che si ritrova in William Blake: «If the doors of perception were cleansed, everything would appear as it is, infinite» (William Blake). Riemerge nel film quella «teoria dell'eterocosmo di Baumgarten […] che afferma che l'opera d'arte è un cosmo a sé stante […] la teoria emersoniana della cosmicità è piuttosto una conferma del carattere impersonale dell'arte, che nasce quando e in quanto sia cancellata la persona con i suoi interessi e le sue limitazioni» (Zolla 1963, p. 216 ).
Una eteroglossia e una eterocosmicità che travalicano l'afflato estetico in una impersonalità del filmare che corrisponde al ritrarsi della stessa persona di Terrence Malick, il cui sapere filosofico si discioglie in una “autoimmaginazione” pregnante.


Bibliografia

Cuniberto F. (2010): La foresta incantata. Patologia della Germani moderna, Quidlibet, Macerata.

Lacan J. (2003): Il seminario. Libro XI, Einaudi, Torino.

Milani R. (2002): Demoni del mutamento, in Arte e Daimon, a cura di Daniela Angelucci, Quodlibet, Macerata.

Morelli U. (2011):  Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino.

Serres M. (1988): Genesi, il Melangolo, Genova.

Warrell I. (2004): Turner, Giunti, Milano.

Weil S. (1985): L'ombra e la grazia, Rusconi, Milano.

Zolla E. (1963): Le origini del trascendentalismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma.