faust_4-4Già la barca sballa sulle onde nell'ultimo tramonto che, come sempre, tacita la marina vastità verso Murano: strisce di terra annerita e spoglia, su cui razzolano stormi di chissà cosa dal collo oblungo, e poi, la calma acquea dove galleggia una piccola barca a pesca e una darsena di travi e piattaforme. Mentre le banchine di Murano bisbigliano per non svegliare i fantasmi sprangati nelle case, ripenso alle ultime cose viste.

Alla festa all'Excelsior sfiorata ieri (da cui siamo fuggiti prima che si spandesse nell'aria e sul pelo dell'acqua, il profumo di opulenza e di sfarzo che hanno qui le macchine nere, il corteggio di papillon dietro ai divi, ai produttori brizzolati, la lucentezza della piscina), come quando due anni fa fummo chiamati signori (gradiscono del prosecco?) da un maggiordomo dentro una sala di sola moquette, per la presentazione di un libro su Murnau.

Portavo due zoccole al guinzaglio (che avevano preso a frequentare la casa ai Giardini in cui alloggiavamo nel caos; e ci lasciavano stare, anziché smozzicarci la punta delle dita e gli zigomi, anzi si affezionarono a noialtri, perchè le lasciavamo scorazzare tra le pentole e i piatti sporchi della cucina) e noi non eravamo da meno in quanto a sciatteria e contagiosa ferinità, reduci da molte proiezioni e come distillati ieraticamente dalla cocente umidità; occhi arrossati e dilatati, coltre di barbe sconce e magliette alla maionese e al caffè. Ad un tratto le zoccole rivolsero le loro fauci verso un culo setoso e profumato e alla grinzosità di tutte quelle dame di mezza età, la Serbelloni Mazzanti, la moglie del Semenzana, del Riccardelli, eccetera, venute a sfoggiare l'abito da sera, le collane, le scarpe ricamate. I ratti squittivano e digrignavano forte i denti, ed era veramente uno sforzo tenerle a bada (Peppa, Dodo, state buoni, chè il signore ci offre il prosecco) chè volevano assaltare e gozzovigliare. E così tutti scapparono via facendo cadere le sedie rococò e strillando, rompendosi i tacchi, compreso autore e relatore; e le zoccole si accoccolarono davanti alla ciotola delle noccioline e triturarono e sputarono dalle ganasce leste, mentre dalla finestra penetrava un qualche raggio tramontante e un poco di vento, che sibilava nella desolazione e cercava di spazzare via i fogli rimasti sul tavolo.

Gli ultimi giorni sono stati un turbinio di visioni: il racconto fiabesco di Sokurov, che alla fine ha meritatamente vinto (una volta tanto), un Faust magniloquente e intimo al tempo stesso (tant'è che il diavolo non è affatto creatura soprannaturale, ma immerso pienamente nella naturalità della società e dei suoi strumenti di potere, il denaro prima di tutto), concentrato e svisato poi nel verde dominante di queste immagini pittoriche, spesso alchemiche, che alla fine trascendono, ma sempre partendo dal corpo (dalla sua cognizione anche scientista), dal pube soffice di Margherita, unica cosa per cui vale la pena di vendere la propria anima.

Abel Ferrara col suo splendido 4:44 Last day of earth, dove le ultime ore dell'umanità si svolgono tutte sulla superficie oramai annichilita delle immagini. Quelle televisive, o quelle provenienti dagli schermi dei computer (le ultime videoconversazioni con i parenti lontani) e poi un enorme dipinto pieno di colori, tentativo di esorcizzare l'incombente fine, con il cominciamento suggerito dalla pennellata, dalla coloritura, fino al bianchissimo bagliore che copre tutta la vicenda di solitudine e dolore degli umani ingabbiati nella metropoli.

Il disperato stoicismo di Himizu, di Sion Sono, urlato e dimenato, ancora una volta diagnosi essenziale della società giapponese (e non solo), ferita dalla catastrofe nucleare, che si sovrappone allo sfaldarsi dell'umano, degli affetti, già documentato nel precedente Cold Fish (ma in genere in tutti i suoi film). Peso che questa volta tocca agli adolescenti sopportare, lacerati (dai padri, dalle madri omicidi) e rabbiosi, insieme a un'umanità di emarginati (come se la possibilità della ricostruzione, del ricominciamento non possa che germinare dai margini e dalla povertà), sparuta e "affetiva" comunità di senza tetto, che a ben guardare è l'unica vera nota ottimistica di questo bellissimo affresco.

A cui è speculare quello del cinese Cai Shangjun, People Mountain People Sea, che con grande rigore, disegna la realtà suburbana e rurale (dalla montagna al mare e ritorno) di una Cina violenta, ruvida, sporca. Bellissimi piani-sequenza (per nulla autocompiaciuti) che sprofondano alla fine nelle viscere della terra, in una disumana miniera, sintesi di una realtà di vuoto e di abbandono che si vuole fare esplodere.

Realtà declinata da Johnnie To e William Friedkin nei termini del grottesco (Asia e America accomunate dallo stesso, risibile destino di brancamento e brancolamento). Il regista di Hong Kong sceglie con il suo Life whitout principle il registro del freddo referto numerico (minuzia del presentarsi di tassi, interessi, rischi dell'azionariato) a cui sono legati i destini di una banca, dei loro utenti e di una mafia ridotta anch'essa in stato di precarietà, come quella Grecia a cui si allude più di una volta, fantasma di una catastrofe (economica) non già incombente ma realizzata.

Ancora i soldi, la necessità di (pochi) soldi, muove un'umanità cinica e laida, nelle trame omicide e nelle bramosie sessuali di Killer Joe, ironica e puntuale variazione sul genere "giallo". Riflessione vicina a quella coeniana e a tratti tarantiniana, ma propriamente friedkiniana, sulla profonda provincia americana, selvatica come cani pronti a sbranare o a barattare la propria famiglia, la madre, la sorella, la moglie dal setto nasale fratturato e sanguinante che ora, in quella che è subito diventata scena di culto, succhia una coscia di pollo a mo' di fallo.

L’ultima visione, in una sala Perla quasi disertata, chè tutti sbrancano poco a poco, mentre altri aspettano ancora le sei ore di Lav Diaz, è stata la Kotoko di Tsukamoto, ennesimo capolavoro di una mostra sorprendente: allucinazione (cioè cinema) che ha disturbato e commosso, con la sua psicopatia tanto più toccante quanto legata alle sorti di un bambino in continuo pericolo di vita. Il film è proprio la traduzione immaginale, cinematografica di un disturbo (che provoca doppioni, immagini semoventi), una psicosi tagliente, dolorosissima, vissuta in piena solitudine. Alla fine ci resta solo l’immagine del figlio, divenuto grande, che va a trovare Kotoko ormai chiusa nel suo mutismo. La madre lo guarda dalla finestra mentre il ragazzo scantona e ripete il gioco inventato da lei anni prima, il saluto improvviso, facendo sbucare un braccio da dietro l’angolo: è l’estremo, leggero saluto dell’immagine a se stessa e a noi spettri desideranti e diseredati.
Il resto sono valige e biglietti di imbarco, esodo di uomini che vagano come gli spettri; e il Lido spettrale si svuota lasciando una polvere di spuma arrivata dal mare e il presagio della sera e dell’autunno.