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Si dice che nel rivolgersi all’erede, Luigi XIV in punto di morte, parlasse di sé come d’un trapassato e che poi il popolo, appresa la sua morte, trasalì di gioia, danzò  e cantò la fine di quel tiranno... Per evitare tumulti, il cadavere non attraversò la città, ma venne occultato per vie traverse. “Il cadavere” dice Dumas “entrando nella Basilica, non sfuggì agli insulti di quei miserabili”.

Multiformità, un corpo che si frammenta, il ‘corpo urlante’, l’anima, la putrefazione, la cancrena, l’odore di cipria e di decomposizione. Questa la corporale realtà che aveva messo in scena Serra in La Mort de Louis XIV (2016), tra i sussurri e i rumori propri di quel patire. E possiamo avvertire quell’odore, sentire quell’ovattata stanza; quel velluto…

La variazione è adesso verso chi lo osserva. O meglio: il modo con cui ci si rivolge a chi quel corpo lo osserva. E quindi adesso quel corpo ci appare in confessione, in comunione; ci appare più vicino. Più vicino perché solo, perché messo lì in deliquio per noi.

Commissionato dalla Graca Brandao Gallery di Lisbona, Roi Soleil (2018), dopo FIDMarseille, giunge alla Viennale attraversando, procedendo e travasando in diverse forme: quella performativa (svoltasi e registrata presso la galleria stessa, della durata di 29 ore), quella video-installativa (presso la Galeria Cadaqués - proiettata per due volte al giorno) e la più recente, cinematografica. A ben dire a modificarsi è puramente la forma della fruizione dell’opera, l’adattabilità della stessa ai casi -a qualsivoglia caso, a qualsivoglia sguardo- a cui si concede lanciandosi nel bagno d’un neon color sangue. Certo è che l’avevamo già visto. L’avevamo già “sentito” lamentare morte il suo Louis XIV. E al mesto J.P. Léaud si sostituisce pingue Lluis Serrat (Pancho di Honor de Cavalleria, 2009), a sottolinearne la versatilità, la ciclicità, l’imitazione e la variazione sul tema. Imitazione e variazione di sé  –qualcosa che ci ricorda un noto pittore neoclassico, che amava rivedersi in più forme, imitando se stesso, poiché egli stesso il classico. Ma questa archeologia del sé troverà in tale variazione una formulazione significativa e nettamente opposta a quella di La Mort de Louis XIV. Il semplice e apparentemente grossolano tentativo di isolare il soggetto e rigettarlo, solo, in una camera vuota con gingilli di vario tipo –una camera da osservare, osservabile- riproduce mirabilmente l’asfittica ultima camera dell’ultimo giorno di vita del monarca. Da quella camera, si dice, non ne uscirà che da morto. Il teatrino rituale, l’andirivieni cortese e strisciante dei personaggi del film del 2016 è qui invece totalmente annientato dall’abbandono del corpo a se stesso che pingue e rotolante si spegne, finendosi, davanti al pubblico presente in galleria.

Serra elabora il lamento e lo presenta  sotto-forma d’un dramma luttuoso che poco attiene alla tradizione del dramma nobile, del dramma eroico… Se nel dramma il silenzio imperiale dell’eroe è regola, in questa tragicommedia il nostro nobile (eroe ?) guarda alla morte con occhi mortali, lamenta, si contorce nel suo patire in ogni sorta di versi. La produzione del cadavere in vetrina è la natura stessa dell’anti-eroe che senza pudore spettacolarizza quel marcire. Con distacco, teatrante conscio del suo teatro, si dimena; senza compassione, senza coinvolgimento, annoia. La severa ritualità dell’azione performativa è dissacrata, fa burla di sé e di tutta la storia della video-arte performativa da lì a salire. Per Krauss il contatto con il video è un contatto con se stessi, con ciò che chiamiamo narcisismo. E dunque questo che vediamo? Il nostro marcire? “Da quel momento, l’immonda compagnia si precipitò come un solo Narciso, a contemplare la propria immagine triviale sulla lastra” (Baudelaire, a proposito della fotografia).

 

Häxan, che in italiano diventa La Strega, conosciuto anche come La Stregoneria Attraverso I Secoli, è un film girato tra il 1918 e il ʻ21 da Benjamin Christensen, genio “minore” dell'avanguardistico cinema danese del primo ventennio dello scorso secolo, il cui rifulgere è sempre stato tenuto parzialmente in ombra dall’abbacinante astro di Dreyer. Non è mia abitudine e tantomeno lo è di Uzak insistere sulla pedissequa esposizione di sinossi e trame ma in questo caso è praticamente impossibile scindere l'analisi del dato contenutistico da quella del livello formale, nel senso che il valore del film risiede tanto nella sua sorprendente tessitura stilistica, potentissima, espressionista e percettivamente lirica, quanto nel piano ideologico sottostante, di grande modernità e umanitarismo, che sullo schermo si sostanzia in una calibrata concatenazione discorsiva di generi cinematografici differenti, all'avanguardia per i tempi suoi, ma non del tutto scontata anche ai nostri, che costituisce uno dei valori primi del film.

Traduzione di Serena Ciccarone, Silvia Pellecchia, Eliana Carlucci

The symbol of a generation, even regardless of all generations: initiates delving into timeless wormholes, into the early nineties cathode-ray tube lighted tunnels as in a Videodrome.
A surrender. A planned and pacified surrender, incubated in the womb of both cinematic and televisual image: that specific, sublime midnight broadcasting. This was and still is Béla Tarr.
Back to the Fuori Orario nights officiated by Ghezzi’s cinema - that asynchronous, disheveled simulacrum - summoning metaplasms and fluctuating ghosts in the misting nights, priestly in a white calico robe. Nocturnal winters abused their power over the dusk light and let their tarry murmur be sensed along with their innermost adhesion to the Void. Those nights when movies like Perdition and Satantango - a plodding, lingering seven-hour pilgrimage throughout long takes teeming with galvanised matter, wind and dust - would shine out of the screen; keeping your eyes wide open and jaded venturing the Void while yearning for Perdition.

As in the years of the five-hour movie Until the End of the World - yet in an utterly different way - the “duration” matter, the stretching of the cinematic and narrative syntagm was essential. It was a sort of reaction to the frugal and concise advertising image subject to the immediate consumption typical of the eighties. Béla Tarr’s cinema is configured in a separate universe far from that scenario. A movie camera so aware of itself that it validates its autogenous matter by choreographing its enticing intricate protracted dance. A Cinema as multiple emphasised visions, echoing vividness of the objects, into the objects, which unveils their truth: their life, their time - inscribing and turning them into words, pictures.
There, the truth of the event was its life, a magnetic, immersive duration that lured and engulfed you - in the spirit of a bruised black and white: an exhibit of blubber, scraping and dullness - and its perpetual peristalsis handed you back the character. A no-longer jaded character at the mercy of reality and its undying carcass: the final aesthetic act.

The first story of Seiobo There Below by László Krasznahorkai - whose books and characters inspired three of Tarr’s films - evokes Heraclitus’ Universal Flux «everything around it moves , the water moves, it flows, it arrives and cascades; now and then the silken breeze sways». Not only does he bring it up, he means it and mimes it through the hypotactic writing. A flux of long gapless coordinates, subordinates and appositions: phrasal tubercles persistently reviving the dictation.
The literary counterpart of the long take cinema, Béla Tarr’s cinema, appears to translate the cosmos’ hypotaxis, its continuous flux into images: that endogenous matter emerging and blooming.
Flowing at the book’s service: Krasznahorkai’s stories, mainly dystopian and hopeless - the epigraph of his latest novel Herscht 07769 quotes «hope is an error» - are fully embodied in Tarr’s cinema.

If the novel can be film adapted then Tarr’s cinema is its exemplification. It depicts in chiaroscuro contradictions, violence, greed and violated innocence which articulate the twentieth-century novel dating back to Musil, Céline, Faulkner as well as Simenon whose novel inspired the 2007 Béla Tarr film The Man from London scripted together with Krasznahorkai.
Tonight, the Hungarian director is attending the Registi fuori dagli scheRmi exhibition at the Anche Cinema film theatre in Bari. A chance to screen the Wrekmeister Harmonies restored version which twenty three years ago ushered in the new millennium by transposing the apocalyptic spirit of Krasznahorkai’s novel The Melancholy of Resistance.

Symbols, allegories of a dark fairytale; characters eponym of the human; ash-grey, scraped off, scrawny foreshortening: the cornerstones of Tarr’s cinema. An omen for the upcoming millennium.
He had us waiting eleven years for his comeback with his last astonishing film The Turin Horse, the umpteenth depiction of a drifting humanity. Yet, a fragment, an echo of Harmony is still possible: if the movie camera sheds its light on inanity, then conscience - the self-determination of this artificial gaze - and light stand. A light revealing and inexorably marking the steps, the enduring and solemn strides, the dazzling flux.

Traduzione di Serena Ciccarone, Silvia Pellecchia, Eliana Carlucci

The symbol of a generation, even regardless of all generations: initiates delving into timeless wormholes, into the early nineties cathode-ray tube lighted tunnels as in a Videodrome.
A surrender. A planned and pacified surrender, incubated in the womb of both cinematic and televisual image: that specific, sublime midnight broadcasting. This was and still is Béla Tarr.
Back to the Fuori Orario nights officiated by Ghezzi’s cinema - that asynchronous, disheveled simulacrum - summoning metaplasms and fluctuating ghosts in the misting nights, priestly in a white calico robe. Nocturnal winters abused their power over the dusk light and let their tarry murmur be sensed along with their innermost adhesion to the Void. Those nights when movies like Perdition and Satantango - a plodding, lingering seven-hour pilgrimage throughout long takes teeming with galvanised matter, wind and dust - would shine out of the screen; keeping your eyes wide open and jaded venturing the Void while yearning for Perdition.

As in the years of the five-hour movie Until the End of the World - yet in an utterly different way - the “duration” matter, the stretching of the cinematic and narrative syntagm was essential. It was a sort of reaction to the frugal and concise advertising image subject to the immediate consumption typical of the eighties. Béla Tarr’s cinema is configured in a separate universe far from that scenario. A movie camera so aware of itself that it validates its autogenous matter by choreographing its enticing intricate protracted dance. A Cinema as multiple emphasised visions, echoing vividness of the objects, into the objects, which unveils their truth: their life, their time - inscribing and turning them into words, pictures.
There, the truth of the event was its life, a magnetic, immersive duration that lured and engulfed you - in the spirit of a bruised black and white: an exhibit of blubber, scraping and dullness - and its perpetual peristalsis handed you back the character. A no-longer jaded character at the mercy of reality and its undying carcass: the final aesthetic act.

The first story of Seiobo There Below by László Krasznahorkai - whose books and characters inspired three of Tarr’s films - evokes Heraclitus’ Universal Flux «everything around it moves , the water moves, it flows, it arrives and cascades; now and then the silken breeze sways». Not only does he bring it up, he means it and mimes it through the hypotactic writing. A flux of long gapless coordinates, subordinates and appositions: phrasal tubercles persistently reviving the dictation.
The literary counterpart of the long take cinema, Béla Tarr’s cinema, appears to translate the cosmos’ hypotaxis, its continuous flux into images: that endogenous matter emerging and blooming.
Flowing at the book’s service: Krasznahorkai’s stories, mainly dystopian and hopeless - the epigraph of his latest novel Herscht 07769 quotes «hope is an error» - are fully embodied in Tarr’s cinema.

If the novel can be film adapted then Tarr’s cinema is its exemplification. It depicts in chiaroscuro contradictions, violence, greed and violated innocence which articulate the twentieth-century novel dating back to Musil, Céline, Faulkner as well as Simenon whose novel inspired the 2007 Béla Tarr film The Man from London scripted together with Krasznahorkai.
Tonight, the Hungarian director is attending the Registi fuori dagli scheRmi exhibition at the Anche Cinema film theatre in Bari. A chance to screen the Wrekmeister Harmonies restored version which twenty three years ago ushered in the new millennium by transposing the apocalyptic spirit of Krasznahorkai’s novel The Melancholy of Resistance.

Symbols, allegories of a dark fairytale; characters eponym of the human; ash-grey, scraped off, scrawny foreshortening: the cornerstones of Tarr’s cinema. An omen for the upcoming millennium.
He had us waiting eleven years for his comeback with his last astonishing film The Turin Horse, the umpteenth depiction of a drifting humanity. Yet, a fragment, an echo of Harmony is still possible: if the movie camera sheds its light on inanity, then conscience - the self-determination of this artificial gaze - and light stand. A light revealing and inexorably marking the steps, the enduring and solemn strides, the dazzling flux.

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Uzak 45 | inverno/primavera 2024

Da un po' di tempo imbastiamo delle sezioni speciali su Uzak: è per lo più Giovanni Festa - professore in Argentina; tra un po' sarà in Brasile a scrivere un libro su Julio Bressane - a curarle, virando la rivista di esotismi, erudizioni borgesiane, rudi onirismi provenienti dal Sudamerica; o, da qui, Domenico Saracino, ma proiettandosi, proiettandoci su una Cancroregina, nel cosmo come quando, sul numero 41, ideò un dossier sul cinema-kraut, un ritmo segreto che scandisce le immagini oltre che i suoni.

Teorie

Partire dall’immagine, dal suo essere manifestazione visiva delle cose in sé, epifenomeno, affioramento. Lasciare indugiare lo sguardo, penetrarle, consultarle, quelle immagini, interrogarle (o lasciarsene interrogare) nel tentativo, direbbe Didi-Hubermann, di “vedere per sapere meglio”. E ancora: inabissarsi nella moltitudine infinita delle forme, farsi naufrago tra i flutti dei rimandi, delle corrispondenze, dei significa(n)ti, con l’occhio mai sazio.

Film terragno, ruvido, regolato da attriti tra corpi, psicologie, desideri di persone semplici, provate dal lavoro, dal rapporto obbligato con l'empiria, o bramosie dei potenti, prepotenti (quasi manzoniano, scottiano in quanto a concezione della storia; tra l'altro: scorrerie di bravi, briganti, lanzichenecchi per tutta la brughiera; ma poi c'è anche Scott Cooper e un film forse sottovalutato come Hostiles), La terra promessa (titolo originale Bastarden) diretto dal danese Nikolaj Arcel, in concorso alla scorsa Mostra di Venezia ha il pregio della «credenza».

Cile 1973-2023. Raccogliere le immagini mancanti.


C'è un'immagine, giusto all'inizio de La cordillera de los sueños di Patricio Guzmán che mi è venuta in mente quando ho cominciato a pensare a come introdurre un montaggio di testi dedicato al Cile, a cinquanta anni dal golpe di stato civile-militare dell'11 settembre del 1973.

Sabato 17.5.75

Come uscire dal viaggio rimanendo comunque nel viaggio?
Fare di questa follia un fatto di bellezza postuma come questa rondine
che viene ogni giorno in un nido inesistente sulla porta della capanna,
che persiste qui in questa falsa estate e si inganna volando e volando.



SCENA I

[L’opera fu rappresentata originariamente in una sala cinematografica e i personaggi fanno riferimento a un film proiettato. Secondo altri contesti di montaggio è possibile una descrizione alternativa di ciò che vedono e del luogo dove si trovano].

 

Edipo e Antigone entrano caricando valigie

 

EDIPO: Che vedi?

ANTIGONE: Non si vede granché

EDIPO: Che dicono? Di che cosa parlano?

ANTIGONE: È un film muto

EDIPO: Davvero? E come proseguiamo? E, innanzitutto, dove ci troviamo?

ANTIGONE: Di fronte al palazzo

EDIPO: Me ne rallegro. Ho detto che me ne rallegro. E tu?

ANTIGONE: Sono qua

EDIPO: Così va meglio. Chiamami padre. Non è così che bisogna fare? Chiamami cosi. Va bene?

ANTIGONE: Padre…

EDIPO: Che lo sappiano. Che si sappia

ANTIGONE: Ho paura

EDIPO: Non dire così

ANTIGONE: Quindi starò zitta

EDIPO: Ed io? Eh? Sei qui? Anti, rispondi a tuo padre! Ehi! Rispondi! Non c’è nessun altro qui? Sembra quasi che sia solo no?

ANTIGONE: Sono qui

EDIPO: Bene. Così va meglio. Dimmi, c’è qualcosa davanti a me? Qui?

ANTIGONE: Un film

EDIPO: Di che genere è?

ANTIGONE: È un film di terrore

EDIPO: Che bello!

ANTIGONE: Però è muto

EDIPO: Raccontami di più

ANTIGONE: Non si capisce, te l’ho detto, è un film muto

EDIPO: Si muoveranno almeno le ombre

ANTIGONE: Le ombre, si

EDIPO: Ci sarà qualcuno che muove le labbra

ANTIGONE: Si, questo si

EDIPO: Bene, allora, decifra, per dio!

ANTIGONE: Parlano in un’altra lingua

EDIPO: Una lingua arcaica?

ANTIGONE: Ho l’impressione che parlino una lingua a parte

EDIPO: Che bello

ANTIGONE: Sembra che l’opera sia a proposito… a proposito di un tradimento

EDIPO: Ahi!

ANTIGONE: Che?

EDIPO: Mi fa male il piede. È gonfio

ANTIGONE: Lo so

EDIPO: Fa qualcosa

ANTIGONE: Non c’è niente da fare

EDIPO: Oh, questa sì che è buona. Non ci sarebbe quindi nulla da fare

ANTIGONE: Nulla

EDIPO: Non sono sordo. Mi fa male il piede. Questa non è una ragione per arrabbiarsi, vero? Sei qui? Non c’è nessuno più in là? Si, si, capisco. È un posto unico. Un teatro. Un posto unico predisposto dalla città per favorire incontri. Un posto sospettoso. Il posto ideale per incontri sospettosi. È qui che vengono a incontrarsi gli amanti colpevoli. Ambiente vellutato. Il posto perfetto per rigirare i fatti a nostro favore, non è così? Anti. Dove sei? Ah, perfetto, si è arrabbiata

ANTIGONE: No, padre, non sono arrabbiata

EDIPO Ahi, ahi, ahi!

ANTIGONE: Stai meglio?

EDIPO: Si grazie. Va bene, continua a raccontare, che altro c’è

ANTIGONE: La scena è cambiata

EDIPO: Che cosa viene mostrato?

ANTIGONE: Nulla

EDIPO: Si suppone che cose di questo tipo dovrebbero piacerci?

ANTIGONE: Non c’è nessuno

EDIPO: Adesso non c’è nessuno o è sempre stato così?

ANTIGONE: Non saprei dirtelo

EDIPO: Questa è la migliore. E che se suppone che dovrei fare io?

ANTIGONE: Aspettare

EDIPO: A chi?

ANTIGONE: Bene, chiedi

EDIPO: Quindi c’è qualcuno

ANTIGONE: Se vogliamo…

EDIPO: È a richiesta? C’è qualcuno a cui chiedere?

ANTIGONE: Vedo a qualcuno di là. Dall’altro lato delle ombre

EDIPO: Che ombre?

ANTIGONE: C’è un film di terrore

EDIPO: E quindi?

ANTIGONE: Dall’altro lato c’è gente

EDIPO: Non si dice “le ombre”. Si dice “un film”. Si dice “dell’altro lato dello schermo c’è gente”. Non è necessario dire “le ombre”. Fanno paura, le ombre, Sono cieco

ANTIGONE: C’è qualcun altro, lì, dietro di noi

EDIPO: Davvero? Questo è nuovo?

ANTIGONE: I miei occhi si stanno abituando all’oscurità

EDIPO: Mi ascolti! Lei! Dove si trova?

GUARDIA: Sono qui

EDIPO: Venga, per favore

GUARDIA: Per far che?

EDIPO Venga da questa parte. Io non posso venire verso di lei. Sono cieco.

GUARDIA: E allora?

EDIPO: Questo dovrebbe rallegrarlo. Un cieco nel teatro è di buona sorte

GUARDIA: Io non lo vedo. Non posso sapere se lei è cieco per davvero

EDIPO: La diffidenza. Ah, Danimarca, ti riconosco. Sempre la diffidenza!

GUARDIA: Non ho il diritto di venire verso di voi. Questa zona… ah! È pericolosa!

EDIPO: Lei ha paura dei ciechi

GUARDIA: Ci sono cose che cadono. Da sopra. E, in più, non posseggo… autorizzazione. Lì dove si trova lei è un’altra tariffa

(si ascoltano risate di bambini)

GUARDIA: lo vede, è questo

EDIPO: Bambini? A quest’ora? Perché non stanno dormendo?

GUARDIA: Giustamente, dormono. Hanno incubi e tirano cose

EDIPO: Quali cose?

GUARDIA: Libri. Libri di scuola

EDIPO: I più pesanti

ANTIGONE: Padre, andiamocene di qua

EDIPO: E il film? Tu mi dirai che è normale. Siamo in un cinema. Però bene, è qui dove ci hanno detto di venire, vero?

ANTIGONE: Qualcuno ci ha preso in giro. Non si riceve la gente in un posto così. Tu stesso lo hai detto. Questo è per incontri sospettosi. Non incontreremo un luogo di accoglienza

EDIPO: È perfetto. È il posto indicato. Caro amico, si trova ancora qui?

GUARDIA: Si, sono qui

EDIPO: Mi faccia la cortesia di chiamare a qualcuno

GUARDIA: A chi?

EDIPO: A una autorità della città. Dev’esserci qualcuno che comandi qui, certo? Un’autorità

GUARDIA: Il municipio è di fronte

EDIPO: Perfetto allora. Vada. Io ci andrei lieto, ma ho paura dei controlli. Le mie carte non sono in regola

GUARDIA: Quindi sarà meglio passare inosservato

EDIPO: Un grande saprà riconoscere a un altro grande. Vada, e gli dica che un anziano cieco sta qui, accompagnato da sua figlia. Lui capirà

GUARDIA: Andrò

EDIPO: Se n’è andato

ANTIGONE: Ho paura che sia ancora qui

EDIPO: Quindi non ha capito nulla

ANTIGONE: Siamo nel teatro lo sai

EDIPO: Lo so

ANTIGONE: Lui è venuto a vedere un’opera di teatro

EDIPO: Ahi!

ANTIGONE: Rimarrà fino al finale. Andrà poi, quando sarà troppo tardi. Quando arriverà, incontrerà una sala chiusa a chiave

EDIPO: Ahi, le mie pastiglie per favore. Questo ricomincia, mi fa male di nuovo.

ANTIGONE: È normale. Qui fa freddo

 

SCENA IX

 

Edipo arriva nel lato della pioggia con Antigone

 

DOGANIERE; Documenti per favore

EDIPO: Li tiene mia figlia

ANTIGONE: Eccoli

DOGANIERE: Grazie (Osserva i documenti). Antigone… è questo il tuo nome?

ANTIGONE: Sissignore. Il visto di uscita si trova nell’ultima pagina

DOGANIERE; Antigone… Quindi lei è contraria alla libera concorrenza?

EDIPO: Mia figlia non si occupa di politica, grazie a Dio

DOGANIERE: E allora, perché Antigone?

ANTIGONE: Chiedetelo a mio padre

EDIPO: Me ne sono dimenticato

DOGANIERE: Nazionalità?

EDIPO: Astronomia

DOGANIERE: Indirizzo?

EDIPO: Geografia

DOGANIERE: Matite colorate, portamine, biro?

ANTIGONE: Tutte e tre

DOGANIERE: Mostrale

ANTIGONE; Eccole

DOGANIERE: Queste non sono matite, sono armi

EDIPO: Davvero? È possibile. È così che uno si converte in cieco

DOGANIERE: Aspetta, chiamerò la direttrice (Exit doganiere)

EDIPO: Perché, per dio! Sempre la stessa storia. In ogni frontiera, la stessa diffidenza

ANTIGONE: Pazienza, padre. Finiranno per lasciarci passare

EDIPO: Alla fine dell’umiliazione di rigore. Siamo perduti. Scopriranno che i nostri documenti sono strani. Che l’indirizzo non corrisponde. Diranno che un cieco non può essere posseduto dagli astri, che un mancino non può comprendere la consegna dell’acqua e la bellezza delle montagne. Finiranno per dubitare dei nostri nomi (Entra una doganiera)

DOGANIERA: Siete voi i rifugiati?

EDIPO: Non siamo rifugiati, siamo turisti

DOGANIERA: Mostrate il denaro!

EDIPO: Possiedo il credito di un bastone. Ho i miei denti di oro puro. La gamba ripiena di banconote, e non banconote qualsiasi. Sono banconote di coltura. Si moltiplicano. Provocano dolore alla gamba, ma aiutano ad arricchirmi

DOGANIERA: Mezzo di trasporto?

EDIPO: La mia gamba non le sembra sufficiente?

DOGANIERA: No

EDIPO: Questa gamba è un cavallo, è ciò che mi spinge all’appuntamento finale

DOGANIERA: Chi li aspetta?

EDIPO: Mia figlia

DOGANIERA: Conosce a qualcuno in questo paese?

EDIPO: Al re. Lo chiami

ANTIGONE: Si fermi. Come ha potuto vedere, mio padre non può fare danno a nessuno. È stato espulso dalla sua terra e perseguitato. Ancora lo perseguono, di paese a paese, di città in città. Siate umani, siate cristiani

DOGANIERA: Né l’uno né l’altro! (Assume la posa di una stella)

EDIPO: Lo sapevo. Lei è una stella.

DOGANIERA: No, solamente impedisco alle stelle di entrare nel mondo. E impedisco alla gente del mondo di andare a schiantarsi nel cielo. Sennò, da molto tempo il cielo sarebbe accecante

EDIPO: Ahi, ahi!

ISMENE: Padre, sei qui

EDIPO: Figlia mia! Figlia amata!

 

SCENA XIII

 

QUADRO A DESTRA: (voce di Edipo): Chi mi catturerà contro la volontà dei miei compagni?

QUADRO A SINISTRA: Gli dei vedono bene, anche se vedono dopo

QUADRO AL CENTRO: Il fogliame innominabile del nume protetto contro il sole

EDIPO: Per la prima volta, la destra, la sinistra e il centro sono d’accordo. Io credo nell’unanimità. Tutti mi chiamano, è evidente. Sento questo richiamo che mi disgusta. Ho sonno. Un sonno fruttato e aspro come il latte della patria che miagola. Un sogno mortifero e strambo, figlio di uno sciame di api. Mi circondano scherzose. Coronano la mia crosta. Vedo l’hotel di fronte alla stazione: Douce France. Sento venire i miei amati starnuti, come una chiamata freddolosa di capperi, come scoppi di allegria. Come le campane ostinate e spinose della mia città natale. Già vedo avvicinarsi i sentieri che tesse il ragno croccante: tutto questo odora a olio di carezza, il pane secco, il cuoio umido. Odora, odora: ah Antigone, l’aqua velva sta in mezzo a noi. Chi va là? L’ingombrante?

ANTIGONE: La tua voce è mutata. Le tue parole guadagnano in vocabolario e perdono in calore umano.

QUADRO A DESTRA: Benvenuto

A SINISTRA: Benvenuto

AL CENTRO: Welcome

EDIPO: Nessuno dei miei concittadini parla la mia lingua. È estinta. Non serve che a contare storie curiose. È una lingua che usano le foche. Si ascolta a volte negli ospedali di montagna. Le prostitute la utilizzano spesso quando discutono la tariffa. La parola tariffa ha cinquanta variazioni. La parola monsignore, duecento. Nessuna parola per dire amico, per dire pane. La parola merda è più popolare che la parola cammino; per dire cammino, diciamo merda.

DESTRA: Torna

SINISTRA: Ritorna

CENTRO: Come back

EDIPO: Di nuovo ho raggiunto l’unanimità della destra, del centro e della sinistra. E allora, non mi rimane più che ritornare. Figlia mia. Fai le valigie.

ANTIGONE: Se vuoi tornare, dovrai fartele da solo

EDIPO: E tu credi che lì si possano incontrare piccoli flaconi di lacrime fatti di argilla bianca?

ANTIGONE: Perché?

EDIPO: Ho voglia di piangere. Tu mi aiuterai, vero? Durante le mie lunghe notti d’inverno mi verrai vicino e racconterai la mia storia ad un pubblico di ombre cinesi. Così, le perle orientali faranno sbattere le palpebre delle caverne senza fine che sono i miei occhi

ANTIGONE: Però, che ti succede?

EDIPO: Niente, ho voglia di ritornare

ANTIGONE: Dicono che Creonte è in città

EDIPO: Ah. Visita ufficiale? Non mi sorprende. Il lupo fa pace con la volpe

ANTIGONE: Dicono che vuole farci tornare. Si dice che nuovi passaporti sono a nostra disposizione nel consolato

EDIPO: Dove si trova il consolato?

ANTIGONE: Di fronte, a lato del municipio

EDIPO: Qui niente è lontano

ANTIGONE: Niente, realmente niente

EDIPO: Non dobbiamo far altro che andare

ANTIGONE: Si

EDIPO: Per fare che?

ANTIGONE: Dato che vuoi ritornare…

EDIPO: Dove?

ANTIGONE: Nel nostro paese

EDIPO: Giammai. Che idea

ANTIGONE: Però lo hai appena detto

EDIPO: Ah sì? Non sono stato io

ANTIGONE: Sei stato tu

EDIPO: Non mi ricordo

ANTIGONE: Vedi? Vedi? Vedi?

EDIPO: Che dici?

ANTIGONE: Dico, hai visto?

EDIPO: Hai detto questo? L’ho già dimenticato

ANTIGONE: Che ti succede?

EDIPO: Lasciami pensare. Dici che ho detto di voler tornare in questo paese di merda?

ANTIGONE: Si

EDIPO: È evidente che non possa aver detto una cosa così. Quindi deve essere stato qualcun altro

ANTIGONE: Però chi?

EDIPO: Dove siamo?

ANTIGONE: In un cinema. Già lo sai

EDIPO: Lo avevo dimenticato. Così questo è quello che chiamano un cinema. Però aspetta. È un cinema o un teatro?

ANTIGONE: Entrambi

EDIPO: Ah. E dove si trova la buca del suggeritore?

ANTIGONE: La vedo lì

EDIPO: Dai, bussa. Dai, dai, rapido. C’è qualcuno che suggerisce, ne sono sicuro!

ANTIGONE: C’è qualcuno lì?

CREONTE: Si

ANTIGONE: Chi è?

CREONTE: Il suggeritore

EDIPO: Abbia la gentilezza di avvicinarsi. Io verrei con piacere, però, come può vedere, sono cieco. Anti, che dice?

ANTIGONE: Nulla

EDIPO: Finalmente ci troviamo faccia a faccia. Questo non mi disgusta. Dopo tanti anni. L’immagine del nemico nasconde l’umanità dell’uomo. Diciamo quindi che io dimentico il nemico e che mi avvicino all’uomo

ANTIGONE: Vuoi perdonare Creonte?

EDIPO: Si e no

ANTIGONE: Non sei più mio padre

EDIPO: Perché?

ANTIGONE: Per quello che hai appena detto

EDIPO: Che ho detto?

ANTIGONE: Hai detto che perdonavi Creonte

EDIPO: Io perdonarlo? Giammai!

ANTIGONE: Lo hai appena detto!

EDIPO: L’ho dimenticato. Però aspetta. Dove siamo?

ANTIGONE: In un cinema e in un teatro.

EDIPO: Dai, bussa alla buca del suggeritore. Chiedigli perché mi suggerisce queste dichiarazioni.

CREONTE: Io suggerisco quello che sta scritto

EDIPO: Ah sì? Interessante

CREONTE: Interessante. A proposito, è lei o sono io colui che pensa quello che sto suggerendo?

EDIPO: Interessante. È lei o sono io colui che pensa quello che sto suggerendo?

CREONTE: Interessante. Mi trovo qui per forzarti a far ritorno con i tuoi concittadini

EDIPO: Chi ha suggerito questo?

CREONTE: Tu! Io non avrei mai detto una cosa così. A me piacciono i periodi lunghi.

EDIPO: Non tornerò mai

CREONTE: Ah, questo l’ho suggerito io

EDIPO: Perché hai già preparato un’operazione di largo respiro. Ritornerai dicendo che non voglio tornare per volontà propria e che devi forzarmi

CREONTE: È lei che lo dice

(Exit Creonte)

EDIPO: Creonte! Dove sei? Questo sta dappertutto

ANTIGONE: Se n’è andato senza nessuna parola di commiato. Questo significa che passerà all’azione, lo conosco bene. In un altro tempo, lo amavo. Quando vinse il premio di equitazione, collezionai per molto tempo tutti i ritagli di giornale che parlavano di lui. Mi piacevano i suoi capelli. Era l’uomo che faceva tutto: cantava, ballava, il suo colpo di tacco nel tip tap era adorabile. La prima volta che lo vidi ballare…

Ah! Ti ricordi? Stavamo insieme. Lui ballava freneticamente, colpendo il suolo freneticamente con le scarpe che avevano conservato il pallore del volto di mia madre. Questa notte fu proclamato re del tip tap. Solo dopo comprendemmo che i suoi piedi stavano trasmettendo un messaggio in morse. Già preparava il golpe di stato.

EDIPO: È ancora così bello?

ANTIGONE: Si, lo è ancora

EDIPO: Lo ami, vero?

ANTIGONE: (Ride). Chiedilo piuttosto a Ismene

EDIPO: Perché? Perché lei e lui…?

ANTIGONE: Lo sanno tutti

EDIPO: Non è possibile

ANTIGONE: Io stessa li ho visti

EDIPO: Questo non può essere vero. No, giammai!

ANTIGONE: Io li ho visti!

EDIPO: Raccontami che facevano

ANTIGONE: (Pausa drammatica) Assegni. Assegni orribili

EDIPO: Erano buoni dello stato?

ANTIGONE: No, oggi tutto è privato. Inoltre ridevano

EDIPO: Allora non è così grave. Erano assegni senza fondo

ANTIGONE: Sei ingenuo

EDIPO: Si è vero. È tipico della cecità

ANTIGONE: Pensi molto alla cecità?

EDIPO: Si, e di che forma! I miei occhi, i miei preziosi occhi. Uno cane, l’altro gatto. Uno incontrava sempre la sua carne nella bocca dell’altro. Uno innesto, l’altro incisore di ricordi. Uno notturno, l’altro tropicale. Uno forestale, l’altro famoso. Uno fertile, l’altro fervente. Uno visionario, l’altro veggente. Entrambi grandi, aperti. Ah, i miei occhi amati! Che coppia di bugiardi! Adesso vedo con chiarezza. Mia figlia, le mie figlie. E tuttavia la loro madre diceva: una puttana in famiglia è più che sufficiente

ANTIGONE: Quindi tu sapevi…

EDIPO: Si e no. Sai, vivo in una vasta dimora. È per questo che tutti gli imperi girano intorno a un cieco nascosto. Se no, perché credi che mi cercano. Dovunque vada, lì si muove il centro del mondo

ANTIGONE: Quindi sapevi

EDIPO: Ho sfiorato la verità un paio di volte. Le altre solo stavo nutrendo pascoli. Mammelle invertite, i miei crateri fumano la bianca menzogna che succhiano i grandi. Ovunque io vada, percuotono le eruzioni (Ride). Io sono la peste! Ovviamente sto esagerando, è inutile dirlo

ANTIGONE: Si. È perché ti spingi troppo oltre. Questo logora.

EDIPO: Quindi si nota?

ANTIGONE: Chiaro come il sole

EDIPO: Fortunatamente, per un attimo ho pensato che avresti detto come in un film

TESEO: Film, chi sei?

ANTIGONE: Il re è tornato

EDIPO: Signore, perché mi chiami in questo modo?

TESEO: So tutto sul tuo film

EDIPO: Fu Creonte che te lo raccontò

TESEO: Si

EDIPO: Bene, era la verità

TESEO: Dov’è?

EDIPO: Con me

TESEO: Mostrala

EDIPO: Anti, prendi la pellicola

ANTIGONE: Avevi detto che non la avresti mostrata a nessuno

EDIPO: Giustamente

ANTIGONE: Eccola

EDIPO: È bella, non è vero?

TESEO: Perché è pelosa?

EDIPO: Ma, mio signore. Non è una pellicola qualunque. È fatta con la pelle del petto di mio padre. La metta sopra la faccia. Agganci i capezzoli con le orecchie. Adesso ascolti.

TESEO: Allora è vero

EDIPO: Si signore. Adesso si copra il sesso con essa

TESEO: Allora era questo

EDIPO: Si, mio signore. Adesso la utilizzi come se fosse un guanto

TESEO: Allora è adesso

EDIPO: Si mio signore. Adesso si copra il petto con essa

TESEO: Ahi, ahi, non voglio la tua pelle. Vattene da qui. Ti farò deportare in un paese a tua scelta

EDIPO: Portogallo.

TESEO: Partite, rapidi. Tornerò qui a mezzogiorno e spero incontrare la sala vuota. Addio, vecchio stregone!

[…]


Alcuni vicini approfittano dell’estate per riparare le proprie case

 

[…] È giunto il momento: si prova a riposare e sembra che la gente galleggi, e che all’improvviso già non ci troviamo qui, ma nella Alerce Norte di Puerto Montt o a Calama, Quillota: estate piena: pascoli asciutti, uomo in triciclo verde cloro, una famiglia seminuda sopra un pavimento incerato, mangiando anguria, la tele sempre accesa e le piscine di plastica nei cortili sul retro, nei giardinetti, nei camminamenti, sui marciapiedi, in dubbiose aree verdi, fuori dai blocks! un parco acquatico, un alveare di occhietti di acqua plastificati, terme popolari dove può entrare una piscina dove le acque a quest’ora sono un brodo di umani, ogni persona che si mette nell’acqua lascia la sua impronta: sudore e saliva, per lo meno. un turchese torbido che si arricchisce nell’acqua. quando gli umani smettono di rigirarsi nell’acqua, lasciando lì i propri fluidi, la piscina è abbandonata per un paio di giorni e l’acqua si calma e diventa verdognola, odora di carattere, ed è un regno a parte che inizia ad assorbire le acque stagnanti in progresso, minacciando le flore intime dei vicini. però ai vicini non importa. è come se a quest’ora niente importi, fa caldo, si possono ascoltare i tetti comprimersi, guardare come le formiche risalgono una buccia di anguria, fumare e provare vertigine, sentire nella gola una Dorada, pensare di comprare un’amaca: pensare nei droni che escono dal commissariato, in quante videocamere di sorveglianza ci sono, chi starà osservando adesso il paesaggio vuoto, vigilando una población, che a volte, come a quest’ora dell’estate, post-pranzo, si pixelizza, mentre cade il segnale.

 

La simbologia dell'acqua è stata associata più e più volte al femminile, alle donne e all'emotività dai più diversi saperi ancestrali. Da questa idea nacque, un paio di anni fa, l'interesse per le potenzialità poetiche di questo rapporto sociale e storicamente determinato tra donne e acqua (Salinas e Becker 2022 pp 7-8): avevo bisogno di sapere quali fossero le relazioni che intuivo potessero esistere tra le questioni di genere e il recupero delle acque, azione che nel contesto cileno di un neoestrattivismo esacerbato (Svampa 2019 p 38), assume particolare rilevanza. Nello stesso tempo, mi ero resa conto di una certa tendenza presente nelle pubblicazioni poetiche di donne cilene, dove ho trovato una predominanza di immagini acquatiche legate agli affetti del corpo e dove si univano i significati materiali dell'elemento acqua con la dimensione simbolica legata all'emozione.

Atlas


Piccolo Atlas della fine del mondo

A volte le idee e la loro forza possono portare fino alla fine del mondo. A novembre dell’anno scorso insieme ad autori che i lettori di Uzak conoscono bene (Eduardo A. Russo, Gustavo Celedón, Marina de Angelis) abbiamo organizzato un congresso, che presto è divenuto un festival di parole e visioni, nella città più a sud del mondo, Ushuaia. Partecipavano studiose e studiosi, artisti e artiste, cineasti (fra gli altri, Julio Bressane, Giovanni Cioni, Alessandro Gagliardo, Andrea Fogli) cileni, italiani, colombiani, argentini, brasiliani, portoghesi, che, dal vivo o a distanza, hanno tessuto i loro discorsi o proiettato virtualmente le immagini delle loro opere verso quei ghiacci eterni dove si era perduto Gordon Pym.

Ho chiesto loro di scattare una foto di quel mondo agli antipodi e corredare l’immagine con un breve testo. Alcuni hanno accettato l’invito.


Congreso Internacional Fronteras | Área de Antropología Visual (antropologiavisual.com.ar)
 g.f.

Se la Terra del Fuoco è il margine più estremo del mondo (terso, gelido, quasi evanescente all'orizzonte, come un miraggio fatto, sfatto d'aria glaciale, congelante, anziché da quella incandescente del deserto: da lì, dal Congreso International Fronteras, dalla città più a sud del mondo, Ushuaia, Giovanni Festa con il suo manipolo di detective selvaggi, scrittori sudamericani, pionieri della parola e dell'immagine, ha trasmesso la manciata di fotografie e testi nati dal limite ultimo, come una faglia, una ferita aperta nel suolo da cui esalino gli umori, i fondigli immaginali), magari la provincia italiana, nel pieno dell'occidente, ne è un qualche inizio (benché corrotto dal progresso, dalla selvaggia economizzazione delle esistenze), almeno dal mio punto di vista, il territorio che ho intorno; o altrimenti l'intermezzo, l'estremo intermezzo in cui, in mezzo alla turpe spoliazione del simbolico intrinseco alle cose da parte della “cultura” contemporanea, sopravvivono retaggi di un altro tempo, di epoche rurali, forse anche ancestrali, appunto la materia del simbolo.

Uzak 44 | estate/autunno 2023

Certo, questa invasione delle prenotazioni telematiche (che ti mettono in uno stato parossistico d'ansia già mesi prima della Mostra); la nuova prassi delle file virtuali; la coartazione a stilare un programma di visioni giorni e giorni prima delle proiezioni, senza la possibilità di improvvisare, cambiare idea all'ultimo momento, lasciarsi sorprendere da un film inatteso, impensato ecc.; il disappunto di fronte al messaggio uno e trino sul telefonino, di sale esaurite - ma poi... arrivi in una sala data per gremita e ti accorgi che è quasi vuota (ad esempio non sono riuscito a vedere un solo film della SIC quest'anno: erano proiezioni inaccessiabili, ma anche lì, dice: molti posti vuoti) -; insomma tutto questo incrina l'idea che si aveva dei festival cinematografici fino a tre anni fa.

Teorie

La Mostra è finita, oggi si scopriranno i Leoni di questa edizione 80 caratterizzata dallo sciopero a Hollywood che ha tenuto lontane dal Lido e dal suo Red carpet le tante star presenti sullo schermo, americane e non solo. Eppure le cose sono andate benissimo, il pubblico è risultato in aumento, e quello che fa davvero piacere è scoprirlo giovane e appassionato. Sul Lido dove splende un sole estivo è iniziato già da qualche giorno il rumore di valigie, il giardino del Quattro Fontane, luogo di incontro dell’Industry di produttori e tv si è svuotato, sui canali i barchini dei ragazzini di qui pompano musica techno comunque vada migliore della colonna sonora di fronte al Palazzo del cinema che ha accompagnato i pomeriggi di questi giorni.

Espressionismo e Neorealismo, un Neorealismo posteriore: lo stridore, l’urto derivanti dallo scontro di placche immaginifiche, figure a contrasto, secche soluzioni cromatiche, secrezioni d’audio che lasciano sul terreno dello scontro (sulla superficie del piano) lamiere taglienti, grondanti di iconoplasma, sagome tranciate di netto, fracasso di ferraglia; e la pietas di un cinema nudo, "povero", rastremato fino all’osso dell’esistere, fino a un’urgente essenzialità del segno; questo pare essere lo statuto proprio di Hokage (Shadow of Fire) di Shinya Tsukamoto, presentato nella sezione «Orizzonti» della Mostra di Venezia appena terminata.

DEVIAZIONI DELLA NATURA. MORTI VIVENTI, CORPI MUTANTI, PRESENZE SPETTRALI

(Trad. Giovanni Festa)

Il lucchetto viene rotto con un spranga, il legno che copriva la porta viene rimosso e il fienile si apre lentamente. Pochi secondi dopo la luce raggiunge il primo zombie, un contadino in tuta blu che ruggisce come un animale mentre fissa lo sguardo su quelli che aspettano fuori, e molti altri emergono dall'oscurità. Uno dopo l'altro, i mostri vengono abbattuti dagli spari degli umani. L'uccisione, se così si può chiamare, continua con totale normalità e termina in pochi secondi.

Una coppia viaggia in una jeep scoperta, nel mezzo della selva. Chiacchierano. Il meccanismo del campo e controcampo mi fa pensare a Marlowe-Bogart e Vivian-Bacall, anche loro in auto, nel Grande Sonno (1946) di Hawks. Ma la nostra coppia, che viaggia sulla strada malmessa di un'isola tropicale, sembra in cattive acque: dopo aver trovato la loro personale Key Largo nelle Filippine, è impegnata a fuggire da tutti quelli che dal "grande sonno" si sono appena svegliati: i morti viventi.

Il cinema, da sempre, è affascinato dall'apocalisse: non tanto come concetto che induce a un confronto con la fine – essenziale nella dialettica vita/morte, prima/dopo che si viene a instaurare con un dispositivo che registra immagini già “passate” nell'atto di essere filmate e quindi da riportare alla vita – quanto per la sua implicita capacità di farsi fonte di visioni.

(Trad. Giovanni Festa)

L'Occidente ha voluto liberarsi dei rifiuti e solo uno scarto poteva sostenere l'Occidente. Non diciamo l'umanità, ben lo sapeva Foucault, questa è un'invenzione kantiana, liberale, cioè occidentale. Non è nemmeno un chip, come lo conosciamo ora, è un maledetto rifiuto, una spazzatura spaziale, piccola, condensata, rugosa come una carta dentro la mano. Ti ricordi cos'era una carta? Perché so che a malapena ricordi cos'è una mano. È un rifiuto del quale si assicurarono che, perso nello spazio, almeno il suo percorso errante girasse a vuoto su un asse fittizio. Erra in loop, per la felicità dei suoi antenati.


«L'orrore è un sentimento assai energico; il corpo è in uno stato di estrema tensione,

quando pure non sia snervato dalla paura.»

(Sir C.Bell, Anatomy of Expression)

 

«Vidi un fabbro, ritto, colla bocca aperta, che divorava avidamente le storie d'un sarto»

(Shakespeare, Re Giovanni - atto IV, scena II)



Se per Ortega y Gasset «La biografia è un sistema nel quale le contraddizioni della vita umana trovano la loro unità» il documentario David Lynch the Art of Life (1) (2016) è la diretta manifestazione di questa citazione. Di fatto nel film il regista di Velluto Blu ricostruisce a braccio le diverse tappe della sua vita pre artistica.

HERVÉ GUIBERT/TABLE DE TRAVAIL "FANTÔMES", RUE DU MOULIN-VERTN.D.


«Wir sind Fantome»

(Carl Einstein)


Connettere parola e immagine, su cui teorizzava Hervé Guibert caricando di segni quel luogo intermedio di gestazione dell’opera che si identifica, nonostante il vuoto, con il “traghettamento” tra essa e la scrittura, si lega alla percezione di un attraversamento del buio, di quello che Emanuele Trevi nell’introduzione a L’immagine fantasma definisce «spazio narrativo» mentre cita, oltre Nadja di André Breton, La camera chiara di Roland Barthes.

Alessandro Saturno, Piccola nuvola - 2021, acrilico e olio su tela, 30x50cm

Il testo è apparso nel catalogo della mostra monografica “Alessandro Saturno. Forme dell'Assenza”, a cura di Don Gianni Citro ed edito per le Edizioni C.R.E.A. La mostra è in corso fino al 9 settembre nel Palazzo Santa Maria, a Camerota, un borgo medioevale nel cuore del Cilento. Abbiamo pensato di aggiungerlo alla fine di un Dossier su Presenze e Morti che ritornano, come se le opere di Alessandro Saturno formassero gli ultimi frame, in dissolvenza continua, di questa nostra breve “storia di fantasmi per adulti”.


A volte, per cercare di avvicinarci a qualcosa di complesso, è utile cominciare servendosi di un'immagine semplice. A tutti noi sarà capitato di fare una gita in barca in una baia e, durante il tragitto, di sporgerci dal parapetto per scrutare il mare. All'inizio non vediamo altra cosa che il riflesso screziato dell'acqua, le venature verdi, blu scuro, gialle, che attraversano la superficie azzurra dove si deposita anche lo scuro bituminoso delle ombre. Poi, come un'immagine che si definisce nella lontananza, o nel ricordo, ecco apparire il nostro volto. Ma non come lo vediamo in uno specchio (conservando l'accezione "difettosa" della Lettera paolina): al contrario, i suoi contorni sono instabili, i tratti liquidi, i colori diversi, il volume diventa diafana trasparenza.

Uzak 43 | inverno/primavera 2023

Ci sono dei temi e delle forme cinematografici (forme e temi strettamente connessi tra di loro) che negli ultimi tempi percorrono, spazzano l'Europa dalla Germania al Portogallo alla Danimarca, all'Italia, lasciando la loro scia eccentrica, fosforica, come un'incrinatura nella concezione narratologica del cinema.

La vita dell'altro come strumento ottico. Biografie, Ritratti, Still life

Un uomo anziano, un po’ curvo, esce dalla casa dove vive, un piccolo alloggio prefabbricato di una periferia americana qualsiasi: lo vediamo in abiti da città, con cappello e cappotto, e immaginiamo stia uscendo per sbrigare qualche faccenda (e, dato il sole, che sia “freddoloso”). L’uomo cammina lentamente, sembra scosso, e fa qualcosa che non ci aspettavamo: si blocca all’improvviso (e la macchina da presa, in maniera involontariamente poetica, indugia un istante prima di mostrarci il motivo della sosta). L’anziano si è fermato ad osservare il cespuglio di rose nel portico e si china per coglierne e odorarne una, avvicinandola al volto, mentre la voce over racconta che i fiori furono piantati dall’amata moglie morta.

Trad. di Giovanni Festa

In quest’epoca scioccante nella quale il mondo sembra cadere a pezzi nonostante l'ottimismo di vari intellettuali che credono di essere all'avanguardia di un cambiamento epistemologico, intellettuali che stanno già pensando alle proprie biografie, mi interessa pensare di più a ricomporre una biografia impossibile, una sorta di ironia controspeculativa. Qui, comunque, solo un paio di pagine. Si tratta quasi di enunciare un progetto (che non vuole essere per nessun motivo lungo).

(Trad. Giovanni Festa)


«Il futuro dove ci fa piombare il passato che amiamo è l’unico futuro sul quale ha senso puntare,

l’unico futuro dove possiamo proiettarci senza tradirci,

mentre viviamo l’unico tempo che ci è dato vivere con il corpo, la mente e tutto il resto: il presente».

(Jonny Costantino)




A causa dell'urgenza di soddisfare necessità ordinarie (dar da mangiare ai figli o pagare l'affitto), ed esigenze creative (realizzare esperimenti visuali o scrivere sull'arte della visione), Stan Brakhage è costretto, tra il 1969 e il 1981, a tenere un corso di storia del cinema ed estetica presso l'Art Institute di Chicago. Come per ogni cineasta americano che pretendesse di sfidare, anche solo un poco, l'industria, quello che all'inizio era un modo sicuro per resistere alla precarietà di tutto ciò che è marginale, diventa occasione propizia per la sperimentazione interna a quel territorio aperto che è il cinema.


«La vita non è un gioco, amico. La vita è l’arte dell’incontro».

(Vinicious de Moraes, Sergio Bardotti, Samba delle benedizioni)



C’è una scena nel documentario La vita è un raccolto (Les Glaneurs et la glaneuse, 2001)) dove Agnès Varda attraversa un campo coltivato e raccoglie delle patate a forma di cuore. Esclusi dagli standard delle leggi di mercato, quei tuberi deformi recuperano una dignità grazie allo sguardo della regista che li converte in metafora di una umanità sopravvissuta a un capitalismo spietato e ossessionato dalle forme “lisce e pulite” (1). Qualche anno più tardi le patate-cuore abiteranno il mondo utopico di Patatutopia da cui prende il titolo la video  –  installazione presentata alla Biennale di Venezia del 2003. L’opera concentra su tre canali di grandi dimensioni le immagini di «patate abbandonate, raggrinzite e germogliate di nuovo».

A sinistra della foto rifilata con le forbici e ormai un po’ ingiallita, un uomo si concentra nell’azione di prendere la mira (in realtà già di sparare): chino su sé stesso, il corpo e le mani che abbracciano il fucile, l’occhio sinistro chiuso, la bocca tesa nello sforzo (foto nº1a). Non è un cacciatore, né un soldato e neppure un sicario. È un uomo del dopoguerra (sul retro leggiamo: Milano, 24-2-1948; foto nº1b) avvolto in un cappotto un po’ grande, i capelli ben pettinati con la riga di lato, una sciarpa bianca che spunta dal colletto.

(Trad. Giovanni Festa)

La pittrice Celia Paul ha scritto che «nessun oggetto posto al centro di una stanza o di una galleria, per quanto potente, può catturare l'attenzione con la stessa intensità di un quadro appeso al muro» (1). Le sue parole si riferiscono a uno spazio espositivo d'arte e a oggetti artistici o opere d'arte. Adesso consideriamo le circostanze suggerite dalla scenografia di Laura (Otto Preminger, 1944): in una stanza presieduta da un ritratto, un soggetto/oggetto di desiderio può certamente catturare lo sguardo con maggior forza della pittura.

(Trad. Giovanni Festa)

La figura di Helen Keller (1880-1968), scrittrice, oratrice e attivista che seppe svolgere un'intensa vita pubblica nonostante fosse sorda, cieca e muta dalla primissima infanzia, ha attraversato le generazioni come un caso eccezionale. Fin da piccola ha vissuto le traversie di una vita mediatica. La stampa e l'industria editoriale, poi il cinema, la radio e le presentazioni pubbliche furono incessanti durante una lunga vita divenuta un esempio di superamento di una situazione che sembrava senza via d'uscita. Per più di un secolo il cinema ha illustrato questa presenza attraverso il documento audiovisivo e di finzione.

«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono» (M. Heidegger)

Editorie

Anche solo soffermandosi su due tra i suoi ultimi film, Bagnoli Jungle e Il buco in testa (Achille Tarallo è una cosa a parte, eppure, a suo modo, parte di questa cosa) sul loro precipitato estetico – una densità dell'immagine, proprio dell'aria che vi si respira; una tridimensionalità sfessata eppure renitente: brulicame di ioni, di nuvolaglie, cieli slavati, a cavallo di Rossellini e Pasolini; epifanie o vere e proprie ierofanie per quanto larvate, pagane – ci si chiede come mai il cinema di Antonio Capuano sia rimasto ai margini dell'apparato cinematografico italiano; per nulla distribuito, o distribuito male, quasi a malincuore (e non se ne capisce il motivo), se è vero che l'ultimo film apparso in sala, in più di una copia, fu L'amore buio nel 2010.

Uzak 42 | estate/autunno 2022

Quando arriva il momento del numero autunnale - dopo le scorribande estive nei festival: bellissimo Locarno, tra l'altro senza l'assillo delle prenotazioni; affannosa Venezia da cui sono tornato spossato mentalmente e frustrato a furia di prenotare per proiezioni che spesso risultavano disertate (sic.): urge di ripensare a questo meccanismo (magari tornando al passato); ne va della sopravvivenza della Mostra - mi prende la solita malinconia, nel presagio delle immancabili retoriche foglie a crepitare e a ingiallire il tardo pomeriggio tra i tetti, e delle castagne la domenica a pranzo dai parenti. Ecco, dopo le scorribande, al primo soffio di vento, un istinto al ripiegamento, alla dimensione domestica: come la volontà di un appassimento mentre la congerie di cose continua «a essere la stessa, stupefacente e tetra» (Huysmans).

Teorie

«La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L'homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l'observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

II est des parfums frais comme des chairs d'enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
— Et d'autres, corrompus, riches et triomphants,

Ayant l'expansion des choses infinies,
Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens,
Qui chantent les transports de l'esprit et des sens».

(C. Baudelaire, Correspondances)


«Dall’altra parte delle acque scure», stando all’epilogo del precedente film di Hintermann su Terrence Malick, Rosy- Fingered Dawn, c’è tutta una teoresi sulla materia cinematografica, sul suo portato di luce, di ombre attraversate dalla luce: rimandare al doppio aurorale, alla sintesi, in un momento, del dì nella notte, si connota oggi, pensando al più recente The Book of Vision di cui lo stesso Malick è produttore, in un periodo storico quanto mai determinato dal criterio dell’assolutizzazione dei punti di vista (dell’intransigenza del proprio modo di vedere le cose senza apertura alcuna al confronto), si caratterizza proprio come idea creante, spazio cinetico, estetico, di attuazione di un progetto, che è prospettiva, visione, rêverie di un mondo possibile. Così il dualismo tra orizzonte del «visibile» e del «visto» (Roberto De Gaetano, Il visibile cinematografico) è trasposto da Hintermann dal campo più propriamente percettivo a quello teorico, filosofico, toccando per certi versi degli aspetti focali, attuali, sui quali si ritiene debba concentrarsi l’interesse della critica.

*Una prima versione di questo articolo è apparso su «Il Manifesto» del 15 settembre 2022.

Cosa ci lascia Jean Luc Godard? Quale eredità tratta direttamente dal bacino straripante e straziante del Novecento? Tra le tante cose, io direi la consapevolezza che non si possa fare cinema se non attingendo al cinema stesso – e assecondando la natura cinetica, cinematografica del mondo –, alla congerie di linguaggi che nel cinema s'intrecciano, si scontrano, si contrappuntano per alludere, attraverso questa materia immaginale spuria, all'esistenza, a stadi di esistenza, gradi di segnificato sia pure fugace. È proprio la neutralizzazione del significato, del significato univoco in favore della coesistenza di senso, di sensi di marcia dei segni, il fulcro di questo cinema, di questa filosofia.

Archeologia della memoria ed Etnologia di sé. Lettere, Confessioni, Diari

L’altra notte (mi verrebbe da aggiungere, automaticamente, la data, zelo inevitabile in un testo sulla memoria e la sua scrittura, ma non la ricordo), quasi in dormiveglia, cercando di capire come iniziare queste riflessioni, mi è venuto in mente all’improvviso William Hurt-Sam Farber quando, in Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders, registra ricordi per la madre cieca Jeanne Moreau-Edith. Registra immagini in soggettiva. Cioè, al cinema, in prima persona.

(Traduzione di Giovanni Festa)

Nel 2009, dopo una lunga carriera come regista, Alain Cavalier ha presentato uno strano prodotto audiovisivo, vicino – per il suo stile minore, l'enunciazione estremamente personale e ciò che registra –  al diario e al saggio. Irène appartiene in questo senso ad un certo spirito d'epoca, che si definisce, a partire dal passaggio del secolo, per un rinnovato e crescente interesse per forme intergeneriche simili, realizzabili grazie alla tecnologia video e alle sue caratteristiche, come la rapidità tecnica, la riduzione dei costi economici durante la registrazione e la modifica di suoni e immagini in movimento.

«Credo di non fare niente di male annotando qui, di giorno in giorno, con estrema franchezza, gli umilissimi, insulsi segreti di una vita peraltro priva di mistero». Scrive così il prete protagonista di Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos, nella traduzione di Stefania Ricciardi per i tascabili Bompiani. E così, con queste esatte parole, vergate su un quaderno e inquadrate con uno zoom-in subito dopo i titoli di testa, ma allo stesso tempo anche pronunciate dalla voce over del parroco di Ambricourt, comincia il film di Robert Bresson che ne è la trasposizione cinematografica.

Ero in debito col Martin Eden di Pietro Marcello, che altrove definii uno splendido mezzo film, avanzando qualche riserva sulla seconda parte (pur ricca di cose interessanti). Nel rivederlo, faccio ammenda.

È più lenta la vita o la sua scrittura? Ma non si potrebbe dire anche il contrario? È più rapida la vita o la sua scrittura? La seconda, almeno, scorre per restare. La scrittura come carta moschicida sulla quale lasciare aderire la vita.

«[…] Girati, e non importa quanto lontano andrai, tornerò qui […]»

Amir Eid, Cairokee, Ya Abyad Ya Eswed

La tensione alla conoscenza che il processo interno alla memoria genera, inserendosi in quella che si potrebbe definire un’ontogenesi dell’immagine – e da lì diventa traccia, principio: ἀρχή, fondamento di tutte le cose – percorre tutta la poliedrica produzione di Mario Martone da molto tempo, quando già opere teatrali come I Persiani di Eschilo, rappresentata al Teatro Greco di Siracusa con musiche di Franco Battiato, erano in qualche modo il segno di una ricerca che si sarebbe fatta via via più evidente; che già allora conduceva uno studio finalizzato a restituire la forma originaria dell’oggetto rappresentato attraverso la distinzione dei tre cori, innestati sui tre pilastri espressivi del «gesto», della «parola» e della «musica» (come si evince da un’intervista del 10 aprile 1990 su Il Mattino), coerentemente con l’intento etnografico di acquisire il quadro di un popolo, per mezzo dell’arte; e che ora, con Nostalgia, unendo gli estremi di quella triade antropologica che è linguaggio, storia, dimora, contraddistingue il perpetuarsi di un ritorno, del suo dolore.

UZAK 41 | inverno/primavera 2022

Era molto tempo che, evidentemente a causa delle restrizioni e contenzioni, non uscivano tanti film interessanti uno dopo l'altro o uno insieme all'altro. Il che è una fortuna, lo sarebbe anche a prescindere dalla qualità dei film, perché significa comunque tornare in quei santuari che sono le sale cinematografiche, il cui decor vellutato, buio, con il quadro che fa lampeggiare in ogni momento fantasmi forforici, non è qualcosa di passivo, un contenitore, ma rientra nel film, lo penetra, condiziona la visione, le dà spessore, suggestione: sono le forme, le condizioni di luce (penombre) di un luogo, le tende, il silenzio denso che interagiscono con le immagini sullo schermo, con i luoghi, gli spazi dentro lo schermo.

Le città visibili

Buenos Aires a partire dal cinema. Visioni, derive e agguati

(Traduzione di Giovanni Festa)

«Non ci siano dubbi: filmare le città scopre il loro mistero»

(J.-L. Comolli La città filmata)

 

Filmare una città impone una doppia dinamica. L'esaltazione del visibile, che organizza la città come spettacolo e avventura conoscitiva: il cinema dispone le sue cartografie di meraviglia e desiderio, esplora spazi abitabili e percorribili, registra il movimento delle folle e le mutevoli relazioni tra pubblico e privato, confronta i dissimili tempi di riposo e di accelerazione. Fornisce così nuovi punti di partenza per il cinema del reale e nuove piattaforme per le più diverse possibilità immaginarie che si aprono in quegli spazi, attraverso quella danza di corpi a velocità multipla, di luci e ombre che interagiscono sullo schermo. E queste stesse ombre aprono il passo sia alle luci della città sia al lato oscuro della vita urbana, che il cinema ha messo a fuoco con altrettanta cura, perché non è solo questione di rivelazione. Ciò che viene mostrato e ciò che viene narrato, nel gioco del campo e del fuori campo, rivela, e nello stesso tempo sostiene e alimenta, nel cinema un indissimulabile resto d’ombra, molto più intensa di quella proiettata dai suoi edifici alla luce del giorno o del buio che popola le sue notti. Ciò che il cinema rivela quando filma la città è, come afferma Comolli nell’epigrafe di questo scritto, né più né meno che il suo mistero.

La città furiosa degli Ultimi Giorni

(Traduzione di Giovanni Festa)

«I grandi viali si fanno strada e non smettono di venire»

Nicola Pino (1)

Denominare escatologicamente una città, come se fosse una città nei suoi ultimi giorni, alla quale è stata rivelata la fine dei tempi; o che, appesa a un filo, si avvicina al precipizio e si equilibra nella sua stessa caducità, su un asse debole; ma, anche, una città che ha appena subito un cataclisma e sta definendo, a tentoni, cosa ne sarà di lei in questo tempo post-apocalittico. Ecco di cosa parla questo testo. Gli Ultimi Giorni vogliono qui denominare quell’ambiguo statuto, quel momento critico tra la profezia – che alcuni, con entusiasmo mistagogico (2), si affrettano a marcare a fuoco sul proprio corpo: «sarai punita» – e il tempo post, quando la rivelazione è già avvenuta. Vale la pena notare che questi Ultimi Giorni non segnano solo una città, ma si riferiscono all’epoca intera in cui si inscrive la sua contemporaneità, perché sono gli ultimi (ultimi e recentemente giunti) giorni non solo di Santiago del Cile, ma di un mondo che cade e nel quale oscilliamo tutti (questa e le altre città) in equilibrio instabile, su basi logore, che non bastano più. Perché le nostre città invecchiano e non invecchiano bene; le finzioni ultramoderne sono diventate la loro versione peggiore, scenari altisonanti del consumo che alimentano povertà e umiliazione.

Immaginario minimo della città trascritta, allucinata, politicizzata

(Traduzione di Giovanni Festa)

Questo testo è stato scritto lontano da La Plata, senza poter disporre di una parte fondamentale dell'archivio esistente sugli argomenti trattati. Le seguenti note preliminari sono rivolte ad alcune opere di grande rilevanza da/su questa città di formazione. Per vari motivi, altre opere di pari interesse non verranno approfondite. In fondo si tratta di uno scritto che mescola il gusto personale con l'avvio di un'indagine storica. Il suo principio costruttivo si ispira vagamente a una frase dello storico Carlo Ginzburg: «L'artificio, che si concentra su certi elementi e non su altri, permette di cogliere la ricchezza della realtà» (Serna & Pons, 2019, p.100 ). Tuttavia, il saggio, in procinto di disintegrarsi, sembra articolare insieme una serie incostante di analisi e immagini; come scrive Jean-Luc Nancy (2013, p. 130):

 

Città tutta istantanea

senza visione panoramica

senza paesaggio, senza geografia

istanti bloccati

luoghi spalmati

articolazioni incerte

Paterson, New Jersey. Le vecchie filande in mattoni rossi di Paterson; la Union Works, tra Spruce Street e Market Street, di Paterson; le Grandi Cascate del fiume Passaic di Paterson; il deposito degli autobus di Paterson; gli incroci delle strade di Paterson; Paterson di Paterson.

Ci aiuta, l’epifora, che potrebbe essere anafora o simploche, poco importa, a restituire in forma scritta quello che Jarmusch fa con l’audiovisivo in Paterson: litaniare la città. Evocare con la litania della parola (o, in questo caso, del visivo) con la ripetizione e l’evocazione diretta, disintermediata, la materia dietro lo spirito, l’immagine dietro l’idea, il referente oltre il segno, la città dietro il panorama. La Paterson di Jarmusch è l’opposto della Tamara di Calvino: non è qualcosa che resta sepolta sotto un “involucro di segni”, da cui uscire senza averla conosciuta. Non esiste in funzione di, nella vaga sembianza di un’altra qualunque città. É fatta di Paterson stessa.

«Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare».

 (D. Campana)

Si vedeva una barca. In fondo era un rosso-blu che si fondeva nell’acqua, scene di Martin Eden tra gli occhi e le labbra, come un sipario di luce capovolta. Arrivava il Tempo lungo dell’Immagine, di deleuziana memoria, a “memoria” del ricordo, dello spettro del ricordo: cartina al tornasole di quello che resta, ancora; dinamica dell’iride che si svuota, si slabbra a (non) contenere quel tramonto, la sua fuga verso il fuoricampo, verso partenze che poi sono sempre stati ritorni: lì dove tutto sembra avere inizio, dove si attende che qualcuno parta, o arrivi. Nel mezzo di una pandemia globale fatta di virus e di armi, mentre arrivano da qualche parte, da terre violentate dall’altro lato di quel mare immagini vere di vite divelte, distrutte, – e mi domando a che valga questa resistenza di carta e di inchiostro, il virtuale di questo tentativo che faccio di scrivere di cinema, di scrivere, nonostante il sangue che si sparge – la sovrimpressione di quel tramonto d’acqua mi porta a Valerio Mieli, a quel suo film che sarebbe disperato se non fosse per il ritrovarsi, “alla fine”, dei due amanti distanti; ai bagagli di Camilla, avvolta nella sciarpa colorata a righe, prima di prendere il vaporetto per Venezia; ai riflessi in basso, nello specchio ridondante degli occhi.

Per parlare di una città il semplice sorvolo non è un’attività dello sguardo sufficiente. Certo, possiede il prestigio quasi numinoso della weltlandschaft, che i grandi paesaggisti nordici rivelarono sollevando lo sguardo e il corpo dell’uomo occidentale verso regioni inedite, ampliando nello stesso tempo la sua capacità di sintesi e sfidando le leggi, svigorite e centripete, del regime prospettico; inoltre, non possiede, questo gesto che gode nell’abbracciare tutto, l’entusiasmo del bambino che, durante il primo viaggio in aereo, fissa a bocca aperta la città distesa sotto di lui al di là dei residui onirici della cortina sfilacciata delle nubi? E «poeta di sette anni» non era forse Nadar, che, stanco di stropicciarsi gli occhi per avere visioni, e dotato di un avveniristico apparecchio dell’era della riproducibilità tecnica, a bordo del suo pallone Le Geant fotografò per la prima volta la città dall’alto, ispirando un altro grande autore-bambino, Jules Verne, a compiere i suoi giri del mondo in ottanta giorni?

Editorie

Questa ricerca monografica di Marco Luceri non presenta solo varietà di occasioni, esperienze e contesti, insieme a complessi incroci culturali, ma è una parabola dell’opera di Polanski che lascia emergere uno straordinario ossimoro: tenebre (paesaggi di dolore e di morte) splendenti, al di là del fascino eccezionale e unico di questo cinema. È una tragicità che conquista: l’ottica del negativo è costantemente presente, e splendente appunto, attraversando l’intera attività biografica e artistica del regista polacco, che è seduttiva quant’altre mai. L’ analisi dei lungometraggi di Polanski si apre con un’acuta introduzione segnando la dialettica tra Coltello nell’acqua, Repulsione e Cul de sac.

Armonie

Torna, è tornato già da tempo, il fascino per il supporto materiale attraverso cui ascoltare la musica, soprattutto il vinile e con lui l'apparecchio bracciuto su cui lo si poggia, insomma il giradischi, inno alla meccanica contro la logica digitale. E da qui la rinnovata importanza dei negozi di dischi (per me è la New Records di Bari, storico ricettacolo del kraut, della psichedelia, dell'elettronica più mesmerici), l'atto stesso, tipico, arpeggio di dita, di sfogliare gli album stipati nei loro scomparti; soprattutto ora che a causa della brexit cosiddetta e dei rigori (o pasticci) delle dogane inglesi, è diventato difficile, forse addirittura impossibile, ricevere i dischi direttamente a casa dal Regno Unito, terra delle migliori etichette di psichedelia.

Uzak 40 | estate / autunno 2021

Nonostante i vaticini più catastrofici basati sull'idea che non si sarebbe tornati mai più alla normalità, che il virus avrebbe modificato radicalmente la nostra pratica di vita, il nostro quotidiano anche più banale, mi sembra che questa normalità alla fine, e nonostante il delirante, pecoreccio ostruzionismo dei cosiddetti no-vax, stia tornando. E forse l'indice più chiaro di ciò è rappresentato dal ritorno nei teatri, nei cinema, potendo contare sullo loro capienza massima e non su quella tragicamente dimidiata che ha reso la vita difficile agli accreditati della Mostra di Venezia conclusasi lo scorso 11 settembre.

Culture marginali, utopie e montaggio selvaggio

Trad. di Giovanni Festa

Il muro sfondato di un vecchio ospedale psichiatrico nelle cui crepe sgretolate crediamo di leggere ciò che quel rudere racchiude: dolore, tristezza, abbandono. Sulla parete ormai vuota si sovrappone l'immagine fotografica di una giovane donna dal corpo nudo, esposta alle intemperie che segnarono l'inizio del XX secolo per diversi popoli indigeni del Abyayala, mentre fissa impassibile una macchina fotografica alla quale dà l'immagine di se stessa, del suo corpo esposto senza restituirle un centimetro in più del suo essere, senza nessun gesto di subordinazione.

Trad. Giovanni Festa

Ai margini del cinema argentino contemporaneo più originale, spiccano i film di César González, audaci, inconfondibili, simili a un enigma. Cineasta plebeo, è autore di un'opera torrenziale difficile da concettualizzare. Anche per chi in Argentina ha seguito da vicino la proliferazione dell'opera e delle mostre dell'artista nell'ultimo decennio, resta difficile definire la sua carriera. Tanto più che c'è, in questo pensatore, poeta e cineasta, un nucleo che rimane permanentemente inafferrabile e intraducibile: può essere contemporaneamente o alternativamente la sua esperienza di vita (così intensa e differente), il suo pensiero sofisticato (somma di una notevole varietà di registri e di posizioni eterogenee), la sua comunione con l'arte.

Traduzione di G. Festa


Lo scopo delle parole

è trasmettere idee

Quando le idee sono state comprese

le parole vengono dimenticate

Dove posso trovare un uomo

che ha dimenticato le parole?

Con lui mi piacerebbe parlare

(Chuang-Tzu)

 

Per molto tempo l'argentino Claudio Caldini è appartenuto alla stirpe sovrana dei registi segreti. Filma da più di 50 anni e il suo status di artista recondito è stato solo parzialmente ribaltato nell'ultimo decennio. Da un lato la sua produzione, sempre più riconosciuta all'interno del circuito ridotto del mondo dell'arte, ha goduto di possibilità di fruizione rinnovate dalla disponibilità propria del digitale. Dall'altro, la sua partecipazione attiva a festival, retrospettive a varie latitudini e un documentario su di lui e il suo cinema (Hachazos, di Andrés Di Tella, 2011) hanno contribuito a dare visibilità, in una dimensione sempre più internazionale, a una traiettoria di sorprendente coerenza. Oltre ad essere distribuiti da alcune etichette internazionali dedicate al cinema sperimentale e d'artista, alcuni dei suoi film più importanti sono ora visibili attraverso Vimeo e YouTube. In questo colloquio con e attraverso il cinema di oltre mezzo secolo, Caldini ha navigato senza tentennare tra i formati filmici a passo ridotto, in particolare il single 8 e il super 8, le cui particolarità si andavano diffondendo con successo tra cinema familiare e underground, e tra l'amateur e lo sperimentale. E in questi piccoli formati ha creato alcuni dei suoi pezzi più audaci. Ma si è anche cimentato nella creazione nel campo dell'immagine elettronica, che gli ha consentito una diffusione cruciale all'interno dei circuiti della videoarte negli anni novanta. Finalmente la panoplia proliferante del digitale, le edizioni BluRay, le reti e la distribuzione online, gli hanno permesso di espandere l'impatto della sua produzione, tanto da installarlo come punto di riferimento indiscusso del cinema sperimentale realizzato in Sud America. Potremmo parlare anche di un “riferimento storico”, se questa parola non tendesse a tracciare una traiettoria e a consolidarsi nel passato, quando il cinema di Caldini è, invece, un invito a un presente rinnovato, come testimonia ogni sua sessione di performance cinematografica dal vivo. Dotato di una batteria di proiettori, solitamente da tre a cinque dispositivi funzionanti contemporaneamente, Caldini riattiva immagini scattate di recente o filmate decenni fa.

La Tavola di montaggio si articola in tre sequenze longitudinali, dall’alto verso il basso. La prima a sinistra è dedicata alla borghesia: dai primi dagherrotipi al ritratto di famiglia, dagli avi mostruosi di Bataille alla classe dei padroni nel giardino delle delizie di Metropolis di Lang, fino al fotografo che, sulla spiaggia di People on Sunday, fa un ritratto involontario, composto da immagini fisse, della società “paralizzata” dell’epoca (si tratta, in un certo senso, non di un album di famiglia, ma di un album di società, fatto non di foto, ma di fotogrammi).

La sequenza centrale è quella che ripensa e rimonta alcune immagini da Barthes, Sebald e Bressane, associandole fra loro. Quella di destra monta insieme foto che risalgono all’inizio del XX secolo (lo stesso periodo di quelle nell’album di Rua Aperana 52 di Bressane, scattate a partire dal 1909) che fanno parte dell’album di famiglia di un’amica argentina. Come sempre accade davanti ad una tavola di ispirazione warburghiana è possibile (o auspicabile), a partire (o nonostante) queste brevi indicazioni, creare montaggi e percorsi propri.

Il consolidamento in Nigeria, nel corso degli ultimi trent’anni, di una delle industrie mediatiche più influenti al mondo, Nollywood, ha partecipato a far emergere e circolare nuovi immaginari riguardo il presente e il passato del continente africano. Se fin dai primi anni di esistenza dell’industria, numerosi intellettuali ed artisti africani hanno espresso forti critiche in ragione delle imperfezioni tecniche a volte flagranti dei primi film prodotti e dei contenuti spesso scabrosi (stregoneria, rituali violenti e contenuti erotici spesso espliciti), il pubblico locale ha reagito con entusiasmo, facendo di Nollywood un fenomeno che è ormai impossibile ignorare qualora si vogliano cercare di comprendere le trasformazioni degli immaginari africani contemporanei.

Tra Saute ma ville (1968) il primo film di Chantal Akerman e No Home Movie (2015), l'ultimo, presentato a Locarno poco prima della sua volontaria scomparsa, nell'arco di oltre quattro decenni, prende corpo una tra le filmografie più significative del cinema contemporaneo, per la continua sperimentazione dei linguaggi che è già politica in atto, e per il furore fisico che appartiene alle sue immagini, stilizzate e al tempo stesso intensamente corporee.  

«Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali. Il resto è sogno, interrotto da qualche insignificante sprazzo di veglia»: così Manlio Sgalambro in apertura di Perduto amor, opera prima di Franco Battiato, riportando gli estremi di una dichiarazione di poetica che già configura non solo quel film ma tutta la produzione dell’autore come sponda, congiunzione, zona di confine. La marginalità di alcune opere cinematografiche, inteso questo “marginale” come sostanza divergente, decentrata rispetto alle più consuete modalità di attuazione dello sguardo – delle pupille aperte/chiuse tra veglia e sonno, tra morte e vita  –  produce un decentramento dei punti di vista rispetto al consuetudinario, non certo una condizione subordinata alle più comuni modalità percettive, piuttosto l’attuazione di una teoretica della visione che riguarda, sempre, la proiezione verso qualcos’altro, al margine appunto, in una zona di fuga che è zona liminare. Le immagini marginali in qualche modo, allora, attenendoci ad un discorso più propriamente cinematografico, recano anch’esse il seme di un mondo possibile, de-siderabile, che proviene da uno spazio di per sé deterritorializzato, che trae origine dall’altro da sé, discostandosene, allontanandosene, fedele al movimento dell’immagine che è cinema.

In copertina: Masse superstiziose, nude, isteriche: D. Gargiulo (detto Micco Spadaro) , Eruzione del Vesuvio del 1631

La parola “popolo” è una parola densa, dotata di significati plurimi. Giorgio Agamben distingue fra Populus (corpo politico integrale, stato sociale degli individui sovrani, dotati di esistenza politica) e Plebs (molteplicità frammentaria di corpi esclusi) e, quindi, fra integrazione e “nuda” estromissione.

Editorie

Tra le diverse pubblicazioni o riproposte delle opere di Sciascia nel centenario della sua nascita questo volumetto che raccoglie scritti cinematografici dell’autore siciliano trova nella nota al testo di Paolo Squillacioti l’indicazione che a guidarlo, nella sintetica indagine, sono i significativi saggi di Antonio Di Grado e di Emiliano Morreale, e le monografie di Maria Rizzarelli e Angela Bianca Saponari. La parte più cospicua del libro raccoglie intanto scritti sul cinema in generale, mentre il tema più intrigante è quello dedicato all’argomento “Dai libri ai film”, cioè al rapporto tra letteratura e cinema, considerato da uno scrittore molto presente, com’è noto, nella produzione cinematografica italiana di alcuni decenni fa.

Uzak 39 | primavera 2021

Teorie

Una prima versione di questo articolo è uscito il sul "Manifesto" del 21 apriile 2021.

Nel corso degli ultimi venti o venticinque anni, con l'affermarsi e l'affinarsi del post-rock, dell'elettronica, dello space-rock, ecc., cioè di quei generi votati alla dilatazione dei suoni e delle partiture al fine di evocare orografie, territori; le intersezioni tra musica, questo tipo di musica, e le immagini cinematografiche si sono intensificate producendo spesso risultati molto interessanti, a volte addirittura straordinari, non solo dal punto di vista estetico, ma anche sul piano teorico, dialettico, dei rapporti tra i linguaggi.

(trad. a cura di G. Festa)

Nel nostro XXI secolo il lontano Medioevo occupa un posto ricco e multiforme. Come periodo storico, si caratterizza per una quantità debordante di bibliografia specializzata che ci permette di conoscere, sempre più nitidamente, una delle tappe più affascinanti del passato; nello stesso tempo, come immagine mitica di un tempo magico e oscuro, il Medioevo continua ad alimentare un immaginario che spazia dai pittoreschi mercati medievali alle grandi produzioni culturali come Game of Thrones. All'interno di questo secondo aspetto abbonda l'evocazione di un periodo accecato dalla nebbia e dominato, come diceva Melisandre, da una notte spaventosa: «the night is dark and full of terrors». La notte chiusa, le torce ardenti, le candele spente dal forte vento o i mostri che vivono nel buio rappresentano alcuni degli elementi chiave di questo suggestivo sguardo su un tempo immaginato. Il celebre episodio The long night, ovviamente, condensa i luoghi comuni più radicati di questi esercizi finzionali che, in seguito – e questa è forse la cosa più importante –  proiettano sulla realtà del periodo storico uno sguardo condizionato che ne offusca l'autentica natura. Documenti storici, lettere, scritti letterari, trattati magici, immagini di ogni tipo... ci lasciano immergere nella complessità di un palcoscenico in cui la notte, i sogni o le visioni giocano un ruolo centrale. Tant'è che, come nel fantasy epico delle serie e dei libri odierni, nel Medioevo compaiono draghi, sogni propiziatori o pozioni magiche, ma con una differenza importante: mentre nel primo caso bisogna collocarle sul terreno della fantasia, nel secondo caso vengono considerati come una parte costitutiva di quella realtà.

Krautrock

La Germania delle avanguardie storiche, tra piena, spasmodica espressione dell'oscurità deformante nascosta al centro delle cose, della terra, proprio degli strati di terreno, e astrazione della materia in nome di una purità dei segni; fu il luogo e il tempo in cui si puntualizzò una sorta di sintesi degli slanci estetici e filosofici che da Novalis a Nietzsche avevano caratterizzato la cultura ottocentesca arrivando, appunto, fino agli anni Venti del Novecento, al concetto di Universelle Sprache, fulcro dell'esperienza di un gruppo di artisti intenti a sperimentare le intersezioni, le osmosi tra le varie arti rifacendosi all'idea rimbaudiana di arte totale.

C’è una scena in Berlino, Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann (1927) dove una ragazzina, gli occhi color ametista, spaurita e epifanica come il coyote di Collateral di Michael Mann, attraversa, di notte, la strada striata dalla luce dei lampioni e dei cartelloni pubblicitari: un momento prima di sparire si volta verso la macchina da presa (come facevano i borghesi delle vue Lumière, inconsapevoli figuranti e spettatori di cinema che guardavano davanti al vetro dell’obbiettivo, senza saperlo, se stessi). Nei film di questo tipo, il momento epifanico è proprio dato dalla sospensione repentina del montaggio come principio onnicomprensivo di costruzione ritmico-musicale e assimilazione di frammenti di realtà e, per un attimo (come in certe immagini della prima kinopravda di Vertov, altrettanto inesorabilmente ritmica – e «ritmo ritmo ritmo» era la didascalia che Moholy-Nagy inseriva nella sua sceneggiatura per immagini e parole Dinamica di una grande città) abbandonarsi a rievocare il braille aptico della vecchia prosa del cinematografo e dello specchio stendhaliano trascinato lungo il cammino. Non è un caso che proprio in un momento di deriva come questo, dove l’ «intelligenza di una macchina» si opacizza e la narrazione si apre ad un istante di silenzio, la ragazzina con gli occhi di ametista di Ruttmann finisca per ricordare l’Alice di Wenders, altra bambina abbandonata che, in un movimento così simile e così diverso, e preda dell’imperativo di un altro fuoricampo, osserva, dal finestrino di un’auto a nolo, il paesaggio cittadino che scorre davanti a lei cercando di riconoscere la facciata della casa dei nonni.

Herzog preferisce camminare, lo ha sempre dichiarato. Lo preferisce come gesto etico, anzitutto, di contatto diretto con il proprio corpo e il mondo. Ma camminare, come ama spesso dire, è anche un esercizio dello sguardo, perché ti spinge ad osservare i dettagli del mondo mentre il tuo corpo si muove lentamente, al ritmo del tuo respiro (camminare ed osservare è la prova d’ingresso per gli studenti di cinema della sua folle e geniale Rogue Film School). Infine, camminare è un gesto mistico, come quello che lo spingerà a compiere il viaggio da Monaco a Parigi a piedi come voto per salvare la vita alla sua amica Lotte Eisner, gravemente malata. Camminare non è però solo un gesto dai molteplici significati, è anche un’immagine, un’idea. Un’idea di cinema, soprattutto. Camminare, in questa prospettiva, diventa l’immagine metaforica di una forma di montaggio, di costruzione dello sguardo filmico. È un’immagine che pensa il cinema come esplorazione, come presa d’atto di un mondo le cui connessioni sono possibili solo mediante un modo preciso di guardare e immaginare corpi, spazi, eventi e incontri. 

Il racconto Heart of Darkness di Conrad, basato sul viaggio compiuto dallo stesso autore a bordo del vaporetto Roi des Belges lungo il fiume Congo e pubblicato nel 1899, ha ispirato il cinema in più di una occasione. In particolare, nel decennio degli anni settanta del secolo scorso, si afferma una nuova generazione di artisti negli Stati Uniti e in Europa e la letteratura degli inizi del Novecento deve aver colpito l’immaginazione di alcuni di loro. La sete di potere dell’imperialismo angloamericano e la colonizzazione di sconosciute terre aspre e selvagge apre scenari inediti nell’incipiente e rivoluzionario XX secolo come pure la fine degli anni sessanta con le lotte di classe e le aspirazioni libertarie giovanili. Ergo non è casuale che il Neuer Deutscher Film e la New Hollywood si incontrano alla reciproca ricerca di ignoti orizzonti e di avvincenti sfide cinematografiche.

Mentre la macchina da presa volteggia su per il fianco femico dell’enorme vulcano a scudo dell’isola di Ambrym, le voci del coro di monaci del Monastero Pechersk di Kiev intonano un possente canto russo ortodosso. Pare che quando Werzog abbia rivisto queste riprese aeree, con cui ha poi deciso di aprire Into the Inferno, abbia capito «in un istante» (lo ha detto lui stesso in uno speech durante il Red Bull Music Academy New York Festival 2017) che l’unico commento musicale adeguato a quelle immagini di lava basaltica stratificata, di ascensione sopra quella colossale, sedimentata opera della natura e del tempo, fosse un coro della tradizione sacra sovietica. 

«Se non c'è un legame sonoro, c'è un legame estetico,
vale a dire che quando il legame non è formale, è filosofico».
D. STUBBS, Future Days. Krautrock and the Re-building of Modern Germany

traduzione a cura di Giovanni Festa

Le Berceau de cristal (1976), uno dei film di Philippe Garrel con Nico, sembra a volte una variazione scoperta e futura di Le Sang d'un Poète (Jean Cocteau, 1932), anche quando questo film surrealista appare, in un certo senso, fuori dal tempo. Le loro differenze evidenti – il colore biancastro, a volte arrossato invece del bianco e nero a basso contrasto, l'oppio scambiato con l'hashish e l'eroina (fuori campo), la musicalità torbida e brulicante dovuta ai sintetizzatori di Ash Ra Tempel contro la scintillante musica orchestrale dell'egregio Georges Auric, etc. – non sono rilevanti quanto quello sguardo nell'oscurità. Perché un'atmosfera malsana circonda i poeti maledetti davanti e dietro la macchina da presa. Si manifesta in quelle abitazioni chiuse, in quegli interni stantii, in quelle scene enigmatiche e sperimentali di crimine o noia, in attesa delle muse, della droga e dell'avventura. Le medesime azioni si svolgono negli attici, nelle camere d'albergo, su entrambi i lati dello specchio. Forse c'è anche una debole, segreta reminiscenza tra l'attrice in lutto e la versione contemporanea di Herzog-Kinski del vampiro che era stato immortalato in uno degli anni della peste: Nosferatu come parossismo della bohème.

Editorie

Non è facile recensire un libro in grandissima parte composto a sua volta da 195 recensioni come Al cinema con lo psicanalista di Vittorio Lingiardi (Raffaello Cortina Ed. 2020): gli stimoli e le sollecitazioni sono tantissimi, dato l’argomento e, al di là dell’eccellente professionalità, le multiformi capacità intellettuali dimostrate dall’Autore. Però il volume si avvale anche di una Prefazione di stima e di apprezzamento dovuta alla penna della più che brillante giornalista cinematografica di Repubblica Natalia Aspesi, che già segnala, partecipe, non solo temi, ma soprattutto sensibilità culturali che introducono opportunamente le variegate linee di ricerca le quali costituiscono la rete attrattiva dentro cui s’incontrano occasioni che permettono vivacità e acutezza a tutti i luoghi di lettura del volume.

UZAK 38 | autunno 2020/ inverno 2021

Era l'autunno del 2010 - un'ottobrata espansa, di quelle selvagge, che bruciava cumuli di foglie e ti faceva sentire sulla pelle l'ustione di fuochi fatui, il flutto sanguinoso di tutti quei tramonti - quando da un confabulare serrato nacque l'idea di Uzak, sotto l'egida della casa editrice «Caratterimobili». Il cinema era solo uno degli interessi di una redazione in embrione, già eterogenea e militante, così come la si era immaganata: vi entravano la letteratura, la filosofia, la musica, cioè la condizione pura, autentica delle cose, per quanto rivoluzionaria: la poesia, la natura cinematografica del mondo. Da qui la sezione al centro di questo numero 38.

Teorie

In La perla, di Emilio “el indio” Fernández un povero pescatore di perle, dopo l’ennesimo tuffo scorge, gli occhi ben aperti (wide) e annebbiati (shut) per l’acqua salsa, qualcosa nelle profondità torbide dell’oceano (che la lente di Figueroa trasforma in un acquario magico, cortazariano-rosselliniano). Risalito a galla scoprirà, insieme alla moglie che lo attendeva paziente nella barca, che si trattava, custodita dentro una conchiglia incrostata di alghe limacciosa, di una perla perfetta.

Non perdo occasione per tornare a occuparmi di Francesco Rosi. Anche in questo caso. Per «Uzak». Il primo pensiero per un articolo che probabilmente vedrà la luce tra la fine dell’anno e l’inizio di quello nuovo data la concomitanza di lungo termine con la Shoah è stato infatti La tregua di Rosi. Sempre Rosi.

«Il pennino nero per colui che lo legge traccia nel margine bianco della vulva mostro: essere Tu essendo Io, essere altri: senza bisogno di essere io! Parole scambiate tra la china che scrive e la china lettore, star nudo a sognare ossessogni e star» (Julio Bressane)

 

L’immagine è un corpo, dotata di recettori sensibili, di terminazioni nervose, di organi e tessuti epiteliali senzienti alla tattilità dello sguardo. Trafitta dalla luce, dilaniata da baluginii incandescenti e luminosi si svela, nuda, offrendosi all’occhio voyeuristico dell’osservante. L’immagine è un congegno di carne, membri grondanti sangue, liquidi seminali, marcescenze esposte, in putrefazione eppure vive, palpitanti di desiderio. Quando l’immagine perde i suoi confini per mutarsi in un meccanismo anarcoide e libero, allora mostra ciò che non si mostra o che non è mostrabile, come le “perversioni” o, come le definiscono gli studiosi del settore, dopo averle ben disinfettate dal morbo e igienizzate, “parafilie”.

La rivoluzione delle immagini. Immagine e rivoluzione

Rivoluzioni in cielo come in terra. Le metafore proliferano in entrambe le direzioni. Appartenente in origine al lessico astronomico, il concetto di rivoluzione verrà assorbito dal campo della politica - non senza alterarne il significato - per pensare l'evento: servirà per designare, dal 1789, «una rottura e una radicale innovazione» (Traverso, 2018). Nei pochi secoli che separano l'assalto al cielo (postulato da Marx), dall'attuale eclissi delle utopie (esaminato da Enzo Traverso) emergeranno numerose e notevoli espressioni di una sorta di sguardo di Giano, rivolto all'universo e, insieme, alla vita terrena, che è necessario mutare di radice.

Americana

Jonas Mekas e Shirley Clarke lo dissero chiaro a Marcorelles, critico dei Cahiers che li attaccava sostenendo la mancanza, da parte del New American cinema, di dimensione politica, e di una disconnessione (a differenza, ad esempio, del cinema novo brasiliano) dalla vita: il loro cinema, sostenevano, era (a pensarci e a guardarlo bene), radicalmente politico e completamente americano. perché filmava l’essenza dell’uomo, affamato di una fame differente da quella dei suoi fratelli latinos: fame dell’anima che non vuole diventare macchina fordista o denaro (non a caso serializzato dal 200 One Dollar Bills di Warhol del 1962).

È difficile pensare di poter parlare di cinema e rivoluzione senza che alla mente s’affacci subito il ’68, e più in generale, il radicale sovvertimento che è proprio degli anni Sessanta, con le loro nouvelle vague nazionali e internazionali e le rivolte – formali e tematiche – contro il cinema (e le ideologie) “di papà”. 


«Che mai sarà una vasca di sangue
In comparazione a quelle che dovranno ancora scorrere?»

J.-P. Marat, in Marat/Sade

 

«Adesso io vedo
Dove ci conduce
Questa rivoluzione»

D.A.F de Sade, in Marat/Sade


Quando si pensa ai possibili collegamenti tra cinema e rivoluzione, il caso Marat/Sade sembra imporsi fin da subito per la tematica e i problemi che solleva: mette in scena, in modo oscuro e particolarmente denso, la storia, i personaggi e l'immaginario che circonda la Rivoluzione Francese. Lo fa attraverso il confronto immaginario fra due figure estreme: quella dello scienziato, medico, giornalista e rivoluzionario Jean-Paul Marat da un lato, e quella dell'aristocratico, filosofo, scrittore e drammaturgo Donatien Alphonse François, marchese de Sade, dall'altro.

Cinema e rivoluzione. L'associazione sotto un certo punto di vista è pleonastica perché, al netto d'ogni pur legittimo e interessantissimo discorso d'ordine tematico, stilistico, ideologico o politico, il cinema è rivoluzione, anzi, insieme alla scoperta della scrittura e a quella del digitale, è una delle tre rivoluzioni culturali che più profondamente hanno influito nel riplasmare tutto il quadro cognitivo e percettivo delle umane genti, finendo col soppiantare la realtà nella sua funzione di referente veritativo, solo unico e possibile, in molti aspetti della nostra esperienza.

Il dialogo iniziale di The Social Network tra Mark Zuckerberg e la sua ragazza Erica, fondamentale per comprendere il suo concetto di “relazione” che in-formerà questo singolare (falso?) biopic tratto dal fortunato ed esplicativo libro The Accidental Billionaires: Sex, Money, Betrayal and the Founding of Facebook di Ben Mezrich, è contrappuntato dalle note di Ball and Biscuit, con The White Stripes che cantano: «It's quite possible that I'm your third man, girl».

«Le temps vu à travers l’image est un temps perdu de vue. L’être et le temps sont bien différents.
L’image scintille éternelle, quand elle a dépassé l’être et le temps» (René Char, Feuillets d’Hypnos).

Ci sono rivoluzioni che ti vengono incontro, dopo aver compiuto giri siderali, rovesciando il tempo, tornando da dove erano nascoste, occhieggiando: quando «Uzak», questa rivista dissidente, libera, non esisteva che in forma di seme, gettato non ancora consapevolmente sulla terra delle colline murgiane, e ruotava intorno a quel teatro che già nel nome portava l’idea della rivoluzione cosmica, che si effondeva su teste incendiarie, incendiate, mi era stato chiesto per la prima volta di scrivere di cinema.

Armonie

Già da qualche anno, dai tempi di Ostro dei Lay Llamas – che mostrava un orizzonte ultravioletto sulla superficie violacea del vinile uscito per Rocket Recording in un momento eccezionale per la psichedelia italiana: era il 2014 e vi risuonava, celeste e celestiale, il capolavoro dei Julie's Haircut, Ashram Equinox –, l'astro di Gioele Valenti aleggia sull'ecosistema dell'indie e della psichedelia contemporanea seguendo quella traiettoria proficua che unisce l'Italia al Regno Unito e vede brillare, nei cataloghi delle etichette londinesi, gruppi italiani come i New Candy, i Julie's Haircut, i Sonic Jesus, ecc., oltre alle molteplici incarnazioni di Valenti tra Lay Llamas appunto, Juju, Josefin Ohrn e ora Herself.

Uzak 37 | estate 2020

Teorie

Una prima versione di questo articolo è uscito sul "manifesto" del 31 luglio 2020.

Finito, forse per il momento, stando a ciò che dicono i più prudenti, il tempo dell'ingollare profluvi di materiale cinematografico insieme a ogni tipo di farinaceo fatto in casa, in solluchero da lievito, chiusi in casa, in stanza (tendaggi), i cinema sprangati tant'è che anche un film atteso, poi risultato discusso come Favolacce dei D'Innocenzo lo si è visto sulle piattaforme, ora i film tornano ad animare i cinema che nonostante tutto restano i chiaroscurali, inalienabili santuari dell'immaginazione, e tra questi alcuni davvero magnifici, itinerari dentro ambagi psicofisiche, buchi neri, labirinti sonnambolici come High Life di Claire Denis e Long Day's Journey Into Night di Bi Gan.

Donna Haraway è tra le più importanti esponenti del pensiero ecologista e femminista. Il suo Manifesto Cyborg (1985) forniva un “antidoto” al femminismo della prima ondata - tendenzialmente essenzialista e radicale, quello della differenza, per intenderci – aprendo le porte a una prospettiva teorica tecno-materialista e abolizionista del genere. Non siamo più vincolate ai confini dei nostri corpi: corpi che si ibridano, che si “compostano” per usare un termine harawaiano, andando al di là del limite naturale. La figurazione del cyborg definisce così una soggettività parziale e contraddittoria, tecnologizzata e non più binaria. Il corpo come territorio di sperimentazione ed emancipazione, passibile di alterazioni e modificazioni. La riflessione di Haraway passerà poi per gli studi animali e per la teoria delle alleanze multi-specie, coniugando studi scientifici e tecnologici, scienze naturali e culturali (Primate Visions, The Companion Species Manifesto, When species meet…) e che si delineerà in maniera più puntuale nell’ultimo Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto. Ed è proprio da quest’ultimo libro che Federica Timeto muoverà per il suo Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie. Tramite figurazioni e suggestioni visive e riferimenti filosofico-letterari, Timeto elabora concetti fondamentali del pensiero della filosofa americana attraversando tutti i suoi scritti e definendo le linee guida per una teoria femminista multi-specie, che non si ferma all’eccezionalità umana andando a tendere verso l’altro – umano e non umano. Ne abbiamo parlato con l’autrice.

Corpo comico, corpo grottesco

I primi tre decenni del secolo vengono scossi dalla comicità e dal riso come il corpo di una rana morta si contrae se irrorata di corrente elettrica durante gli esperimenti galvanici. Nel 1900 Bergson scrive Il Riso. Saggio sul significato del comico, ma i fratelli Lumière lo avevano anticipato: cinque anni prima girano L'Arroseur arrosè, libero adattamento per le neonate motion picture di una serie di vignette utilizzate negli spettacoli di lanterna magica (il delizioso corto di un rullo, citato da Disney nelle forme ipertrofiche del cartoon in Paperino Pompiere, venne interpretato dal loro giardiniere, Jean-Francois Clerc).

Il grottesco è concetto arduo da definire, sfugge alla certezza e alla precisione della parola, perché, risalendo a monte, problematica ne è innanzitutto la concettualizzazione. Una problematicità di individuazione concettuale, e quindi di descrizione, che promana da una ambiguità mai dirimibile che è sostanziale, riguarda la natura stessa di questo grottesco. Il grottesco infatti è per definizione uno stato di promiscuità, di commistione o conflitto ma, perché no, anche di congiunzione (già vedete che l’ambiguità si manifesta) tra condizioni diverse, spesso tra loro antinomiche, il che ci rende difficile una descrizione univoca.

Settembre 1921: mentre l’alcol continua a fluire, inebriante, nonostante la proibizione per legge e il jazz, agli albori della sua “età”, «mette in sincope il peccato» (per riprendere il titolo di un articolo un po' beghino uscito il mese precedente a firma della presidentessa del Ladies Home Journal), un gruppo di ricchi hollywoodiani affitta tre stanze contigue nell’albergo più grande della costa occidentale (il "St. Francis" di San Francisco) con l’intenzione di fare una baldoria gatsbiana dopo mesi di lavoro. Una giovane donna finisce per lasciarci le penne su sfondo apparentemente sessuale, gli american tabloid gridano allo scandalo, un ambizioso procuratore distrettuale prende al volo la palla della visibilità nella brama di diventare governatore. È in questo scenario ellroyano che il corpo comico più noto e pagato del cinema muto – Roscoe “Fatty” Arbuckle – si trasforma, agli occhi del mondo, in un corpo grottesco.

(Traduzione: Giovanni Festa)

La storia del cinema mostra da sempre l'utilizzo degli animali nei film. Dai famosi cavalli di Eadweard Muybridge allo sconosciuto cane protagonista di Adiós al lenguaje (Godard, 2014), un grande bestiario di specie diverse vive fantasmagoricamente nella terra delle ombre; l'asino di Bresson, gli uccelli di Hitchcock o i gatti di Varda e Marker, tra tanti altri casi, esistono attraverso il cinema, da esso imbalsamati. Sarebbe impossibile calcolare il numero approssimativo di animali usati nel solo cinema di Hollywood. Spiccano, in questa vastissima produzione, alcune commedie con animali assai note la cui abilità filmica resterà ineguagliata: A Dog's Life (1918) e The Circus (1928), di Charlie Chaplin; The Cameraman (1928), di Buster Keaton; Bringing Up Baby (1938) e Monkey Business (1952), di Howard Hawks. Oltre ad essere opere di poeti della comicità, hanno in comune un certo meccanismo comico legato a un motivo propriamente baziniano: l'incontro reale tra la bestia e l'umano.

1.

Nel 1950, l’anno in cui uscì Viale del tramonto, Gloria Swanson aveva 51 anni, ma Billy Wilder fece in modo che ne dimostrasse almeno cento: aveva più o meno l’età del cinema, ma la tecnica si era evoluta con tale rapidità che ogni anno si può dire contasse per due. Non era solo l’avvento del sonoro, che pure aveva avuto un ruolo fondamentale: erano cambiate le posture, i gesti, gli atteggiamenti, i generi. Il concetto stesso di Divismo si evolveva in senso “realistico”, meno caricato e teatrale, cercando di far dimenticare le sue origini melodrammatiche. Norma Desmond, dunque, ha cent’anni, almeno agli occhi dei moderni produttori (con ulcera) e dei giovani sceneggiatori ambiziosi come Joe Gillis (W. Holden), morto che parla galleggiando sull’acqua d’una piscina, con tre pallottole in corpo.

Più è sacro dov'è più animale

il mondo: ma senza tradire

la poeticità, l'originaria

forza, a noi tocca esaurire

il suo mistero in bene e in male

umano. Questa è l'Italia e

non è questa l'Italia: insieme

la preistoria e la storia che

in essa sono convivano, se

la luce è frutto di un buio seme.

Il verso di chiusa della seconda parte del poema L’Umile Italia, che in sé è un’invocazione accorata della natura come primigenia forza, forza d’autentico, forza di vero, che ancora il poeta riusciva a scorgere nei paesaggi silvestri del Friuli e nelle rondini, a noi serve per rimarcare l’importanza del «grottesco», ricerca inesausta della contraddittorietà dell’esistente come categoria del pensiero pasoliniano.

«[…] Finché sorriderò

Tu non sarai perduta

Ma queste son parole […]»

(Pier Paolo Pasolini)

«Fare opere in faccia / al vuoto»: così «il più amaro dei Poeti-Matti», quel Jim «pagliaccio che batte la frontiera» leggo – visioni di quell’altro Matto, Poeta alla frontiera del tragico, dove nel tragico sconfina il comico, corruga grottescamente la fronte, fa il ghigno del troppo umano sorvolo sulle cose, la smorfia beffarda che s’affaccia su questo, sempre più consueto, svilente microcosmo, scorrono: nella memoria, indietro, davanti agli occhi, dentro le orbite sfatte – e Deserto, in quella edizione dell’‘89 di Arcana Editrice curata da Schipa, assume ad ogni verso i contorni sfuggenti delle «nuvole», di quella domanda di Ninetto-Otello gettato con Totò-Jago tra i rifiuti di un reale desertificato, trova la verità nell’immaginazione: che non mente, che è mente, farsi racconto, raccordo, fiaba, quelle fiabe che sono Che cosa sono le nuvole ma anche La terra vista dalla luna e Uccellacci e uccellini.

Editorie

A introdurre il volume di C. Eastwood, Fedele a me stesso. Interviste 1971-2011 (a cura di Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz. Edizioni minimum fax, 2019), sono i due curatori, che partono, quasi naturalmente, dalle difficoltà giovanili dell’attore-regista alla ricerca di un lavoro, che, all’inizio come attore, non gli riesce certamente facile nella Hollywood di grandi protagonisti del cinema degli anni Cinquanta. È l’inizio di una storia che lo porta però sostanzialmente a passare da due stereotipi consacrati dalla filmografia di quel tempo, lo sfrontato poliziotto-carogna e il freddo pistolero, a nuovi prototipi, destinati a diventare tali proprio grazie a lui, e ai grandi registi che nel frattempo cominciano a dirigerlo.

Uzak 36 | primavera 2020

Non si tratta di ubbidire al governo, tronfia sillabazione e nemesi degli aggregamenti komitivali, aperitivali, lo sballo per lo sballo stupido quand'è sera, i balli triviali nella fiera delle vanità sgranata nelle ciarle del locale, nel bistrot che vive nell'automatico tinnire dei calici, nell'allentamento delle mascelle oramai lascive, l'allettamento del gioco delle parti, delle maschere, bistrate, occhiute, catastrofiche; ma di acconsentire alla scienza, il sinodo di sapienti, cerusici che sobilla Conte; a quella ricerca (delle ragioni d'essere, che siano biologiche o filosofiche) che s'è eletta contro i fascismi, maschilismi, razzismi, insomma in nome di un cosiddetto bene comune.

Il gioco del mondo

(trad. a cura di Giovanni Festa)

«Non muori perché sei un creatore
O perché sei questo corpo
Sei morto perché sei il volto eterno».

(Adonis, Deserti)

2666: un enigma. Il nome di un film di fantascienza dove le macchine ci dominano, mostri ci attaccano in autostrade perdute e piante crescono all’improvviso, mentre si moltiplicano omicidi senza nome. E c’è sempre un giovane scienziato che sospetta. 2666: è la nostra forma di immaginare il disastro, il western dell’ecodistruzione.

«... Nel mio caso, un Diario serve da supporto alla memoria,
ma soprattutto perché dà alla vita di tutti i giorni
il carattere di un viaggio, di un periplo.
L’erranza, che è il modo naturale in cui la vita si presenta,
assume il significato di un'indagine, di una ricerca.»

R. Ruiz

Nel corso della sua lunga carriera, Raúl Ruiz si è specializzato nella produzione di un'opera di carattere esplorativo, imprevedibile, a volte ermetica ma sempre animata da uno spirito giocoso che unisce il profondo e il lieve, la digressione e la ricorsività, in un combinazione che, tra fascino e perplessità, si presenta allo spettatore come un vero marchio d'autore. Questo Diario, iniziato nel 1993, quando il cineasta cileno aveva 52 anni, e terminato nell'agosto 2011, pochi giorni prima della sua morte, soddisfa le condizioni per contenere, al suo interno (come i tre volumi della sua Poetica del cinema o le abbondanti interviste rilasciate durante il suo itinerario esistenziale) tutti questi aspetti.

327 Quaderni

Jean-Luc Godard suggeriva in un'intervista la maniera in cui un giovane aspirante cineasta potrebbe girare un film: dovrebbe limitarsi a raccontare un giorno della sua vita che, aggiunge ingannevolmente, è quello che James Joyce fece con l'Ulisse. Questa battuta dell'artista ammirato da Ricardo Piglia, fa luce anche sul pensiero dello scrittore e critico argentino.

L’incipit del brano dedicato al Minotauro nel Libro degli esseri immaginari di Borges è folgorante: «L'idea d'una casa fatta perché la gente si perda, è forse più singolare di quella d'un uomo con testa di toro; ma le due reciprocamente s'aiutano, e l'immagine del labirinto conviene all'immagine del minotauro». Nella descrizione borgesiana, il labirinto è sempre abitato, è sempre pensato sotto la forma del doppio, della duplice immagine. La geometria mostruosa di un luogo si accompagna sempre alla mostruosità di un essere vivente e, soprattutto, entrambi sono immagini che si rispecchiano.

Numerose pagine della letteratura argentina sono dedicate a un paradosso: la vita colta in un momento complesso, inesplicabile, al bordo dell’intraducibile che, pure, riesce a trasformarsi in territorio e, quindi, in romanzo (La vie est un roman, chioserebbe Resnais nel titolo del suo film - scritto da Jean Gruault - forse più vicino al dettato del crepuscolo) e a ricostruire un sito che, come dice Borges, è menos documental que imaginativo. Cortázar, come si sa, non finiva mai di interrogarsi sulle leggi segrete della creazione letteraria: come Piglia, come Saer il narratore è, anche, secondo una tradizione esoterica ed erudita – inaugurata da quel grande amanuense che era proprio Borges – «lettore»: ultimo, come si voleva Emilio Renzi-Piglia, ma anche «poeta» come Saer, e, in tutti i casi, «critico» (un racconto emblematico di Cortázar è, in questo senso, Los pasos en las huellas) che abbraccia tutta la letteratura universale scoprendo, alla fine, che non si è fatto altro che comporre, come in un quadro di Arcimboldo con la sua simbiosi paranoica di oggetti, un mosaico di immagini il cui risultato è il proprio stesso volto. Cortázar, si diceva: in Intermedio magico accenna alla forza della poesia e del suo strumento principale, la metafora, capace di penetrare nel mondo delle cose stesse, fuori dalla legge del nome (aborrita anche dall’Eltsir di Proust), e cancellare la singolarità delle cose attraverso il ponte magico del «come», che permette al cervo e al vento (qui Cortázar cita Levi-Strauss) di partecipare (di gioire, verrebbe da dire) di una medesima qualità.

Se è vero che uno degli aspetti più evidenti della letteratura sudamericana del Novecento (stante l'azzardo ad accomunarla entro un assioma, una schematicità che del resto si consustanzia nella riprova entro i territori, le regioni, fino agli ecosistemi più minuti e particolari, casi antropici che si rivelano poi specificamente letterari) è la stratificazione e la coloritura dell'azione, della storia, trame magmatiche, impastate di polvere e sangue, raffreddate da sferze di vento; è anche vero che entro questa plastica degli eventi emerge un tratto formalista che corrisponde all'assottigliamento o disarticolazione di quella plastica (in favore dello scorcio), verso la riflessione e la sperimentazione linguistica.

In utero horroris

Una ricognizione nell'universo femminile del cinema horror degli ultimi anni

Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di gender gap e disuguaglianza di genere nell’industria cinematografica e nei film. Film che trasmettono sentimenti, stati d’animo, che fanno orrore o piangere; film di ogni tipo in cui poco spazio, o uno spazio per lo più marginale, di puro supplemento, è dedicato all’ideazione e caratterizzazione di personaggi femminili. E se è opinione ormai condivisa che il processo di emancipazione delle donne nato negli anni Sessanta abbia radicalmente modificato la visione e l’immagine femminili nel cinema hollywoodiano e indipendente, oggi, sulla scia dei neonati movimenti, sembra aver preso di nuovo vita, riattualizzandosi, un dibattito più che decennale e che si rifà, guardando specialmente al cinema horror e slasher, alle teoriche queer, femministe e di genere degli ultimi decenni del secolo scorso.

Il corpo della donna come terreno di riflessione politica. Un corpo all’apice della femminilità, carnale, rigoglioso, fecondo, in attesa di mettere al mondo nuova vita eppure estraneo a qualsiasi cliché legato all’immagine stereotipata e melliflua della maternità. Forte come non mai, forte di una forza inedita e dirompente, ma al tempo stesso fragile, compromesso, goffo, in preda a una incontrollata e tumultuosa trasformazione.

In una delle tante interviste rilasciate durante la promozione di Raw, Julia Ducournau dice che, per quanto la riguarda, un coming of age non c’entra niente con l’età: «Può accadere in ogni momento dell’esistenza. Può avvenire con la prima gravidanza, sia per una madre che per un padre, o quando un uomo perde i capelli, o quando una donna entra in menopausa». Poi dà la sua personale definizione: «È un punto di svolta nella vita, in cui il fatto che l’integrità del tuo corpo cambi ti obbliga a mettere in discussione te stesso e la tua identità».

L’immagine è un’ombra, spettro che si muove, latente nella luce diafana, errante nel suo imporre una comparsa e, l’istante dopo, una scomparsa, sospesa nel formicolio incessante della sua apparizione ma, «quanto bisogna affondare nella notte per farne emergere, consorgere, l’auroralità?» (Roberti 2012, p. 53). È dentro questa dialettica del cinema come visione fantasmatica che brulicano, in A Girl Walks Home Alone at Night, figure tenebrose, sopravvissute oltre la vita; ed è la notte lo sfondo o lo schermo dentro la quale appare una donna vampiro, creatura estrema e volto lunare nei pelaghi del cielo nero. Sola e silenziosa vaga nel panorama scheletrito sfatto e apocalittico, nel movimento incessante di trivelle che suggono petrolio, suzione che fa il verso a quella vampiresca del morso. Come un angelo, come il giustiziere della notte lei vola sul ciglio della strada, sempre ai bordi, sempre al limite della vita e della morte e sempre al confine tra due mondi: quello iraniano (il suo mantello che è una hijab cita spettri del cinema passati e ancora riviventi) e quello americano (il film è stato girato in California).

Da un’acidula melagrana, squarciata e sanguinante, può nascere un pesce rosso che ha fagocitato due tigri pronte ad avventarsi su un innocente corpo femminile nudo, mollemente adagiato tra cielo e terra. Le creature infernali e paradisiache dipinte da Dalì nel Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, del 1944, evocano il tormento e l’estasi della natura umana, e le pulsioni implosive ed esplosive del desiderio.

Il mostro, il demiurgo, l'ombra

I mostri dell’isola.

Quasi tutti i mostri cinematografici vivono su un’isola, in uno spazio raccolto e remoto, circondato dal mare, che contribuisce a mantenere segreta la loro esistenza – a meno che ,certo, un regista curioso (e avventuroso) non decida di andare a verificare sul posto, come avveniva nel primo King Kong (Cooper e Schoedsack, 1933), l’attendibilità della leggenda. Da vero conoscitore dei gusti del pubblico, il regista si porta dietro una bella ragazza (non importa che sia o no un’attrice, non importa se sappia recitare o no), da inserire comunque nel film, perché una storia d’amore ci sta sempre bene.

Il «mostruoso» si potrebbe definire come un’interferenza nell’ordine delle cose: è mostruoso qualunque evento che provoca, attraverso la sua sconcertante stravaganza, la sua eccedenza, uno strappo violento nel tessuto del quotidiano e che non si capisce bene da dove provenga: è il non completamente focalizzato (registrare la messa a fuoco, ritardarla, procrastinarla, fingerla, è anche una maniera per non lasciarci assorbire dal mostruoso, evitando il faccia a faccia che ci perderebbe). Il mostruoso è il senza fissa natura, perché partecipa nello stesso tempo, e disordinatamente, di molte nature eterogenee insieme (il Capriccio) o di nessuna (l’Ombra). La reazione al mostruoso è la Nausea, che insieme anima l’inerte e si rifiuta di assimilarlo. Nausea che si può considerare, in un certo senso,anche come una forma estrema (e mostruosa) di reticenza.

«Quello che conta prima di tutto è vivere, provare a conoscere sempre di più, scoprire ogni volta il visibile del non visto, l’udibile del non udito, il comprensibile del non compreso, l’amabile del non amato». 
(Jean Epstein)

Il procedere per apparizioni, oniriche o ipnagogiche, improvvise o imbricate e diffuse nell’ambiente quotidiano, diventa per Fellini una cifra stilistica che, a partire prima da Otto e ½ e poi, in modo più sperimentale (soprattutto in senso cromatico e in rapporto al gioco delle ombre e delle penombre), da Giulietta degli spiriti, si coniuga con l’altro lato, con l’altro mondo, con un aldilà del tempo e dello spazio, dove si svolge il lavoro dell’inconscio, del rimosso. Ciò significa che l’apparizione è sempre revulsionata nel suo versante d’ombra.

Sono trascorsi 30 anni da quando «Society – The Horror», esordio registico di Brian Yuzna, fu presentato alla rassegna Fantafestival di Roma suscitando reazioni contrastanti. Negli Stati Uniti il film fu distribuito nelle sale nel 1992, solo 3 anni dopo la sua realizzazione (1989). Dopo il periodo dell’edonismo rampante di «reaganiana» memoria che aveva caratterizzato la «società» degli anni '80, nei primi anni '90 la televisione americana «scopre» i segreti di Twin Peaks e l'«icona» della famiglia non sarà più la stessa. Non è più tempo di teen movie o commedie sentimentali dalla rassicurante patina. Beverly Hills è lo spazio emblematico dell’american dream: l'art déco di sontuosi appartamenti, le leggendarie palme, i vip che sfoggiano eleganti abiti e automobili esclusive mostrandosi felici. 

Teorie

Good Time (di Bennie e Josh Sofdie, 2016-2017) è già traducibile nel titolo con un’espressione che si avvicina al nostro “tempo felice”: esso è termine antinomico rispetto alla sostanza limacciosa della vicenda intensamente drammatica del film. E si riferisce a una sorta di nuovo sogno americano, che qui è evocato dai protagonisti del degrado sociale estremo, e della condanna senza speranza che esso decreta per due suoi giovani succubi (il piccolo malavitoso Connie Nikas – Robert Pattinson – e suo fratello Nick – Bennie Sofdie –, un ritardato mentale su cui incombono, insieme, la giustizia e l’assistenza psichiatrica).

A Dakar, lungo la riva dell’Oceano, una irrisolta storia d’amore tra due giovani senegalesi, che si avvolge in una trama in cui, nella seconda parte, una straordinaria dimensione, in qualche modo al di là dell’onirico, inquieta e dà un accento di particolare tenerezza alla conclusione sospesa (Atlantique, Grand Prix a Cannes nel 2019, della regista di formazione francese, esordiente nel lungometraggio, Mati Diop). Lo scenario è dato da cantieri e strade di un sobborgo segnati dallo squallore di un’edilizia sistematicamente incompiuta, tipica di tante periferie del terzo mondo; intanto una torre ultramoderna svetta sul disordine diffuso.

Uzak 35 | autunno 2019 / inverno 2020

«A proposito del sonno, avventura sinistra di tutte le sere, si può dire che gli uomini si addormentano quotidianamente con un'audacia che sarebbe inintelligibile se non sapessimo che è il risultato dell'ignoranza del pericolo». (C. Baudelaire)

Le côté nocturne de la nature

«L’uomo non ha ancora ricevuto il privilegio dell’eclissi,
 questo potere che possiede la notte
di illuminarsi di un giorno elettrico».
(A. Breton sul n. 7 della rivista «Minotaure»)

Cominciamo dal basso. Un flaneur di tipo particolare, Tom Shaw, poliziotto della sezione omicidi di New York ripete, ogni notte, la stessa azione: verso l’una, dopo aver terminato il servizio, compie una lenta passeggiata lungo il fiume.

«Pure, io mi rivolgo altrove: / verso la santa inesprimibile / misteriosa Notte.»

Perché Novalis preferiva la Notte, rispetto al luminoso Giorno? Perché la Notte schiude in noi infiniti occhi interiori, attraverso i quali possiamo metterci in sintonia con coloro che credevamo di aver perduto. Il contatto con i Morti non lo spaventava – anzi, la Notte ce li restituisce vivi, ci svela l’inganno della perdita, che è solo un’illusione, un brutto sogno dal quale ci si risveglia. Così il poeta poteva elaborare il lutto per Sophie, la fidanzata morta, e dialogare con lei  come se fosse viva, o più che viva: addirittura trasfigurata.  Allo stesso modo in cui Dante, uscito dalla selva oscura e risalito dagli inferi, dialogava con Beatrice.

(Traduzione a cura di Giovanni Festa)

Da un capo all'altro del suo itinerario, il cinema di Pedro Costa è attraversato dalla notte; ma vale anche il contrario: la notte attraversa il suo cinema. Questa condizione umbratile penetra a tal punto nel nucleo centrale della messa in scena che alcuni dei suoi primi film, sebbene non si svolgano interamente dentro tempi e spazi notturni, tendono a essere ricordati dallo spettatore come invasi interamente dalle ombre della notte. Sorprendentemente, quando si rivedono O Sangue (1989), Casa de Lava (1994) o anche Ossos (1997), si nota invece che non poche sequenze trascorrono all'aperto e in pieno giorno.

Questo fermo immagine ritrae la scena di un sacrificio. Un capretto vivo viene sgozzato sulla testa del personaggio principale del film, Andy Okeke, per esorcizzare gli spiriti che lo posseggono. E’ tratta dal grande classico della tradizione nollywoodiana Living in Bondage (Chris Obi Rapu, 1992), film che secondo la maggior parte della critica locale e internazionale ha inaugurato la nascita dell’industria video nigeriana, oggi conosciuta come Nollywood. La bassa risoluzione del fermo immagine, estratto da una vecchia videocassetta ancora miracolosamente intatta, porta le tracce materiali di un film prodotto in un’epoca in cui la Nigeria attraversava una delle sue epoche di crisi più profonda, il passaggio di consegne fra due delle dittature militari più feroci della sua storia (dal regime di Ibrahim Babangida a quello di Sani Abacha).

«Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore».

(Dino Campana, La notte) 

«[…] Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina della melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno […]». 

(D. Campana, La Chimera)


C’è una notte che sale dalle profondità della parola, primitiva, barbarica, orfica dei Canti di Dino Campana, che trae origine dall’indistinto della memoria, ripetutamente spezzata, frammentata e (de)costruita su quello che sembra, che è lo sfondo dei paesaggi di Leonardo da Vinci, come appare osservando La Vergine delle rocce, Sant’ Anna la Madonna e il Bambino e La Gioconda. Quel carattere di infinitezza del quadro, che tende a non definire i confini ma anzi ad annullarli, risponde alla necessità di rendere uno sfumato che integri le figure in quegli elementi primi, l’acqua, le rocce, la terra e il cielo che saranno così amati dal poeta di Marradi: le posture di tre quarti, ricorrenti nelle opere di quest’ultimo come, del resto, nei dipinti dell’artista, permettono di imprimere allo sguardo una direzione immaginata, sognata, alle origini di  «[…] un evento misterioso e remoto nel tempo come nello spazio.» (P.De Vecchi - E. Cerchiari, Arte nel Tempo. Dal Gotico internazionale alla Maniera Moderna)

Brian De Palma

Doppia (tripla, quadrupla) personalità.

Ogni attore che interpreti diversi ruoli (almeno due, ma possono essere anche di più) nello stesso film, in fondo non fa che allevare Caino, dar vita a questo doppio mostruoso dell’originariamente innocuo Carter  e ai suo altri multipli, più o meno inquietanti (il dottor Nix, Margo).

Rod Serling, indimenticabile scrittore e sceneggiatore americano, autore e voce narrante di una delle serie televisive antologiche più amate e significative di sempre (The Twilight Zone), è stato per molti versi un esempio mirabile di abilità nel decostruire temi sociali (la paranoia nucleare, il razzismo, l’ipocrisia religiosa e politica, la solitudine, il conformismo e molto altro) attraverso le lenti della fantascienza e dell’horror. Una voce talmente popolare da risultare inconfondibile per il pubblico degli anni Sessanta prima (il periodo di messa in onda è 1959-1964) e Settanta poi.

Quello uscito nelle sale non è il film che Brian De Palma aveva immaginato: come ammesso dallo stesso regista, non ne ha scritto la sceneggiatura e non ha avuto controllo né sul montaggio, né sul metraggio finale. Il film, ostaggio della produzione danese, ha subito tagli per oltre mezz’ora sulle due ore che, in origine, erano state previste (nello stesso tempo, è bene dirlo, De Palma sceglie il direttore della fotografia del precedente Passion, Josè Luis Alcaine – lo stesso di Sur di Erice, ma anche di Pedro Costa, Almodovar, Aranda e chiama Pino Donaggio per le musiche, sodale in tutti i suoi thriller).

Teorie

Ci sono tele davanti alle quali si resta ipnotizzati, che impediscono di distogliere lo sguardo e che fanno scivolare in una vertigine mistica, tra le pennellate impastate di colore ematico, i confini del reale slittano in un immaginario di incubi e sogni confusi, in un deragliamento mesmerico dei sensi.

Resta, dopo che i titoli di coda hanno danzato obliqui come le onde, apparsi nel cobalto che si dilegua frastagliato sullo sfondo, la memoria di alcuni versi di Baudelaire: «[…] Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, / dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan, / la douceur qui fascine et le plaisir qui tue. / Un èclair…puis la nuit! […]», è lo shock, la sopravvivenza di quello sguardo che ha affascinato e ucciso, un’esperienza artistica che ha molto dello sconvolgimento erotico, soprattutto se volutamente, come credo, la sintagmatica di Drift si fosse sottratta all’ultimo, estremo gesto degli abissi.

Alle rive dello Scamandro

Durante il tragitto che li avrebbe condotti lontano dall'Ade, Orfeo si sarebbe voltato soltanto sulla soglia del mondo dei vivi, secondo il mito, convinto che anche Euridice fosse ormai del tutto fuori. Si sarebbe potuto fermare lì per un momento, ancora in piedi, timoroso, le viscere che gli si contorcevano per l'impazienza, la felicità per le prove d'amore superate, con lo sguardo e il pensiero rivolti al futuro così tanto atteso; avrebbe potuto attendere un cenno di lei, un tocco anche debole che l'avrebbe fatto rinsavire, dimostrandogli la realtà della presenza, o meglio, dell'esistenza di Euridice. E non soltanto l'illusione. Ma Orfeo ha "egoisticamenente" scelto per sé e per l'altro, assorbendone il destino e, come afferma Marianne in Ritratto della giovane in fiamme, volendo conservare il ricordo di un amore che non avrebbe mai più subito i rivolgimenti del tempo.


Napoli, la città del sole, non è mai stata così plumbea e piovosa, l’atmosfera sembra proprio quella dei noir hongkonghesi e il cielo è intriso dell’odore della polvere da sparo e del sangue. Sangue chiama sangue, dice Peppino Lo Cicero, in pensione dal crimine da qualche tempo, ma un delitto come quello subito dall’ex-criminale non può restare impunito. La pioggia scende sulla città regalandole le ombre di una tela impressionista, un paesaggio dai contorni nebulosi e indefiniti. Il tono seventies lo si avverte sin dai titoli di apertura, colori sgargianti, tra tutti un giallo saturo su cui spiccano figure nere stilizzate.

La prima immagine di Petrunya (l’attrice i-comica Zorica Nusheva in una sommessa ma solida interpretazione) è in una desolata piscina stagnante e abbandonata. È una persona sola al centro di uno spazio de-finito, arido, senza (un) Dio. Subito dopo si impone (con “note” dissacranti) l’enunciativo, messianico titolo: Dio è donna e si chiama Petrunya.

Il desiderio di «fare Uno con l’Altro» e di possederlo si configura come una forza pervasiva della vita umana, attraversandola come un primitivo alfabeto costruito su un duplice impulso: di unione e disgregazione. Nel momento stesso in cui si entra in relazione con qualcosa di estraneo da sé, aprendosi a uno specifico oggetto del desiderio, la forza apodittica iniziale si perde come si perde, nella conoscenza dell’altro, o meglio fondendosi nell’altro, anche la propria identità e Mademoiselle di Park Chan-wook parte proprio da questo punto.

Editorie

Il gelido velo dell'oscurità

Ciò che si evidenzia sicuramente dalla matassa di Interviste sul cinema e sulla vita di Michael Haneke, curate da Michel Cieutat e Philippe Rouyer e ora pubblicate in Italia con il titolo in parte mutuato da un suo film Niente da nascondere, è la netta ispirazione nichilista del noto regista austriaco. Sebbene, non si tratti di un nichilismo ad ogni costo: rifiuta, infatti, di rappresentare la violenza, e gli spettatori sono portati ad aver paura di confrontarsi con la rappresentazione diretta delle atrocità commesse, per esempio, dagli aguzzini di Funny Games (l’originale, e il gemello poi girato in USA), senza, alla fine della catarsi spalmata su tutto il film, vedere nulla (è appena la percezione, e Haneke fra l’altro dichiara: “nemmeno per un secondo penso che tutte le persone siano come questi due ragazzi di Funny Games” – p. 194).

Uzak 34 | estate 2019

A dimostrazione che tutto è cinema, anche se quello che vorrei dire è che è Poesia (l'ho già detto altre volte, sulla strada che da Schelling porta a Nietzsche e ad Heidegger ecc.), un ambito più generale, una risacca di cose, ricordi, assenze, che si coinvolge, si sconvolge su di sè lasciando brandelli sanguinanti sul selciato e ricomponendosi come se nulla fosse, e in effetti è; tanto più generale da abbracciare un qualche universo sconnesso, basculante, con le sue dimensioni, punti di vista, in cui le cose hanno senso nel senso dello sguardo profondante, dilatante - se si fissa lo sguardo, solo se si fissa lungamente lo sguardo sulla materia, quella prende a vibrare, brulicare in sibilo, in visibilio, ché non è che la realtà sia, esista senza che la si debba immaginare: ecco tutto, ecco, tutto è questione di immaginazione, se no niente esiste - nel senso dei sensi che ne captano e ne traducono il dolore e l'estasi soffocanti.

Dream-Cinema

È già da qualche anno che in Francia si fa largo un cinema fulgido, fiammante per quanto laterale - una specie di acrocoro animato da iniziati, da dei mistici scapigliati o altrimenti imbonitori della mise en scène - che si può definire “dream-cinema” oppure, per restare alla lingua d'origine, “cinéma-rêve”: un regime di sopra-realtà, di personaggi sonnambolici, lirici, vaganti come spettri in teatri di posa, in prosceni spogli, di cartone e anditi ingombri di chincaglie, o al contrario sgangherati, furenti, ridicoli nei loro eccessi e nelle loro pose, che avanzano, magari attraverso le strettoie di Parigi lasciate aperte nel mezzo dell'ingombro, del peso della realtà.

Appartiene agli amanti, la notte, come cantava Patti Smith in un brano molto noto donatole da Springsteen, non a caso innestato sulle immagini di quella prodigiosa fantasticheria erotico-subacquea del comandante Jean in L’Atalante che ha aperto per vent’anni Fuori orario. La notte, la “sacra, ineffabile, misteriosa notte” cui Novalis ha rivolto i suoi Inni e Jarmusch rimesso l’arte e l’amore dei suoi vampiri (la musica underground di Adam, i libri di Eve in Only Lovers Left Alive). È in questa dimensione, in questo regno grondante di desiderio, di musica, di poesia e di fantasmi, che si consuma L'Âge atomique di Héléna Klotz. Che inizia con il buio fuori dai finestrini di un treno in movimento verso Parigi, il vagone stipato della forza d’attrazione tra due giovani uomini che parlano appunto di pezzi da ascoltare e degli Stone Roses, dopo che una stralunante versione elettronica di In the ghetto si è impossessata per qualche istante della scena, smaterializzandola. 

C’è un che di rassicurante nel sapere che dopotutto, dopo tutti i passivi nichilismi e cinismi di certo cinema mitteleuropeo, vaghi per l'Europa una nuova generazione di registi entusiasti e malinconici, ironici e lirici allo stesso tempo, smodati soprattutto rispetto ai canoni di equilibrio iconico-narrativo che vigono nel cosiddetto cinema d’autore; capaci di reinventare non solo la propria tradizione mediterranea, ma anche quella più dialetticamente europea, almeno a partire dalla comune base cogitante illuminista e arrivando a un postmodernismo che, fuori da citazionismi a sé e dentro la rianimazione e la mutazione della carne letterario-cinematografico-musicale, si presenta come l'unica forma di umanesimo possibile, anche contro certi richiami all'ordine realistico (io direi più che altro, descrittivo-mimetico) di cui s’è letto qua e là nei mesi passati.

La nuit c'est l'oublié du jour

Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati. Agogno
La nebbia ed il silenzio in un gran porto
[…] La vita è triste ed io son solo
O quando o quando in un mattino ardente
L'anima mia si sveglierà nel sole
Nel sole eterno, libera e fremente

(Dino Campana, Poesia facile, in Il Quaderno)

La notte è sembianza del giorno. Rimembranza. Ricostruzione e rivitalizzazione del giorno in un altro universo di simboli e significati. Essa non appare come la fine di tutto, come un sonno in cui non c’è dato «essere», creare, agire, dunque vivere, figurando invece l’inizio di una nuova esistenza, di un cosmo che transita, scorre, sopra le cose del mondo e nel cui corso – durante il sogno, la veglia, oltre la mezzanotte dei sensi – è possibile l’incontro, l’amore, la soddisfazione di aneliti inappagati. E se si è poeti affinché si riesca a “doppiare” la vita nel senso (duplice) che ha il termine, riproducendola e allo stesso tempo andando più in là, sperimentandone diramazioni e aperture, si stanno facendo largo, in una certa frangia di cineasti europei, alcune visioni estreme, radicali, dirompenti e distanti da un codice prescritto ma prossime ai generi (e al genere) e non dissimili da quest’idea di poetica.

Vérité c’est faux

Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
Moi je n'ai pas d'étoile
Le ciel est immobile dans la mer
Moi je n'ai pas de mer.
Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
Pour voiler mon apparence de corps
Je cherche un voile imperméable
Aux regards de la vérité
Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
Elle m'apprenne que je souffre
Car alors je n'aurai pas le mensonge
Pour me dire que c'est faux.

Il cinema di Mandico (autore di un unico lungometraggio, più una serie paratatticamente compatta come un fregio fluorescente, di corti e mediometraggi) postula e mima, in un detour ansioso e continuo, movimenti di discesa nel profondo e, per questo, si serve di una “camera stilo” che permette visioni internali “per contatto” come si farebbe togliendo dal niveo braccio di un angelo un guanto parecchio aderente (e non era un guanto ad ossessionare Breton in Nadja? E non erano guanti di plastica quelli che Heurtebise aveva regalato a Orfeo per fargli attraversare lo specchio?), feticismo dell’estremità che diviene immagine-calco del braccio perduto. Quali immagini, questo dispositivo microscopico e fantasmatico, filmerebbe? Sarebbero a colori o in bianco e nero? Affiorerebbero figure o osserveremmo particelle, muffe, pulviscoli come in un quadro dell’ultimo, cosmico, Kandinsky? Il piccolo dispositivo di ripresa non diventerebbe, allora, sottomarino del capitano Nemo, che proprio da un boccaporto assisteva alla fioritura di un paesaggio d’altrove?

«I sogni sono la letteratura del sonno. Anche i più strani coinvolgono dei ricordi. Il migliore di un sogno evapora il mattino. Rimane...il fantasma di una peripezia, il ricordo di un ricordo, l'ombra di un' ombra.» (Jean Cocteau)

Quando ci si immerge nel cinema di Bertrand Mandico è un dolce inabissarsi, uno smarrimento ipnagogico che precede la catarsi nella vertigine onirica; si apre il velluto purpureo del sipario e il palco si anima di creature fantastiche, ibridazioni fantasmagoriche, piante carnificate e fiori eroticamente sensuali, il maschile e il femminile uniti in un unico genere, dove il corpo anelante è l’unico protagonista.

Corpo totemico dell'instabile universo pan-sessuale genito da Bertrand Mandico è l'immancabile Elina Löwensohn, Valentina, Barbarella dei tempi nostri, che con la sua presenza fisica attraversa tutto l'universo mandichiano conferendogli con la carne reale una sorta di continuità ontologica sul piano immaginativo, avvertibile al di là delle diverse identità sceniche che assume.

C’è un doppio sguardo, frantumato dal taglio netto sulla dualità del soggetto, sovrapposto sul fascio di luce arrivato dall’alto, pure specchiato, che è di Hannah Höch nel suo Autoritratto con Crack (1930, Berlinische Galerie), al quale si ha l’impressione di poter accostare l’idea di cinema di Bertrand Mandico – astro nascente di una nuova tendenza francese, consacrato dai «Cahiers» – nelle specificità tecniche che gli sono proprie: metafora à rebours di un discorso sull’arte che riflette su di sé, sulle possibilità e sugli strumenti che ad essa sono connaturati; paradossale, vibrante, intensivo dream work che era stato delle avanguardie, ora reinterpretato nelle modalità dissacranti del ghigno, o del balbettio, quando non afasia, oppure al contrario dall’urlo, dal fluire emorragico, metafilmico, di liquidi che tingono lo schermo, del graffio furente sugli occhi.

Già al tempo dei Rencontres d'après minuit (2013) di Yann Gonzalez ipotizzavo l'inizio, così incerto, forse del tutto sognato, di una sorta di poetica - evanescente, appannata, sfumante nel prorpio originario niente - del sogno, nei primi anni Dieci di questo nuovo secolo, quando del resto già Héléna Klotz aveva presentato a Berlino L'Âge atomique (2012) ed evocato il notturno, traslucido palpaitare della giovinezza in corpi così senzienti, dolenti, anelanti alla propria pienezza, alla propria estasi, da non reggere a questo peso e trascolorare in fosforescenza, veglia, lacrima brillante, cioè in musica, nell'ondeggiare dei synth, del dream pop, dell'elettronica eterea, malinconicamente retro.

All'interno di quel corpo di film tenuti insieme dall'emergere, dal delinearsi, anche dall'evaporare di una poetica del sogno – quello che io chiamo cinema-rêve o dream cinema –, che va dall'inizio degli anni Dieci (dall'Âge atomique di Héléna Klotz) e arriva a Jessica Forever di Poggi e Vinel (e alle Bêtes Blonde di Matray e Walther), se Mandico rappresenta il delirio, cioè il grado massimo di onirismo (soprattutto in Ultra pulpe), con inferenze di grottesco e sadismo, Poggi e Vinel sul versante opposto sembrano perseguire una dimensione incerta, transeunte, di quasi-sogno, in cui vige un'alta emotività di tipo adolescenziale che caratterizza i protagonisti.

Traduzione di Mariarosa Di Marino

Nous poursuivons un cinéma enflammé, un cinéma pour les rêveurs transpirants, les monstres qui pleurent et les enfants qui brûlent”. Questa frase è un estratto di Flamme, il manifesto che voi due avete firmato sui Cahiers du cinema nell’agosto del 2018 assieme a Yann Gonzales e Bertrand Mandico. Un mese dopo, Jessica Forever veniva presentato a Toronto. La parola mostro ricorre spesso nel film e le fiamme divampano in modo letterale sullo schermo. Praticamente una corrispondenza perfetta tra intenti e risultati…

Le Bêtes blondes, fuori dall'imperativo, dall'ansia di corrispondere ai caratteri di una realtà mimetica per via di sceneggiatura, narrazione, il disegno ponderato di soggetti, perfettamente agenti dentro la storia; sono spettri, fantocci cangianti che vagano in un interregno di segni, un caos di presagi, avvisaglie di una trama che non si realizzerà se non nel suo giocoso e macabro girare a vuoto, nella sua endemica, concentrica apertura a quell'universo di opzioni, virtualità, coreografie in immediato annullamento, che attende ai margini del mondo empirico per essere significato.

Carlos Reygadas

Se penso a film che rappresentino il nostro tempo, concitato, tecnocratico, eppure ancora ferino; e che lo mimino attraverso il linguaggio, il gesto cinematografico, mi viene in mente un'opera prima lucente, sonante, passata per il Festival di Locarno qualche tempo fa, Verão Danado del portoghese Pedro Cabeleira – estasi techno-pasoliniana di un'ultima estate, con l'ariosità e la trasparenza dell'immagine in trepidazione, respirazione, e cioè la sacralità della presenza, della movenza anche disperata, alla fine della giovinezza – e Nuestro Tiempo di Carlos Reygadas, in concorso a Venezia lo scorso anno, attualizzazione di un'educazione sentimentale (che alla fine non è che il dis-adattamento dell'individuo alla vita) già abbozzata in Post Tenebras Lux, tra conflitti, impossibilità comunicative, perversioni propedeutiche all'eternazione dell'amore.

Se l'etimo della parola Tempo è collegato, come sembra, al dividere, al separare, il "nostro" tempo si identifica forse per una divisione, per una separazione, generate da un eccesso di con-divisione. Esistono molte specificità per cui il tempo in cui viviamo possiamo chiamarlo specificamente “nostro”, ma per Carlos Reygadas la più importante è quella che ce lo rende estraneo, o comunque davvero poco “nostro”.

Un’idea del cinema. Un’idea che ne rivela il suo strano e affascinante destino: poter essere la forma che più di ogni altra lavora la materialità del mondo, e poterlo fare attraverso la quasi totale immaterialità delle sue immagini, digitale o analogica che sia. Questa stranezza è, lo si sa bene, la potenza stessa della settima arte, che spazza via ogni prevalenza del narrativo rispetto alla potenza del mondo, che fa piazza pulita di ogni simbolismo davanti alla flagranza del reale che si dispiega di fronte alla macchina da presa. Ambivalenza costruttiva, feconda. I corpi, il mondo sono lì davanti ai miei occhi, eppure essi al tempo stesso non sono più.

Teorie

Punto primo. La prima coincidenza de Il traditore ci riporta sui sentieri battuti del rapporto di lunga durata tra Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, che si spinge persino oltre la prematura scomparsa di quest’ultimo. Tra i due c’è sempre stata e continua ad esserci una segreta, sottile, sotterranea concomitanza che va ben al di là della conclamata e creata ad arte competizione o conflittualità. Una segreta corrispondenza piuttosto continua a legarli.

«Su di noi
il tempo ha già giocato, ha già scherzato
ora non rimane che
trovar la verità […]».

Parla piano, Vinicio Capossela

Quello che sappiamo del nostro vissuto, riconoscendolo in ultima istanza come tale, è prevalentemente un’impronta perdurata dall’esperienza del passato. Arresa dell’essere e della coscienza al tempo, il quale si fa crogiolo di tracce, segni, immagini assimilate dal mondo e riproposte in una diacronia imperfetta fatta di momenti sempre nuovi e, allo stesso tempo, già vissuti. O ricordati, per l’appunto, trascinati al presente in nuove potenziali versioni di loro stessi; richiamati alla memoria in modo “circolare” nel tentativo di decifrare – come farebbe un occhio fotografico che tenti la messa a fuoco – l’immagine sfuggente che si è frapposta tra la cosa e la sua passata percezione. La prima ricerca umana possibile è, dunque, quella che scava nei ricordi. Di un soggetto sempre più esitante rispetto al reale, così condotto all’indagine mnemonica e alla sfida del riconoscimento dell’oggetto in una sorta di “passato-presente”.

La  prospettiva di riflessione che riguarda le modalità con cui il film “adesca” il tempo, cioè il modo con cui lo mette in rappresentazione per contenerlo entro i limiti della propria durata di proiezione, ci offre una prima opzione di lettura su quel multi testo stratificato e organizzato per irruenti accumuli visivi che è Non C’è Nessuna Dark Side, opera prima di Erik Negro, presentata nella sezione Satellite dell’ultima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

Editorie

C’era una volta il cinema equivaleva per Sergio Leone a “c’era una volta il mito del cinema”. Il racconto della non lunga vita dello straordinario reinventore poetico del sottogenere spaghetti-western è un cordiale e minuzioso inanellamento di innumerevoli e spesso divertenti episodi dell’entusiasmo e del mestiere di cineasta per un intervistatore francese, Noël Simsolo, componente, con lui, di una sorta di famiglia di cinefili (o ciné-fils, figli di cinema), frequentatori, in quindici anni di amicizia (fra gli anni Settanta e Ottanta), di festival, di incontri mondani e professionali di varia natura, e di scorribande notturne per le strade delle capitali europee, in primis Parigi.

Il nichilismo, da Machiavelli (l’oscena tragicità del potere) a Shakespeare (“La vita… è un racconto narrato da un idiota, pieno di grida, strepiti, furori senza significato alcun!”), già appare nella letteratura a ridosso dell’esordio della modernità rinascimentale. E, più tardi, se conosce il suo culmine nell’“età della crisi” con scrittori come Poe, Dostoevskij e Kafka, nel cinema del Novecento ha un inatteso rappresentante in Alfred Hitchcock. La tesi illustrata da G. Canova nel saggio d’apertura del volume scritto a più mani Alfred Hitchcock.

UZAK 33 | primavera 2019

Questi primi mesi del 2019, mentre si aspetta tanto Harmony Korine quanto Weerasethakul o Paul Verhoeven, sono stati il tempo del ritorno di due grandi americani, molto diversi tra loro in quanto a esperienza e a idee sul cinema.

Shinya Tsukamoto

Il cinema di Tsukamoto ha a lungo esplorato il corpo umano nelle sue dinamiche di incontro/scontro con la città, portando in scena la lotta tra materia organica e inorganica per definire quale confine vi fosse tra umano e inumano.

A partire da una ricognizione della nodatura fitta di coerenze interne e ritorni non casuali che lega ciascuna delle opere di Tsukamoto alle altre, ma limitando il campo d'analisi alla sola indagine tematica e valoriale, cerchiamo di capire meglio le ragioni di continuità con cui Zan (The Killing) ultima sua creatura che ha corso al Lido, si attesta come opera matura di quella "nuova onda" del suo cinema, in cui sono l'interrogazione etica di ampio respiro e l'attenzione agli universi interiori, psicologici e morali dell'uomo a muovere la ricerca della macchina da presa.

«All’inizio i cambiamenti fisici erano lenti, poi hanno fatto balzi in avanti con sordi tonfi neri, ricadendo negli strati di tessuto molle, lavando via i tratti umani… Nel posto dove regna il buio assoluto la bocca e gli occhi sono un organo solo che balza in avanti per mordere con denti trasparenti.»

William S. Burroghs, Il pasto nudo

Qual è il confine ultimo del corpo? E soprattutto, esiste un confine ultimo del corpo? Tutto è limitato solo alla pelle, oltre la quale c’è tutto il resto? La mutazione, l’espansione, qualsiasi cosa per non costringere l’uomo alla condizione di mero involucro innervato e organico ma tentare, disperatamente, di uscire dalla gabbia, fino a raggiungere un oltre infinito. Il corpo è materia, viva, pulsante, e, in quanto tale, plasmabile e soggetta a trasformazione e adattamento, come in Tetsuo: The Iron Man, di Tsukamoto Shin'ya.

Con Tsukamoto sembra che tutto si stemperi in una specie di strana dimensione, senza direzione né riferimenti immediati, senza nord né sud, senza un filo che conduca da un prima a un dopo se non passando per l’intermittenza del corso del tempo.

Steven Soderbergh

La condizione del soggetto contemporaneo è quella di essere connesso ad una serie di dispositivi desideranti e manipolatori, interfacce di simulazione integrale che articolano e riformulano tutte quelle relazioni capaci di determinare il suo essere nel mondo(come scrivono Deleuze e Guattari all’inizio de L’Anti-Edipo, siamo circondati in ogni parte da macchine, e non metaforicamente: macchine di macchine con i loro accoppiamenti e connessioni).

Kafka può essere considerato come un episodio singolare, quasi un corpo estraneo all’interno della filmografia di Steven Soderbergh. Se il successo di Sex Lies & Videotape, con il formidabile debutto al Festival di Sundance e la definitiva consacrazione con la Palma d’Oro di Cannes, rivelò un nuovo auteur di cinema indipendente USA, il secondo lungometraggio del cineasta fu, per molti dei suoi fan, un’esperienza sconcertante. Un alone di incomprensione, che prese la forma di un distaccato apprezzamento dei suoi meriti parziali o, addirittura, di disdegno, circondò subito il film che, stando al botteghino e all’accoglienza della critica, si crederebbe quasi un passo falso. Se la sua opera prima venne celebrata come una pietra miliare di indipendenza cinematografica che decretò un successo cross-over, capace di avere la stessa risonanza nelle sale d’essai e nei multisala, Kafka si assestò subito come opera rarefatta, incline ad essere saltata a piè pari nelle valutazioni a posteriori della filmografia del regista.

Il gioco, i giochi. Non occorre scomodare Roger Callois per riconoscere il potere del gioco come messa in forma del mondo, come possibilità di metterlo in gioco appunto, di inventarne le regole, di fronte ad un reale che per quanti sforzi si facciano si mostra sempre più evanescente, inafferrabile.

«Solo studiando i morti, si
progredisce nella conoscenza dei vivi.»

Nella serialità, dunque, sembra concentrarsi l’ultima frontiera del racconto cinematografico – ma basta fare i nomi di Steven Soderbergh, Edgar Reitz, David Lynch, e di pochi altri, per capire che c’è dell’altro. A ognuno il suo altro.  
Tra le serie TV di successo, The Knick è la sola (che io sappia) per la quale, dopo due stagioni, alla fine si è dovuto rinunciare alla terza. Il personaggio protagonista infatti (parlo del dottor John Thackery, primario chirurgo all’ospedale Knickerbocker di New York ai primi del '900) muore nell’ultima puntata della seconda stagione, operando se stesso in anestesia locale, e sarebbe stato difficile resuscitarlo, o contentarsi di seguire i casi degli altri personaggi (medici, pazienti, infermiere, amministratori …). La serie diretta da Soderbergh insomma, benché termini con la minaccia o l’annuncio di un'epidemia, assume man mano l'andamento d'un profilo biografico (ispirato alla figura reale del dottor William Stewart Halsstead), racconta la sua storia o vi si ispira, e ogni biografia, come si sa, termina prima o poi (se sufficientemente protratta) con la morte del suo protagonista.

«Quando la visione tende a non distinguersi più dal visto o dal visibile, è come se l’occhio toccasse la cosa stessa.»

Jacques Derrida Toccare, Jean-Luc Nancy

Nel buio della moviola al Centro Sperimentale di Cinematografia, tanti anni fa, ricordo una montatrice mitica, Jolanda Benvenuti, le sue mani che passavano e ripassavano la pellicola erano coperte da guanti. Quelle mani avevano toccato i fotogrammi di Roma città aperta, di Paisà, di Europa 51. Quelle mani guantate paradossalmente trasmettevano un contagio, il contagio delle immagini. Contagio che fa assonanza con montaggio. Il montaggio trasmette e risale. Per contatto. E con-tagio deriva da tangere, toccare, con-tactus.

Mario Martone

Per comprendere quanto il nesso Natura/Utopia sia insito e inscindibile nel filmare di Mario Martone basterebbe considerare (alla vigilia di Capri Revolution) due piccoli-grandi film. Si tratta di Teatro Sommerso, realizzato per la Triennale di Milano nel 2008, e di Pastorale Cilentana, realizzato per l’Expo nel 2016. Lungi dall’essere film “d’occasione” sono due lavori che “postillano” in modo ispirato un nesso cruciale: quello che unisce il fare arte, il fare cinema, il fare teatro con il nucleo di vita racchiuso nel binomio Natura-Utopia.

«Mi spiegò che essere senza scarpe è una colpa molto grave. Quando c'è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare: e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l'inverso. - Ma la guerra è finita, - obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. - Guerra è sempre, - rispose memorabilmente Mordo Nahum.»


Primo Levi, La tregua


Chiunque voglia affrontare in blocco o per singoli studi di caso l’opera di Mario Martone rischia di ripetersi. O di ripetere cose già scritte, già dette, già viste e sentite anche all’interno dei singoli film, dei singoli spettacoli. I film e gli spettacoli, o i libri di Martone, contengono al loro interno, fino a Capri-Revolution, discorsi, dibattiti, posizioni che si confrontano e si affrontano. Il problema è individuare un approccio diverso, magari con effetto genealogico.
Occorre dunque un approccio trasversale. Cercare Martone, dentro Martone, significa procedere lateralmente, individuare connessioni, all’apparenza marginali. Far emergere aspetti occasionali e contingenze che tali non sono e all’improvviso esplodono, si rivelano sostanziali.

«[…] αὐτόματα δ᾽ αὐταῖς δεσμὰ διελύθη ποδῶν
κλῇδές τ᾽ ἀνῆκαν θύρετρ᾽ ἄνευ θνητῆς χερός […]»
(Euripide, Baccanti)
«[…] Le catene, da sole, si sono sciolte dai loro piedi
e le chiavi hanno dischiuso le porte senza una mano mortale […]».
(Trad. di L. Correale)

L’incedere del pensiero tragico, la spinta contraddittoria, multiforme, estrema verso la conoscenza in atto, che si compie a ridosso di quella montagna – stratificandosi come gli strati delle rocce calpestate, inquadrate in particolari vivissimi, dettagliati, minuti – poi sale in vetta e da lì precipita, è costitutivo di quest’ultima opera di Mario Martone, il cui sguardo si intreccia alle puntuali citazioni euripidee come a partire da lì, da quel «[…] ἴτε βάκχαι, ἴτε βάκχαι […] εἰς ὄρος εἰς ὄρος […]»(«andate Baccanti, andate Baccanti […] al monte, al monte […]», anaforicamente evidenziato anche in diversi momenti di Capri Revolution, in cui si dispiega la forza del mutamento come tragica, ineluttabile necessità: un andare che si manifesta già dal volto in primo piano della protagonista, dagli occhi sulle pietre ruvide, che è avvio alla danza conoscitiva che toglie il velo alle cose; e dal piede, che sale alle rocce, all’urlo dei gabbiani, poi al precipizio aperto dalle panoramiche mozzafiato, che spostano il movimento, mutano nella discesa dello sguardo questa tensione continua del salire, del guardare in alto ed avanti, precipitandola alla quiete del mare, ai corpi, nudi sulle pietre, pietre su pietre, confusi, fusi nella luce azzurra, estatica, dentro gli strapiombi, che non sappiamo se siano di Capri o degli occhi: vortici, neri, di Lucia.

Autorevole scrittore di realtà umane, nonché potente fotografo delle condizioni trasformative che coinvolgono in modo equivalente arte, natura, storia e forme di vita, Mario Martone tesse un’altra delle sue tele dipinte di luci e calore umano rivoluzionario, sospesa tra la terra e il mare. Un’ultima opera che reca già nel titolo – Capri-Revolution – il senso di una sollevazione e di un desiderio ardente di cambiamento, intrisa della fermezza di puro fatto politico amalgamato allo spessore poetico essenziale dell’immagine filmica.

M. Night Shyamalan

Articolo già pubblicato sul "Manifesto" del 16 aprile 2019.

Nell'immaginario di molti appassionati non solo di cinema, ma anche di fumetti, letteratura, musica, in quel coacervo di linguaggi comunicanti, ontologicamente comunicanti, a prescindere da ciò che sarebbe letteratura e paraletteratura, immagine cristallina e vignetta o icona a bassa risoluzione, nota minima e accordo screziato; il 2019 era, e forse resterà, l'anno di Glass (a maggio in home-video). Che poi “appassionati” è una tautologia, visto che non capisco come non si possa avere un interesse anche spasmodico verso cose che riguardano, interpretano, sublimano da sempre lo stare al mondo, l'identità del soggetto di generazione in generazione.

L'idea di un cinema che rivela se stesso, liberando le energie dei segni, svincolando le tracce della narrazione in un persistente e dolce ribaltamento delle prospettive, è la linea che determina alla base l'opera di M. Night Shyamalan. Non è tanto questione di twist narrativi sedimentati nella formula The Sixth Sense, quanto della capacità di visualizzare un cinema che filma l'epifania di se stesso, la presa d'atto della propria reversibilità dallo stato solido alla purezza dell'immaginario.

Avvolto nel suo impermeabile scuro, Mr. Glass valica la strada con passo trafelato, sghembo, un braccio poggiato sul bastone, l’altro ciondolante, penzoloni. Questo corpo trascinato a forza attraversa centralmente il campo lungo dell’inquadratura, si avvicina alla macchina da presa, mostrando il volto teso, le labbra storte. All’ingresso della metropolitana la figura, stagliata contro il cielo luminoso, si arresta impaurita, mentre uno zoom out verso il basso svela impietoso la discesa oscura, di scale e corrimani tubolari, che lo attende. Vorrebbe soltanto chiedere qualcosa a qualcuno, ma quel qualcuno non è disposto ad ascoltarlo, a fermarsi. E nel tentativo disperato di raggiungerlo, Mr. Glass, l’uomo di vetro, si avventura giù per le scale, conscio, perfettamente, di ciò che rischia a causa della sua osteogenesi imperfetta.

Editorie

Giacomo Debenedetti è stato uno degli intellettuali più acuti del Novecento italiano, primeggiando soprattutto nell’ambito della critica e della saggistica letteraria: ha attraversato tutta la prima parte del secolo, approdando infine alla stagione degli anni ’60 con un valore di risultati che, di fronte alla scandalosa sottovalutazione dell’Accademia, ha saputo produrre una lettura tra le più puntuali e appropriate della vicenda complessa del suo tempo. Il codice interpretativo dei grandi scrittori e poeti contemporanei a lui dovuto risulta forte – con eleganza e passione che restano integralmente letterarie – degli input derivati da una cultura anche esplicitamente extraletteraria, dalla psicanalisi alla filosofia, dalla politica alla storia, dalla sociologia all’antropologia, e così via. Il bacino di formazione di questo atteggiamento cognitivo – che comunque non ruppe mai con i fondamenti dell’estetica di Croce – fu senz’altro determinato dalla spinta modernistica del pensiero gobettiano (e gramsciano) negli anni ’20, e da quella delle riviste giovanili che si seppero ispirare alle idee della “rivoluzione liberale”. La molteplicità d’interessi per il coraggioso arricchimento dell’orizzonte culturale italiano si aprì così, in quella fase, ad ambiti fino ad allora inesplorati da parte della migliore intelligenza nazionale.

UZAK 32 | autunno 2018 - inverno 2019

L'editoriale di fine anno è facile da scrivere: a meno che non sia accaduto qualcosa di eclatante in ambito teorico - il che richiederebbe un'attenzione speciale, tutta una messa a fuoco sul visibile contemporaneo che però sarebbe evanescente se paragonato alla bieca flagranza della pubblicistica, dell'icasticità salviniane: ma soffermarmi su questo fenomeno sarebbe sadico da parte di un'indole malinconica, e soprattutto ripetitivo visto che lo ha fatto, latamente, Franco Berardi, "Bifo", con un libro molto bello, Futurabilità edito da «Nero», come già Realismo capitalista di Fisher- si tratta di riassumere l'anno appena trascorso, attraverso immagini, pagine, suoni resistenti.

Teorie

«L'importante per me era sfidarmi ancora, superare quello che avevo già fatto, e dopo aver fatto crollare le montagne in Monte (Amir Naderi, 2016), per andare avanti in quella direzione avrei dovuto aprire gli oceani come Mosè. Quindi ho capito che era il momento per un cambio di direzione radicale rispetto a quello che ho fatto sinora, una sfida che investisse anche il piano stilistico, qualcosa che non avevo mai fatto prima».

Tra le rovine del comunismo, uno spettro si aggira nei deserti di una generazione, e lì, tra edifici collassati, Olivia Lonsdale incarna ciò per Alex Williams è questo (nostro) sentire (il sentire di una intera generazione)
Cosa è questo essere nati troppo tardi? Questo sentire di essere nati troppo tardi? La sensazione di essere venuti dopo qualcosa… Ma questo guardare al passato come a un età dell’oro dai grandi momenti, delle grandi storiche conquiste – e nel film la parola ‘passato’ tuonerà e salirà come un mantra, ripetendosi come in un rituale magico– non tradurrà l’oblio in nostalgia, non guarderà esotico a un ritorno dello stesso; annullerà, bensì, l’idea stessa di futuro che in quegli anni amorevolmente vi si cucì per i nuovi arrivati. L’impossibilità di rapportarsi con questa linea del tempo, l’impossibilità di procedere verso un proprio generazionale futuro non lascia spazio se non al ripensare a quella passata idea di futuro. O accelerare, verso una densa automazione del presente.

Passa nella sezione Orizzonti della settantacinquesima kermesse veneziana l'ammaliante Blu, nuova stanza della ballata audiovisuale degli invisibili, scritta e cantata da quello chansonniere bicefalo che risponde ai nomi di D'Anolfi e Parenti.

«Nei neri spazi interplanetari quegli sciami si sparpagliavano variamente, seminando polvere di meteore di abisso in abisso. Sperduti negli spazi infiniti, avevamo quasi smarrito il globo terrestre sotto i piedi e disorientati, senza più direzione, pendevamo come antipodi, a testa in giù , sopra uno zenith rovesciato, e ci aggiravamo fra quegli ammassi stellari, passando il dito bagnato di saliva lungo interi anni-luce di stella in stella. Così vagavamo nel cielo in lungo ordine sparso, disperdendoci in tutte le direzioni per gli scalini infiniti della notte: emigranti di un globo abbandonato, che saccheggiavano le sconfinate masse formicolanti di stelle.» (B.Schulz, Le botteghe color cannella).

Di stella in stella, di cielo in cielo, in ★ di Johann Lurf assistiamo ad un gioco di tempi in cui ogni frammento notturno viene strappato alla temporalità del proprio film per incastrarsi e concatenarsi come in un mosaico in un via vai di cieli stellati.

Da Alcuni anni oramai si invoca, tanto da parte degli studi di ambito cognitivo che di quelli filmologici, la necessità di una convergenza interdisciplinare, e di una sintesi funzionale tra i reciproci paradigmi d’analisi. Il presente contributo intende muoversi in questa direzione tentando la via di una struttura funzionale integrata tra i due livelli di descrizione diversi, quello critico filmologico e quello relativo ai processi di embodiment.

Speciale Craig Zahler

* Una prima versione di questo articolo è uscita sul «Manifesto» del 22-11-2018.

Brawl In Cell Block 99, secondo film di Craig Zahler, rappresenta un caso davvero clamoroso di quelle lacune endemiche della distribuzione italiana, che spesso, oltre a trascurare il valore intrinseco di alcuni film, pare tralasci anche quello più esteriore, di confezione (di cui dovrebbe essere esperta), mancando di soppesarne elementi di potenziale e diffusa commercializzazione. In effetti in quanto a vendibilità Zahler non è meno attraente di Tarantino, anche al di là dell'immediato sfolgorio e del crepitare tutto plasticoso1Il termine “plasticoso” sarebbe un neologismo e lo prendo dal lessico e proprio dalla filosofia di Luca Abiusi (animatore prima di retrogamer.it ora di projectfirestart.org), che determinano un ambito dialettico, ermeneutico molto connotato, quello del videogame degli albori, con la propria meccanica a bip e fosfori verdi e le linee meravigliosamente minimali e stereotipate: creature, laconici avventurieri e navicelle spaziali a pixel, mostri e combattenti a mani nude in un mondo di pochi bit, divenuti in breve tempo fonte di feticismo e di studio, soprattutto al tempo delle ultradefinite consolle contemporanee. È un intimo corrispondersi tra questa meccanica e i tratti archeologici delle sagome sul monitor, con l'involucro di plastica posto fuori, la consolle dotata delle sue escrescenze di joystick, floppy, scricchiolanti registratori a nastri. Ma, anora, “plasticoso” non è “plastificato”; non indica l'essere fatto di plastica di un determinato oggetto, ma, mettendo in relazione oggetto e soggetto fruitore (dopo che si è capito il legame tra la plastica che compare sullo schermo e quella che sta fuori, in termini di supporto), dice il feticismo, il piacere per l'artificiosa flagranza, per il crepitare della cosa di plastica. della superficie, dell'involucro così feticisticamente fantoccesco dei loro film (o di alcuni loro film).

Nei film diretti da Craig Zahler, scrittore, musicista e regista, prima o poi succedono cose terribili (scene di cannibalismo, teste spiaccicate, pestaggi, torture…) ma accadono con tutta calma, senza fretta – se di una certa “fretta” si può parlare, questa è riservata semmai alle scene culminanti, quelle che un tipico regista hollywoodiano cercherebbe in tutti i modi di valorizzare. Zahler, invece, si diverte a “rallentare”, inserendo particolari che non hanno diretta attinenza con la storia raccontata, o sembrano inessenziali, oppure mettendo in bocca a personaggi di modesta o rustica estrazione considerazioni complesse sulla vita e sulla morte (spesso auto-ironiche) degne d’un filosofo, o d’uno scrittore (quale Zahler è).

Ricordate l’incipit dello Squalo II (J. Szwarc, 1978)?1Non si nasconde forse nelle pieghe della logica completamente consumista del sequel, meglio quando del tutto apocrifo (e anche “mancato”, addirittura mal riuscito), la possibilitá sempre virtuale di un reframing, di re-inquadrare la realtà che si credeva fissa e stabile dell’episodio I in modo trasversale e inaspettato per far sorgere così nuovi significanti? Nel fondo dell’oceano, una fotocamera subacquea cade dal braccio mozzato del sommozzatore; l’urto con il fondale sabbioso (dopo una serie di rimbalzi che possiedono la sospensione incredula dell’oggetto a gravità zero cameroniano- kubrickiano e la malinconia invincibile del primo passo sulla luna) fa scattare, accidentalmente, una foto. Ma l’obbiettivo, dov’era puntato? Verso chi o verso Cosa lancia o genera il suo fascio automatico di luce biancastra? Verso lo sterminato fuori campo che si prolunga più in là del margine destro del quadro?

* Articolo già apparso su filmparlato.com.

A di là della prospettiva ludica che ormai accompagna ogni film di Zahler al suo annuncio - tutto quell'apparato plastico, splatter, come una fermentazione della materia cinematografica secreta, spruzzata, esplosa fuori dalla sua forma (come dimenticare il trascinarsi e consumarsi delle teste di pupazzo sul pavimento in Brawl In Cell Block 99 o lo svuotarsi del corpo, lo spreco così posticcio delle viscere gommose del vicesceriffo in Bone Tomehawk?), e l'avventura dentro gli spazi del genere, il consumo immediato che se ne possa fare - il cinema di questo onnivoro modulatore di trame (comprendendo anche i romanzi, le sceneggiature per altri registi e le musiche per i suoi film), a uno sguardo più attento, mostra una tensione spiccata verso delle resistenti strutture di immaginazione, delle forme di rappresentazione durature che si organizzano intorno al concetto, alla percezione di tempo e fungono da contrappeso (oltre che da contenitore) a quella pratica di consumo tutto intestino, in nome di un equilibrio del film che, ora che è passato anche Dragged Across Concrete a Venezia, si può considerare propriamente zahleriano.

Speciale "Le livre d'image"

Si apre l’immagine come un foglio da decifrare, tanti fogli rilegati uno ad uno a contenere mondi e al di là, chiusi eppure pronti ad essere sfogliati. Le livre d’image è, appunto, un libro che si racconta e ci lega, è image et parole che prendono forma ogni volta che le livre entra in possesso del nostro sguardo e la palpebra si apre. Il tocco di Godard che ricompone ancora una volta la sua Histoire(s) du cinema, abisso su cui rimettere continuamente le mani per andare più a fondo (ché l’immagine in fondo è un precipizio di cui non si vede mai la fine), mette in chiaro la sua idea di (non) fare cinema come se quell’infinito del verbo implicasse un lavoro instancabile che gira intorno ad un’unica interrogazione: cos’è il cinema?

«Tutto comincia in immagini...bei desideri, dolci e violenti come le falci, nell'erba tenera che arrossa...»
(Paul Éluard)

«La prima immagine di Nana di schiena è la prima idea che ho avuto. Non sapevo assolutamente che cosa avrei fatto in questo film: avevo due pagine di sceneggiatura che descrivevano grosso modo il film così com’è. Avevo un’unica idea molto precisa…era che la prima inquadratura sarebbe stata lei vista di schiena. Per quale motivo, sarei del tutto incapace di spiegarvelo»

Nell’indefesso proliferare di elucubrazioni, ripensamenti e rimemorazioni per immagini, parole e suoni che è la lunghissima carriera di Jean-Luc Godard, il regista francese non ha mai smesso di chiedersi in che modo il linguaggio cinematografico possa essere di volta in volta lavorato per continuare ad essere valido strumento di filatura del pensiero, del pensum, la lana grezza del cogitare umano. Lui, che una volta definì i film «arazzi in cui poter ricamare le proprie idee» e che si è sempre reputato – sin da una nota intervista, rilasciata ai Cahiers du Cinema nei primi anni Sessanta – un «saggista», uno che realizza «saggi in forma di romanzo» o «romanzi in forma di saggio», ma al posto di scriverli, li filma.

Chiuso nella villa-laboratorio di Rolle, nella quale da decenni s’è rintanato per poter esercitare in piena libertà e quiete la sua attività di sperimentazione intellettuale e artistica, Godard, le cui opere non sono certo mai state concepite per un consumo rilassato e acritico, ha portato avanti la sua impresa di “distruttore” (tale era la forza disgregante, ben oltre l’iconoclastia, che gli riconosceva Susan Sontag) e al contempo ricostruttore di cinema. Liberando l’immagine dal flusso ipnotico e illusorio del découpage classico e del suo montaggio invisibile, rifuggendo dalla melodia monodica della narrazione intesa come rappresentazione, per recuperare la discontinuità e l’incoerenza del reale (ma anche dell’immaginario) e affidarsi alla polifonia della composizione contrappuntistica. I cui punti (contro punti) sono materiali eterogenei (suoni, rumori, immagini, testi) stralciati dai contesti originari, accumulati, manipolati e messi tra loro in relazione e frizione, assonanza e dissonanza, nella piena trasparenza del processo poietico, di scrittura.

Acme di questo processo di traslazione e riconfigurazione sono sicuramente le Historie(s) du Cinéma e di qui bisogna partire per parlare di Le livre d’image, ultima rapsodia godardiana passata quest’anno in concorso a Cannes, dove le è stata assegnata una “palma d’oro speciale”. Come negli otto capitoli delle storie di cinema cominciate nel 1988 e terminate dieci anni più tardi, anche in questo “libro d’immagini” coesistono frammenti letterari e poetici, frame ed estratti della grande storia del cinema, voci narranti, quadri, suoni ed elementi grafici racchiusi in cinque capitoli (Remakes, Les Soirées de Saint-Pétersbourg, Ces fleurs entre les rails, dans le vent confus des voyages, L'esprit des lois, La région centrale). Cinque, come le dita della mano (che infatti appare subito, immediatamente dopo il bip tecnico del segnale di sincronismo da 1000hz che apre il film), dettaglio virato verso il bianco del San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci. Ma anche – come suggerisce lo stesso Godard in voice-over – cinque come «i cinque sensi, le cinque parti del mondo, le cinque dita della fede». Cinque falangi che compongono l’organo prensile, strumento del fare per antonomasia. Perché «la vera condizione dell’uomo è pensare con le mani» (una frase, appartenente a Denis de Rougemont, già utilizzata proprio nelle Historie(s) e dunque riciclata, rimessa in uso), passare dal pensiero all’azione, far filare la lana grezza del pensum, come dicevamo all’inizio, aiutati da quell’immenso opificio che è l’arte.

L’arte, appunto. Nel terzo capitolo, Ces fleurs entre les rails, dans le vent confus des voyages, rinominato con la musicalità e l’elegiaca figuratività di un verso d’ineffabile bellezza di Rilke, la voce fuori campo di Godard ne offre all’uditore una definizione che potremmo definire di matrice materialista, parafrasando una riflessione di Hollis Frampton, anch’essa presente in Histoire(s): «nel momento in cui due secoli si dissolvono l’uno nell’altro, alcuni individui trasformano i mezzi di sussistenza in nuovi mezzi. Questi ultimi sono ciò che noi chiamiamo arte».
Hollis Frampton, grande teorico dell’arte visiva, regista d’avanguardia e pioniere del video digitale, così simile a Godard, nel suo incandescente sperimentare, nel mettere le mani (di nuovo loro) nella struttura dell’opera filmica, nel magma dove avviene la fusione e modellazione degli elementi che poi diventano il film stesso (Frampton fu infatti uno dei massimi esponenti dello structural film, movimento di cui fece parte anche Michael Snow, il celebre avanguardista autore di La Région Centrale, di cui alcuni frammenti appaiono nell’ultimo omonimo capitolo di Le Livre d’image).

Non è un caso che un suo saggio, “For a Metahistory of Film: Commonplace Notes and Hypotheses”, giocò un ruolo chiave nel contestualizzare Histoire(s) du cinéma, circolando tra giornalisti e critici quando l’opera video ad episodi fu lanciata a Cannes nel 19971Per approfondire si veda Michael Witt, Jean-Luc Godard, Cinema Historian, Indiana University Press, 2013. Vi si teorizzava un’idea di cinema come di un grande apparato fatto d’ogni singolo fotogramma, immagine in movimento e suono mai registrati, a formare un mastodontico «film infinito», sempre in espansione. Non solo – e qui ci viene in soccorso Micheael Witt –  «ogni documentario e film di finzione realizzato, ma anche le innumerevoli ore degli home movies e dei filmati scientifici, educativi, promozionali e industriali che languono negli archivi e negli attici di tutto il mondo2Ib., p.109». Dato che per uno storico del cinema sarebbe del tutto impossibile fornire una storiografia accurata di cotanta mostruosità, Frampton coniò la figura del metastorico, qualcuno che avrebbe dovuto «inventare una tradizione, cioè un set maneggevole e coerente di monumenti indipendenti, incaricati di inseminare di una nuova significativa coerenza il corpo crescente della sua arte3Ib., p.110». Se opere del genere non fossero risultate reperibili, il metastorico avrebbe dovuto avere il dovere di realizzarle o, nel caso in cui fossero invece disponibili, di rifarle. Re-make, appunto.

Torniamo così a Le Livre d’Image e al suo primo capitolo. Non è possibile capire il senso di quest’ultima opera di Godard e delle sue histoire(s) di cinema se prima non si riflette accuratamente sul concetto di rapprochement che accomuna Godard e Frampton (ma anche Bresson, che spesso indicava questa forza magnetica come cardine del suo cinema, e altri cineasti ancora): l’avvicinamento di due oggetti, artefatti, persone o eventi non direttamente collegati tra loro.
Per JLG è, tout court, il cinema stesso ad essere «avvicinamento di cose che dovrebbero essere riportate assieme, ma che non sono predisposte ad esserlo4M.Temple, J. Williams (a cura di), The Cinema Alone: Essays on the Work of Jean-Luc Godard, 1985-2000, Amsterdam University Press, 2000, p.29». E se, come recita la nota formulazione di Pierre Reverdy, «l’immagine è una creazione pura dello spirito», allora «essa non può nascere da una comparazione, ma da un avvicinamento di due realtà più o meno lontane.

Più i rapporti tra le due realtà avvicinate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte – più essa avrà potenza emotiva e realismo poetico5Reverdy in G. Angeli, Tradizione e contestazione IV. Le avanguardie. Canone e anticanone. Ediz. Italiana e francese, Alinea, 2009, p.143.». È da questa combinazione per analogie che nascono opere simili a costellazioni, come Historie(s) du Cinéma e Le livre d’image. Il mezzo per ottenere il rapprochement è ovviamente il montaggio, che Godard intende non come mera giustapposizione, ma come contrappunto, alla maniera di Pelešjan, autore non a caso profondamente amato da Godard, altro grande riciclatore di immagini e suoni che diventano qualcosa di nuovo.
Del resto «il contrappunto – declama cavernosamente la voce di Godard nel suo libro illustrato – è la disciplina della sovrapposizione» e in questo turbine sincopato di entità fantasmatiche, composto dalla mente musicale di Godard con tempi plurali e ritmi composti, la Storia incontra le storie, il cinema il mondo, in un meraviglioso anacronismo che fonde immagine e tempo.

«La Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda – e per guardarla bisogna esserne esclusi».
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia.

L’isterismo della Storia, che Roland Barthes slegava dallo sguardo, ma da uno sguardo che pure è affrancato dall’appartenenza, come se soltanto nel non-luogo del distacco ci fosse la forma vera delle cose, la loro dinamica, muove dagli occhi, dalla voragine delle pupille dilatate: a patto di restare lontani, esclusi appunto dalla trama degli accadimenti, per essere trafitti dalla visione, e inondati da pezzi di mondi, da pezzi di vite e pezzi di sguardi. Sulla stessa linea palpitante, intensamente straniante procede, tratto a tratto, infranto e ricomposto dagli ingranaggi del montaggio, Le livre d’image, che è ancora una volta – e forse, adesso, ancora di più – discorso sul Cinema, se non domanda su quale ruolo abbia il cinema nelle innumerevoli possibilità d’essere (d’esserci) nel fulgore lacerante del reale.

Scene

Motus, etimologicamente indica il participio passato del verbo latino movere; Motus come movimento, spinta come breccia nel buio, dislocazione continua, trasformazione. Motus, la compagnia teatrale fondata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, si fonda su questa ricerca che è perenne spinta del corpo (scenico e attoriale) verso un altrove. Il superamento del confine sembra essere la parola chiave del lavoro di questa compagnia: l’idea di soglia perennemente messa in discussione. Panorama è il titolo della loro ultima produzione teatrale nata in stretta collaborazione con la Great Jones Repertory Company de La MaMa, teatro dell’East Village newyorkese fondato da Ellen Stewart e sembra essere il proseguo di un discorso già avviato con MDLSX attraverso il corpo androgino di Silvia Calderoni costantemente aperto e coinvolto con tutto ciò che lo  attraversa.

UZAK 30/31 | estate 2018

Accordo atomico

Nell'autunno del 2010 – l'aria già satura di un presagio serale, sciamare di bambini e adolescenti a maneggiare i libri usati sulle bancarelle, e il richiamo misterioso dei televisori accesi sull'Almanacco del giorno dopo, sulla sigla di Antonio Riccardo Luciani che infondeva, di flauto, il moto cadenzato, rotante, al prisma di icone tratto dal Mitelli; o sul Pinocchio di Comencini, animato, come se il legno si facesse carne per via delle musiche di Carpi, quando si erano già spenti gli echi dei "Cavalieri del re" – mi convinsi anch'io della possibilità di una rivista, un'altra, partendo dal cinema, ma, come ho continuato a ripetere in questi anni a mo' di giaculatoria, di mantra di tutta una potenzialità esistenziale, guardando necessariamente alla sua oltranza in quanto pratica del mondo dotato di senso, di segni: oltre il cinema, dentro il pragma del mondo vibrante di senso.

Teorie

Comunismo Futuro (2017) ha diversi baricentri, e questo ne fa un’opera sbilanciata, squilibrata, sbilenca, come il sentimento dell’umanità contemporanea senza comunismo. Un centro è il 1917, quando l’esperimento comunista venne tentato in condizioni tali da rendere inevitabile lo scacco e la tragedia. Un centro è l’apocalisse che si è scatenata negli anni della vittoria del nazismo trumpista in America e in larga parte del mondo. Un centro, infine, è a Berkeley, California, 2 dicembre 1964. Cinquemila studenti si incontrano nella piazza del campus per ascoltare Mario Savio (leader del movimento per la libertà di parola che si stava diffondendo) che doveva rendere conto di una conversazione con il direttore dell’Ufficio dei reggenti dell’università.

Il cinema, meglio di altre forme espressive, è in grado di «mettere in scena tutta una fenomenologia dell’atto dello scrivere: la preparazione dei materiali e del corpo, l’attimo magico del primo tocco dello strumento sulla superficie da inscrivere, il movimento ora lento e solenne ora nervoso e veloce della mano»1{R. Eugeni, Le peripezie della lettera, in «Bianco e nero», nn. 1-2, gennaio-aprile 2000, pp- 43-44}. Il processo più accreditato per trasferire sullo schermo il gesto della scrittura (e della lettura) sembra essere l’«audiovisualizzazione»2D. Tomasi, Lezioni di regia, Utet, Torino 2004, p. 84.: quando un testo scritto (o letto) implica dei fatti, il cinema sceglie di abbandonare le parole scritte per inquadrarne il contenuto attraverso richiami e anticipazioni diegetiche oppure tramite divagazioni oniriche.

Sono trascorsi tre anni dai due anniversari concomitanti, più di quanto si possa immaginare. Ai cinquant’anni (d’ora in avanti più uno, più due, più tre...) dall’uscita de I pugni in tasca, la folgorante opera prima di Marco Bellocchio, con cui tutti, proprio tutti si sentirono allora in dovere di confrontarsi per appropriarsene, tentando di connotarla, classificarla, afferrarla, si oppone l’eccesso inverso, il silenzio, tombale e sconcertato, di fronte agli orrori nient’affatto allegorici dell’opera ultima di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma.

In attesa dei cinquant’anni dalla prima di Nostra Signora dei Turchi, un semplice invito a rivedere il cinema di Carmelo Bene.

My filmmaking is personal, visceral, and immediate. It serves as both a means to express my lived experiences and as a tool for deepening my understanding of these experiences. As such, I tend to experiment with all aspects of the filmmaking process - not just materials and media, but also the non-narrative conveyance of meaning through structure and composition. This experimentation truly forms the foundation of my art - an endlessly iterative process of exploration, expression, creation, and revision.

Tempo elastico

Cinema che per molti versi disinnesca il cinema, questo di Ceccarelli, certamente se lo si considera sotto il profilo delle modalità produttive. La lavorazione di un film, per abitudine inveterata di certo cinema “di mercato”, si colloca entro un arco di tempo limitato, e così è per una molteplicità di ragioni economiche, organizzative, logistiche, tecniche. Chuva Oblíqua, che nel richiamo a Pessoa implicita una vocazione intimista e lirica, è sfilato tra la meraviglia degli astanti sugli schermi della sezione "Satellite" della cinquantaquattresima "Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro", segnalandosi da subito per la vocazione cronologica del tutto asistemica rispetto al modello produttivo corrente.

Other game function in yet another way, offering us neither mometary distraction nor capitalistic replication but susteined escapism from our own reality. From famous examples such as The Walking Dead (Ps4, 2012) to Fallout (Ps3, 1997-present), the gaming industry is currently obsessed with apocalypse. Long a staple on TV and cinema screens, the zombie has now become even more prominent on PlayStation and PC.

Meteors è il primo lungometraggio del regista turco Gürcan Keltek. Un esordio sorprendente che ha sedotto gli sguardi di molti degli spettatori della sezione Cineasti del Presente alla 70esima edizione del Locarno Festival, dove è stato proiettato in anteprima mondiale. Vi si ritrovano rari materiali d’archivio sulle operazioni militari turche della tarda estate del 2015 nelle regioni curde dell’Anatolia orientale, quando, dopo un periodo di tregua e di trattative, la situazione precipitò e la Turchia decise di avviare una feroce campagna bellica contro gli autonomisti del PKK.

Facciamo un passo indietro rispetto a One of These Days e arriviamo ad uno dei tuoi primi cortometraggi, Le Liban en Automne. Qui la tua voce fuori campo descriveva il tuo rapporto con il cinema: non idealizzato, non concettualizzato. Continua ad essere lo stesso? 

Le Liban en Automne è stato girato subito dopo il conflitto israelo-libanese e mentre molti riprendevano la guerra, io mi interrogavo più sul motivo per cui girare che su cosa avrei girato, quindi il film stesso è diventato per me la prima occasione di pormi la questione: perché fare dei film? Era per me la domanda principale. Anche perché, indipendentemente da cosa riprendi, tutto finisce per parlare prima di te stesso.

Dossier Hong Sang Soo

Filmare due persone, in genere un uomo e una donna, oppure due donne, che parlano, sedute una di fronte all'altra, separate da un tavolino, di solito quadrato, ma anche circolare, ingombro di tazze, piatti, bicchieri, bevande e avanzi di cibo: situazione ricorrente, nei film di Hong Sang-soo. La mdp, in genere, inquadra tutte e due, poi passa dall'una all'altra, ma senza stacchi, con movimenti morbidi orizzontali, in una sorta di piani-sequenza minimi, legati al ritmo del discorso e dell'ascolto.

«No toda es vigilia la de los ojos abiertos
Macedonio Fernandez

Where are you calling from?
A booth in the midwest
Ten years ago.»

(Joan Baez)


Al confine fra due mondi (l’occidentalizzato neoliberale e il totalitario), prima della terra di nessuno demilitarizzata, i sudcoreani hanno montato un vasto anfiteatro con una grande finestra-schermo che si affaccia sul lato nord1]L’aneddoto è raccontato da Žižek nel terzo intermezzo di Vivendo al finale dei tempi., trasformandolo in spettacolo: incorniciare non è infatti un atto innocente: ogni finestra è sempre, contemporaneamente, uno schermo dove si proiettano prospetticamente una serie di valori. Lo schermo diventa un territorio di mediazione virtuale che implica, nello stesso tempo, una cesura che interpone allo “sfondato” (così si chiamano le grandi simulazioni barocche che rompono la superficie della cupola con un buco beante falso, dipinto) il  lato, invisibile e materiale insieme, della superficie diafana di proiezione.

Analizzando i film di Hong Sang-soo ci si rende presto conto che il suo sguardo si sofferma ad interrogarsi sempre sulla relazione che esiste tra il cinema e l’impossibile comunicazione tra uomo e donna. Sta in questo nodo la maggior parte del suo lavoro, e ad ogni film ci si accorge di una sensazione diversa, di un sentimento, di una percezione nuova, scoperchiata e ammirata come farebbe un entomologo, consapevole ad ogni film che sia immensa la gamma di scoperte ancora da fare.

Resta sempre forte l'idea del contrasto - placido, acquisito come sostanziale - tra l'opposizione e la coincidenza nel gioco di ruoli che il cinema di Hong Sang-soo costruisce in scena. L'occlusione dello spazio rappresentativo in luoghi (interni o en plain air essi siano, poco importa) che contengono simbolicamente la divergenza tra l'essere e l'aspirazione esistenziale, il desiderare, il rimpiangere, l'aspettare... Ecco questa occlusione è la traccia che definisce in maniera inequivocabile il dramma ovviamente trasparente cui si affidano, nella loro leggerezza e nella loro gravità, i personaggi di questo autore.

Dossier Abigail Child

We want what is needed

Constructively re-socializing the material

   Connect the knots1Charles Bernstein, in recent essay


I’m going to talk about work since 2001. That’s when I got into digital editing my films. Behind me is a power point with Trios from DARK DARK, the first sound track I edited digitally.

In Abigail Child’s diverse and prodigious artistic career, Mayhem (1987) represents one, very specific type of exploration. Coming at the spectator like a violent cut-up, it mixes her filmed images from New York’s Lower Eastside in 1985 and 1986 with various old movie samples, plus a soundtrack comprised of audio fragments (also sampled) alternated with improvisations from a gang including Christian Marclay and Shelley Hirsch. It has the rawness and insider-vibe of an “art school confidential” exercise in mimickry and playful subversion – but taken all the way, an over-fifteen minute montage sequence that rarely eases off in its blistering intensity.

 A person is transformed into an icon by a kind of violent, flattening rupture. Emma Goldman has been made into such an icon many times over. During her lifetime, it was as “the most dangerous woman in America,” posthumously as perhaps the most famous anarchist in Anglophone history — for most, however, as the name attached to a likely apocryphal quotation. Onscreen, she has been the subject of stodgy PBS documentary,and a bit player in a handful of others She was portrayed most famously in Warren Beatty’s Reds, as a kind of earthy (and fully Americanized) matron.

Abigail Child made two films for a series she called “How the World Works.” These films, Surface Noise (2000) and Dark Dark (2001), are among her most advanced, although they have not been discussed as much as they should be. Formally, they have a fair amount in common with her seven-film series from the eighties, Is This What You Were Born For? In fact, one suspects that Child may have originally been embarking on a new series of some expansiveness. I want to consider these two films individually, as a pair, and in light of Child’s other work.

ReVisioni

Häxan, che in italiano diventa La Strega, conosciuto anche come La Stregoneria Attraverso I Secoli, è un film girato tra il 1918 e il ʻ21 da Benjamin Christensen, genio “minore” dell'avanguardistico cinema danese del primo ventennio dello scorso secolo, il cui rifulgere è sempre stato tenuto parzialmente in ombra dall’abbagliante astro di Dreyer.

Un palindromo è come un’immagine allo specchio, che ritorna uguale e diversa, a tratti deformata, riflesso di un’identità che deborda oltre la matericità corporea per sconfinare il limite ultimo, ma anche simulacro di una frammentazione ontologica. La visione cerca di assumere una sua forma, una consistenza che rimane un mistero velato tra il visibile e l’invisibile. Elle, arcano palindromo declinato al femminile, in bilico tra ciò che è e ciò che si vorrebbe essere, in una duplicità destinata a rimanere distinta, senza possibilità di riconciliazione, dove la realtà è una (s)composizione cubista smarrita in una vertigine.

«Davanti alla realtà, l'immaginazione indietreggia, mentre l'attenzione la penetra»
Cristina Campo

Tra il respiro del vento e il frinire delle cicale, il buio, lentamente, si accende della luce del giorno. Silenziose presenze fantasmiche rimangono avvolte dalle tenebre. La staticità di un’immagine bidimensionale e immobile incornicia attimi di una realtà che attende di divenire altro, di mutarsi e acquisire movimento uscendo dalla fissità.

Editorie

Il sottotitolo di questo libro di teoria e critica militante di A. O. Scott, giornalista e capo della sezione di critica cinematografica del “New York Times”, recita così: «Imparare a comprendere l’arte, riconoscere la bellezza e sopravvivere al mondo contemporaneo». Allora, è senz’altro riconoscere la bellezza il tema più difficile che qui è affrontato.

Il “luogo” nel quale si compie la dialettica delle idee di cui scrive Astruc, teorizzando il superamento della dicotomia tra regista e sceneggiatore nel manifesto Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo pubblicato nel 1948 sull’Ècran Français, la scrittura cinematografica nel suo carattere soggettivo, autoriale è il cinema di Jean Pierre Melville nella fase culminante di Le deuxième souffle (1966): Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide di Jean Pierre Melville di Alessandro Baratti – dal 2004 redattore della rivista di critica cinematografica on line “Gli Spietati”, oltre che autore per altre riviste di cinema –  conduce un’analisi puntuale del film, che è la trasposizione dibattuta del romanzo di José Giovanni, pubblicato otto anni prima nella “Série noire”, dedicata al genere noir/poliziesco all’interno della collana Gallimard.

UZAK 28/29 | autunno 2017 / inverno 2018

Lo stato delle cose

Sempre un occhio all'economia, in questo caso della scrittura, della critica, nell'unica accezione positiva che mi viene in mente: in quanto riconoscimento, nelle opere, dei prismi essenziali di senso, nel loro andirivieni sfolgorante, che rende il mondo buono e giusto malgrado tutto. Sguardo sui bilanci, ora che ci si pone nell'ottica dell'ottavo anno e ci si mette in condizione di rilancio, ravvio di una militanza, di un entusiasmo sorto all'epoca innanzitutto ad uso personale.


alt16 anni e sette mesi. È a questa età che Rimbaud scrive la Lettera del Veggente. Era indirizzata a Paul Demeny con l'intento di offrirgli «un’ora di letteratura nuova». Nel bel mezzo dell'età «delle speranze e delle chimere», all’apice della sua rabbia di adolescente ribelle, Rimbaud scrive il primo vero manifesto di una nuova letteratura d’avanguardia.


A proposito di Les garçons sauvages, forse unico genuino caso cinematografico di quest'ultimo Festival di Venezia, molto si è già scritto e detto, e per questo eviterò di intonare l'ennesima litania felice sulla finezza meta-filmica di questo testo che ibrida la narrazione avventurosa sui viaggi verso l'ignoto e le isole misteriose alla vertigine tsukamotiana di un visivo difforme e mutante.
Non dirò della bellezza fantasmatica delle evocazioni di Vigo e Genette, Fassbinder e Wakamatsu e della vertigine impudica e sessuale (Borowczyk docet) che ne solcano l'esoscheletro in trasparenza, né del lirismo onirico di questo film. Al riguardo, semmai, si leggano i contributi di Mariangela Sansone e Michele Sardone che colgono in maniera certamente più visionaria (Sardone) e meticolosamente circostanziata (Sansone) il senso e il valore di questo ibrido filmico di quanto non avrei saputo fare io.


«Sono quasi 50 anni che, al buio, il popolo delle sale brucia l'immaginario per riscaldare il reale. Ora quest'ultimo si vendica e vuole vere lacrime. E vero sangue.» (Godard 1988-1998). Un’immersione nel reale, così come riportato sullo schermo, e al contempo un’astrazione da esso. Partire dalla realtà, da quelle storie che raccontano le sfaccettature del quotidiano, poi lievemente lasciare che l’occhio si perda nei meandri dell’immaginifico, tracciando una mappatura del territorio onirico. E smarrirsi è dolce. Forse per ritrovarsi.

Speciale Paul Schrader

Laurie Spiegel

This has been a year in which many of us have been deluged with input and are often in overload and also feeling stressed with so much disturbing and heartbreaking news of our world every day. What could be the most meaning listening this past year and in times like these?

We can each take a few minutes and turn off all our electronic media and really listen to the sounds that are around us. We can spend time being just where we each are. Take time to do that, and, if you want to, after being in the quiet awhile, you might make some small sounds yourself with objects that are near you or maybe your voice, gentle simple sounds that you listen to carefully. Maybe you can now also hear the music your imagination creates, what takes form in your mind in the quiet that is of you for yourself.

For myself, I have also been returning to music and instruments I started out with when I was young and rediscovering the ways I first fell in love with music.

There is a limit to how much music can transform the world, but it does have the power to make it feel good, or at least a lot better, just to be alive. It can help us to get back in motion when we have stalled and keep us moving when we feel like we can't go any further, and those changes of feeling can manifest beyond themselves.


Simon Reynolds

Tracks:

Travis Scott - Goosebumps(Grand Hustle/Epic)

Future - I’m So Groovy (A1/Freebandz/Epic)

Migos -Bad and Boujee (Quality Control / 300 / Atlantic)

Big Sean - Bounce Back(GOOD / Def Jam)

Future - Zoom (A1/Freebandz/Epic)

 

Albums:

Sarah Angliss - Ealing Feeder (self-released)

Kaitlyn Aurelia Smith - The Kid (Western Vinyl)

Moon Wiring Club - Tantalising Mew(Gecophonic)

Moon Wiring Club - Cateared Chocalatiers (Gecophonic)

Various Artists - Exotic ésotérique Vol.2 (Artetetra)

Robert Haigh - Creatures of the Deep (Unseen World)

BBC Radiophonic Workshop - Burials in Several Earths (Room 13)

Laurel Halo - Dust (Hyperdub)

Connect_i-cut - Rage Coma (self-released)

Jlin - Black Origami (Planet Mu)

Lo Five - When It's Time To Let Go (Patterned Air Recordings)

Zomby - Mercury Rainbow  (Modern Love)

 

Reissues:

Franco Battiato - Fetus (Superior Viaduct)

Franco Battiato - Sulle Corde di Aries (Superior Viaduct)

Franco Battiato - Pollution (Superior Viaduct)

Ludus - Nue au Soleil (Complètement) (Les Disques Du Crepuscule)

Antero Honkanen / Åke Andersson - Reidarin Sähköiset Kuvat / Ode To Marilyn (Creel Pone)

Various Artists - Electronic Music by Canadian Composers, Volumes 1 & 2 / Music Canada Vol XIII, Electronic Music in Canada (Creel Pone)

William S. Fischer - Omen (Creel Pone)

Various Artists - Suomalaista Elektroakustista Musiikkia, Finnish Electro-Acoustic Music (Creel Pone)

Bernard Parmegiani - Rock soundtrack (Transversales)

Jonny L - Sawtooth (XL)

 

 

Pete Swanson

 

The first album I ever bought myself was Run-DMC’s - Raising Hell. Which, listening back years later is arresting both for the catchy, anthemic delivery of their greatest hits, but also for its stark, amusical production.  It’s radical, a pop-aligned transformation of ideas initially posed by the likes of Suicide and Throbbing Gristle...  this was my gateway into more complicated music that took a few detours before landing firmly in the avant garde..  there have been tons of incredible, radical producers coming out of the hip hop world: The Bomb Squad and Mantronix through The Neptunes and Clams Casino..  there’s so much happening in the world of hip hop production that pushes listening forward but often that hard work is a background for pop music, or at best a showcase for the musical value of their pop productions..  The last five years have produced a few really stellar producer-driven albums like Araabmuzik “Electronic Dreams” and Clams Casino’s “Instrumentals” mixtapes that stretch out and sit as truly compelling albums in and of themselves..  

 

There were three excellent albums by current and former hip hop producers that I really connected with in 2017..  the most conventional of which is Sango’s - De Mim, Pra Voce which I was introduced to via my significant other’s road-trip DJing call to play OVO SOUND radio..  Somebody on Drake’s team has good taste and the whole baile funk/batucada/hip hop with lots of samples of acoustic percussion and jazzy guitars landed with me on that drive...  digging a bit deeper into the album uncovered an excellent beat album that could be used for pop songs in theory but may be too rich and dense to carry verses...  regardless, the music is inspired and joyous and something I keep coming back to.  I’m not sure if Sango has Brazilian roots but he definitely is OBSESSED with the sounds and culture and makes a compelling mash of acoustic and electric sounds, Brazilian percussion and American studio moves...  it sounds like an album born out of obsession and experimentation and it sounds like he’s had a blast doing it..  I hope somebody has the guts to Press this to wax.  

 

Another album that sounds intensely intimate and personal is Sugai Ken’s UkabazUMorezU. Ken was a producer in a hip hop crew in the 90s and has gradually become more invested in sound design and field recording documenting emotionally resonant spaces that he encounters... his work touches on field recording, new age synthesis, ambience, etc but has a very broad and elusive vantage point.  It’s not an album that stays in a lane and articulates an adventurous, radical and personal vantage point.  There’s nothing wrote here...nothing predictable and is one of the most radical records I’ve heard this year....

 

Luka Productions - Fasokanis an entirely other beast.  Luka is a mogul in the Malian hip hop scene and crossed paths with Chris Kirkley from Sahel Sounds at some point and ended up working together on the Uchronia project...  An art show exploring imagined utopian spaces... Luka and Chris apparently have established good rapport and swapped ideas and sounds leading up to this incredible, unusual new agey music album...  it’s a sort of reexamination of the exoticizing and idealistic world music diaspora of the 80s being reinterpreted by a significant player in contemporary Malian pop music culture and the results are staggering..  anyone interested in Midori Takada or Jon Hassell should spend time with Fasokan.  It should be everyone’s album of the year.

 

Luxa

Dall'anno prima degli anni prima (e fuori tempo: 1979 di Deru e Voice Is The Original Instrumenti di Joan La Barbara), del 2017, più che gli origami mnestici autogenerativi di textures sempre più lexiose Vs. gli asset globalisti identitari poligender modulari, uniti dal poema criptato del “nastro” di TCF rimangono solo diversi tones to facilitate travel through time: la gioia di ascoltare finalmente in vinile The Collapse Of Modern Culture di Urban Tribe ed Hex dei Bark Psychosis, il Motore Immobile di Giusto Pio, il Crystal di Maggi Payne, i sempre numerosi Children Of Alice, Grouper nella Sala Dei Giganti, la straripante Poiemusia – La Nau Dels Argonautes di Pep Llopis, The Caretaker che sul palco con Weirdcore si ricorda di quella sera al Barbican in cui stavano guardando una performance che avevano già fatto (e regalato al pubblico durante il cambio palco), una scatola di cassette riesumate con John Fahey che suona come Russian Tsarlag con gli Ash Ra Temple, Gas all'Heart Of Noise che in realtà è un Tribute To A Greek God di Voigt & Voigt...per un anno che rimarrà per sempre un tributo alla mia propria Greek Goddess.

 

 

Valentina Dell’Aquila

 

 

 

 

 

 


or click here: https://soundcloud.com/chaoan/end-of-the-ear-mixtape-2017

 

Focus Groop- Refractional - Celestial Trax - Manifestation of Delusion - Slender - It exists to make the world feel nice- Robedoor - Age of Sewage - Dauðyflin - Ofbeld- Reinhard Voigt – Apocalypse Mau - Porter Ricks - Sandy Ground- Skullflower – Yuggoth Within - Gas – Narkopop 10 - Ekoplekz – Jacktrak - Lee Gamble – Swerva - Voigt & Voigt – Sanfte Grusse - Pulse Emitter – Mauna Loa -Dopplereffekt – Von Neuman Probe- Voigt & Voigt – Tribute to a Greek God

 

Errorsmith

 

Twin Peaks: I enjoyed the new season. It had some great short moments (“i’m not your foot!”) and longer moments (the whole episode 8, which was wtf!) and some weird filling time moments (10 minutes of someone wiping the floor)

 

Ghost in the Shell: the look and visual effects of the movie blew me away. didn’t like the typical predictable hollywood storytelling near the end though.

 

Sounds of Sisso (Nyege Nyege Tapes)

Never heard anything quite like this. Outstanding. After hearing it you might be bored by everything else. Includes tracks that are 235 bpm fast!

 

Ziúr – Cipher(U Feel Anything? - Planet Mu)

Top album with very unique style which i would describe as funky doom! 

 

Rian Treanor - Live show

The best live set i heard this year containing new unreleased tracks. Hope they will come out soon.

 

Nico Niquo

Just last month, my friend Justin – who records as ju ca – released his debut LP Overture, and I couldn’t have anticipated how much it has come to resonate with me, quickly affirming itself as one of my favourite releases of the year (despite Justin himself already moving onto new projects).

Looking back across experimental music, 2017 seems like Ambient’s year, for better or for worse. Perhaps as a producer and DJ whose style is heavily tied to Ambient and Drone music, I am looking at this from a super-involved and narrowly-minded perspective, but I couldn’t help but notice the deluge of projects, events, festivals, and releases that are of a more dinstinctly “ambient” bent, not to mention artists from different genres who are now factoring ambient gestures into their own work.

Amongst the torrent of content, ju ca’s album stands up as somewhat familiar and approachable, but teeming with very sensitive and maturely composed details that emerge over repeated listens, perhaps bringing to mind Harold Budd’s more electronic collaborations – as well as a whole host of minimalist Japanese artists from the 80s to now.

Around this time last year, Justin and frequent partner-in-crime Corin suggested that I look into the work of Ryuichi Sakamoto, an obvious titan within the worlds of ambient and electronic music that I had never really clicked through far enough to hear things aside from ‘Merry Christmas Mr Lawrence’ or ‘Rydeen’.

As if on cue, Sakamoto graced us with my favourite record of the year, async. Even in its disparate assemblage, I find its melodies haunt me in my own hums as I do household chores, its poetry and spoken word float in my head at work as sentimental, existential musings, and its clanging, dubby chords eat away at my confidence as I sit at my computer to write my own music. The 0PN and Motion Graphics remixes aren’t half-bad, either.

Alongside a strong return from my long-time favourites Bing & Ruth with No Home Of The Mind and a whole bunch of wacky dance-floor slammers from UK label Whities (Lanark Artefax and Minor Science in particular), I’ve paid a lot more attention to my immediate surroundings in Australia. Both OBA’s Amygdala and Tourist Kid’s Born To Do It were stunning releases I had eagerly awaited after hearing demos or live versions throughout the year – I’m sure they’ll be well-noted following later releases.

Looking further afield, however, I’m continually impressed by Call Super’s output, and his album Arpo follows closely behind Sakamoto in my cataloguing of favourites of the year. Imbued with more of the qualities and form of his first album than his 12” singles, it occupies such a rare space that feels romantic, curious, bizarre, and unpredictable – quite different in sound but very similar in scope to Laurel Halo’s Dust, another strong contender for the year gone by.

I do wonder if Ambient music will reach a kind of critical mass in the year to come, but it’s hard to see how, given that pivotal figures and scenes seem to be going from strength to strength.

 

Renick Bell

My world has considerably expanded in 2017. Let me tell you how the year went down. I have cataloged a very personal list of the highlights of 2017, but I've invariably left out important people and things; I hope you and the people I have neglected will graciously forgive me for my omissions. I highly recommend the outlets and artists listed below. I have been working with them because we share ideas and feelings about how art should be.

Guest mixes:

This year I really got into doing mixes. Radar Radio in particular gave me an outlet through mixes for Oli XL (top Swedish producer of forward-thinking bass music) and UIQ node Lanark Artefacts. In November, I started my own monthly hour-long show, which has been an intense and rewarding experience. I was also really grateful for Mumdance inviting me to do a mix for his Rinse FM show. Lee Gamble brought together most of the UIQ crew with mini-mixes for his last show of the year on NTS. Working with the UIQ crew (especially N1L, Zuli, Sim Hutchins, and CXLO) has been gratifying.

Releases:

I didn't manage to get a full-length release out in 2017, but I still released a lot of music. Besides the many things I put out on my SoundCloud account - an EP of Fractal Beats, a few tracks including one with frequent collaborator KΣITO, and several live recordings -- I had tracks on a number of compilations.

One was for Vancouver-based Decoy Magazine and included some algorithmic drawing and design that I did especially to accompany that track. Another track was for the Beatgatherers label. They are patiently waiting while I finalize an EP of tracks for them, hopefully coming early next year. Seagrave also gave me the chance to put a track on an excellent compilation, and Conditional Recordings gave me the same chance to include a track amongst amazing tracks from a lot of friends. Another of my collaborators, Steph Horak, edited a track out of a live recording, and it was included on a compilation put together by Atau Tanaka and released first with Wire Magazine and later on NX Records. Steph and I have some releases coming up and hope to be doing more shows together in the coming year.

Spednar's Cosmic Sound also broadcast one of my live recordings.

I have an album for Halcyon Veil that has been under works for a long time. It may not make it out by the end of this year, but it's coming imminently. It's been a pleasure working with Rabit and crew like Jesse Osborne-Lanthier and Lane Stewart on the release, and I'm excited that I am going to be able to share it with everyone very soon.

Collaborators:

I've been really fortunate to work on many collaborations this year.

The inimitable Fis and I worked very hard to finally enjoy a really fun set at Berlin Atonal this past summer and make an unforgettable experience (for me, anyway). Steph Horak and I were able to continue the collaboration that we started last year, with her on processed vocals and effects and me doing my live coding, which has been satisfying in many ways.

Metome, a favorite producer and nice guy in Kansai, asked me to do a remix which I think comes out soon. You can hear it now in the mix that Lanark Artefacts asked me to make for his excellent Radar Radio 24 hour takeover.

My collaboration with Analchang is an important one. Her unique vocals and performing style are superfun to accompany, and I'm grateful for her confidence in my sound. We couldn't manage as many performances this year as last, but those were special, and we hope to have an album out next year.

There are several people that I've worked with in the past year on music that will be released next year.

One is Jason Kerley, a British producer now based in Glasgow. KΣITO, who has graciously traced my beats with his MPC-style drumming, recorded material with me that we edited down into one track this year, and we hope to release more in the coming year. Another is Lilium Kobayashi, with whom I've had many educational conversations. She has put out good records this year, and she kindly helped me to put together an intense 160 bpm track hopefully coming out next year.

Meuko Meuko has been a constant supporter. She put out a great EP this year, and her live performance at Kagurane in Tokyo was one of the best performances that I have seen this year. We have a number of tracks that will hopefully be out next year, including the one that I used to conclude my Unthinkable mix a while back. Her patience is amazing! A fun studio session took place with her and Foodman in Tokyo, and we hope to have that music released in the coming year.

I have also been fortunate to be accompanied live by visual collaborators, including the formidable software developer Hexler -- check out his TouchOSC and KodeLife applications -- and Naoto Bando.

Many people have collaborated with me on events, and Conditional artist and friend Moxus has been instrumental to my activities in Tokyo. He's producing powerful and unique algorithmic music, and he does it live through live coding, which is also a must to see if you have the chance.

Live coding and Algorave pioneer Yaxu continues to be a massive influence in my life. Ever since his seminal 2004 article "Hacking Perl in Nightclubs", not to mention recordings of his band Slub, my course has been swayed. He has kindly supported my participation in a number of algoraves, and we have exciting things planned for next year.

Other events, like the Berlin Atonal event and corresponding New Assembly Tokyo were crucial to how this year developed. These events were full of essential performances and are still shaping the development of my practice. Not only at the Tokyo New Assembly event, Atsushi Maeda at Contact in Tokyo has been a key supporter, as has Napalm Kataoka and Kato-san of Kato Massacre at Forest Limit. The Circus Tokyo crew also stepped in when I was I need.

The crew at Macao hosted me for an extraordinary event this year, and along with the Haunter Records, they have given unwavering moral support. Daniel M Karlsson, another Conditional artist, hosted me in Stockholm. Our discussions have been constantly on my mind since that residency at EMS, and I frequently revisit the sounds of his super album this year.

Masataka Takahashi has also supported me so much by including me repeatedly in his Nonlinear-nauts event series in Tokyo, an event that you should attend if you are lucky enough to be in Tokyo when one is held. Hideo Nakasako, of the venue Stomp in Osaka, has been producing strong tracks and generously sharing them with me. He also included me in a memorable ambient event over the summer.

It is surely obvious that Conditional has been a very important label for me this year. Boss Calum Gunn and composer Phil Julian also gave me the chance to design the cover for Phil's stimulating album out this past year.

Working with the algorave scene continues to be among my most fulfilling experiences, and I have especially high expectations for how these artists and this culture develop.

Chevel's Enklav is going in exciting directions, and I'm working on plans with them. Seagrave has also been super-helpful, consistently putting out good music and helping me to work on a project.

Quantum Natives continues to be a vital collective, rightly earning a feature on the cover of Wire. One of the top Quantum Natives highlights for me this year was getting a mention in the lyrics to Recsund's crazy and danceable Intellectual Reject album.

There have been many releases and performances that have shaped my thinking this year.

Regarding music has come out this year, there are so many good things on Conditional. Conditional artist Kindohm has supplied me with a steady stream of hot unreleased tracks. Haunter Records releases have been on point; meeting Petit Singe and Aisha Devi this year were definite high points. The unstoppable Yoshitaka Hikawa simply overwhelms with high quality output. Rabit's new album provides new hints on each listen.

I'm really happy about people doing experiments with rhythm, like on the obvious releases by Jlin, M.E.S.H., and Lee Gamble. More locally to me in Japan, DJ Fulltono and Ena have been among the things that I have listened to the most, and they have repeatedly demonstrated their mastery live. Those performances by Fulltono and Ena are easily the top live performances I've experienced this year. RP Boo was another superior and uniquely rhythmical live DJ set, not to mention the fact that I'm still constantly playing his guest mix for Covco.

I've seen amazing live performances from Dane Law, Ewa Justka and Telefon Tel Aviv this year. The duo of Off<zz ( Anne Veinberg on piano and Felipe Ignacio Noriega on laptop) have a conceptually super-sharp set of pieces which are executed with precision and worth seeing. Alo Allik and Sharon Gal improvised an astonishing set at Cafe Oto in the summer. Joana Chicau is a live coder, designer, and dancer who is making urgent hybrid performances, that while not traditionally musical, are arresting. Using all of these methods, she does startlingly original performances which should be seen.

DJs like Covco, Mumdance, and Logos have put out mixes that I have listened to repeatedly.

Some releases that have stood out for me this year include albums by Fis and Rob Thorne, Miri Kat, AGF, Algobabez, Second Woman and Caterina Barbieri. I'm super excited about the label Outlines, run by Pawel Paide Dunajko, which is putting out remarkable experimental and minimal footwork from people like DJ Fulltono and AGF.

Visually I've been influenced by the historical works of Vera Molnar. Manfred Mohr continues to produce exciting algorithmic drawings, as does Satoshi Aizawa.

Thank you for going over these activities with me. I regret the things that I've inadvertently neglected in this list. If you follow my Twitter feed, you can get my recommendations in realtime. I hope your 2018 is as fruitful and enjoyable as my 2017 has been.

 

Marco Caizzi

Dopplereffekt – Cellular Automata (Leisure System)

EX03 – Various (Ekster)   

Golden Cup – Futura (Soave)

Bjork – Utopia (One Little Indian)

Diggin' in the Carts - A Collection Of Pioneering Japanese Video Game Music – Various (Hyperdub)

Ryuichi Sakamoto – Async (Commons)

Joshua Abrams– Simultonality (Eremite Records)

Nico Niquo – In a Silent Way (Orange Milk)

 

John Duncan

Favorite videos 2017: Horror Obsolete Endless Mardi Gras - John Duncan

Image sequences interwoven between drone images of destroyed cities and visually amplified pornography to contrast the illusion of human affection with the reality of its absence, to cut between alluring promise and total despair, punctuated by sudden, stark narration and edited to the soundtrack of Mantra.

Ur Sonate Live- John Duncan

Guests invited to the closing of the first exhibition at Narkissos Gallery form the voices of this choral version of Kurt Schwitters' Dada classic Ur Sonate, performed live and unrehearsed.

Terra Amara - John Duncan and Coro Arcanto

A capella arrangements directed by Giovanna Giovannini of Pere Ubu's Dark and Final Solution, Dr. John's Walk On Gilded Splinters, and Red Sky, performed live at Teatro San Leonardo for AngelicA.

Caged - John Duncan

Narration and a Serge soundtrack support the endless circling of a caged dog, the narration ending with: 'It's all part of a game between the guards who follow the rules and the inmates who defy them, both sides slaves to a system that cares nothing for them except as feed.'

 

Favorite music 2017:Tentacles and Human Cylinders - John Duncan and Nayantara Bhattacharya Reed

Composed with field recordings of nuclear attack warning sirens and vocals with words by Antonin Artaud and Mina Loy.

Mantra/ Ur Sonate Live - John Duncan

Cd released in limited numbered edition by iDEAL, Gothenburg.  The complete versions of MANTRA, used as the soundtrack to HORROR OBSOLETE: Endless Mardi Gras, and the complete choral performance of Kurt Schwitters' Ur Sonate.

Klaar - John Duncan

LP release by Oren Ambarchi's Black Truffle records of mid '90's experiments for field recordings and voice recorded in and around Amsterdam.

Four Views of a Secret - Jim O'Rourke

CD release in limited edition not for sale

 

Mike Stoltz

New Releases:

Heavy Metal - 2 LP (Sorry State Records)

CCFX - CCFX (DFA)

The World - First World Record(Upset the Rhythm)

Sneaks - It's a myth (Merge)

Mozart - Nasty 7" (Iron Lung)

Ranx/Xerox - M.Y.T.H.(Make a mess records)

Bone Awl -The Lowest Road" cassette (Klaxon)

SiP - Live at the Whistler

Reissues:

Solid Space - Space Museum (Dark Entries)

Tuning Circuits "No Compassion" (Total Freaked out Power Electronics)

John Frusciante - Niandre Ladies and Usually Just a T-Shirt (Superviaduct)

Husker Du -Savage Young Du (Numero Group)

Live: Fluct - Culture Is Not Your Friend, The Double , Sister Mantos - Always , Gun Outfit ft. Henry Barnes

 

Pietro Bianchi

Chi è solito frequentare i bar a tarda ora, soprattutto i dive bar o quei pub che riescono a mantenere un’atmosfera sufficientemente tranquilla anche per quella strana figura che è il bevitore solitario, avrà senz’altro provato la sensazione imbarazzata che arriva al momento della chiusura. Spesso, soprattutto nei dive bar più bui come capita in America dove la luce è talmente poca che quasi non si riesce nemmeno a trovare i soldi nel portafoglio (o forse è colpa dell’alcol?), capita di essere quasi abbagliati quando si accendono le luci che indicano che il bar sta per chiudere. Le Ugly Lightsle chiama Miranda Lambert, starlette del pop country americano che ha avuto un 2017 in stato di grazia, sono proprio quelle che fanno de-sublimare l’atmosfera del bar notturno, che riportano tutto alla bruttezza della realtà, dove non c’è più il romanticismo maledetto del bar, ma solo una serie di vite che stanno andando a rotoli. È una delle tante canzoni memorabili di un album pazzesco, The Weight of These Wings, un doppio che è uscito negli ultimissimi giorni del 2016, ma che ha avuto la sua vita nel 2017. È una sorta di concept album nato dopo il chiacchieratissimo divorzio da Blake Shelton che prova a riflettere su una donna adulta presa tra il lutto di una perdita, la fine dell’innocenza, e la sopraggiunta consapevolezza della limitatezza della propria libertà. Insieme a From a Room: Volume 1 e From a Room: Volume 2di Chris Stapleton, usciti in estate e nei primissimi giorni di dicembre, sono le due vie con cui il pop country americano – un mercato che tradizionalmente è sempre vissuto solo di singoli – ha provato a pensare alla forma album. Che è forse la forma giusta per due cantautori e interpreti tanto profondi come Lambert e Stapleton.

Nell’hiphop è stato invece l’anno del quarto capolavoro di Kendrick Lamar, dopo Section.80, Good Kid, M.A.A.D City e To Pimp a Butterfly, Damn è un’altra pietra miliare del rap dei nostri anni che abbandona la forma del concept album ma che raccoglie alcuni dei suoi pezzi migliori di sempre. Tuttavia è difficile non pensare che il 2017 sia stato l’anno dell’affermazione planetaria della trap (e basta vedere la reazione del pubblico di Lagos in Nigeria a “Bad and Boujee” dei Migos per capire che quello che c’è dietro è tutt’altro che una degradazione disimpegnata dell’hiphop). Quindi Culture dei Migos, lo splendido e sottovalutatissimo Pretty Girls Like Trap Musicdi 2 Chainz, ma anche naturalmente il dittico FUTUREe HNDRXX di Future, per non parlare dell’anno di grazia di Gucci Mane, davvero rinato dopo l’uscita dal carcere. Droptopwop (un collaborative album con Metro Boomin) e Mr. Davis sono due tra i migliori album della sua carriera e tra le cose più pensate e coese che abbia mai registrato (anche se a noi manca un po’ il Gucci drogatissimo e nichilista da 15 mixtape all’anno… ma siamo anche contenti che ora stia meglio soggettivamente). Andrebbero ascoltati entrambi accompagnati dalla lettura della sua splendida autobiografia, uscita anch’essa quest’anno: una specie di outtakes di The Wire. Ma il disco che forse ha sorpreso un po’ tutti – dalla GOOD records di Kanye West – è stato No Dope on Sundaysdi Cyhi the Prynce. Se ci chiedessimo che cosa hanno in comune tutti questi album (escluso Kendrick), faremmo una scoperta abbastanza stupefacente: sono tutti di Atlanta, Georgia (o comunque di quell’area urbana), un altro segno dello stato di grazia che sta vivendo l’hiphop del Sud degli Stati Uniti in questi anni. Ma certo qualcosa fuori dalla Georgia è comunque accaduto, come Big Fish Theorydi Vince Staples e una grande sorpresa dal rap old school, come Which Way Iz Westdi McEiht.

Ma se dovessimo dire quale è stato l’evento musicale dell’anno, difficile per quelli che ci sono stati non nominare il concerto di Modena Park di Vasco Rossi dell’1 luglio. È un peccato che una coltre di semplificazioni e luoghi comuni impedisca ancora che si prenda sul serio la scrittura di uno dei più grandi cantautori italiani degli ultimi decenni (un fenomeno che parla più dell’odio di classe verso l’espressione della cultura della provincia che di veri e propri apprezzamenti musicali), ma per Vasco Rossi vale un po’ quello che amano dire i fan di Springsteen: il mondo si divide tra quelli che lo amano, e quelli che non l’hanno mai visto dal vivo. E aggiungiamo noi: peggio per loro.

 

Zan Lyons

2017 has been an exceptional year in gaming. With the release of Nintendo’s switch and an enviable about of incredible Playstation titles. Interactive entertainment is entering a golden age Hellblade tackles the subject of schizophrenia in an epic and unnerving nordic adventure. The game’s developers, Ninja Theory even donated some of the games profits to charity ‘Rethink Mental Illness’. Amazingly, Hellblade was produced independently with just a small number of developers with the game’s video editor Melina Jürgens taking on the role of the main character, Senua. Poland is quickly becoming a gaming powerhouse with CD Project RED’s Witcher series, Techland’s Dying Light and many many more titles. This year is no different. Cyberpunk action game Ruiner and Rutger Hauer-starring Observer have proven to be two of 2017’s standout titles. Members of CD Projekt RED also worked on my personal game of the year, Horizon Zero Dawn. In a distant post-apocalyptic future, humanity has reverted to a tribal state and large mechanical creatures roam the baron earth. We assume the role of Aloy, a motherless outcast in search of the secrets of planet. To say any more would be to ruin a narrative on par with James Cameron’s best. The voice acting is equal with that of the greatest works of cinema and the cast are made up of a diverse array of characters each giving a different insight into this magical and often menacing world. Visually the game pushes every pixel out of the PS4 and the results are stunning. It’s no surprise that the game’s Decima engine is being used on Kojima productions’ forthcoming game Death Stranding. There was a time when Games liberally borrowed from cinema, Metal Gear Solid plays like a homage to the silver screen and countless titles have referenced Blade Runner. Now the tables are turning. The real auteurs are undoubtedly people like Neil Druckmann, Amy Henning and Hideo Kojima. They craft vast interactive environments with a detailed precision that makes you feel like you are experiencing their personal vision. Gaming is now, in my opinion, the most inspiring medium. The spirit of anarchic innovation that embodied the music scene in the 90’s can now be found with the indie game developers of Eastern Europe. As for movie blockbusters, I can’t think a film that competes with the excitement and intensity of Guerrilla Games’ output. While Franchises, remakes and superhero films clogged our cinema screens for much of the year, games are taking more risks, pushing more boundaries, exciting more people than ever before and showing why this is the most important narrative form right now.

 

Onga (Boring Machine)

Mi pare che il 2017 sia stato, più dell’anno precedente, un anno in cui darsi forti pacche sulle spalle tra i soliti quattro gatti, il tutto mentre i topi stanno abbandonando la nave da un bel po’.
Invece che fare autocritica da una parte e fare gruppo dall’altra, la tendenza è stata più che altro a fare distinguo, a guardare con sospetto, a passare all’incasso facile alla prima occasione.

Per fortuna, tafazzismo a parte, sono usciti un sacco di bei dischi durante quest’anno, in mezzo al sacchissimo di dischi inutili che escono tutti i giorni. Ne ho scelti solo dieci, quelli che ho ascoltato di più in assoluto, a volte ossessivamente per giorni di fila. Li metto in ordine alfabetico che affidargli un livello di importanza, dopo questa scrematura, mi imbarazza.

Blak Saagan - A Personal Voyage (Maple Death)
Un disco spaziale, per davvero, che racconta una lunga storia di pianeti e galassie, sotto l’ala protettrice del più grande divulgatore scientifico di sempre.
Dean Hurley - Anthology Resource Vol.1 (Sacred Bones)
Lo ammetto, colpa sicuramente della fotta pazzesca dovuta al ritorno di Twin Peaks per la terza serie. Più che un disco, come comunemente inteso, un collage tratto dal sound-design della nuova serie, che per via di roba weird ed oscura è il più bello del momento.
Ellen Arkbro - For Organ and Brass (Subtext)
Sembra che piaccia a molti, lo spero davvero e che non sia solo una posa. Io lo ascolto dovunque, dallo stereo, dal computer, in macchina a tutto volume. Sempre uguale e sempre in movimento. Forse IL disco dell’anno.
Lea Bertucci - All That is Solid Melts Into Air (NNA Tapes)
Vista dal vivo non mi ha steso al 100% ma questa cassetta l’ho ascoltata parecchie volte e dopo che l’ho tolta per un po’ di tempo, mi è rivenuta voglia di metterla su. Rarità questa.
Punctum - Remote Sensing (∑)
Si certo, Caterina Barbieri col suo doppio LP su Important ha fatto un lavoro, ahem, importante, ma io mi sono completamente innamorato di questo suo disco assieme a Carlo Maria, autore tra l’altro di un pregevole disco solista. Un mondo distante e tecnologico rappresentato attraverso l’uso di due macchine fondamentali per il mondo della techno, le Roland 303 e 606, senza fare (in senso stretto) la techno.
Sarah Davachi - All My Circles Run (Students of Decay)
L’anno scorso Dominions era tra i miei dischi dell’anno e anche nel 2017 Sarah Davachi rimane tra le cose che ascolto più spesso e con più gusto. Vista dal vivo a Standards a Milano, è riuscita a modificare lo spazio-tempo, quando ha smesso pensavo avesse iniziato solo cinque minuti prima, talmente ero immerso nel suo suono.
Snapped Ankles - Come Play the Trees (Leaf)
Ci vuole ogni tanto un disco divertente? Ci vuole dai. Questo mi ha divertito moltissimo e mi pare che non segua per niente le mode, oppure sono io che non le seguo e mi sto sbagliando di brutto. Ottimo direi.
The Necks – Unfold (Ideologic Organ)
Il trio che mette d’accordo tutti, che fa muovere le persone per chilometri per un loro live visto che nello stivale non è che ci vengano ogni due per tre, tipo Apparat. Disco di una apparente stasi infernale, che invece si muove sotto la corteccia cerebrale e ti trasporta non sai nemmeno dove.
WK569 – Omaggio a Marino Zuccheri (Boring Machines)
[CONFLITTO DI INTERESSI ALERT] Questo l’ho fatto uscire io, ma è un disco così pazzesco che se fosse uscito per qualcuno altro mi sarei incazzato tantissimo per non averlo fatto uscire io. Alla faccia di tutti i trend, che accelerino o meno, computer music scritta su carta, tradotta in codice macchina autogenerativo, filtrata dai synth, ri-suonata e ri-filtrata fino a diventare un inferno di note sintetiche in continua evoluzione. Ho detto pazzesco?
Yair Elazar Glotman – Compound (Subtext)
Non bisognerebbe fidarsi dei consigli della propria filter bubble social. Perchè, dopo uno, due, tre consigli buoni, si finisce a credere (aka comprare) ciecamente tutto quello che i tuoi contatti ti dicono. E’ così che è andata e sempre grazie Francesca per aver segnalato questo figliolo dei The Necks che rivaleggia alla grande con gli ingombranti padri putativi.

Ristampe
In generale, fuck ristampe. Questa cosa di riesumare, rispolverare, rivalutare qualsiasi cosa di vecchio ha preso una piega imbarazzante e fa solo male alla musica prodotta da persone vive oggi. Detto questo, ci sono dei casi in cui i recuperi sono davvero meritori. Su tutti:
Death & Vanilla - Vampyr (Fire Records)
Uscito su cassetta nel 2013 e ristampato in doppio vinile nel 2017, questa sonorizzazione live mi ha letteralmente inchiodato alle casse dello stereo. Peccato non averci assistito davvero.

 

Tommaso Prevedello

Arturo Stalteri - …E il Pavone Parlò alla Luna (Soave)

Bill Orcutt – Bill Orcutt (Palilalia Records)

Joseph Shabason – Aytche (Western Vinyl)

Arve Henriksen Towards Languages (Rune Grammofon)

Fondation - Le Vaisseau Blanc (Tunnel Vision Records)

Iury Lech – Musica Para El Fin De Los Cantos (CockTail d’Amore Music)

Kara Lis-Coverdale – Grafts (Boomkat Edition)

Dan Deacon – Rat Film (Domino Soundtrack)

Mike Cooper – Raft (Room40)

Hiroshi Yoshimura – Music For Nine Post Cards (Empire of Signs)

 

 

Or click here: https://soundcloud.com/user-905816677/mixtape-2017

 

Bertrand Mandico

 

Cette année, je me suis perdu dans des nouveautés musicales, des réeditions et des occasions que j'ai pu glaner par chance et hasard. Mon rapport à la musique est toujours lié au cinéma, l'un ne va pas sans l'autre. Badalamenti - Twin Peaks 3(nouveau): tout comme la série, la musique de Twin Peaks 3 est une merveille de sensibilité, de fragilité, de mélancolie. La musique de Badalamenti embrasse la notion de vie et de mort. Cette musique m'accompagne partout, même sous les eaux froides. Carl Stone –Electronic Music from the Seventies and Eighties (reedition): un ami m'a offert ce disque extraordinaire, touchant et hypnotique. Les tous premiers travaux de Carl Stone me touchent particulièrment. Ils m'ouvrent l'esprit et m'invitent à imaginer des histoires sans fins. Johnny Jewel - Windswept (nouveau): Johnny Jewel a participé à la musique de Twin Peaks 3, certains morceaux de son disque Windswept se retrouvent dans la série de David Lynch. Jewel est un musicien extrèmement talentueux et prolixe, se cachant derrière des noms de groupes variés: Candy Glass, Chromatics... Il collabore de plus en plus avec des cinéastes, il a pris pour muse les films réels ou fantasmés.Jim WilliamsA Field In England (nouveau): Jim Williams a commis la musique de A Field in England et de Grave, son approche musicale très singulière, accompagne les images filmées vers une gravité jamais évidente. Nicolas Winding Refn Presents: The Wicked Die Young (nouveau): Refn agace pas sa mégalomanie, il appose ses initiales sur les disques, sur les dvd, donnant une sorte de caution de bon goût à tout ce qu'il parraine. Mais je dois avouer, que je suis très amusé par cette posture. J'ai beaucoup aimé son Neon Demon et la musique extraordinaire de Clif Martinez. The Wicked Die Young propose un florilège des sources d'inspirations musicales de Refn pour son Neon Demon. Une ballade Pop aussi jouissive qu'une sucette acidulée, ensanglanté. Tsutomu Ōhashi - Geinoh Yamashirogumi(occasion): Tsutomu Ōhashi est connu pour la musique folle qu'il avait composéz pour Akira. Geinoh Yamashirogumi est une composition expériementale antérieure à Akira, qui contient deux morceaux, un morceau sur chaque face du disque, un voyage mental et tribal. Disasterpeace -Rise Of The Obsidian Interstellar (nouveau): Disaterpeace s'est fait connaitre pour des musiques très sensibles de jeux vidéos, il a aussi composé la BO extraordianire de It Follows. Rise of the Obsidian Interstellar est sa toute nouvelle composition pour un jeu vidéo auquel je ne joeurai jamais.... Je me contente de me perdre dans l'ambiance ouatée, nocturne et puissante tissée par Disaterpeace. Divine -My First Album(occasion): Divine l'actrice star de John Waters est devenue une icône du Disco-trash avec des morceaux hallucinants de follie. Ce disque brut et punk est d'une drôlerie extraordianire, le vois comme un acte artistique radical, ludique, underground et populaire. Ennio Morricone - Magdalena (reedition): Magdalena film Italien trouble et érotique, a été réalisé par un cinéaste Polonais Jerzy Kawalerowicz... Un film très étrange porté par la sublime musqiue d'Ennio Morricone, la bande originale comporte une de ses créations les plus connues, Chi Mai... Il faut voir ce film pour remetter cette merveilleuse musique dans son contexte initial. Je suis un inconditionnel de Morrcicone, génie musical... Ses musiques ont contribuées à mes premières extases cinéphiliques, quand j'étais enfant. Cluster - Sowiesoso (reedition): cette rédition d'un des premiers disques de Cluster m'a rempli de joie. J'ai dailleurs utilisé un des morceaux presque enfantin: Es war einmal dans mon film Les Garçons Sauvages... Pouvoir assister au mariage de ses propres images sur une musique que l'on aime, est un grand moment d'émotion... LA MUSIC DE PIERRE DESPRAT +++ Collabotation: Pierre Desprat est un jeune musicien français que j'ai rencontré cette année, il a composé grand nombre de musiques pour mon film. Il a un talent fou et a su traduire mes désirs musicaux les plus fiévreux, comprendre mes pulsions musicales avec grâce et inspiration... Un dique des musiques composée pour mon film va sortir sous peu...

 

 

Luca Pacilio

 

1. Painted Ruins - Grizzly Bear: spostamenti progressivi del piacere. 2. Lust for Life - Lana Del Rey: gioventù bruciata. 3. Arca - Arca: Sex and Zen. 4. Rest - Charlotte Gainsbourg: Daddy nostalgie. 5. Voyager - Vitalic: The Addiction. 6. 4:44 - Jay-Z: Narciso nero. 7. Migration - Bonobo: Un sacco bello. 8. No Shape - Perfume Genius: The Angelic Conversation. 9. Process - Sampha: La cicala. 10. Jardin - Gabriel Garzón-Montano: 8½. 11. Cuidado Madame - Arto Lindsay: L'ora di religione. 12. Boo Boo - Toro y Moi: Cinque pezzi facili. 13. American Dream - LCD Soundsystem: Arrivederci ragazzi. 14. Melodrama - Lorde: La grande abbuffata. 15. Mister Mellow - Washed Out: Lo stato delle cose. 16. Beautiful Thugger Girls - Young Thug: Vous n'avez encore rien vu. 17. Utopia - Björk: Dovevi essere morta. 18. Hot Thoughts - Spoon: Ragazzi fuori. 19. Plunge - Fever Ray: Un cuore in inverno. 20. Low in High School - Morrissey: Nostalghia.

 

Luigi Abiusi

I. Elettronica. Il versante synthetico e ambientale della El Paraiso risuona di luci al silicio in Chrystal Shores degli Astral TV: piattaforme interplanetarie, amori robotici che sopravvivono a ecosistemi di bassi, a parte qualche limpidità di chitarra che corrompe un poco l’oltranza artificiale. Ma gli allunaggi sono saldi e ricordano quelli di Jonas Munk. Dubbie chitarre, ora in versione orientale, anche in New Energy dei Four Tet. Il paesaggio è frastagliato, discontinuo, ma You are loved vale tutto il disco. Interessanti Animal Spirit di James Holden (con gli Animal Spirit) e Trees Speak del gruppo omonimo, a cavallo dei generi. Ma è UUUU degli Uuuu a mischiare e decostruire al meglio i linguaggi, gli stili. Viaggio iniziato tra frammenti sonori galleggianti, frastuoni industriali, apocalissi di voci, alla ricerca di una qualche trama riconoscibile. Che arriva, ed è Five Gates, inaugurata dalla batteria di Valentina Megaletti (gli altri sono Edvard Graham Lewis e Matthew Simms dei Wire e Tim Lewis) che impazza di clash e orienta il discorso verso la progressione psichedelica. Una conquista estemporanea, la musica, perchè dopo quattro minuti e mezzo è ancora caos e dopo un fracasso spaventoso, una marcia di lamiere, uggiolamenti di mostrini, affioramenti lynchiani. Poi ancora noise, industrialità, drone e per lo più dissipazione di possibilità sonore dentro l’ostinazione destrutturante. Fino a quello che è il capolavoro di questo disco ostico, anzi ostile eppure affascinante, Verlagerung, Verlagerung, Verlaverung, uno dei brani dell’anno: spazialità incantata, krauterizzata, emergenza di elettromiti che riguarda tanto più l’ultimo Ventre del nulla.

II. Psych. Per uscire da quella che spesso è una maniera: ovviamente i Black Angels di Death Song; poi Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin dei Julie’s Haircut, anche se rimpiango l’elettrokraut del precedente Ashram Equinox, che resta uno dei dischi del decennio. Don’t Get Lost dei Brian Johnstown Massacre è un disco in meraviglioso deliquio da nenia (Charmed I’m sure), da ritmo andante, erotico, fino a Dropping Bomb On The Sun, in cui s’apre anche un largo piano di fiati, divenuto poi motivo nel meditativo lento-jazz di Geldenes Herz Mens. Poi di soppiatto l’elettronica ballabile di Acid 2 Me Is No Worse Than War in contrappunto di trombe mentre una sirena va. The Rhythm Of Ooze dei Pretty Lightning inizia con la malia di Thunder Mountain Return: sortilegio di arpeggio, sospiro di violino, improvviso scoccare di batteria e di lì è tutto grondare d’organo, d’orgia. Il resto riguarda un suono multiforme, baldanzoso, in cui c’entrano anche il blues, il folk, il kraut, con costanti trovate in fatto di riff, o un ammicco ritmico, un motivo ancestrale, come medievale. How Did I Find Myself? dei Dream Syndicate si dispiega pieno. succulento, dialogando con la storia del rock psichedelico: calda cadenza di canto, cavalcata erotica, sillabazione di ritmi in gioiose amenze.

III. Prog. Del 2016 ma ascoltato solo all’inizio di quest’anno Warm Spaced Blue degli Ingranaggi Della Valle sgrana il dramma di tutto un caleidoscopio di suoni e ritmi: archi, tastiere, chitarre, elettronica, fonde giaculatorie di basso, rilanciati in continuazione da sproni di batteria (secondo tradizione prog). The Physics House Band - Mercury Fontain è schizzo di batteria, di riff elettronici, folli distorsioni. Sullo sfondo un motivo drammatico di chitarra (Calipso). In Holy Caves poi si apre uno spazio di contemplazione dentro penombre, barlumi serali (che tornano nella ballata sui generis di Astral Wave), poi ancora frenesia, folle dimenarsi su piatti e rullante, stridori di corde distorte.

IV. Post-rock. Luciferian Towers dei Godspeed You! Black Emperor: il ritorno ora è estatico, emozionante, limpido; tutta un’attesa, espressa in sfregare di violini, che dal grumo nuvoloso esca un raggio di fiore, di papavero. Ed ora un campo, una collina di papaveri se ne sta nel vento di una primavera pasquale. I Mogwai (Every Country’s Sun) hanno virato rispetto alla svolta elettronica di Rave Tapes e Atomic.

V. Jazz. A parte un Kamasi Washington minore soprattutto nel senso della durata (l’Ep Harmony Of Difference), in The Dreamer Is The Dream Chris Potter esorbita di fiati su solide basi, visto che batteria, piano e contrabbasso intessono corrispondenze, baldanze, tutto un coacervo di preliminari per via di sfioramento di piatti e di note alte di piano. Dal cantabile al cerebrale, al nostalgico, per arrivare in Memory and Desire a trame indefinite, impressioni raveliane che affiorano in regime di liquidità di piano. The Behemoth dei Phronesis è sogno corale di fiati, di piano in contrappunto di chitarra e batteria (Untitled#1). Poi sospensioni che si intersecano con intrighi di trombe, giochi di flauti in colonne sonore a venire. Viene Herne Will e cioè l’alternanza di solipsismi e (ancora) coralità della big band in ritmi ballabili. Come controcampo Charm Defensive è introspezione, ruminamento, perchè la tromba farfuglia tra le esclamazioni di piano. E Intro to Urban Control si abbandona al proprio ricordare, fantasticare: è incanto di tromba, viaggio poetico.

VI. Space. È nella mitteleuropa che brucia tutta una costellazione di space rock, forse arrivata nel 2017 al suo punto di massimo rigoglio (nella sua versione contemporanea) grazie all'uscita di almeno due capolavori (di Colour Haze e Papir) e di altri dischi affascinanti. In Her Garden dei tedeschi Colour Haze fiorisce di fiati, tastiere, archi sognanti accanto a canoniche trame di chitarra in distorsione che all'inizio sono grevi e piene, in versione stoner, poi si alleggeriscono, sembrano aleggiare in rif e accordi liquefatti; si dinamizzano insieme alla batteria, alla voce di Stefan Kogler che cerca il canto all'insegna di fiori piantati negli anni Settanta, tra svuotamenti e riempimenti alternati (ancora i fiati in Labyrinthe), rallentamenti meditativi, contemplazioni e scatti che arrivano alla fine a una vera e propria apoteosi di rincalzi in regime di rullante. Che è il dittico Skydancer e Skydance (altro brano dell’anno) in cui poi la tastiera all'improvviso gocciola. E arrivando in Danimarca, ma mantenendo un legame strettissimo con il retaggio del krautrock tedesco incarnato in questi anni da Dave Schmidt (a capo di progetti fosforici: da Sula Bassana a Zone Six, agli Electric Moon, con i quali i Papir avevano pubblicato nel 2013 uno straordinario Papermoon Session), il V dei Papir, probabilmente il miglior gruppo space rock in circolazione, primo disco fuori dalla El Paraiso Records di Jonas Munk e Jakob Skøtt (dei Causa sui), dopo tre capolavori consecutivi usciti per l'etichetta danese. V, in due dischi, è spazio estatico, sospeso tra una lontananza acquea (zona di perdita, dimenticanza in tramonti sonanti, eco opali, cirrostrati di materia fonica che ad un tratto s'imporpora a perdita d'occhio) e una presenza felicitante, quasi fanciullesca per quanto i riff di chitarra sono marcati, come disegnati: tre o quattro linee colorate di note a cera che fanno un motivo semplice, cantabile. Mentre sottoChristoffer Brøchmann Christensen gioca con i suoi sonagli, piatti vellutati e il rullante, i tom, in progressione kraut come in V.II, o in velocità jazzanti o vagheggiamenti orizzontali dove sembra fondersi con aurore improvvise di tastiera. A questi due dischi si aggiunge l'ultimo splendido dei Causa Sui, Vibraciones Doratas, in vinile verdino, declinante verso il turchino. Disco possente, di complessione stoner, di pietraie sobbalzanti, raucedini di distorsore; ma come sempre nei Causa sui all'improvviso si placano vaporando in sfondi di tastiera, arpeggi di basso, chitarra arabescante, rimuginante le proprie efflorescenze nel mezzo di El fuego. Stardust Rituals degli Electric Moon ha l’unico difetto di qualche maniera d’oriente, già dalla copertina, mentre gli Spacelords di Water Planetsono l’ennesimo balocco, feticcio in vinile schizzato di asteroidi su sfondo petrolifero - aerostazione d’estrazione di propellenti alieni, e cane-macchina a dominare su Urania con falangi di robot aguzzi che sguazzano in pozze d’acido lattico -: tutto un fenomeno, una poetica consapevolmente stereotipata dello spazio, del viaggio interstellare, con sibili, spie accese, scie celesti disegnate su un foglio di buio

Giona Nazzaro

1. Ibeyi – Ash: Il più giusto. Il più avanti. Epocale. 2.Kamasi Washington – Harmony of Difference: Il suono dello spirito universale. 3. Amadou & Mariam – La Confusion: Ritorno a Bamako. 4. Run the Jewels -3: Hip-Hop. E basta. 5. Slowdive - Slowdive: Meraviglia inattesa. 6. Ariel Pink - Dedicated to Bobby Jameson: Canzoni come non se ne sentivano da molto tempo. 7. Arca – Arca: Forse la cosa sonicamente più sorprendente. 8. Perfume Genius – No Shape: La riattualizzazione di Jobraith. 9. Cody ChestnuTT – My Love Divine Degree: Sweet Soul Music. 10. The xx – I see you: Traslucido e documentario. 11. OMD - The Punishment of Luxury: Un colpo da maestri inatteso. 12. Ryuichi Sakamoto - async: Commozione purissima. Ritorno alla vita. 13. Robert Plant - Carry Fire: Mai guardare indietro. Urgente e dentro le cose. 14. Gary Numan - Songs from a Broken World: Nostro Signore della distopia. 15. Paul Weller - A Kind Revolution: Il Modfather e lo stato delle cose. 16. Sparks - Hippopotamus: L'arte ineffabile del pop. 17. Thundercat - Drunk: Fusion si può dire. 18. Alice Cooper - Paranormal: Chitarre come non se sentivano da tempo nell'hard rock. 19. Kelela - Take Me Apart: Un cuore caldissimo in una città di vetro e acciaio. 20.King Krule – The Ooz: Nottetempo, casa per casa...
+ 1.
The Dream Syndicate - How Did I Find Myself Here?: Il ritorno.

 

Alberto Asquini

Di musica bella, bellissima ne esce sempre molta. Negli anni mi sembra d’essermi impigrito via via sempre di più, nel restringere le esperienze d’ascolto, nell’andare a colpo sicuro o quasi, senza osare più troppo. Nel tentare di non sprecare tempo con progetti che magari mi annoierebbero, magari mi farebbero schifo o chissà che altro. Sarà che col tempo si diventa più difficili, sarà che mi accorgo di essere forse un pelo meno curioso. O meglio: di non avvertire più quell’impazienza verso qualcosa. Salvo rarissime eccezioni (vedi Mesh, che pure un po’ mi ha deluso, dato che l’album è solo bellissimo), forse sono diventato meno bulimico. E, a fronte di questo, mi ritrovo anche ad essere finalmente uscito da certe logiche di consumo della musica, di essermi liberato, di vivermela sempre più come piacere da incastrare nelle mie cose, e non viceversa. Per dire: ho trovato pace infinita nel disco di Kara Lis-Coverdale che mi pare davvero una piuma. L’ho ascoltato decine e decine di volte e quest’anno, per quanto mi ha tenuto per mano, non esiste null’altro o quasi. Non vorrei altro nelle mie cuffie. E così anche nei concerti. Che vorrei fossero sempre più momenti speciali, non appuntamenti ai quali presentarmi. E allora da Roma via di andate e ritorni in solitaria di aerei per Londra o treni per Padova nel batter di 24 ore o meno per un Gas o una Grouper. E chissenefotte di concerti in posti brutti, dove si sente male, con persone orribili. Magari solo per il gusto di eliminare dalla to-do-list un artista che avrei voluto vedere da tempo. Insomma mi sono accorto di essere cresciuto, o invecchiato. Che poi, credo, sia la stessa cosa.

Michele Casella

1. Protomartyr – Relatives In Descent: l’urgenza espressiva che trapela da ogni colpo di batteria, da ogni eccesso di chitarra, da ogni singolo verso, per un album che contiene l’unico brano realmente significativo di questo 2017, Night-Blooming Cereus. «Only in darkness / Does the flower take hold / It blooms at night». 2. Trouble – Snake Eyes: oscuro come la pece, inquieto come il blues e rutilante come il jazz, un EP semplicemente perfetto. 3. Omni – Multi-task: la tecnica del math rock e la sfrontatezza dell’indie sintetizzati in un disco senza difetti. 4. Colin Stetson – All This I Do For Glory: ossessivo e visionario, potente e complicato, un album che incrocia classicità e avanguardia. 5. King Krule – The Ooz: un album semplicemente oscuro e sublime, che non teme lo scorrere del tempo. 6. Oh Sees – ORC: il disco della maturità per la più folle garage band del pianeta. 7. V.A. – Twin Peaks: Music From The Limited Event Series: una raccolta così varia, sorprendente e destabilizzante da restare nella storia dell’audiovisivo. 8. The Black Angels – Death Song: un’immersione psicotropa che può durare una vita. 9. Kamasi Washington – Harmony Of Difference: il jazz spiegato ai bianchi. 10. OCS – Memory Of A Cut Off Head: il disco più beatlesiano della più grande garage band del pianeta. 11. Godspeed You! Black Emperor – Luciferian Towers: la magnificenza dell’apocalisse annunciata. 12. The xx – I See You: L’istantanea perfetta fra pop intimacy e attitudine dance. 13. Beck – Colors: il terzo volto di Beck, quello più scanzonato e ritmicamente dinamico, felicemente eighties. 14. Cigarettes After Sex - Cigarettes After Sex: già un classico delle dark ballad, romanticamente calligrafico. 15. Can – The Singles: le radici del ritmo contemporaneo. 16. Princess Nokia – 1992 Deluxe: un’ aggressione rap al gusto bubblegum. 17. The Clientele ‎– Music For The Age Of Miracles: perennemente fuori dal tempo, la golden age della forma canzone. 18. Jeff Tweedy – Together At Last: scarno ed essenziale, l’unico modo per conoscere davvero il genio di Tweedy. 19. Suicide ‎– First Rehearsal Tapes: semplicemente imprescindibile. 20. Mount Kimbie – Love What Survives: la nuova elettronica incontra la sua matrice indie.

                                 

Cecilia Ermini

I miei 20 dischi dell'anno in ordine di ossessione.

Tzusing - 東方不敗: l'industrial massiccio scopre l'erotismo della riflessione. Pallbearer - Heartless: l'acme assoluto del doom metal. Here Lies Man - Self Titled: who says a funk band can’t play rock? The xx - I See You: Jamie xx è già il futuro. King Gizzard & the Lizard Wizard – Sketches Of Brunswick: 11 album in 5 anni. ‘Nuff said”. Kendrick Lamar - Damn: l’unica leggenda moderna. Thundercat - Drunk: la commedia dell’assurdo della fusion. The War On Drugs – A Deeper Understanding: Grandeur et décadence del Philly Sound. Princess Nokia – 1992: Perché siamo tutte “nerdy girls with nymphomanic tendencies”. Tyler The Creator – Flower Boy: Il seducente dubbio dell’instant classic. Ryuichi Sakamoto – Async :Il magico accordo fra dissonanza e armonia. Juliette Armanet – Petit Amie: Véronique Sanson nel 2017. Giuvazza – Nudisti Al Sole: l’antidoto al piattume italiota. Todd Rundgren – White Knight: l’ultimo genio musicale ancora in vita. King Krule - The Ooz: la crasi fra Tom Waits e Mick Jones. LCD Soundsystem – American Dream: James Murphy still playing at my house. Phoebe Bridgers - Stranger In The Alps: l’alternative soundtrack di Sils Maria. Sparks – Hippopotamus: il miglior comeback dell’anno. Vince Staples - Big Fish Theory: il rap filtrato dai Joy Division. Fabiano Do Nascimento - Tempo Dos Mestres: l’evoluzione di un pentagramma immortale.

 

Enzo Mansueto

Thundercat - Drunk: collaborazioni e direzioni centrifughe: scenari nuovi, dal riuso, sono ancora possibili. Protomartyr - Relatives In Descent: Post-punk rock will never die! Jlin - Black Origami: elettronica e ritmo, ritmo soprattutto, sono ancora territori ampiamente esplorabili. Algiers - The Underside Of Powers: le Pantere Nere in un incubo sonico post-punk, con voci e suoni che sanno incendiare influenze centrifughe. LCD Soundsytem - American Dream: James Murphy ha aperto un wine bar e si è rinnovato dopo il divorzio con Tim Goldsworthy: un sogno scuro e intenso. Ty Segall - Ty Segall: album dopo album Ty ti ricorda che la chitarra è viva e lotta con noi! Una garanzia. Mount Eerie – A Crow Looked At Me: intimità, triste autobiografia: un concept album come un buon libro per l’inverno. Perfume Genius – No Shape: quarto album per Mike Hadreas: un angelo vocale e compositivo in costante crescita. Jane Weaver – Modern Kosmology: se il Globo Argentato precedente ci aveva stupiti, qui il trip continua… Broadcast Underground? Cigarettes After Sex – Cigarettes After Sex: il nome e il titolo dicono tutto… Mogwai – Every Countri's Sun: una certezza, una fede, una colonna sonora del globo per gli ultimi decenni. King Krule - The Ooz: il folletto postmoderno di decenni di british songwriting con la sintetica gioventù del 2017. Kendrick Lamar - D.A.M.N.: anche solo per la traccia Pride. Kelela – Take Me Apart: Soul, sensualità, musicalità: emersa dalle backlines, ora Kelela è qui per sedurre. Here Lies Man – Here Lies Man: Black Sabbath, Afrobeat e psichedelia: shakerate bene e abbandonatevi! Lana Del Rey – Lust For Life: la malinconia di Lana: l’inconsolabile che tutti vorremmo consolare… Laurel Halo – Dust: do u ever happen? Una domanda del genere non lascia indifferenti e la produzione spiazza e coinvolge. Mount Kimbie – Love What Survives: i due featuring con James Blake sono il miglior ultimo James Blake, collaborazioni scintillanti. Sleaford Mods – English Tapas: cominciano a diventare un po’ petulanti… ma spaccano e divertono ancora. Big Moon - Love In The 4th Dimension: sì, si può essere nostalgici del britpop!

                                 

Helena Wittmann

Two discs were important for me this year, but they are not from 2017… I name them anyway:

Tower Of Silence by Roberto Musci: I started discovering the album with the song Claudia, Wilhelm R. and Me. Since then I listened to it so many times, often before I fall asleep, surrendering myself to the light, yet complex sounds and let them take me away. I trust this music.

The Woman Of The End Of The Word (Mulher Do Fim Do Mundo) by Elza Soares: I was shooting in Brasil for five months this summer, and as it had happened the last time being there as well, Theresa and me ended up listening and discovering all kinds of brazilian music. It is so overwhelmingly much and this reassures me. There is no end… I am happy about that. During this time, I came across Elza Soares and her newest disc. She is an elder lady, but her power and bravery never stopped. Her life story is crazy, her music deep, slightly aggressive, her voice edgy. And she sings: "Eu quero cantar até o fim / Me deixem cantar até o fim / Até o fim, eu vou cantar / Eu vou cantar até o fim“…

Then, there is the music by Nika Son, of course. Please find out yourselves and you’ll understand why I love it so much:http://www.nikason.de

 

Yann Gonzalez

J’ai été marqué cette année par la réédition (chez RVG Intl.) des plus beaux titres de Pauline Anna Strom, une musicienne aveugle qui a essentiellement travaillé dans les années 80. Une collection de morceaux ambient, forcément mélancoliques, mais sur lesquels plane l’espoir d’une nouvelle ère, ce dont on a sacrément besoin en ce moment…

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Darrel short film from DarrelShort on Vimeo.

Nel calvario, stillicidio di icone, incarnazioni rudi, ma anche, allo stesso tempo, sotteso, meccanico dispositivo di godimento, di sfogo a occhi spalancati, svuotati, che è il cinema di Schrader, First Reformed appare, anche nella sua nettezza, trasparenza dell'assunto, uno dei punti più alti raggiunti dal cinema contemporaneo, nella misura in cui a un'estetica della scarnificazione, del rigore, della sottrazione di materiale cinematografico si affianca un discorso lucido e disperato sullo stare al mondo in epoca di dissipazione delle concrete possibilità d'esserci.


I colori del noir.

The Canyons

Immagini di sale cinematografiche in rovina, come tanti cadaveri insepolti lasciati a marcire sulle strade, residui di un'apocalisse già avvenuta. Una pestilenza, un contagio, un terribile virus, ha colpito l'immaginario e distrutto i luoghi deputati al suo esercizio, dopo aver distrutto le anime di coloro che ne usufruivano. Se usiamo il termine "anime", trattandosi d'un film di Paul Schrader, ci riferiamo, sì, alla stesura di un testo come Trascendental style in film (1972), ma non intendiamo certo dimenticare il fatto che, nel suo cinema, la rovina delle anime si manifesta sempre tramite il degrado dei corpi, però non in senso moralistico: tanto da lasciar pensare che il corpo stesso sia l'anima.


«La profonda convinzione della mia vita consiste nel credere ora che la solitudine, lungi dall'essere un fenomeno raro e curioso, sia l'evento centrale e inevitabile dell'esistenza umana»
(Thomas Wolfe, God's Lonely Man)



Non più stile trascendentale ma dispositivo di trascendenza? Questa è la prima riflessione che mi viene in mente a quattro mesi di distanza dalla totalizzante esperienza di First Reformed visto a Venezia 74. Proprio nell’anno in cui le piattaforme S-VOD raggiungono la loro massima pervasività sociale, con le polemiche cannensi su Netflix che ci chiedono nuovamente «che cosa è il cinema?» e con la Realtà virtuale veneziana che bussa alle porte del Lido mettendo fuori campo ogni grande schermo. Tutto sacrosanto, tutto urgente, sì ma… quella proiezione rimane l’apice dell’esperienza estetica del (mio) 2017. Perché?

«La vita umana è breve.
Io però vorrei vivere per sempre».
(Ultimo messaggio di Yukio Mishima)

«Nel tentativo di salvarci è andata perduta la verità  
di quello da cui avevamo il diritto di stare al sicuro.
Abbiamo perduto la morte».
(M. Blanchot)


alt«Tu ami veramente il cinema? Dico sul serio. Quando sei stata al cinema l’ultima volta? Quando hai visto qualcosa che ti ha colpito profondamente?»



Speciale Willie Varela


In recent months, Willie Varela has been returning his key video works, the Ambiens Series, to the public eye. Varela is best known as a lyrical filmmaker, but his video work demands equal attention. This is not only because it represents an extension of his cinematic work, with its poetic attention to landscape and compositional values. Varela should also be considered as someone who has pushed the aesthetic boundaries of the medium of analog video, exploring the unique haze and diffused light that characterize this once-new medium.


The films and videos of Willie Varela have in the past reflected the artist’s terror and outrage. Since the beginning, Varela’s work has dealt in scenes of daily life (in El Paso and San Francisco), an autobiographical sensibility (which casts him, like so many artists, under the sign of a bleeding Christ), and a plastic manipulation, through cinematography and editing, that aspires to abstraction. While these characteristics of Varela’s work have often been set to the service of love, charity and the noble aspiration of trading visions and experiences, they are also marked by a pageant of death, a legacy of wounds, and a fury, provoked by injustice and the devaluation of human life and perception.


Cemeteries are known to be places of ambiguous nature. They separate the community of the living from the community of the dead, but at the same time they link the there-ness of death to the here-ness of living. They represent the ultimate destination for every individual and, as forums for spiritual exchange, they re-emphasize the finality of death. For an artist who has spent his entire life situated between two cultures and caught between the past and the future, a cemetery and its position as gatekeeper between two worlds seems to be a perfect location for filmic contemplation on eternal questions like “Why are we here?”


One of the most important traits Willie Varela inherited from his mentor Stan Brakhage is his sense of light. Brakhage, a true master on par with Turner in terms of his ability to depict the subtle, almost imperceptible nuances of luminance, explored light in all its forms and through all possible variables. It was not only a physical force in Brakhage’s films, but a deeply conceptual one as well. Varela extends this approach, synthesizing it with his own unique aesthetic sensibility and cultural background to forge a vision truly his own.


Lo sguardo arde dietro la fitta rete delle ciglia, brucia nella creazione dell’immagine e prende fuoco; il bulbo oculare opera uno sdoppiamento materico della visione, trascende il reale per raccontare il reale, attraverso una frammentazione visiva e un ritmo ossessivo e martellante. Due schermi, una stereografia del mondo e della società, il dolore, la sofferenza del quotidiano e la deriva umana in preda alla follia del terrorismo. È l’oscenità dell’antiumano, l’uomo che, per sua natura, si rivolta a sé stesso, si ribella al prossimo e deraglia in un suicidio, al fine di supportare un’illusione defunta. Il mondo brucia per mano di colui che si arroga di fare, disfare e oscenamente distruggere, «ogni oscenità viene sospesa, e tutte le descrizioni sono come trasferite dall'oggetto stesso al feticcio. Sussiste solo un'oscenità pensante» (Deleuze 2007).

Cose viste


C'è il cinema intelligente, nell'ultimo dei Manetti Bros, Ammore e Malavita (2017), che sente il bisogno di allontanarsi da sé almeno per un attimo, e prendersi un po' per il culo, con affetto, certo, ma almeno un po', in un'epoca in cui è il prendersi dannatamente sul serio a fare cifra autoriale. Un cinema che si ripensa, anzi, si riguarda, perché prima che cinefili si definiscono spettatori, i Bros, e si permette il lusso di ridere bonariamente di certe sue idiosincrasie ricorrenti, manie, di certe stereotipizzazioni che oramai sono diventate talmente logore da gettare, appunto, l'ombra del ridicolo.

Screamadelica

La musica vista da registi, critici, musicisti, produttori.







Editorie

Il caso e altre novelle di Krzysztof Kieslowski, a cura di Marina Fabbri (La nave di Teseo, 2017), raccoglie i materiali narrativi per i documentari e per i soggetti dei primi lungometraggi del grande regista polacco: quindi per il passaggio dall’attività di documentarista a quella di autore di film a soggetto, e di autentici capolavori come Decalogo, La doppia vita di Veronica, Tre colori (Film Blu-Film Bianco-Film Rosso). Il film-chiave, da una produzione ancora acerba e quasi sperimentale a una piena maturità e originalità artistica, è allora Destino cieco (1981) (ma il titolo originale del racconto-soggetto che porta alla sceneggiatura è appunto Il caso).

UZAK 27 | estate 2017

Lo Stato delle Cose


Mentre scrivo arrivano notizie sui vincitori del Festival di Locarno, oramai riserva di visioni scintillanti, libere, orientate verso spazi in fieri, arcipelaghi di sensi nell’oceano dei possibili significati; inferenze improvvise, insorgenze poste fuori dalle classificazioni libresche della Storia e dentro un dis-ordine geografico cinematografico, come un affiorare spontaneo di spazi-tempo, di atmosfere gonfie d'aria elettrica, un'eterogenesi diffusa di ciò che si chiama immagine, ecc., almeno da quando il direttore è Chatrian e allora accanto al monstrum Tourneur si possono vedere autori come Ossang (miglior regia), Russell, Cabeleira (menzione speciale a "Cineasti del presente"), lì dove già avevano regnato Serra, Zulawski, Costa, a cui si aggiunge ora Wang Bing (vincitore del concorso).


«Questa tassonomia... deve intendersi come un prontuario per difendersi dalle sirene dello spettacolo contemporaneo e come un grido d’allarme per la pericolosa pedagogia della trasmissione culturale che vediamo tristemente all’opera nel nostro presente. [...] La difesa della forma – che è sempre e comunque anche contenuto – è oggi una vera battaglia culturale d’avanguardia (non d’élite!) che bisogna saper vincere contro i fautori del presentismo, i tribuni del semplicismo estetizzante e i sacerdoti dello spettacolo post-politico». F. Rossin









Federico Rossin, passeur militante

L'arrivo del cinema fotochimico di Nicolas Rey al festival di Pesaro ha avuto quantomeno, fatto raro in questa «epoca malefica in stolto secolo», il valore di riaccendere gli animi e il dibattito, riuscendo a rinfocolare quella faziosità semidormiente e sonnacchiosa di noi critici, pacificati da legami di amicizie e convenienze professionali, che invece resta ancora una delle virtù redimenti del discorso possibile sul cinema, il suo valore dialettico.


altLa radice postmoderna del cinema di Sokurov è la risultante di una serie di operazioni o passaggi che possono essere individuati (al di là del facile gioco delle coppie antitetiche concentrazione-dispersione, confine-palinstesto, selezione-combinazione, paradigma-sintagma, radice-rizoma, origine-differenza che contribuisce solo a definire una prassi teorica) nel rapporto che si instaura fra le diverse serie di sequenze-sintagmi date più che dal regime mimetico che regola e impone un sistema di rapporti di tipo relazionale, da un regime estetico (Ranciere) di eloquenza dell’iscrizione sul corpo dell’immagine e, insieme, di mutismo dell’oggetto.

Speciale "Un vuoto dove passa ogni cosa"

Gemma Adesso

«A tutti, all’altro mondo,
ci toccherà saldare con il vuoto
il calcagno che pesa»
(Marina Cvetaeva)


Un vuoto dove passa ogni cosa
è il titolo di una raccolta di scritti politici di Maria Teresa Di Lascia (Di Lascia 2016) che non c'entra nulla con il cinema ma che giustifica l'idea di dedicare uno speciale sul vuoto in una rivista di cinema: l'urgenza – la tentazione è di definirla “politica” nonostante il termine sia tra i più abusati, fraintesi e svuotati in senso deteriore – è nel tentativo di attraversamento (“dove passa”). Questa introduzione si compone per scelta calibrata di una serie di citazioni da libri molto diversi tra loro ma che pure ruotano intorno a quella urgenza fondamentale.

«A tutti, all’altro mondo,
ci toccherà saldare con il vuoto
il calcagno che pesa»
(Marina Cvetaeva)


Un vuoto dove passa ogni cosa
è il titolo di una raccolta di scritti politici di Maria Teresa Di Lascia (Di Lascia 2016) che non c'entra nulla con il cinema ma che giustifica l'idea di dedicare uno speciale sul vuoto in una rivista di cinema: l'urgenza – la tentazione è di definirla “politica” nonostante il termine sia tra i più abusati, fraintesi e svuotati in senso deteriore – è nel tentativo di attraversamento (“dove passa”). Questa introduzione si compone per scelta calibrata di una serie di citazioni da libri molto diversi tra loro ma che pure ruotano intorno a quella urgenza fondamentale.


Quando Gemma Adesso mi ha chiesto di partecipare a questo numero di “Uzak”, ricordava un mio testo in omaggio a Carmelo Bene, pubblicato nell’aprile 2003 sulla rivista «Lo Straniero» e intitolato Carmelo Bene o lo splendore del vuoto (Dumoulié 2011). Sebbene non abbia voluto scrivere ancora sul teatro o sul cinema di Carmelo Bene, il presente articolo – con il suo titolo, i suoi temi, le figure che evoca, e persino con i suoi riferimenti teorici – è abitato dallo spirito di Carmelo e riecheggia quel furore sublime e quello splendore del vuoto che era l’essenza stessa del suo teatro. In particolare, affronta due figure maggiori del suo universo poetico: la mistica, incarnazione del “godimento della donna”, e Don Giovanni. Figure che si oppongono e al tempo stesso si raggiungono, come due modi di rispondere alla stessa crisi storica: quella dell’epoca barocca, nella quale l’allontanamento di Dio ha scavato nel mondo un Vuoto di cui, paradossalmente, è possibile godere sul piano dell’intelletto, del corpo e del significante, ma anche a vantaggio di una poetica e di un’estetica del Vuoto1. (Cfr. Dumoulié 2012).

altRiflettendo (in Tokyo-Ga) sul cinema di Yasujiro Ozu, Wim Wenders ricorda che da ragazzo si chiedeva come fosse concepibile la nozione di Nulla, e poi in che modo fosse applicabile al cinema, arte del concreto – per concludere che il Nulla è irrappresentabile, ma è rappresentabile il suo incombere, il suo incidere progressivo sulle cose e sui corpi, l'avvicinamento alla fine, al grande Vuoto. Non per nulla, aveva seguito le ultime settimane di vita di Nicholas Ray (in Lampi sull'acqua), inaugurando quella che sarebbe poi diventata una specie di moda (filmare le ultime ore di un parente, un amico, una persona cara) e violando il famoso interdetto baziniano (filmare la morte, o l'agonia, è osceno, come girare un film porno).

alt«I'm beggin' please, little lover, stop this carryin' on
gotta get some lovin' before the planet is gone
A nuclear bomb come an' blow us all away
Come on, bad girl, give me some lovin' today»
(New York Dolls)

«Elle était belle à la fois de la beauté fugace d’une actrice et
de la beauté souveraine de la catastrophe»
(J. Gracq)

Figura Intera

altIl problema dello sguardo, e in particolare dello sguardo dell'altro è da sempre centrale nel fare della Socìetas Raffaello Sanzio, compagnia teatrale creata nel 1981 da Romeo Castellucci insieme a Claudia Castellucci, Chiara Guidi e Paolo Guidi, che, riprendendo il titolo di un loro testo, ha mosso i primi passi nel solco dell'iconoclastia per arrivare confrontarsi con la super-icona (basti pensare allo spettacolo Sul concetto di volto nel Figlio di Dio).

 

Cose Viste


1919 Quedlinburg (Germania). La guerra è finita, e Anna (Paula Beer), una giovane donna in lutto si reca al cimitero per porre dei fiori sulla tomba (vuota) del suo fidanzato caduto sul fronte. Un giorno si accorge di uno sconosciuto che a sua volta, di nascosto, svolge lo stesso pietoso rito: si tratta di Adrien, un francese (Pierre Niney), prima accolto con risentita ostilità dal padre e poi accettato da entrambi i genitori di Frantz, presso i quali lei ormai vive, per colmare di purissimo affetto il vuoto lasciato dall’amato.


Con il terzo episodio del prequel del Pianeta delle Scimmie si può scherzare. A patto, però, di farlo sul serio, come ogni gioco che si rispetti. È quanto mi accingo a fare, trattandolo come paratesto filosofico.




Editorie


«[…] e allora è tempo di tenere degli appunti più piccoli sfalsati di 3 mesi e 3 giorni dalla data di inizio. Con tutta la costanza e tutta la speranza.»
«È tempo» che il tempo inverta le sue coordinate, un tempo in cui le pagine di questo libro vengano sfogliate come si toccano i lembi di pelle prossimi a una lacerazione; perché il più delle volte l’azione che rimanda al gesto di apertura significa proprio questo: generare una ferita o «frantumare qualcosa, quindi, tutt’al più fare un’incisione, lacerare» (Didi-Huberman 2016, p.185) ché questo è un libro che trova la sua unità proprio in un’immagine colpita da frammenti, alla ricerca di un disvelamento sempre più prossimo ad una traccia d’iride, un solco.


altVictor I. Stoichita è un acuto storico d’arte romeno dal profilo internazionale, che persegue l’analisi di uno dei caratteri di fondo del cinema come arte visiva. La sua è del resto una parzialità di veduta, perché il “genere” cinematografico che egli affronta è – per sua natura – parziale, ancorché assai significativo: il racconto dell’investigazione criminale, derivante dal giallo. Nel suo insieme il noir è infatti particolarmente inquietante e largamente presente nell’immaginario diffuso dei poco più che 120 anni del film, e proviene direttamente, per Stoichita, dalla combinazione (pittorica) dell’impressionismo e (letteraria) del naturalismo.








alt«Forse le definizioni storicamente più accreditate – documentario, documentario di creazione, cinema del reale – dovrebbero cedere il posto a una nuova denominazione, perché sempre più spesso facciamo esperienza di un cinema di testimonianza, nel quale l’istanza documentaria si mescola a una serie di altre istanze (etiche, politiche, narrative, rielaborative), richiedendo così che ne siano ripensati gli stessi presupposti» (p.20). Ma ciò che Dario Cecchi, studioso di filosofia e cinema, sviluppa nelle pagine del suo saggio non è una mappatura né una metodologia d’analisi, non fornisce formule interpretative nette né tantomeno si preoccupa di enucleare una possibile gamma delle tendenze.




UZAK 26 | primavera 2017

Lo stato delle cose

stewart

Mentre si aspetta Cannes, e Dumont, Garrel, Lanthimos, Mundroczo (è ancora viva l'impressione che mi fece anni fa Delta, uno dei primi testi di Uzak), Ferrara, Denis, i primi due episodi di Twin Peaks ecc. - a conferma dell'ineluttabilità e utilità (estrema) di certi festival, e al di là di ogni tappeto rosso, aperitivo, pompa; dovendo, per parte mia, difendere certi film, certe selezioni in balia di burocrati, parvenus ben'azzimati; proprio certe modalità di guardare (che è poi un guardarsi, nel caos, penetrarlo, squadernarlo facendone grondare le proprie ombre), di leggere, ascoltare come da bambini (siamo cresciuti poi convinti che un film di Bela Tarr, un libro di Svevo, un disco dei Cluster, siano più importanti di qualsiasi populismo, biglietto staccato, affluenza di pubblico; e per questo ci si ritrova adesso in una zona di mezzo, a tempo, in perenne scadenza, senza futuro, pensionamento: il fallimento prossimo venturo; ma c'è come una poesia anche nella sconfitta, se fosse, perchè «traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.


altL’establishing shot è lo skyline di Shanghai (ma si può davvero mai darsi, in Lynch, un “establishing” che non rimandi al più volubile e mutante dei contesti, scheggia di mondo impazzita e completamente instabile, vista attraverso quella tutta sua vocazione all’ebrietà insicura degli spazi esterni, imbibiti secondo lo spettro delle tonalità lisergiche degli acrilici): lo sfondo è una notte azzurrata perché illuminata artificialmente, notte da megalopoli asiatica eternamente ricoperta dal baluginio ipnotico dei neon e delle mille luci notturne (come anche in Hou Hsiao-hsien).


The fortunes creates at Bordeaux, at Nantes, by the slave trade,
gave to the bourgeoisie that pride which needed liberty
and contributed to human emancipation.
J. J.



Speciale cinema e poesia: al di là di Paterson


altGuardando Paterson bisogna distogliere lo sguardo dal Paterson soggetto, il poeta autista di bus, e rivolgersi all’oggetto, al territorio, Paterson nel New Jersey, ma senza una puntuale corrispondenza geopolitica, perché il mondo in cui si muove quest’io depotenziato è un interregno, una zona minima di galleggiamento (e dissipazione) dei personaggi e proprio dei caratteri, delle immagini variamente, anzi reiteratamente incarnate.


altJarmusch conferma che una città di poeti (William Carlos Williams, Allen Ginsberg), di anarchici (Gaetano Bresci) e anche di comici anarchici (Lou Costello), non può essere che una città-fantasma, percorsa da autobus-fantasma, occupati da passeggeri-fantasma. Al volante, un Driver-fantasma, uno che porta lo stesso nome della città (Paterson) e ha il dono di vedere ovunque fantasmi (o fantasmi-gemelli). Jarmusch a sua volta, fantasma dai bianchi capelli vaporosi, ha il dono di rendere fantasmi i suoi attori, e al contempo di ipnotizzare gli spettatori, inducendoli a credere nell’incredibile, ossia nell’esistenza corporea dei poeti.


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L’opposta flânerie. Paterson è l’astrazione inversa dell’attraversamento dello spazio urbano baudelairiano, il disporsi – consapevole, presente – della figura al centro esatto della scena in cui confluiscono l’Idea e la Storia, la materia e lo spirito, il corpo e l’anima, la presenza e l’assenza, la poesia e la prosa...

L’immaginazione è forse sul punto di riconquistare i propri diritti.
(A. Breton, Manifesti del Surrealismo)


Eleonora Danco è un’artista capace di conquistare e attraversare diversi campi di espressione (teatro, poesia, cinema), affidando a ciascuno di essi una postura anarchicamente libera, distante da incrostazioni ideologiche ma sensibile alle intermittenze dell’esistenza. Se la sua poesia nasce «in quel momento violento che la avvicina alle cose» il cinema diviene «un altro modo per usare il corpo»1, per mostrarne lo struggimento, la tensione. A riempire lo iato fra dizione poetica e immaginazione visiva ci pensa il teatro, l’abitudine a re-citare il tempo, la memoria, lo schianto; per Danco stare in scena significa afferrare la vita, rintracciare la verità emotiva dei suoi personaggi.

Speciale Marco Ferreri


alt«Sotto molti punti di vista», scrive Gian Piero Brunetta, «Ferreri è il regista italiano contemporaneo […] la cui opera è iscrivibile con più continuità nella fantascienza […]. Ed è anche il solo a ritenere che la nostra vita faccia ormai parte del futuro» (Brunetta 2006, p. 236). Uno dei suoi film, del resto, si chiama Il futuro è donna, mentre Marco Ferreri: il regista che venne dal futuro è il titolo di un documentario del 2007 di Mario Canale che ne costruisce un ritratto attraverso testimonianze di chi lo ha conosciuto, attori e collaboratori; attraverso immagini dal set e dintorni che lo intercettano e raccontano, lo ascoltano.

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Verso la fine, Marco Ferreri chiedeva ai suoi direttori della fotografia una luce fredda, con pochi contrasti o chiaroscuri, in cui fosse più facile situare oggetti e corpi senza spessore, tra brandelli narrativi, ellissi misteriose, scene sfilacciate, protratte al limite dell’estenuazione.



altQuei tuoi capelli d’arance nel vuoto del mondo, nel vuoto dei vetri grevi di silenzio e d’ombra ove a mani nude cerco ogni tuo riflesso,
Chimerica è la forma del tuo cuore e al mio desiderio perduto il tuo amore somiglia.
O sospiri di ambra, sogni, sguardi

(Paul Éluard, Capitale de la douleur, 1926)



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Nell’inserire Dillinger è morto nel suo dizionario dei costumi per il cinema, Enrico Giacovelli si preoccupava che il gesto risultasse provocatorio e si soffermava a spiegare le ragioni della scelta: «(...) la camicia bianca e i pantaloni neri dell’ingegnere-designer Michel Piccoli azzerano la funzione classica degli abiti, che diventano una sorta di maschera neutra, di schermo senza colore su cui va a depositarsi come una patina l’alienazione dell’uomo moderno» (Giacovelli 2006, p. 125).


altQuest’uomo lavorava a un sistema di storia naturale nel quale aveva classificato gli animali a seconda della forma degli escrementi. Distingueva tre categorie: i cilindrici, gli sferici e quelli a forma di torta.
(Georg Christoph Lichtenberg)






Cose viste

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Il mondo è una scena, la vita è rappresentazione: entri, ti guardi intorno, te ne vai.
(Aforisma attribuito a Democrito)


Sulla scena del mondo si rappresenta la farsa della mondializzazione. Sul serio, c’è ancora qualcuno che crede alla favoletta di un mondo più equo o di un’umanità più felice grazie a pratiche aberranti come la delocalizzazione (eufemismo dietro cui si nasconde il vecchio e mai morto colonialismo) o a nuove forme di autosfruttamento che seguono i dettami della retorica del “sii manager di stesso” o della cosiddetta sharing economy? Toni Erdmann prende molto sul serio questa domanda, la radicalizza fino al punto che non può fare a meno di mettere in questione la rappresentazione stessa.

Editorie


altLa raccolta di recensioni radiofoniche settimanali sul cinema di Elsa Morante, risalente al 1950-1951 e, in appendice, di altri appunti e frammenti della medesima scrittrice (con una introduzione di Goffredo Fofi amichevole e nel contempo disinteressatamente partecipe), fa perno sull’idea, come esplicita il titolo del libro, che l’arte cinematografica è La vita nel suo movimento (Einaudi 2017), nel cui ambito, dato per scontato il carattere dinamico-drammaturgico della figuratività filmica, “vita” equivale a “realtà”. Però, se il termine “realtà” è, com’è evidente, alla radice anche dell’espressione “neorealismo”, cioè dell’esperienza soprattutto cinematografica che aveva fatto strepitosamente epoca, non senza controversie, nel recentissimo dopoguerra, non di altrettanto, alla fine, universale accezione appariva il suo significato. Quando le ragioni genetiche più dirette della performance neorealistica (gli orrori della guerra e la partecipazione popolare alla Resistenza antifascista) si andavano oggettivamente consumando, la sostanza di quel fenomeno aveva configurato ormai la “realtà” in forme, al meglio, sempre più intensamente spirituali (specie in alcuni film di Rossellini) e perfino utopiche (Miracolo a Milano di De Sica), mentre, d’altro lato, nel cinema corrente, ricominciava a dilagare – è la convinzione della Morante – l’irrealtà dell’evasione.


altCi sono figure che ritornano con una certa frequenza nella storia del cinema. C’è il Vampiro, ad esempio, che puntualmente riappare sullo schermo per placare la sua irrefrenabile sete di sangue; c’è il Super-Eroe, chiamato a difendere l’umanità contro nemici d’ogni tipo; c’è il Libertino, eterno seduttore; c’è la Bestia, c’è l’Alieno, c’è il Cyborg, per limitarci ai profili più noti. Si tratta di figure archetipe, spesso provenienti dal mondo della letteratura, del teatro o dei fumetti, che il cinema ha saputo far sue, plasmandole e sviluppandole secondo le proprie esigenze. Ma cosa si nasconde dietro questo loro costante, perenne ritorno?







Figura intera


altIl genere umano non può sopportare troppa realtà
(T. S. Eliot, Burnt Norton in Quattro quartetti)


Dice Capote che «la realtà riflessa è l’essenza della realtà, la verità vera». La realtà si offre sempre attraverso la mediazione di un’immagine. È un dato, da Platone in poi. Senza le immagini e i riflessi, dunque, non avremmo la realtà: magmatica, dilatata, questa esplode in una molteplicità di schegge; è l’immagine che, sottraendola dal caos originario, le dà una forma attraverso catene figurali via via più complesse ed elaborate. È sorprendente il potere posseduto dagli spettri, direbbe Derrida, di offrire la «visibilità dell’invisibile»; sono questi, per tornare a Capote, che ci permettono di cogliere, «in prismatica miniatura, l’intima atmosfera di un panorama troppo vasto per poter essere altrimenti abbracciato» (Capote in Mazzarella 2011, p. 16).

Armonie

alt

Musica: Tu straniera. Tu spazio del mio
cuore
cresciuto oltre di noi. Tu a noi il più intimo
che, superandoci di là da noi trabocca –
Sacro addio:
poiché il nostro Intimo ci sta intorno come
la più frequentata lontananza, come altra
faccia dell’aria:
pura,
immensa,
non più abitabile.
(Alla Musica, Rainer Maria Rilke)1

UZAK 24/25 | autunno/inverno 2016

Lo stato delle cose


altLe cose significative del 2016 da serbare, ricordare. Un'operazione non feticistica, almeno nel nostro caso, quanto invece di iniziazione del nuovo anno, del prosieguo: incentivo alla continuazione, in esistenze di scritture, ripensamenti, invenzioni. Se si pensa alla materia-cinema che si dibatte tra spazio e tempo, forze e forme, realtà e reale, allora si può considerare, magari, l'ultimo Serra (una delle visioni più folgoranti degli ultimi tempi) in stretta relazione e continuazione, mettiamo, a Cemetery of Splendour dell'anno scorso, cioè a quelle forze, io direi “quello spazio”, che attendono, brulicano sul fondo del quadro e si pongono problematicamente rispetto alla possibilità di divenire forme.

altC’è colore e colore, ma vedere il mondo a colori (siano pure colori cupi) è una cosa naturale. Lav Diaz non sembra affatto convinto, invece, che sia naturale vedere il mondo a colori (siano pure cupi) attraverso l’occhio della cinepresa, come se lo ritenesse un indebito abbellimento, come se non potesse dimenticare le origini, quelle del bianco e nero, quando il cinema (per dirla con Godard) prendeva il lutto per la realtà. Si dovrebbe riflettere di più su questo fatto: quella del cinema (con la fotografia) è stata la sola arte nata in bianco e nero, e a lungo rimasta tale, anche se quasi da subito si è cercato di darle i colori, magari a mano, fotogramma per fotogramma (esiste il disegno, certo, ma è basato sulla linea, e in genere propedeutico alla pittura).

altIniziamo con A Lullaby to the Sorrowful Mystery (2016). Il cinema di Lav Diaz, del resto, ci appare da sempre come una paradossale ninnananna sul mistero doloroso: da un lato i traumi dolenti della storia filippina colti sempre tra colonialismo e dittature, ingiustizie e morti violente, menzogne e oblio della memoria; da un altro lato il re-incanto dell’immagine cinematografica che si prenda in carico la riemersione di una memoria rubata e la creazione di un immaginario popolare finalmente dal basso. I tre protagonisti di questa ninnananna, allora, non potevano che rimanere in fuori campo: figure incorporee perse di nuovo nel visibile di piani sequenza lunghissimi che sfondano l’orizzonte.

alt

Non possiamo dimenticare quello che eravamo
Niente rimane. Tutto si perde.
Come si può rispondere a una domanda alla quale non c’è risposta?


La memoria è una lacrima che scende dalla “bianca palpebra” dello schermo di Lav Diaz, un elemento doloroso, sempre presente, perché «non si può dimenticare quello che eravamo». Il passato è uno specchio che si riflette nel presente, e quella palpebra si apre sulla realtà, il trenta giugno del 1997, nel giorno in cui termina il protettorato inglese a Hong Kong.

tramontoL’esperienza pittorica per Franco Piavoli può considerarsi una sorta di sublime surrogato all’assenza della macchina-cinema dove la fortissima poetica, che già nei cortometraggi esplodeva nel bianco e nero della sua Paillard 8 mm, è rintracciabile fin dai primi disegni, acquerelli realizzati da ragazzo, per puro diletto, verso la fine degli anni Cinquanta. Il piccolo paesaggio autunnale Tramonto ad esempio, datato 1958, inaugura questi primi esperimenti di colore che si interrompono al profilarsi degli orizzonti offerti dalla pellicola e non è un caso che, a partire dall’inizio degli anni Settanta, Piavoli, dopo il dolore per un mancato lungometraggio dal titolo Cara Dalia, abbia ripreso in mano il disegno, avendo perso l’opportunità di fare film, preclusione che durerà per quasi due decenni.

alt

Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere;
la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato.
(Rilke, Lettere a un giovane poeta)





altL’umanità che incontra nei suoi documentari ha sempre un desiderio. Quello di uno spazio da inseguire, da cercare; è la domanda a un mondo a cui non si appartiene. Liberami, viaggio nei riti d’esorcismo in Sicilia, lavoro che ha avuto un percorso molto lungo – tre anni – di gestazione e sviluppo, è approdato alla “Mostra di Venezia” 2016 e ha vinto il premio per il Miglior Film nella sezione “Orizzonti”. Per Federica di Giacomo l’opera sicuramente più difficile e radicale, la nuova tappa di un percorso cinematografico già segnato da Il lato grottesco della vita (2006) e Housing (2009).

altBaudrillard diceva che lavoriamo con l’illusione postuma della fine, ma se una fine implica che qualcosa sia davvero avvenuto, stando alla realtà, possiamo davvero esser certi che qualcosa abbia avuto luogo o meno? Il punto, come dice Badiou, è ancora una volta quello di sapere quale sia, al di là di questo tema della fine,il rapporto dell’arte col reale o quale sia il reale dell’arte, la differenza tra luogo e l’aver luogo…

altHo curato personalmente tutti gli aspetti del suono e ci ho dedicato più di sei mesi di lavoro, perché insieme al montaggio è l’aspetto fondamentale, la chiave di questo film, sebbene poi sia l’immagine a tenere insieme il tutto. (Amir Naderi)

Nella vezzosa frescura di una terrazza veneziana fronte mare Amir Naderi mi spiega che l’idea di creare una «sinfonia di rumori» era inscritta sin dal principio in un nucleo ideativo risalente a più di una decina di anni fa, che, passato attraverso vari tentativi infruttuosi di realizzazione, oggi sboccia a definitiva epifania con questo Monte, di bellezza primeva e oscura, presentato fuori concorso alla 73° edizione del Festival del Cinema di Venezia.

altCon L’infinita fabbrica del Duomo (2015) Massimo D’Anolfi e Martina Parenti assestano, per la seconda volta all’interno della propria filmografia, una sterzata, che è senza soluzione di continuità, conclusione di un percorso e virata verso un nuovo orizzonte progettuale.
Vertice e di nuovo primo passo di una scalata, sempre al rilancio del grado di difficoltà scopica.

Della serie


Reduce da sistematiche partecipazioni al Sundance Festival e dalla regia di qualche episodio di  Wayward Pines, quindi dentro un'idea consolidata (forse anche usurata, standardizzata) di cinema indipendente; poi in certa pragmatica della serialità, televisività dell'immagine; Zal Batmanglij dirige per Netflix The OA mescolando registri, frammentando ancora l'epopea americana (mentre Soderbergh ha colto l'origine di questo passaggio, all'inizio del postmoderno) in una costellazione di storie, tra contingenza e fantasia.

Editorie


altNel 1972, ventiseienne, riadattando la sua tesi di laurea alla UCLA, pubblica il saggio Trascendental Style in Film, tradotto in Italia trent’anni dopo dall’editore Donzelli: Il trascendente nel cinema. Ozu. Bresson, Dreyer. E nel segno di tre maestri, Paul Schrader intenderà e farà cinema. Certamente non come la banale applicazione dei modelli studiati e amati; si tratterà, piuttosto, di una tensione forte, costante, tanto assoluta quanto necessariamente contaminata, aperta, dentro le sue immagini e le sue storie, dall’American New Wave a oggi. Una tensione non esteriore ma, per così dire, “esistenziale”, perfino osteggiata, ridicolizzata, rifiutata da alcuni suoi produttori.







Armonie

altLa musica "vista" da chi si occupa di cinema. La lista dei più bei dischi del 2016, da parte di redattori e collaboratori di Uzak












UZAK 23 | estate 2016

Lo stato delle cose

Luigi Abiusi

alt«Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo recupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: -Io-. L’ausilio dell’arte medica, lenimento e pezzuole, dissimulò in parte l’orrore. Si udiva il residuo d’acqua ed alcool delle pezzuole strizzate, ricadere gocciolando in una bacinella ed alle stecche della persiana già l’alba. Il gallo improvvisamente la suscitò dai monti lontani perentorio ed ignaro come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita». (C.E. Gadda, La cognizione del dolore)

Nicola Curzio

altQualche anno fa, alla Mostra del Cinema di Venezia fu presentato un breve film realizzato interamente con immagini d’archivio. Diviso in segmenti, questo affascinante lavoro di found footage assemblava al suo interno frammenti audiovisivi di diversa natura: filmini di famiglia, cinegiornali, una sequenza di Miracolo a Milano. Quattro voci, mantenute anonime sino ai titoli di coda, ne orientavano il senso generale, lasciando emergere quattro storie accomunate da un desiderio di redenzione. Redemption di Miguel Gomes resta ancora oggi una delle riflessioni più lucide e acute sulla capacità del cinema di riattivare immagini del passato, innestandole in un discorso attuale, nel solco della memoria. Perché dietro quegli atti di rimembranza e contrizione che il regista lusitano assegna arbitrariamente a personalità “di pubblico dominio”, si cela in realtà la salvezza, il riscatto delle stesse immagini con cui è fatto il film: attraverso un astuto, incantevole stratagemma, esse tornano a brillare di luce propria, assumono una nuova valenza, trovano un’inedita collocazione nello spazio del presente. In altre parole, tornano in vita, o meglio, sopravvivono.

Andrea Bruni

Cinema e Surrealtà: ceci n’est pas un film

altAl Museo Cernuschi a Parigi esiste una statuetta cinese che rappresenta un Demone e che è stata fusa in un amalgama a base di arsenico: non la si può toccare senza provare un bruciore insopportabile. Un chien andalou e L’âge d’or (quest’ultimo di più ampio respiro, più compiuto, più enigmatico anche, e soprattutto più rivoluzionario) tendono a infliggere una sensazione analoga. Ma è raro che lo schermo “bruci” l’occhio e il cervello dello spettatore. Spetterà comunque al futuro operare le riclassificazioni indispensabili e far capire che alcune tendenze essenziali del cinema partecipano anch’esse della “magia”, forse involontaria, a cominciare dai capolavori di Méliès, di Murnau (Nosferatu) e di tutto l’espressionismo tedesco, di Josef von Sternberg, di Abel Gance, di Orson Welles, e perfino di certi film più e meno gravemente commerciali (Ombre bianche, King Kong, Peter Ibbetson, Vertigine, etc….), relitti di questa marea disordinata, e gigantesca, che è stata definita “il solo mistero assolutamente moderno.
(André Breton)

Mariangela Sansone

altIl “Festival del Cinema Ritrovato” di Bologna ha festeggiato con l’edizione 2016 i suoi primi trent’anni. Amato dall’occhio più esperto, ma anche dal grande pubblico, continua ad essere una meta imprescindibile per i cinefili, i critici e per chi ama il grande cinema, perché «i film del Cinema Ritrovato ce lo insegnano: per guardare avanti, dobbiamo guardare indietro», proprio come afferma Gian Luca Farinelli, ideatore assieme a Nicola Mazzanti della manifestazione, dedicata alla storia del cinema ed all’attività delle cineteche. Incontri con critici e registi, tavole rotonde e dibattiti, con più di cinquecento film in otto giorni, opere che provengono da tutto il mondo per fornire allo spettatore la possibilità di «avere un’idea molto più ampia del Novecento e dei suoi linguaggi»: questo è da sempre l’obiettivo del festival.

Luigi Abiusi

Il Pesaro Film Festival a conduzione Armocida si conferma terreno laboratoriale privilegiato in Italia, tra videoteppismi, critofilm, pornografie, scandaglio del florido sottobosco italiano; poi il panorama del concorso ufficiale, davvero bello, quest’anno superiore al passato: soprattutto Les Ogres di Léa Fehner e Per un figlio di Suranga Deshapriya Katugampala, che conferma certa sensibilità delle produzioni di Arcopinto.

Gemma Adesso

Noi siamo meno che umani, puri
dal vizio della morte.
(E. Morante)

Per indagare l’ordine in una forma si dovrebbe immaginare di retrocedere dalle dimensioni di uno schermo al plasma ad un vetrino visto al microscopio e, dalla struttura infinitamente piccola, provare a riconsiderare l’ampiezza del verbo “plasmare”. Il disordine invisibile delle parti trattenute nel vetrino viene assorbito dall’unità d’insieme riconoscibile sullo schermo: al primo momento in cui il corporeo transeunte si fissa, ne segue un secondo dove le singole parti acquistano una vita spirituale nel tutto della costruzione. Letteralmente questa è formen, la forma plasmata.

alt

L’immagine pubblicitaria, la patina della posa stimolante il consumo, è solo il risvolto di The Neon Demon, l’appiglio necessario a una “critica del reale”, economico-politica (ma comunque evidente, la fenomenologia del selfie in quanto esserci oggi, del sé narcissico ostentato senza pudore); mentre la sua essenza starebbe nella gratuità di un abbaglio d’ombra; del luccicare smorto del manichino, fermo, oscenico; nel pallore di epidermidi artificiali, cosmetiche, al chiaro di luna (o del lume che si sparge per tutto il tempio borghese in cui si compie il sacrificio della bellezza, quella di Jesse in carne o ossa, carne vera, ancora rosea, scampata fino a quel momento alla crapula da parte della scena mortuale, manichinica); sta proprio nel crepuscolo di un qualche angolo di stanza in cui l’io-Refn (pieno di sé) fruisce di un Es pieno di plastica, mentre risuona il carillon di Cliff Martinez e tocca le bambole di alabastro a gambe spalancate, con la finta feritoia, impenetrabile sotto i polpastrelli e la carne della lingua, che era stata l’ossessione di Casanova, di sfondare la perfezione del simulacro.

Vanna Carlucci

altPersi il contatto con il mondo: vi nascevo allora in quel buio desolato. I contorni delle cose salivano alle pupille ma non arrivavano al cervello. […] La realtà era questo frammettersi del buio e del chiarore che, ecco, laggiù, ricompariva, o era questo fermarsi nel buio a contemplare la luce, non per un gioco di contrasti e nemmeno di fervori, ma per lo squallido vizio di una ripetizione emotiva? (Il mare verticale, G. Saviane)

Valentina Dell'Aquila

altWar is cinema, cinema is war
(Paul Virilio)

In The Terror Dream: Myth and Misogyny in an Insecure America, Faludi scriveva:« la cacofonia ripetuta di certe verità induce un tipo di ipnosi culturale: gli americani sembrano scivolare in uno stato di sonnambulismo e nessun film o dramma televisivo può realmente rappresentare il nuovo trauma» (Faludi 2007, p. 2). In altre parole: il contemporaneo fallimento delle politiche di sorveglianza spiega come la genesi psichica di una nuova estetica del trauma influenzi e limiti (rappresentativamente) la nuova (ordinaria) visione cinematica: la funzione dell’arma è assimilabile alla funzione (invisibile) della camera; sarà perciò a partire da questa che si attuerà la ricostruzione di un nuovo sguardo. Perciò l’ipotesi post-traumatica di cinema come hauntology non sarà più nel roboante, nella rapidità guerresca che imita una realtà mai data: nell’immagine sarà la perdita, la simulazione senza inganno, lo spettro continuamente differito.

Simone Arcagni
incontra
Action30


altIl mondo è tutto ciò che accade.

Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose.
(Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus)

Non penso sia interessante in questo momento costruire una storia, analizzare o teorizzare l’operato del collettivo (sé-definente “eterogeneo”) Action30. Non credo nel valore catalogativo e storicizzante di un’attività così varia, viva e perdurante.

Luca Romano

altCos’è la didascalia? Didáskalos era colui che aveva il compito di istruire il coro nelle tragedie greche. Il suo compito era lavorare a margine, sul modello del maestro (la cui radice è la medesima) forniva lo strumento verbale, ma non solo, a chi doveva svolgere un atto artistico.

Speciale Cimino

Alessandro Cappabianca

altC’è una forma di maestà, nel paesaggio, che attiene al sublime e ammutolisce perfino i cinque amici de Il cacciatore, che pure non hanno mai sentito parlare di Kant o di Burke e non smettono di fare scherzi perfino davanti a certi fenomeni solari (qualcuno potrebbe chiamarli presagi), perfino lungo la marcia d’avvicinamento, in macchina, alle vette incontaminate dove si caccia il cervo.

Michael Cimino

altQuando lavoravo con Clint Eastwood per Una calibro 20 per lo specialista […] gli chiesi: «Clint sei contento di come sta venendo il film? Pensi che ci siano delle cose che dovrei fare per renderlo migliore?». Lui mi rispose: «Michael non ti preoccupare: quello che voglio da te è la tua visione. Quello che hai messo sulla pagina voglio che me lo porti sullo schermo!». Nessun altro mi ha più detto una cosa simile da allora.

Cose viste

Matteo Marelli

alt«Chi sarà a raccontare. / Chi sarà. / Sarà chi rimane». Questi versi di Giorgio Bezzecchi (originariamente in “romanes”), ripresi da Fabrizio de André per la chiusa di Khorakhané (A forza di essere vento), funzionano come postilla anche per I ricordi del fiume, il documentario di Gianluca e Massimiliano De Serio presentato all’ultima “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica” di Venezia in una prima edizione di 140’ e proposto ora in sala in una nuova versione di 96’ che meglio mette a fuoco il gesto registico dei due gemelli.

Raffaele Cavalluzzi

altIl giovane campione di lotta libera Mark Schultz (Channing Tatum) è un uomo solo. La sua solitudine, dovuta all’assenza dalla sua vita dei genitori subito divorziati, sembra (di fronte agli specchi dei bagni in cui spesso si rifugia a guardare la propria immagine che gli pare forse sempre inespressiva) quasi bloccarlo psicologicamente, sin dall’infanzia, nella forza e nella violenza repressa del suo corpo muscoloso, cresciuto – potente e ottuso – nella pratica dello sport sotto l’affettuosa guida di Dave (Mark Ruffalo), suo fratello maggiore, che gli ha fatto da padre e da partner anche dopo essersi sposato e aver messo su famiglia.

Figura intera

Lia Miceli e Matteo Marelli

altCiò che resta, dopo aver conversato con Chiara Guidi, è un’idea di teatro nel suo rigore pieno e necessario.
L’occasione per incontrarla ci è stata data dallo Spazio Matta di Pescara che ha ospitato La cattedrale sommersa: laboratorio teatrale di improvvisazione vocale su frasi del Guaritore galattico di Philip K. Dick a cui ha fatto seguito una performance finale aperta al pubblico.

Fare: sollevare.
Fare il verbo. Non dire. Fare. È un lavoro di singolarità condotte verso una forma corale.
Partendo dalle parole di Philip Dick un gruppo di persone cercherà di sollevare un’unità sonora nell’arco di 20 minuti. Sollevare.
Non una cattedrale sommersa, come ha fatto Glimmung, ma un suono.
(Chiara Guidi)

Editorie

Leonardo Gregorio

altHa 14 anni, è il 1917, quando si imbatte in Civiltà di Reginald Barker , Ramond B. West e Thomas H. Ince. «Aveva un grosso budget per l’epoca ed era davvero stupendo. Mi impressionò profondamente. Fu proprio in quel momento che mi dissi che volevo diventare un regista» (p. 24). Yasujirō Ozu (1903-1963), il ragazzo che scopre, di nascosto, trasgredendo le regole, il cinema quando le sale non si chiamano ancora così ma «baracconi delle immagini in movimento» (p. 23); adolescente che a quel tempo disprezza, snobba i film del suo paese e ama solo quelli occidentali, che sceglie di diventare chi sarà, nonostante le diverse aspirazioni dei suoi genitori e la generale diffidenza all’epoca per i sognatori di cinema. Ma questo è solo un frammento, prezioso, di un percorso tra pagine che ci donano il privilegio di perderci, di immaginare, di cavalcare il tempo, dentro la vita e fuori del grande regista giapponese, dentro e fuori la sua arte. Così da renderci partecipi anche di uno strano e dolce inatteso, di piccole grandi meraviglie che si aggirano tra quello che già sapevamo, credevamo di sapere o potevamo solo ipotizzare.

Della Serie

Fabio Lusito

altLife’s a bitch and then you die    
That’s why we get high    
‘Cause you never know when you’re gonna go    
(Life’s a Bitch, Nas ft. AZ, 1994)       

New York, 1977. Più precisamente Bronx, South Bronx. I primi confusi fotogrammi, che mettono insieme immagini di repertorio ed una New York odierna, accompagnati dalle parole e dai suoni di un rap deciso, racchiudono il significato essenziale di The Get Down: la genesi dell’Hip Hop, una cultura che vede in quei giorni ed in quei luoghi i suoi albori. Un fenomeno che viene fuori dalla disperazione, dalle macerie, materiali e morali, di un Bronx devastato da povertà e delinquenza, ma che ha sempre saputo mantenere sgargianti i suoi colori, di cui emblematico, seppur in contrasto, è il nero della pelle di chi è anima di quelle strade, di quei campetti, di quei palazzoni in fiamme, di quei barber shop, di quel ghetto. Bronx che è vita, è disperata sopravvivenza, che è allo stesso tempo morte, ma pur sempre con quei colori, con i suoi suoni, con i suoi limiti.

UZAK 22 | primavera 2016

Speciale Registi fuori dagli scheRmi V

Leonardo Gregorio e Michele Sardone

altAutore apolide di un cinema personale, visionario, che della forma ha fatto racconto e viceversa. Per diciassette anni ha spento la macchina da presa e si è dedicato alla pittura; è tornato poi con Quattro notti con Anna (2008). Il primo atto di “Registi fuori dagli scheRmi V” è stato nel segno di Jerzy Skolimowski e del suo cinema. In particolare, dei suoi ultimi due lungometraggi: dalla lotta per la sopravvivenza di Essential Killing (2010), al grottesco messo in catastrofe in 11 Minutes (2015), presentato il 25 febbraio scorso al Cineporto di Bari in presenza del regista.

Vanna Carlucci

altAntonia Pozzi, Antonia. Corpo esile «in cuore all’azzurro» (Pozzi 2014, p. 46), corpo nudo, parola bianca. Questa è l’Antonia di Ferdinando Cito Filomarino, un profilo che si materializza e nuota negli spazi che la circondano, nuota e vive nel corpo alato delle pagine, nel vuoto saturo delle sue stanze (liriche) e uno sguardo arrampicato a una vita che trema. Chi era Antonia Pozzi? «Una scìa di silenzio/ in mezzo alle voci» (ibidem), poetessa che (non) si colloca, ma che vive «sul greto, tra i cespugli» (ivi, p. 37), voce fuori dal coro del suo contesto storico, letterario eppure così presente da scavalcarlo, il tempo . Incontriamo il regista Ferdinando Cito Filomarino in occasione della rassegna barese “Registi fuori dagli sche(r)mi”.

Leonardo Gregorio e Matteo Marelli

altForse il mistero del suo cinema non lo conosce neanche lui davvero, o semplicemente non vuole raccontarlo. Sa, però, dove quel cinema sta andando. Pedro Costa e il suo Cavalo Dinheiro per “Registi fuori dagli sche(r)mi” V. Abbiamo incontrato in albergo il regista portoghese, poche ore prima della serata al Cineporto di Bari.


Luigi Abiusi

altNel crocevia, grumo di contraddizioni, tra civismo e recrudescenza dei nazismi, che è l’Europa oggi, fanno la loro comparsa opere documentarie che spesso trascendono il documentario, aumentando proprio in virtù di questo falso scavalcamento, il portato di “verità” del filmato. È inutile richiamare ancora Rosi o Minervini, per restare all’Italia. Ora, uno dei documentaristi più rigorosi che si esprimono in questo ambito è sicuramente Marco Santarelli, che in Dustur affronta la questione dei diritti umani, tra identità religiosa e giurismo, discussa proprio da chi lo ha violato “il diritto”, e di chi lo fa (o lo farebbe) in nome di dettami religiosi (spesso fraintesi). La voce è quella di musulmani in carcere, in quello Dozza di Bologna, in contrappunto al ragionamento dossettiano, cristiano di Ignazio, fino a che non vi converge anche il sofferto dettato di Samad, rientrato alla Dozza da uomo libero.
Qui una conversazione con Marco Santarelli e, in epilogo, Roberto Silvestri, in occasione della proiezione barese di Dustur per “Registi fuori degli sche(r)mi”.

Lo stato delle cose

Luigi Abiusi

altDentro il magma della condizione postmoderna, in una teoria delle cose che rinuncia alla teoria contemplando le cose che accadono, che ci accadono, ci fanno accadere, nudamente, tanto più in questo rigoglio primaverile, ritorno di sole, su selciati, folle, sui muri, gli schermi in cui si caglia il passato (mai così presente), le fantasticherie secrete dagli intrichi di sterpi dentro un campo apparito, dallo sbottare di tuberi, che esalano e si cagliano ancora vischiosi, verdi di schiuma all’aria aperta; schizofrenia d’io che poi è deposizione dell’io, della coscienza, e gioiosa, terribile balia degli eventi, carneo, erotico brulicame di epidermidi, isole di senso; il palinsesto di un «Uzak» in quanto discontinuità gioiosa di sensi, concetti in storie, in fieri, va da Dreyer a Noé e passa per un grumo di visioni “polacche”.

Massimo Carboni

La nostra attenzione si soffermerà in primo luogo su un dettaglio marginale di una grande opera d’arte del Novecento, un dettaglio apparentemente insignificante, un evento accidentale e quasi ridicolo, un resto. Fa infatti parte di ciò che resta in più dopo aver enumerato l’insieme. Ci applicheremo dunque ad una fenomenologia dell’inessenziale.
Se osserviamo attentamente, ci accorgiamo che per ben due volte, in due distinte inquadrature del celebre La passione di Giovanna d’Arco del regista danese Carl Theodor Dreyer, una mosca si posa e zampetta per qualche secondo sul viso dell’attrice Renée Falconetti, che interpreta – in maniera rimasta memorabile nella storia del cinema – la protagonista Giovanna. Inesplicabile ed imprevisto, un frammento di reale – in tutta la sua immediatezza, in tutta la sua singolarità – fa a suo modo ingresso permanente nell’immagine. Il regista non taglia in montaggio le due inquadrature, lascia che questo minuscolo, insignificante incidente resti per sempre integrato nella sua opera. Non si tratta affatto di una programmatica accettazione del caso. Dreyer non è un dadaista né un surrealista; è un autore rimasto celebre per il suo rigore formale, per la sua capacità di controllo e di dominio sul linguaggio filmico. L’episodio semmai indica come l’opera d’arte, e soprattutto l’opera d’arte moderno-contemporanea sia qualcosa che, nel suo stesso farsi, appare radicalmente esposta all’evento fortuito che si dona, alla nuda contingenza che irrompe a partire da un fuori ignoto e incontrollabile, ove domina incontrastata l’equiprobabilità dell’accadere.

Roberto Turigliatto e Małgorzata Furdal


altAveva deciso di lasciarsi trasportare anima e corpo
dalla corrente, come una foglia portata dal vento…
galleggiante senza mai aggrapparsi a niente…
giramondo per ponderatezza…
non come altri per disperazione.

(Joseph Conrad, Victory)


Fin dall’inizio, nel cuore del suo cinema, Jerzy Skolimowski incontra il “compagno segreto” del racconto di Conrad, un’opera letteraria che ritroveremo molti anni dopo, insieme a Victory, adombrata dentro The Lightship. «Andrzej Leszczyk non sono io. È divertente, non solo dal punto di vista artistico ma anche psicologico, il fatto che riesca a produrre delle varianti a partire dalle mie tendenze personali, ma senza identificarmi con esse, il fatto di guardarmi sullo schermo – fisicamente sono io – in una vita fittizia» (Jerzy Skolimowski 1964).

Alessandro Cappabianca

alt«Un’altra avventura vi racconterò, più strana ancora...»
È l’inizio di Cosmos, il romanzo di Gombrowicz, che però, nella trasposizione cinematografica di Zulawski, è sostituto dai celebri versi d’apertura della Divina Commedia («Nel mezzo del cammin...» ecc.). Nella filmografia del regista polacco, d’altra parte, non si può certo dire che manchino avventure “strane” – in che senso, allora, quella di Cosmos sarebbe ancora più strana? Ma davvero lo è?

Nicola Curzio

altChe il 3D al cinema sia inutile o superfluo è opinione piuttosto diffusa e nemmeno troppo taciuta. “Il 3D non cambia niente” si sente spesso dire a proposito dei film girati in rilievo. Del resto, opere di questo tipo sono di frequente distribuite e proiettate in 2D senza che nessuno, o quasi, si accorga che ne esiste una versione tridimensionale. Nella migliore delle ipotesi il 3D è percepito come un extra, un additivo, qualcosa che può arricchire la proiezione, ma che non incide realmente su di essa. In altre parole, il discorso filmico con il 3D non cambia, anzi, a volte rischia di essere indebolito: l’autorevole studiosa americana Kristin Thompson, ad esempio, ha sostenuto che «gli effetti rocamboleschi della maggior parte dei titoli in 3D sono fastidiosi e hanno l’esito di ridurre il potenziale immersivo. De facto, interrompono il flusso narrativo, chiedendoci di prestare attenzione a un escamotage del tutto ridondante. L’unica cosa che ricordo di La leggenda di Beowulf, uno dei primi film in 3D, sono le lance scagliate dagli indigeni all’indirizzo degli spettatori. Dopo il terzo lancio, la routine diventa noiosa, anzi, fastidiosa. È come ascoltare la stessa barzelletta ad nauseam» (Thompson 2010, p. 86).

Speciale Kieslowski

Vincenzo Buccheri

alt«Il cinema è l’arte del vedere»: così sentenziava, in un indimenticato finale, la wendersiana proprietaria del cinema Wei e Wand. Truismo indiscutibile, certo, ma come tale tutt’altro che irrilevante al nostro scopo (al di là delle usurate diatribe sul vario ed eventuale specifico cinematografico).

Se il cinema è l’arte del vedere, dunque, ben vengano film come questo di Kieślowski, ch’è a un tempo piacere degli occhi e saggio sul vedere, vertigine visiva e teoresi sull’immagine e sullo spettatore (un po’ come tutti i film, insomma, obietteranno con ironia gli avversari dell’autoreferenzialità oggi così in voga: ma non lo diceva già Truffaut che ogni film porta con sé, inevitabilmente, una certa idea del cinema unitamente a una certa idea della vita?).
Qui si cercherà di mostrare come questo film rapinoso, sfuggente, misticheggiante, sia poi anche un acutissimo saggio sulla natura (duplice?) della “vera” immagine cinematografica e sul diverso (duplice?) atteggiamento dello spettatore di fronte a essa. Nella parte conclusiva, poi, si vedrà come l’intervento dell’autore nel finale, apparentemente risolutore, sia in effetti ben poco risolutore, anzi diciamo avventato e un poco semplificatorio, benché poi riassorbito nell’ultima (“Vera”) immagine del film.

Ilaria Floreano

altSe invitato a firmare un autografo, Zbigniew Preisner trasforma la coda dell’ultima “r” nell’incipit di una semicroma, cui ne accosta altre per poi racchiuderle tutte dentro un pentagramma. Mentre era impegnato a registrare la colonna sonora di Film Blu con l’orchestra Sinfonia Varsovia, il compositore nato a Bielsko-Biała il 20 maggio 1955 ricevette svariate visite della protagonista del film, Juliette Binoche, che si immerse tanto nel proprio personaggio di presunta compositrice da consigliare al maestro la sostituzione di un oboe con un clarinetto. Consiglio che, accantonata qualche perplessità, Preisner seguì, e poco conta che oltre vent’anni anni dopo, durante la presentazione di un libro dedicato a Kieslowski e al suo rapporto con la musica, Preisner smentisca l’aneddoto riportato da Ermanno Comuzio su «Cineforum» (n. 353/1996): si nasconde una piacevole levità in questo creatore di musiche che hanno una poderosità intensa da XIX secolo, le cui ultime produzioni cinematografiche sono per nientemeno che The Tree of Life di Terrence Malick e La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

Valentina Dell'Aquila

altForse davvero si consiste negli oggetti, in quegli strati che si utilizza, si rappresenta... Disporre della natura, portarla al suo paradosso, introdursi nel meccanismo incastrato di un’idea e lastricarla: il pensiero si deduce dal pensiero, dalla sua conseguenzialità ri-costruita (appunto a strati), dal contrasto col contingente. Il potere è nella sua intensificazione, nella realtà, nel suo interno. Ecco semmai il ruolo del reale (che poi è astrazione: reale forse come potere, nell’esterno del suo contagio o nell’esercizio di questo, produzione e riproduzione).

Cose viste

Michele Sardone

altNon si può descrivere tutto. Questo è il grosso problema del documentario. S’impiglia nella sua stessa trappola. [...] Se faccio un film sull’amore, non posso entrare nella stanza dove delle persone vere stanno facendo l’amore. [...] Per questo probabilmente iniziai a fare lungometraggi. Qui non ci sono problemi. Ho bisogno di una coppia per fare l’amore, a letto, la cerco. [...] Posso perfino comprare della glicerina, metterne alcune gocce negli occhi di un’attrice e lei piangerà. Sono riuscito a fotografare delle lacrime vere molte volte. È una cosa completamente diversa. Ho paura delle lacrime vere. Infatti non so se ho il diritto di fotografarle. [...] Ma adesso ho la glicerina. (Kieślowski in Žižek 2010, pp. 121-22)

Raffaele Cavalluzzi

altUna delle componenti della cifra interpretativa di Maps to the Stars (2014) di David Cronenberg (dal romanzo Dead Stars di Bruce Wagner) è il fuoco, il fuoco eterno dell’inferno, l’inferno di Hollywood cinica e corrotta, “una città orripilante”. Havana Segrand (l’eccellente Julianne Moore) è un’attrice che rischia ormai l’età del declino ed è marcia fino all’osso, marcia nei costumi, cinica, arrogante, sfrenatamente egoista nei comportamenti. La sorte vuole che la fase critica della sua carriera coincida con l’idea del remake di un famoso film già interpretato da sua madre trent’anni prima: dopo quel film – con scene che alludono, non a caso, a una vicenda manicomiale della protagonista – la madre di Havana morì in un incendio (l’inferno).

Matteo Marelli

alt«E ciò che io sono – e che per principio mi sfugge –
lo sono in mezzo al mondo,
in quanto il mondo mi sfugge»
(Jean-Paul Sarte, L’essere e il nulla)





Raffaele Cavalluzzi

altDomani, e poi domani, e poi domani / il tempo striscia un giorno dopo l’altro / a piccoli passi, fino all’estrema sillaba / del discorso assegnato, e i nostri ieri / saran tutti serviti / a rischiarar la via verso la morte / ai folli. Breve candela, spegniti! / La vita è solo un’ombra che cammina, / un povero attorello sussiegoso / che si dimena sopra un palcoscenico / per il tempo assegnato alla sua parte, / e poi di lui nessuno udirà più nulla: / è un racconto narrato da un idiota, / pieno di grida, strepiti, furori, / senza significato alcun!
(Macbeth, atto V, scena V)

Figura intera

Matteo Marelli

altSilvia, rimembri ancora / [...] quando [...] / tu, lieta e pensosa, il limitare / di gioventù salivi?


Era l’estate del 2007. Era Santarcangelo dei Teatri.
Per strada, verso la palestra dell’Istituto Tecnico Commerciale dove i Motus stanno per presentare il movimento primo di X(ics) Racconti crudeli della giovinezza, un corpo pallido, lungo e sottile, capelli corti e ossigenati, pattina allo sbando tra la gente. Distribuisce volantini con riprodotta la sua immagine incorniciata da due scritte:

«mi sto cercando»
«se anche tu ti sei perso contatta questo numero via sms...»

[cortocircuito]

UZAK 20/21 | autunno/inverno 2015

Lo stato delle cose

Luigi Abiusi

Pensando al meglio del cinema in questo 2015 (cosa utile, per non perdere tasselli essenziali di visibilio, di pragmatica) mi vengono in mente (anche) cose che tecnicamente non sono cinematografiche, ma che lo sono dialetticamente, come parte di quel reale spesso ingombro proprio di cinema e dei dibattiti intorno ai film, agli autori, addirittura il mercato; mentre faccio mia la credenza per cui le immagini perdono di senso se non sono urgenti, necessarie, e che esse lo sono solo se investono l'esperienza, il deambulare misero, minimo dei soggetti (che guardano), e li impregnano così con i loro odori al nitrato; i colori accesi da un simulacro di sole rosso all'orizzonte, i suoni distorti o raggricciati di un qualche dispositivo di registrazione, eppure così veritieri, brulicanti più della realtà stessa, nella loro ingenua, impudica falsità.

Pietro Masciullo

altOrigine

Un fascio di luce, un’immagine proiettata, un uomo discende un dirupo. E poi terra dalla quale riemerge un antico supporto, pellicola, immagine che sta per configurare una memoria. Altra proiezione si sovrappone, vertigine, indicando un “film in progress”: Balikbayan #1 di Kidlat Tahimik.


Gemma Adesso

alt«La certezza che ogni scoria
ogni malinconia
ogni male di vivere
si sono ridotti alla loro cenere».
Questo esigono e anch’io
«dalla disciplina della parola». Ma non è
e lo dimostro qui, solo questa la verità.



Matteo Marelli

alt«Pasolini e Fassbinder si assomigliano molto. Io li conoscevo bene ­­– ricorda il regista Daniel Schmid –, ma loro due non si sono mai incontrati. L’ultimo giorno di riprese di Schatten der Engel, Rainer è arrivato sul set piangendo, e ci ha detto che avevano assassinato Pier Paolo» (Fedrizzi 2002, p. 59). Successe quarant’anni fa, quando perdemmo «prima di tutto un poeta. E poeti – riprendendo l’orazione funebre di Moravia – non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo».

Michele Sardone

Guardando gli ultimi corti di Fabio Mazzola (da Piano Pi_no fino all’inedito da DO a DA, passando quindi per S_S e τοπίο, presentato all’ultimo “Filmmaker Festival”) sembra di assistere all’inverarsi di un’epifania, quel piccolo miracolo che è il manifestarsi di un autore. Senza voler mettere in secondo piano i lavori precedenti (tra i quali vanno ricordati almeno Natale Nazista e La faccia della maiala), si può dire che Mazzola negli ultimi due anni abbia trovato un’intuizione e ne abbia fatto uno stile da formare e seguire al tempo stesso, ossessivo e tenace come un filmmaker è chiamato a ricercare.

Cose viste

Valentina Dell'Aquila

C’è un mondo sconosciuto all’interno di quello noto, uno spazio invisibile, immacolato, dove l’astratto è senza confini e il perimetro senza dimore. Un regno di omogeneità superiore, proibito, in rivolta.
Si dice che il mondo sia ciò che questo pensa di noi di ritorno, e il pensiero, la coscienza di questo pensiero sia diffusa solo a un numero limitato di anime (e a sentir certi miti, alcuni corpi attendevano di essere riempiti da un’anima, da viscere di spirito).

altDue film di produzione statunitense (Boyhood e American Sniper) continuano a testimoniare la resistenza del realismo al cinema che una volta era chiamato di “consumo”.
Il primo, del regista Richard Linklater, è uno spaccato di american life girato in dodici anni sempre con gli stessi attori, e potrebbe apparire un racconto di formazione che segue la vicenda, dalla preadolescenza alla postadolescenza, di un giovane protagonista. Lui (Mason Evans) cresce in una famiglia della classe media, dall’era di Bush a quella di Obama, in Texas, che la sua tipicità la deriva da una madre (Olivia) che passa la trafila di tre matrimoni e di relativi nuclei familiari volta a volta allargati (inizialmente Mason ha solo una sorella, Samantha, più grande di lui di qualche anno), dalle vicissitudini della carriera di lei che tra non poche difficoltà approda all’insegnamento universitario e soprattutto dalle esperienze scolastiche e quelle della crescita in ambienti via via anch’essi diversificati, ma, tutto sommato, consueti, mai abbandonato – anche di fronte a violente discrepanze educative – da un carattere molto sensibile e alquanto introverso.

Editorie

altChe l’arco possa estendersi dai Lumière de L’innaffiatore innaffiato a Ciprì e Maresco è, per certi versi, secondario, parallelo. Non è infatti una storia del cinema comico, o non solo, e in fondo non potrebbe mai esserlo, perché il Comico al contempo precede il cinema e lo eccede, mostrandolo – probabilmente più di ogni altro genere, più di ogni forma, più di ogni sistema di segni – per quello che davvero è: un contenitore inadatto, fragile, insufficiente. Ontologia del corpo nel cinema comico di Alessandro Cappabianca, edito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, in questo senso è libro illuminante, è prima di tutto la scrittura, la messa in forma di questo dislivello, scrittura che non codifica (né decodifica) definitivamente il suo oggetto.
È, più in profondità, una sorta di radiografia sentimentale del Comico, di quell’universo, cioè, che può farsi rivelatore della «inconsistenza delle pretese del senso, in modo perfino più efficace di quanto possa fare l’elaborazione drammatica o tragica» (p. 11). Si verifica, e non è questione di poco conto, uno strano incontro con le pagine di questo volume: leggerle è un po’ come sostenerne la scrittura, il suo peso irreale, impossibile, o meglio ancora, è un po’ come riscriverle, reimmaginandone le domande stanti alla loro origine. Perché i corpi sanno anche essere fantasmi o possono rinascere o ancora diventare altro: il Comico è un luogo dove ciò può e sa avvenire.

Della serie

Luca Romano

altCosa sia il realismo magico, ancora oggi, come in realtà è tipico del post-moderno e di tutte le correnti non completamente esaurite nel tempo, non è esaustivamente definibile. Ci sono delle caratteristiche, delle definizioni che seppur parzialmente ne tracciano una struttura sulla quale si è costruito il lavoro di pittori, scrittori e anche registi. Una delle definizioni fondamentali potrebbe essere questa:

«Il realismo magico è definito come ciò che accade quando una situazione realistica e molto dettagliata è sconvolta da qualcosa impossibile da credere. C'è un motivo se il realismo magico è nato in Colombia.» (Narcos, s01 ep01)

Figura intera

Luca Pacilio

altLa rassegna “TorinoDanza” da anni sembra testimoniare del grande cambiamento in atto nel mondo coreutico, in una disciplina (sempre più indisciplinata…) che continua a ridisegnare i suoi territori, facendoli confinare con quelli del teatro, con la street art, con le arti visive e performative, in un ambito misto in cui tecnica, tradizione e libertà espressiva si confrontano proficuamente.

Matteo Marelli

altCominciamo dal titolo, risalendo alla sua origine: “eresia”, nel greco classico, significa «presa, scelta, elezione, inclinazione verso qualcuno o qualcosa» (Enciclopedia Treccani). Volendo potremmo quindi parafrasarlo così: scelta della felicità. A monte, dunque, di questa Creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij c’è un preciso atto di volontà, che è innanzitutto un atto dovuto nel momento in cui si decide di lavorare con corpi incolti, ovvero «bambini pieni di grazia – e – adolescenti sgraziati in bilico tra l’età dell’oro e l’età del grigio (per questo, forse, ancor più commoventi)» (Martinelli in Ponte Di Pino 2014, p. 9); perché toccherà a loro «strappare/la gioia/ai giorni futuri», malgrado «In questa vita – come il poeta ricorda nei versi dedicati A Sergèj Esènin –/non è difficile/morire./Vivere/è di gran lunga più difficile» (Majakovskij 2004, p. 127).

Armonie

Gianfranco Costantiello

alt

A metà degli anni Settanta, Lou Reed è una delle figure più eclettiche e irriverenti nel panorama musicale mondiale. Eppure la tormentata avventura con i Velvet Underground - un inanellamento di fiaschi commerciali con tanto di inevitabili dissapori che porteranno al prematuro scioglimento - non aveva fatto sperare nulla di buono. Piombato a Londra, si invaghisce della stravagante figura di David Bowie, appena di ritorno da un malinconico viaggio interstellare nei panni di Ziggy Stardust. È da questo incontro che nasce una delle pietre miliari del glam-rock e primo grande successo di Lou Reed: Transformer (1972). Ma l’improvvisa fama sembra schiacciare Lou, che teme di cristallizzarsi in un personaggio – quel Frankenstein del rock incerato nella copertina di Mick Rock – in cui, in fondo, non si riconosce. Così, prova a defilarsi con il suo lavoro più ambizioso e, probabilmente, anche il suo vertice artistico, Berlin (1973), che verrà però accolto freddamente da pubblico e critica. “Più faccio schifo e più vendo” confessa caustico e incredulo, appena un anno più tardi, all’uscita di Sally Can’t Dance. Album, quest'ultimo, rinnegato e che gli farà montare dentro un irriducibile disprezzo verso chi ai suoi concerti non fa altro che chiedergli Vicious e Walk on the Wild Side.

Speciale Sangue del mio sangue

Alessandro Cappabianca

alt«Avrò dunque sognato!»
(Rigoletto, atto II)

«E che cosa pensa della morte?» domandava l’intervistatore imbecille al regista ne La ricotta di Pasolini. Strano interrogativo, che arrivava all’improvviso, in mezzo a un profluvio di domande banali – e qui è il regista che si trova impreparato, rispondendo a sua volta con una banalità, sia pure filosofica: «Come marxista, è un fatto che non prendo in considerazione».

alt

Sangue del mio sangue, sin dal titolo, è un film che esibisce una struttura simmetrica: la stessa parola, “Sangue”, collocata all’inizio e alla fine delle quattro parole complessive che, a coppia, presentano sempre lo stesso numero di lettere (quelle centrali, “del” e “mio”, che indicano ciascuna il possesso, infatti sono di tre); due vicende parallele; due epoche; due tempi (in senso cinematografico, un primo e un secondo tempo); due paradigmi interpretativi, uno che rilegge il passato attraverso il presente, l’altro che rilegge il presente attraverso il passato.

Massimo Causo

altLa pesantezza del corpo, o meglio la sua gravità, il suo essere parte del Tempo, della Storia, incardinato nelle pietre, nei luoghi e nelle loro ombre, nei silenzi che scolorano tra il presente, qui ed ora, e l’arcana arcaicità dei gesti. Nel cinema di Marco Bellocchio la fisicità dell’essere è il richiamo indistinto di una morale deviata dell’esistere, una sorta di contraddizione rispetto all’ontologia di quel divenire quotidiano che è funzionale alla risposta di una morale storicizzata e dunque acquisita. Il corpo in Bellocchio sta tra l’astrazione ipotetica di una crisalide che giace immota, la furba sfuggevolezza della farfalla che irride la forza di gravità della sua stessa leggerezza, e la greve e immota definizione della carcassa, che giace nel suo grido ammutolito.

Andrea Bruni

alt«In tombe d’oro e di lapislazzuli
Corpi di sante e di santi trasudano
Olio miracoloso, profumo di viole.
Ma sono gravi masse d’argilla calpestata
Gonfi di sangue giacciono i corpi dei vampiri:
Con sudori di sangue e con le labbra umide»
(William Butler Yeats)

 

altNel cinema di Bellocchio la temporalità si contrae, più che nella successione di prima e dopo, nella dialettica ambigua di dentro e fuori, al di qua e al di là di tempi e spazi che ininterrottamente si piegano l’uno sull’altro. Sangue del mio sangue si sviluppa attraverso moltiplicazioni e sdoppiamenti che sfuggono alla definizione di un tempo specifico e di uno spazio preciso: nel paesaggio familiare e perturbante, un passato inesauribile si contorce su l’ipotesi di un futuro che svela tracce d'anteriore, come testimonia, del resto, la severa somiglianza tra Pier Giorgio e Alberto, rispettivamente figlio e fratello, ambedue doppi obliqui, del regista.

Speciale The walk

Luigi Abiusi

altA quest’ultima mimica affida, sdentato e radioso, l’intera sua baldanza di esistere, la sua fiducia di sospendere, non fosse che per un minuto, il destino di decrepitudine e morte che già gli lavora dentro e lo invecchia, invisibilmente, in ogni cellula e fibra. (G. Bufalino, Calende greche)

Vanna Carlucci

Parafrasando Berger, l'uomo che guarda è costantemente soggetto ad una tentazione, a quell’attrazione che lo porta a provare il sentimento di una caduta, di immaginare, di concepire l’altezza da cui l’evento accade. Il filo teso è il taglio netto, orizzonte che separa i due mondi e tra un lassù e un quaggiù qualcosa si compie.

Michele Sardone

alt«Oriente e occidente sono tratti di gesso che qualcuno disegna davanti ai nostri occhi per beffarsi della nostra pavidità»
(Nietzsche, Schopenhauer come educatore)


C’è un’immagine che rende il senso di sbigottimento e di impotenza dinanzi agli attentati del 13 novembre a Parigi, quella ritraente gli spettatori dello Stade de France scesi in campo, nella più straniante invasione che si ricordi, e rimasti in piedi sul prato verde. Si potrebbe scommettere che se l’immagine fosse in movimento, i cambiamenti sarebbero impercettibili: il senso di immobilità, di quell’immobilità che può dare solo il terrore, pervade tutto il frame.

UZAK 19 | estate 2015

Lo stato delle cose


I dibattiti tenutisi alla Pescheria del “Festival di Pesaro” intorno all’odierna critica cinematografica e alla connotazione di novità del cinema contemporaneo, indicano un’azione (o almeno un tentativo) di rassodamento dei territori di fruizione critica del cinema (nel tempo in cui sono scomparse dalle colture, le radici, i tuberi, mentre trionfano i frutti pompati che si rivelano privi di succo, posti in cellophane sugli scaffali dei supermercati), fuori dall’egida del giudizio e dall’ingenuità e insipienza che spesso ne derivano. Si tratterebbe non di una “sospensione del giudizio” ma proprio di un annullamento del giudizio: critica come annullamento del giudizio, della gnome, in favore dell’emersione dell’enunciato (degli enunciati, anche in contraddizione).


altEsistono riviste di scritture e riviste di discorsi: le prime si fondano sulla firma dell’autore indipendentemente dal tema, le seconde sulla costruzione del discorso indipendentemente dall’autore. Un modello per le riviste di “scritture” è Roland Barthes, per quelle di “discorsi” Michel Foucault.
Una rivista esiste nel gesto tracciato dal suo atto di fondazione, che viene ripreso in ogni nuovo numero, se la rivista è vitale. «Fata Morgana» ha tracciato fin dall’inizio (è nata nel 2006) il suo gesto, segnando e costruendo un nuovo campo discorsivo, definito dal rapporto fra immagini in movimento e concetti. Questi ultimi, ripresi dall’urgenza del presente, non derivano direttamente dal cinema né dall’estetica, ma dalla vita e dalle sue forme. Da L’immagine-movimento e L’immagine-tempo di Deleuze, il cinema non è più la messa in forma estetica del reale, ma è sia direttamente sia analogicamente la configurazione sensibile del mondo. E dunque pensare il cinema significa in un certo senso starne continuamente fuori (stare nel mondo) per meglio rimanerne dentro, per comprenderlo nella sua centralità inalienabile nel dare forma alla nostra esperienza.


altI grandi massacri, l’eliminazione di intere etnie, gli stermini di massa, sempre esistiti, si incontrano nel Novecento da un lato con il vertiginoso potenziamento dei mezzi tecnologici più adatti alla bisogna, dall’altro con la necessità di tener conto dell’esistenza di strumenti di testimonianza (fotografia, cinema ecc.) possibilmente da evitare.
Lo Sterminio è diventato dunque qualcosa come l’ombra, il tarlo, il lato oscuro e nascosto della Civilizzazione. Come tale, da un lato deve essere occultato, effettuato in segreto e, una volta compito, consegnato all’oblio, sottraendolo a ogni tentativo di serbarne memoria o testimonianza - dall’altro, però, può essere enfatizzato, rivendicato come opera meritoria, di sostanziale giustizia, della quale fa parte una dose imprescindibile di spietatezza. I nemici, veri o presunti, sono comunque da intimidire, da rendere inoffensivi anche con la paura.


altAl cinema d’archivio, Antonio Bigini, 35 anni, ci è arrivato un po’ per caso, grazie alla casa di produzione Kiné in sodalizio con Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia. È venuta allora la scrittura del soggetto di Anita (2012), diretto da Luca Magi e ispirato al trattamento inedito di Viaggio con Anita, film mancato di Fellini, pensato e scritto con Tullio Pinelli e l’apporto di Pasolini nel 1957, portato poi sullo schermo da Monicelli vent’anni dopo (qualcosa però di molto diverso rispetto all’idea iniziale, si lamentava Fellini). Per Bigini sono arrivati poi Formato Ridotto (2012), regia condivisa con Claudio Giapponesi e Paolo Simoni (su testi di Cavazzoni, Enrico Brizzi, Emidio Clementi, Ugo Cornia e Wu Ming), e la scrittura di Vacanze al Mare (2013) al fianco di Ermanno Cavazzoni che lo ha diretto.


altLa visione è un meccanismo? Con quale occhio crediamo di guardare, quale mondo è alla nostra altezza visiva? Se se ne percepisce il funzionamento, è forse possibile riconsiderare il valore del tempo, la sua azione lenta o accellerata sulle cose?
Partiamo dal punto di vista a noi più prossimo, quello del corpo.





Cose viste

Un equivoco condiziona l’assimilazione di Whiplash, come se il film fosse incentrato sulla musica, sul jazz (che invece è il pretesto audio-video dello svolgimento testuale, cioè un sistema tattile, contundente, fatto di cieco attrito), concentrato sull’ipostasi d’improvvisazione alla base del jazz, che sarebbe stata tradita da un palinsesto invece puntuale, quadrante. Ma il film affronta, forse anche malgrado le intenzioni di Chazelle (e secondo un fertile, lacaniano assoggettamento del soggetto), la sfasatura tra i vedenti, e tra il visto e il visibile (tra dura, puntuta, appunto quadrata refrattarietà e cose a venire, l’avvenire di Derrida, un qualche visibilio), come ipotesi di incontro (quindi politico), di allineamento, che, se verificato, crea l’enunciato, un essere al mondo come sintonia.

altAnime nere di Francesco Munzi (dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco) è una tragedia dai caratteri ancestrali per i luoghi e i riti evocati, i personaggi, i gesti e l’antropologia morale e familiare che la connotano, nel contesto del crimine, fermo nel tempo della società calabrese (la ’ndrangheta), a travolgere vittime e a consolidare nefasti legami.

In Mad Max: Fury Road non esistono traiettorie sicure, ma si cavalca col volante in mano evadendo da una forma di prigionia degli occhi. C’è il desiderio di soddisfare la sete di vedere ancora dentro luoghi desertici che sono i tanti territori del cinema, distese di nulla che smuovono continuamente la propria superficie granulosa, rompendo gli orli, sfalsando prospettive e coordinate per proiettarci in un viaggio allucinato, cioè nel cinema.

altIvan, il tecnico responsabile della costruzione di un gigantesco grattacielo nella grande periferia londinese, alle otto di sera lascia il cantiere e, in macchina, si dirige non a casa, dove l’attendono euforici i due figli adolescenti e la moglie per il rito familiare di un’importante partita di calcio in TV. Il film, Locke (scritto e diretto da Steven Knight, acuto sceneggiatore tra gli altri di Frears e Cronenberg, al suo secondo lungometraggio presentato fuori concorso a Venezia nel 2013), si svolge interamente nell’ora e mezza di viaggio, e tutto dentro l’auto, tramite i dialoghi telefonici in viva voce tra Ivan e gli altri personaggi del racconto.

alt

Ché l cuore Questo non mi spinge questo
[...] ché l cuore Questo non mi spinge...

(Carmelo Bene)

 


 

 

 

 

Della serie

Michele Sardone

Si dice che un’opera, per dirsi postmoderna, debba contenere in sé una riflessione sulla propria forma espressiva: un film deve riflettere sulla forma-cinema, un romanzo su cosa sia la narrazione, il teatro sulla rappresentazione e così via. Non ci interessa ora definire Vince Gilligan come autore postmoderno delle serie TV, ma possiamo dire che nei suoi lavori c’è, se non una riflessione, quantomeno un riferimento esplicito alle tecniche narrative della serialità.

Armonie

Luigi Abiusi

alt

«[...] Una lucertola attraversò il mio occhio ed entrò nel bosco. Si dice che la lucertola entrò nelle foglie, che fogliò».
(Manoel De Barros)











UZAK 18 | primavera 2015

Lo stato delle cose

Luigi Abiusi

altSenza retorica: ma è cominciato il primo festival di Cannes della storia senza la presenza, sia pure latente, di Manoel De Oliveira. Non dirò nulla di economia cinematografica (e letteraria, filosofica) di questa scomparsa, appunto evitando il risaputo, e perché altri ne parlano in questo numero di Uzak, come sempre fitto di cose: su alcuni dei registi che più ci piacciono (Martin, Larrain, Frammartino, Soderbergh), su altri sempre controversi (Seidl, Haneke), tutto uno speciale dedicato a un film importante, tra i più importanti dell'anno, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson; e appunto una sezione rivolta a De Oliveira, che non può che straripare, anche rispetto al "genere", vista la forma ibrida, tra saggio e poema, usata da Bruno Roberti, già autore di un libro splendido Manoel De Oliveira. Il visibile dell'invisibile uscito appena un anno fa; e gli altri due articoli a firma di Cappabianca e Bruni, che riescono a delineare un profilo d'altronde irriducibile. Poi le interviste agli autori ospitati nella quarta edizione di "Registi fuori dagli sche(r)mi", tra maestri e talenti emergenti, poliedrici, come la Klotz, della quale attendiamo il nuovo film prodotto da Jacque Audiard.

Bruno Roberti

Uno

La Valle delle origini o le ali che sbucano dal terreno: acque superiori e inferiori, un cinema elementale. «Ema torna all’acqua perché viene dall’acqua. La sua morte è come una rinascita. Ecco perché è così gioiosa. Con l’acqua, la vita può continuare. Mi piace il suo rapporto istintivo con la natura, il biologico, l’animalità. Lei trascende costantemente la realtà, invece gli uomini non hanno ali.» (de Oliveira a proposito di Vale Abraão)

Alessandro Cappabianca

altPiù che viaggiatore di terra (magari in treno: Singolarità di una ragazza bionda; o in auto: Viaggio all’inizio del mondo), de Oliveira, come pellegrino della memoria, sembra essere stato specialmente un regista-navigante, in armonia con il suo imprinting portoghese (enigma di Cristoforo Colombo: era davvero nato a Genova?) – quando non riteneva, ovviamente, come nel Quinto impero, di limitarsi per tutto un film ai pochi metri quadrati d’un palcoscenico, sul quale cogliere i movimenti più impercettibili degli attori e della mdp, a partire da una condizione di frontalità d’ascendenza teatrale. Allora re Sebastiao ci viene mostrato nel suo castello, prima della folle impresa africana, preda di dubbi e incertezze, avversato dalla maggior parte della Corte, beffeggiato dai giullari – e tutto questo dopo che l’impresa (la disfatta) africana era già stata mostrata in NON.

Andrea Bruni


alt«Ci sono moltissimi uomini che sono più infelici di te: questo non ti dà un tetto sotto al quale abitare, d’accordo, ma la frase è sufficiente perché ci si possa trovare riparo durante un temporale»
(Georg Christoph Lichtenberg)

«Ad una domanda circa le sue impressioni sul cinema, Kafka rispose: “È rapido. Pa! Pa! Pa! Pa! Pa!”. Per lui non c’era tempo per pensare a quel che accadeva. Per quello sono arrivato a fare un altro tipo di cinema, un po’ più ragionato, interiore, profondo..
(Manoel de Oliveira)

 

Daniele Dottorini

altIl lavoro del film. La frase sembra semplice ma è in realtà ricca di sfumature che offrono straordinari spunti ad ogni operazione critica, soprattutto laddove ci si voglia liberare da una applicazione stantia e meccanica della politica degli autori. Il lavoro del film si mostra entrando nelle pieghe di un’operazione creativa che a volte si colloca a lato di un film, o che non è necessariamente legata al farsi del film stesso. È questo il senso di un’officina particolare che è o può essere un laboratorio filmico. Pensare al cinema come un’officina, un lavoro del film che è anzitutto materiale, il lavoro delle immagini.

Pietro Masciullo

altIl passato – le immagini trasmesse dalle generazioni che ci hanno preceduto –
che sembrava in sé conchiuso e inaccessibile,
si rimette, per noi, in movimento, ridiventa possibile.
(Giorgio Agamben)






Stefano Casi

altCi sono molte parole nel teatro di Elfriede Jelinek. Un’ipertrofia verbale che diventa ipertrofia visionaria e rispecchia l’atrofia della moderna società borghese. Un convegno a Bologna si è addentrato, per la prima volta in Italia, nel labirinto testuale della scrittrice austriaca, con studiosi, traduttori e artisti. È stato un vero happening, che ha scandito con la riflessione e il confronto il “Festival Focus Jelinek”, ideato e diretto da Elena Di Gioia, in corso in tutta l’Emilia Romagna fino al prossimo marzo.

Cose viste

Alberto Libera

altPer Aristotele il concetto di mimesis – inteso come impulso a riprodurre – caratterizza l’uomo. Per Ricoeur, la mimesi è contemporaneamente strumento di comprensione, configurazione e infine ri-creazione.
Una peculiare tipologia di mimesi archeologica è il substrato da cui origina Inherent Vice, tanto nelle pagine di Thomas Pynchon quanto attraverso lo scorrere dei fotogrammi dell’omonima trasposizione di Paul Thomas Anderson.

Nicola Curzio

alt«Il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato» (William Faulkner, Requiem per una monaca)

«Il ricordo di una certa immagine non è che la nostalgia di un certo istante» (Marcel Proust, Dalla parte di Swann)


Matteo Marelli

alt

In un paese dove la meraviglia è vanto
Dove sognando passano i giorni ma non l'incanto
Dove sognando muoion le estati e il loro manto.

(Lewis Carroll)







Raffaele Cavalluzzi

altA pensarci bene, non dovrebbe essere una sorpresa quella del Grande Gatsby di Baz Luhrmann: lo sfrenato automanierismo del regista australiano, dopo l’apice straordinario raggiunto con Romeo + Giulietta di William Shakespeare, e divenuto regola con Moulin Rouge, ora torna a confermarsi con quest’ultimo film trasposto dal capolavoro di F. Scott Fitzgerald. Tuttavia le cose non filano così lisce e prevedibili, perché, a sovradimensionarsi, rispetto al plot originale, qui vi è un senso che riguarda direttamente l’identità poetica affidata al suo romanzo dal geniale scrittore americano, ma che rivela, paradossalmente, anche il profilo profondo della “maniera” luhrmanniana: la scrittura filmico(-letteraria) come “grande falso”.

Roberto Chiesi 

altL'assassinio di Pasolini - una tragedia finora rimasta senza soluzione e al tempo stesso emblematica per la sua stessa oscura enigmaticità - com'è noto è stato un evento determinante nell'imprimere definitivamente i crismi del mito alla figura, alla vita e alla storia dello scrittore-regista. Oggi, a quasi quarant'anni dalla sua scomparsa, Pasolini (la sua figura e la sua opera) è al tempo stesso un mito romanzesco, ossia un personaggio da romanzo, e l'autore di un'opera immensa, che viene studiata da tutte le angolazioni perché centrale e imprescindibile nella cultura italiana dell'ultimo secolo.

Raffaele Cavalluzzi


altIn qualche modo, nella filmografia di Margarethe von Trotta, si alternano opere di forte intensità ideologica e opere di altrettanta densità esistenziale. In Hannah Arendt, il film dedicato alla grande filosofa tedesca allieva di Martin Heidegger, le due tendenze sembrano concentrarsi in un unico punto di focalizzazione. Ciò nondimeno è opportuna, preliminarmente all’analisi del rigore estetico assunto dalla tensione etico-intellettuale della pellicola, qualche – necessariamente succinta – considerazione sul contenuto.

Editorie


altÈ difficile cercare di raccontare il binomio RezzaMastrella (Antonio Rezza/Flavia Mastrella). La girandola di definizioni, pur ingrandendo la propria rosa, continua a mancare questo Giano Bifronte della scena spettacolare, che in ogni sua espressione porta avanti una rigorosa destrutturazione delle forme (teatrale, cinematografica, televisiva, letteraria): l’esistenza della regola per RezzaMastrella significa la possibilità di scoprire nuove prospettive da aberrare. L’approccio esegetico, tormentato dalla lentezza e dalla gravità argomentativa, poco si adatta ad inquadrare il loro rappresentare latitante e performativo, febbrile e volutamente frammentario, che «rinuncia al filo del discorso, che poi è lo stesso filo che ti strozza» (p. 78)1.





altDal video di Frozen, ad attirare i poli Chris Cunningham (videomaker radicalissimo) e Madonna (corpo, icona, star), a Mirrors di Floria Sigismondi per Justin Timberlake; dal «pionieristico lavoro di Vincent Morisset su Neon Bible (2008) degli Arcade Fire, considerato il primo video musicale interattivo della Storia» (Pacilio 2014, p. 33), fino all’Hype Williams di Stupid Hoe per Nicki Minaj e al Xavier Dolan di College Boy per Indochine. Immagini, suoni, invenzioni, sperimentazioni, realismi, deformazioni.

L’AG Rojas di Hey Jane per Spiritualized e il duo DANIELS di Simple Math per Manchester Orchestra, il collettivo Megaforce di The Greeks per Is Tropical e CANADA di Ice Cream per Battles feat. Matias Aguayo; l’Harmony Korine di Living Proof per Cat Power e il Gaspar Noé di Love in Motion per SebastiAn. Dall’arte fondamentale, rivoluzionaria e irraggiungibile di Michel Gondry, «il più grande videomaker di sempre» (ivi, p. 40) a Romain Gavras, «regista di clip più importante di questi ultimi anni» (ivi, p. 132) e al suo Bad Girls per M.I.A., «miglior video a oggi del terzo millennio» (ivi, p. 182); il Jonathan Glazer di A Song for The Lovers per Richard Ashcroft e lo splendido Garth Jennings di Imitation of Life per i R.E.M. fino al successo planetario da miliardi di visualizzazioni su YouTube (videoclip diretto da Cho Soo-hyun) del brano Gangnam Style di Psy.

Della serie

Luca Romano

altAll’incirca nel 1839, in Francia, viene presentato per la prima volta il dagherrotipo. L’ambizione, il sogno, è di riuscire a catturare la realtà, di fermare l’attimo bellissimo. Il risultato dei primi lavori è, però, ancora scuro, la luce si ferma e si impressiona sulle lastre, ma bisogna star attenti a non inserire scritte, perché nei primi dagherrotipi l’immagine era specchiata. L’attimo fatto di luce si ferma e diventa immortale. Abbiamo ancora, ad oggi, uno dei primi dagherrotipi, forse il più famoso per via dell’autore: Edgar Allan Poe. Il futuro è la fotografia, il cinema, il movimento, fermare l’attimo, fermare gli attimi, i minuti, le ore.

Luigi Abiusi

alt
«[…] Vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte […]»
(J.L. Borges, L’Aleph)






Vincenzo Martino

«Forse noi […] siamo solo miliardi di calcoli nel rene di un corpacciuto animale, la sua colica senza fine, i quagli petrosi del suo difficoltoso smisurato emuntorio; e galleggiamo cosi nell’etere e piscio che gli si impantana per tutti i meati e lo fa gloriosamente ululare di dolore nel silenzio degli spazi eterni.» (Bufalino 2012, p. 14)

Michele Sardone

Balázs racconta il caso, accaduto nei primi anni del Novecento, di una ragazza che non era mai andata al cinema e che, all’uscita dal suo primo film, descrisse, ancora pallidissima e turbata, la sua visione così: «Orribile: ho visto uomini fatti a pezzi; la testa, i piedi, le mani, un pezzo qui un pezzo là, in luoghi diversi» (Balázs 2002, p. 25).

UZAK 16/17 | autunno/inverno 2014

Lo stato delle cose

Cosa inaspettata, è uscito l'ultimo Godard in Italia (in pochissime sale, tanto che con Uzak ce la siamo creata l'occasione di vederlo, il 15 dicembre 2014, in 3D: pubblico inaspettatamente numeroso venuto da città lontane, esotiche, inesistenti...), con tutto il corollario di aberrazioni che il film s'è portato appresso, nonostante sia un film che faccia la storia (non solo del cinema) o forse le storie, les histoires du cinema: un ingiustificato 2D, visione anodina e filologicamente (filosoficamente) errata, e addirittura la versione streaming; cioè merda-in-pixel spicciata sui monitor di una cinefilia sedentaria, collezionista compulsiva di film, di edizioni, storie come feticci, souvenir d'italie; come non fossero intrinsecamente coinvolte, queste storie (ma ne basterebbe una, definitiva, un solo film tarkovskiano o godardiano o ericiano da vedere e rivedere inserendolo nella propria giornata, per chiedersi fino a che punto lo si possa tradire, non certo il film, quanto quel grumo dialettico pulsante e rutilante nel tempo, quella sintesi universale di cui l'opera sarebbe, sempre, semplice strumento), nel contingente refrattario eppure cadente, nel sanguinoso progresso, regresso delle cose.

altIl primo consiglio di Martin Scorsese a Willem Dafoe ai tempi de L’ultima tentazione di Cristo – “Vedi Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini” – non anteponeva alla recitazione questioni stilistiche, ma probabilmente cercava di saltare a piè pari il rischio dell’illustrazione, e si sforzava di concentrare la Storia nell’intensità irraccontabile di una sbavatura minima dello sguardo, una distrazione infinitesimale che però diventasse testimonianza del rimosso universale (spesso, nel racconto della vita di un poeta, si crede di dover fare il resoconto di un mistero, scambiando appunto la didattica con l’illustrazione, e ci si dimentica di filmare proprio questo impercettibile spostamento dell’occhio, cioè si rinuncia a illuminare tutte le successive incarnazioni del mistero stesso, troppo complesse e fulminee, e davvero circolanti a una profondità inaccessibile dell’inconscio, che riguardano il rapporto fra il corpo del poeta e il corpo della parola). Scorsese indirizzava dunque Dafoe verso la possibile incarnazione di uno spazio fisico puro, cioè verso il luogo misteriosamente fragile e pericolante (dove spesso fragilità si maschera di potenza) che siamo soliti chiamare cinema.

altNel rivederlo, Pasolini di Abel Ferrara mi fa ancora l’effetto d’un film oscuro e sgradevole, tra l’altro inadeguato sul piano produttivo. E tuttavia, l’operazione da cui nasce continua a sembrarmi importante, direi fondamentale, non tanto per “capire” Pasolini come intellettuale e poeta, quanto per la disorganica coerenza (si, una contraddizione in termini) con la quale ci conduce passo passo verso l’inesorabile, ossia verso l’orrore dell’annientamento d’un corpo vivente.

Pasolini di Abel Ferrara, o i Pasolini di Ferrara, è un esempio eclatante di film proteiforme: prospetta almeno due versioni del poeta e del suo corollario di materia letterario-cinematografica. La prima, quella proiettata al Festival di Venezia (e circolata per niente nelle sale), con la sua complessa architettura linguistica, che mostra un personaggio enigmatico, più chiuso dentro le sue elucubrazioni e i suoi enunciati anglofoni (con sprazzi improvvisi d'italiano); la seconda molto più corrispondente all'agiografia pasoliniana sedimentatasi almeno dal '75 a oggi, che segue il poeta nella sua presenza “mimetica” (perfettamente parlata, da Gifuni) dentro una Roma riconoscibile (e perciò come rassicurante, nonostante la violenza che vi regna), molto diversa da quella allucinata ed estranea della prima versione, allucinata per confusione di lingua ovviamente: anche se l'impressione è di assistere proprio a un altro film, a un altro, diverso approccio iconico.

altCirca due anni fa, a Bari, durante la seconda edizione di Registi fuori dagli scheRmi, la nostra redazione ebbe modo di conoscere personalmente Shinya Tsukamoto. Il suo aspetto, come il suo porgersi, calmo e gentile, infondevano un senso di tranquillità e pace a chi gli stava intorno; in certi momenti si arrivava quasi a dubitare che potesse essere lui l’autore di opere radicali come Tetsuo, Tokyo Fist o Nightmare Detective. Da sempre, infatti, Tsukamoto ci ha abituato a immagini incandescenti e violente, a suoni metallici e stridenti; egli ha sviluppato negli anni una poetica rivoluzionaria e uno sguardo inimitabile, portando avanti un’indagine estrema sul corpo umano, convinto che solo attraverso quest’ultimo si possa arrivare a ritrarre lo spirito. Il suo è un cinema ibrido, polimorfo, che sotto una pelle cyberpunk nasconde una carne profondamente umanista, incentrato com’è sull’eterno conflitto cultura/natura: la cultura del metallo, la natura dell’uomo.

altIntro

Il pomeriggio in cui intervistammo Michel Houellebecq a Venezia in occasione della presentazione di Near Death Experience.
Lui completamente assente guardava il bordo del tavolo davanti a sé. Le domande sembravano scivolare verso i due registi seduti al suo fianco. Le dita gialle di fumo e i capelli consumati come il cappotto grigio/nero che indossava nonostante il caldo. Sorrideva di tanto in tanto, durante le brevi risposte, spesso monosillabiche, alle domande rivolte. Il tono di voce era bassissimo. La traduttrice dovette spostarsi per avvicinarsi un po', senza farsi vedere. Il timore che i registratori non riuscissero a catturare quei sibili.

alt(Versione originale)

L’Hotel Belvedere si erge fiero ed elegante sulle prime alture del promontorio di Locarno. Ai suoi piedi, un groviglio di strade e vicoli stretti si dirama fino alla Piazza Grande, dove in agosto, durante il Festival del film, un enorme schermo rettangolare viene issato per consentire ad abitanti e visitatori di godere di esotiche visioni sotto le stelle. Se si è abbastanza fortunati, quando il cielo è sgombro da nuvole, i riflessi della luce del sole sulla superficie piatta e cristallina del Lago Maggiore arrivano fin lassù e la vista del paesaggio circostante è davvero magnifica. La mattina in cui incontrai Alex Ross Perry era uno di quei giorni; la nebbia della sera prima si era dileguata chissà dove e aveva lasciato il posto a un’aria tersa e pulita.

alt

«Mi sono convinto a fare questo film senza ancora avere una storia, ma avendo uno spazio, un luogo: era il 1991, dovevamo girare una puntata di un programma televisivo che facevamo a quei tempi e passammo tutta la notte nel Mercado 4. Ne fui letteralmente affascinato e pensai che fosse una location perfetta per un film, specie di notte, quando è chiuso. Così ho iniziato a visitarlo sempre più spesso, scoprendo infine la figura del caretillero, un personaggio emblematico perché si trova solo lì e in nessun altro luogo, una sorta di “uomo di fatica” (ma anche donne e ragazzini) che trasporta, carica e scarica merci di ogni tipo, ed è vedendo uno di loro che portava delle grosse casse sulla propria carretilla, che mi è venuto in mente di creare una storia su quale potesse esserne il misterioso contenuto».


Nell’articolo (qui la versione originale) ci si interroga circa l’essenziale rapporto tra lo spazio e l’altro a partire dal corpo, ma un corpo speciale, somatico, di presenza e, in particolar modo di presenza nell’immagine. Ci si domanda: com’è possibile l’altro in questo o quel corpo spaziale. Come si spiega l’altro nel corpo simpliciter, eppure imponente all’interno dell’immagine filmica? In sostanza, com’è possibile un altro come Altro nel corpo dell’immagine del cinema? A tal proposito si riesaminano alcune categorie zubiriane, heideggeriane, deleuziane circa lo spazio e il corpo. Con - e a volte contro - queste si pensa ad un modo diverso di concepire il corpo ed è nel Cinema, specialmente nel cinema di Tarkovsky, che si rende possibile un qualcosa di essenziale al tempo della comprensione dell’altro nel suo corpo.


altSono già passati vent’anni dalla morte (prematura) di Derek Jarman e il cinema europeo non ha ancora del tutto assimilato la sua lezione, che resta un unicum per sfrontatezza, energia, slancio visivo. Di fronte a una produzione tanto eclettica – sia sul piano stilistico che su quello tematico – è difficile pronunciare giudizi definitivi, individuare categorie, applicare filtri: Jarman ha saputo ‘bruciare’ l’immaginario della sua generazione dando fuoco alle pulsioni più autentiche (il sesso, la poesia, l’arte), incendiando lo sguardo degli spettatori attraverso una serie di opere fuori misura, capaci di scandalizzare innanzitutto per la messa in quadro di formati diversi e per la convergenza di supporti non canonici1. Super 8, videoclip, tableaux vivants, I-movie, lyric film sono solo alcune delle chiavi d’accesso a un orizzonte di senso stratificato e in progress, di cui oggi rimane lo scintillio di un catalogo vietato ai puristi d’ogni sorta, e consigliato invece a chi ama le ibridazioni.

«Attraverso i piccoli buchi della maschera 
non vedevo niente, tranne che molto lontano e molto vicino […]
Il mio sguardo si posava su oggetti inerti e liberi
una finestra, una sporgenza, un angolo di cielo»
(Roland Barthes)

Definiremo la maschera come un dispositivo che provoca un’alterazione sintomale, meglio, una organizzazione seconda dei tratti del volto, necessaria per compiere un’operazione posta sotto il segno del segreto e del pericolo; per il tempo che viene indossata rende colui che ne fa uso un altro uomo, essere, entità.

alt«Tutto, dice Pavese, accade nel tempo […] ma l’accadere non ha senso per noi se non a partire dalla sospensione del tempo stesso».
(Sergio Givone, Introduzione a Dialoghi con Leucò)




Complice forse la recente visione dell’operaia Marion Cotillard, splendida figura dardenniana fra le strade di Due giorni, una notte, fa un certo effetto rivedere a distanza di anni  Risorse umane. Un film, quello di Laurent Cantet, che secondo il Dizionario Morandini è «raro esempio di cinema sul mondo operaio che entra dentro la fabbrica industriale: “si focalizza in un luogo che definisce, nomina il nostro tempo…” (Pietro Ingrao)» (p. 1224, 2006). Un altro “interno” prima dei banchi di scuola di La classe – Entre les murs, un “dentro” che è il lato B di Due giorni, una notte, lo spazio quasi interamente negato nell’ultima opera dei Dardenne. Ma rivedere oggi Risorse Umane fa un certo effetto non solo perché quel  «nostro tempo» sembra essersi cristallizzato, non solo  perché riesce a dire, limpidamente, del nostro (così lungo che pare eterno) momento storico.

alt«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così, come un pappagallo, ma che forse ne soffre, e lo fa soltanto perché pietosamente si inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico» (Pirandello 1994, p. 116).

altIn nessun dove, amata, ci sarà mai mondo se non in noi. (…) La nostra vita scorre trasmutando. E quel ch’è fuori di noi svanisce in forme sempre più meschine. Dove c’era una volta una solida casa ecco un’escogitazione tutta di sghimbescio, una creazione della mente soltanto, come se stesse tutta ancora nel cervello. Lo spirito del tempo si crea vasti sili di forza, informi, come l’incalzante tensione ch’esso da ogni cosa desume. Templi non ne conosce più.
(Elegie duinesi, R. M. Rilke)

Cose viste

Michele Sardone

Tra le potenzialità dell'immagine, una delle più affascinanti è l'illusione che ci dà di poter dominare il tempo, fino a farci credere di poter sublimare (se non vincere) la morte: l'antica maschera mortuaria avrebbe avuto anche questo scopo, ovvero ricondurre alla vita il soggetto rappresentato riproducendone l'apparenza attraverso il calco del suo volto.


Gemma Adesso

altQui me ne stavo e attendevo, nulla attendevo,
al di là del bene e del male, or della luce
godendo, or dell’ombra, tutto semplice gioco,
e mare e meriggio, tutto tempo senza meta.

E d’improvviso, amica! Ecco che l’Uno divenne Due –
- e Zarathustra mi passò vicino…

(Sils-Maria, Nietzsche)

Diego Mondella

«La verità è indivisibile, non può dunque conoscere se stessa;
chi vuole conoscerla deve essere menzogna».
(F. Kafka)

Che cos'è più inquietante, lo sguardo fuoricampo del giovane Ryan nel finale di The Canyons o quello rivolto in macchina dall'algida Rosamund Pike in Gone Girl? Ci verrebbe da dire entrambi. Il primo è perso nel vuoto più assoluto, mentre il secondo pur conscio della sua seducente fissità di maschera nasconde il nulla. Perché il soggetto di quello sguardo non prova nulla. Ambedue queste immagini rappresentano la spia di un disagio della nostra contemporaneità, di un individualismo malato, smarrito nelle pieghe della crisi economica tra violente nevrosi e stati di anestesia. Si è disposti a tutto pur di difendere il proprio status. Non c'è amore o passione che tenga di fronte alla conservazione di un (falso) equilibrio esteriore. Da ostentare, da vendere. Da simulare.

Raffaele Cavalluzzi

“... e lo mise nelle mani di una Donna”.

altA proposito dell' inizio della grande ondata di femminismo degli anni Settanta un politico di grande sensibilità come Enrico Berlinguer ebbe a dire che stiamo seduti su un vulcano solo provvisoriamente inattivo. E oggi la Chiesa cattolica si appresta a interrogarsi, dopo millenarie chiusure, sui temi della coppia e sui problemi del sesso proprio a partire dalla condizione femminile. D'altro canto, Giorgio Agamben nel recente saggio uscito da Neri Pozza L'uso dei corpi, sulla scia degli ultimi studi di Foucault, torna acutamente a riflettere sui meccanismi del potere filtrati, tra l'altro, dalla gerarchia dei corpi nella società a guida maschile. Allora il film Venere in pelliccia di Roman Polanski consente anche al cinema di discutere da un punto di vista originale il tema del conflitto dei sessi.

Vincenzo Martino

altDapprima vi è un granello di luce avvolto dal buio; nel mentre di un sensuale check vocale il granello si distende assumendo fisionomie discoidali; muta sfericamente in un occhio, che cristallino sottolinea una prima energica separazione tra bianco e nero, fra luce e ombra: la creazione a partire dalla storia dell’universo.

Raffaele Cavalluzzi

altLa scena è una spiaggia desolata della costa atlantica dell’ Île-de-Rè, piccola, pacifica località presso La Rochelle, e il film (Moliére in bicicletta) del francese Philippe Le Guay si chiude con l’ultima battuta de IlMisantropo pronunziata da Serge-Alceste: «ormai detestata, l’umana natura per me è una spaventosa sciagura». Cioè con un sigillo d’impronta, oserei dire, preleopardiana.

Figura intera

Matteo Marelli

Soltanto dopo aver oltrepassato la barriera della rispettabilità e del buon gusto si può apprezzare il valore della poesia di Genet. Solo così la comunicazione si può stabilire; solo a questo prezzo il sottomondo furioso dell’autore sboccerà in rosse corolle e parole purpuree di fronte agli occhi dello spettatore. Bisogna mescolarsi nel labirinto del mondo genettiano; è necessario attraversarlo fino in fondo, accettando tutto ciò che si può trovare sul cammino: lo scandalo, la volgarità, le situazioni scabrose, e andare oltre.

Luigi Coluccio

altÈ tutto un manifesto, Roma: la nuova drammaturgia. Per quello che non ha, per quello a cui tende, per quello che non ha previsto. Su un grafico temporale: le urla e le storture per l’Estate romana, la Trilogia dell’invisibile di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini al Teatro India. Su un grafico spaziale: il Teatro Valle tra ri-occupazioni e ri-aperture, le lotte padronali per il Teatro Eliseo.

Matteo Marelli

«Quanta violenza può contenere un soffio?
Quanta disperazione un sussurro?»
(Giovanni Lindo Ferretti)

Afferrare il senso di un’opera non vuol dire essere in grado di redigerne chirurgicamente il referto tramico. L’intreccio, lo dice la parola stessa, a volte aggroviglia nei nessi di causalità, togliendo respiro al testo, facendone cosa morta.
 Meglio quindi liberarsene, cestinarlo, proprio come fa Chiara Guidi durante la lettura scenica di Tifone, liberamente tratta dall’omonimo racconto di Joseph Conrad, che per l’occasione viene trasformato in una partitura strumentale per pianoforte e “viola”: il primo, fisicamente presente in scena in tutta la sua eleganza a coda, suonato da Fabrizio Ottaviucci, la seconda, invece, presa a modello dalla regista per modulare la propria voce.

Inchiostro di kine



altDivorati (Consumed il tit. originale, Bompiani) è il primo testo letterario di David Cronenberg. Il regista canadese porta con sé, nel testo e nel suo sottotesto, tutti i temi del suo cinema e della sua opera (Evidenza del Corpo, Sesso e Tecnologia, Mutazione). Nel romanzo confluisce l'esposizione di un'epoca digitalizzata e cannibalizzata da vampate di tecnologia e «morte del sentimento» (Ballard 2004, p. 199) fino alle sue conseguenze più estreme, la malattia venerea che infetta il nostro intero spazio interiore e che sequestra ogni capacità immaginativa.







 

Della serie

Andrea Bruni

Immagine1«BUSTER KEATON CERCA NEL BOSCO
LA SUA FIDANZATA CHE È UNA VERA VACCA
(poema rappresentabile)

1, 2, 3 e 4.
In queste quattro orme le mie scarpe non entrano.
Se in queste quattro orme le mie scarpe non entrano,
di chi sono queste quattro orme?
Di un pescecane, di un elefante appena nato o di una papera?»

(Rafael Alberti)

Michele Sardone

Twin Peaks: già il titolo sembra la definizione più esatta per il cinema di David Lynch, luogo nel quale reale e irreale vengono portati allo stremo, fino a raggiungere i loro picchi, il loro livello massimo possibile di parossismo, dove realtà e immaginario vengono talmente trasfigurati da essere indistinguibili, fino a sembrare gemelli.




UZAK 15 | estate 2014

Lo stato delle cose

alt«Sono morto... quattro giorni fa. Come ogni mattina ero in macchina... e aspettavo Ula e Jacek. Il motore singhiozzava e la radio annunciava la pioggia. Ho avuto paura di sentire un dolore al petto. In realtà, a parte la paura, non ho sentito niente. Ho fatto un respiro profondo... ed è finita. [...] Ula e Jacek sono usciti di casa. Ula avanzava verso di me e io mi allontanavo. [...] Mi sentivo bene. Calmo. Silenzio. Anche se mi sembra che lei stesse gridando. Non sentivo né il mio solito mal di testa, né il peso delle chiavi nella giacca. Ho pensato che avrei potuto tornare in me se avessi voluto. Alzarmi e accompagnare il bambino a scuola. Ma stavo  meglio così. Molto meglio. Li guardavo mentre chiudevano la bara. È stato allora che Jacek ha capito, perché ha iniziato a piangere. Faceva freddo... ma lui non osava mettere in tasca le mani congelate. Sono tornato a casa. Non c'era nessuno». (Antek Zyro, Bez Konca, [Senza fine], Polonia, 1985).

altWho watches the watchmen?
(Quis custodiet ipsos custodes?)

Come mai questa domanda di Giovenale, che ha ispirato il titolo della serie Watchmen?
Perché Bruce Wagner, come Alan Moore, consapevole o meno, discende dalla scuola del satirista romano.
Anche Wagner, con la propria opera, costringe a pubblico ludibrio i vizi e i mali della società contemporanea. Un’opera che comprende: romanzi (Ti sto perdendo; Il palazzo dei crisantemi), sceneggiature (Nightmare 3 – I guerrieri del sogno; Scene di lotta di classe a Beverly Hills), e regie (I'm Losing You; Women in Film).
Bruce Wagner è lo sceneggiatore dell’ultimo film di David Cronenberg: Maps to the Stars.
Lo abbiamo intervistato.

Alessandro Cappabianca

alt«Le cinéma est le simulacre absolu de la survivance absolue:
il nous raconte ce dont on ne revient pas, la mort»
(Jacques Derrida)

I morti, in Maps to the Stars, tornano sempre sotto forma di fantasmi. Fantasmi d’acqua o di fuoco, per quanto tutti abbiano una certa tendenza a scomparire nell’acqua (delle piscine) – ma tutti, o quasi tutti, tornano. Torna la madre di Havana, occupando la vasca da bagno della figlia, rinfacciandole che non sarà mai un’attrice brava come lei: torna la giovane fan di Benjie, dopo che è morta in ospedale, prima a bordo della piscina dei Weiss, dove trova a farle compagnia un altro fantasma (quello del bambino annegato per disgrazia), poi nel cesso della roulotte dove Benjie, sotto l’effetto della droga, scambia per lei il ragazzino suo antagonista nella serie TV, e lo (la) strangola.

Andrea Bruni

«In un bicchiere di gin
una notte di festa
le stelle cadono dal cielo
tracanno il fulmine a sorsate
riderò ai bagliori
col fulmine nel cuore»
(Georges Bataille)



Luigi Abiusi

altNon un ritorno, ma una conferma dell’attualità di Cronenberg, a smentire, ancora, le dicerie di deriva (edulcorazione) degli ultimi anni. In linea con la natura anfibia, l’eterotopia dell’immaginario cronenberghiano – un costante lavorio su di sé, sempre a mettere in discussione le soluzioni raggiunte, tanto, mettiamo, da erodere, momentaneamente, le conquiste figurali in favore di quelle dialogiche, forse aniconiche e batailliane di un A Dangerous Method: il che era segno di un cinema in costante movimento, e non deriva o passivo annichilimento ‒, Maps To The Stars è struttura (mappa appunto) bifida, prismatica, speculare della sua tenera, umanissima e ossessiva fragilità o della scatologia più ripugnante, inerme, morta, a seconda della prospettiva, dell’inclinazione, da cui la si guarda.

Leonardo Gregorio

altUn alito di vento, una bufera. Paul Vecchiali ha portato il suo cinema caldo e freddo, ossimorico, ostinato e libero alla ventesima edizione del "MedFilm Festival" di Roma, che lo ha celebrato conferendogli il Premio alla Carriera. Qui ha presentato in anteprima,  nella sezione “Le Regard des Autres”, il corto La cérémonie e il lungometraggio Faux accords, oltre a riproporre il suo bellissimo Corps à coeur (Corpo a cuore, 1979). Un film che, insieme a Rosa la rose, fille publique (Una donna per tutti, 1986)  e a Encore – Once more (Once more – Ancora, 1988), forma un ristrettissimo gruppo di titoli riusciti a varcare, con la distribuzione, le sale italiane.

Annalisa Caputo

altBereshit: in principio, all’origine. È la prima parola del Pentateuco ebraico. Nel cuore della secolarizzazione novecentesca, Tarkovskij pare tornare a questo ‘principio’: con (dis)incanto. Facendo propria la “morte di Dio”: senza rinunciare, però, a cercare “le basi iniziali della vita”. Una sorta di cammino a ritroso, verso le origini della creazione e dell’anima: specchiando – questo cammino stesso – nel mistero della creazione artistica e dell’animo del poeta (creatore).

altÈ un film, questo di Schumacher (1999), costruito su una grammatica essenziale e che non sembra voler manifestare istanze autoriali forti, abiura le manipolazioni di segno espressionistico dei materiali audio e video (se si eccettua la scena dell’ictus del personaggio di De Niro, ricca di effetti visuali) e facilita la linearità della narrazione. Profilmico, modalità della ripresa e di montaggio tendono a una invisibilità da découpage classico e il regista sembra puntare tutto sulle cospicue performances attoriche di Philip Seymour Hoffman e De Niro, ai quali compete dar voce e carne a due non facili ritratti umani, quello di una eccentrica trans (Seymour Hoffman) e quello di un expoliziotto colpito da ictus (De Niro), sempre in bilico tra la ricerca della adeguata resa scenica e il rischio dell’eccesso caricaturale non voluto e del pietistico-lacrimevole non programmato.

Vanna Carlucci

altSiamo dentro un deserto di voci, deserto umano. A terra residui di presenze, indumenti sporchi e lisi sotto il respiro affannoso e subacqueo di uno sguardo, ricordi di vita lontana, frammenti di dipinti macchiati dal tempo, polvere del tempo assorbito dalla terra. Non esistono voci, non esiste più niente: I resti di Bisanzio – in concorso al Pesaro Film Festival 2014 – è il covo catastrofico degli ultimi superstiti, è lo sguardo all’indietro di quell’Angelus Novus disegnato da Paul Klee: uno sguardo che s’immerge con occhi roventi e vede un passato che ancora brucia di echi, di miti e riti, uno sguardo (quello di Schirinzi) che non calpesta nulla e non sbriciola questa piccola ferita del mondo che ancora suona nel baluginare soffocato degli alberi, nel silenzio singhiozzante dell’acqua, nella solidità di una nave che muore nel mare. Per vedere il mondo di Schirinzi bisogna inabissarsi e trattenere il respiro per sprofondare e arrivare in questa densità di mondo che è nera e assordante, e annegare, finalmente, e galleggiare senza peso (il peso del mondo) e senza corpo sotto il raschio di un suono metallico per guardare – con la testa nell’acqua – giù.

Cose viste

Michele Sardone

altIl sistema del giudizio segue uno schema meccanicistico, nel quale ogni elemento consegue dal precedente: infrazione, riconoscimento della colpa, giudizio, espiazione. È il sistema sul quale si fonda la morale, cui ci si appella nei periodi di crisi: è allora che insorge la necessità di una catastrofe definitiva cui far seguire l’immancabile palingenesi. Sembra seguire la stessa meccanica Noah di Aronofsky, che mette prima in scena la catastrofe per eccellenza, il diluvio universale, cui far seguire una “creazione seconda”, che è anticipazione dell’Apocalisse, fine non assoluta del mondo volta a preannunciare l’avvento del Regno.

Raffaele Cavalluzzi

altSebbene il citazionismo non sia sempre di per sé una garanzia rispetto all’esibizione di disturbanti manierismi, talora, a disegnare la cifra stilistica di un film, collabora la ricchezza o la complessità di adeguate citazioni. Il caso del film di François Ozon Nella casa (2012), ispirato alla pièce teatrale Il ragazzo dell’ultimo banco dello spagnolo Juan Mayorga, va però anche al di là di una cosiffatta tipologia, giacché quelle che sembrerebbero citazioni sono in realtà tasselli efficaci di un mosaico poietico, che si garantisce, trascendendoli e portandoli ad unità, una tenuta  straordinariamente originale.

Gaetano Pellecchia

altSe c’è un film recente di cui molto si è parlato e altrettanto si è frainteso, soprattutto a livello di cultura diffusa o “spettatore comune” (qualunque cosa esso sia), questo è La grande bellezza. Il film viene generalmente percepito e commentato secondo due parametri: “bellezza” e “decadenza”.
È nostra impressione, però, che “bellezza” e “decadenza” siano due aspetti importanti del film di Sorrentino, ma non il tema principale, l’asse portante. Riteniamo che la chiave interpretativa de La grande bellezza vada ricercata nel “tempo perduto”, nel senso proustiano del termine.

Vincenzo Martino

altIn un mondo devastato dalla guerra nucleare la luna ha smesso di brillare: ciò ha provocato apocalittiche catastrofi, stravolgimenti nell’ecosistema, mentre i pochi superstiti di una decorsa invasione aliena sabotano sistematicamente le ultime operazioni di raccolta prima della definitiva migrazione della razza umana su Titano, il nuovo Eden.

Della serie

Diego Mondella

«Nessuno di noi è sano quanto mostra di essere»
(Psycho, Robert Bloch)

Sguardo, desiderio, ossessione, viaggio all’interno della psiche. Che il cinema sia tutto questo ci era stato rivelato più di cinquant’anni fa da due film che hanno segnato un’autentica rivoluzione copernicana: Peeping Tom e Psycho. Mentre il primo, misconosciuto capolavoro di Michael Powell, è stato ingiustamente sottostimato e tacciato di nauseante morbosità, il secondo è diventato in breve tempo un cult-monstre: un serbatoio di suggestioni, emozioni e repulsioni ben più sedimentato nell’immaginario della breve eppur iconica scena della doccia. L’opera hitchcockiana è stata fatta oggetto di sequel, contro-sequel e remake, omaggiata dagli epigoni del brivido (da William Castle a Brian De Palma), e persino presa come fonte d’ispirazione dal mondo della musica e dell’arte (vedi l’installazione di Douglas Gordon).

Michele Sardone

Che cos’è il potere? Che immagine dà di sé? E di cosa è fatto il rapporto fra immagine e potere? Sono le domande da cui muove la narrazione di House of Cards, serie prodotta dalla piattaforma online Netflix, che ha avuto, per la prima volta, l’idea di rendere disponibile in streaming un’intera stagione della serie, mettendo in questione il concetto stesso di temporalità seriale, slegandola dalla canonica attesa che divide ogni puntata dalla successiva, e dando così piena autonomia di visione allo spettatore (e in realtà adeguandosi a quanto già avviene con i download pirata).

Figura intera

altLet’s Do It a Dada
(Einstürzende Neubauten)

Non pende nulla dai ganci da macellaio sospesi a mezz’aria sul palco.
Messi davanti all’assenza, la nostra attenzione è subito rivolta a ciò che manca. Bisogna soltanto fare un po’ più d’attenzione per accorgersi che la situazione è ribaltata: è dal cadavere che penzolano gli uncini. Ma ci sarà tempo a sufficienza per capirlo; otto ore ad essere precisi (tanto quanto una giornata lavorativa) per rendersi conto che la carcassa è tutt’attorno, e noi spettatori ne siamo parte: This is theatre like it was to be expected and foreseen (Questo è teatro come ci si doveva aspettare e prevedere).

altIl palcoscenico del mondo

Opera giovanile di Jan Fabre riproposta oggi in occasione del trentesimo anniversario dello spettacolo e della fondazione della compagnia Troubleyn, secondo un’operazione definita dall’autore di re-enactment.



Inchiostro di kine

Matteo Marelli, Luca Romano

«Siamo in tempi d’emergenza» dice Gualtiero De Santi «dunque serve anche dotarsi degli strumenti necessari, […] di una critica che resiste in senso intellettuale e culturale». Ecco, allora, arrivare all’occorrenza, L’età dell’estremismo.
L’autore, Marco Belpoliti, sulla scorta di un pensiero raccontatoci da molte voci, come ad esempio quella Susan Sontang («La nostra è effettivamente un’epoca di estremismi. Viviamo sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile.» (Sontag in Belpoliti 2014, p. 47)), guarda con occhio lucido alla nuova età di mezzo, già in atto da un trentennio, per farne un resoconto: dello spazio, del tempo, del mondo.





Gianfranco Costantiello

disSe non fosse per la resistenza lungo le trincee notturne di Fuori Orario, per qualche importante retrospettiva – ad esempio al “Festival di Torino” nel 2002 – o per il lavoro di certa critica di tendenza («Filmcritica» e «Alias»), il nome di Julio Bressane sarebbe pressappoco sconosciuto qui da noi. Fuoriclasse del cinema novo, il regista di Matò a la familia e foi ao cinema fa la sua comparsa, proprio in questi giorni, nell’insolita veste di scrittore, in quel flusso inafferrabile e febbrile che è Dislimite, libro bellissimo pubblicato per i tipi di CaratteriMobili. Si tratta, ad essere precisi, di una preziosa traduzione – a cura di Simona Fina e Federica Niola – di quei testi scritti tra il 1996 e il 2011 e pubblicati in quattro volumi, per le edizioni Imago, in Brasile. E sì, perché Bressane è anche un saggista, un pensatore, un poeta filosofo, il cui lavoro, a dirla tutta, ha già visto una pubblicazione in Italia, grazie alla militanza di Roberto Turigliatto (Fuori Orario), a cui Dislimite è dedicato.

Nicola Curzio

altNel maggio del 1952 Orson Welles vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes con il suo Otello. Le riprese del film erano iniziate quasi quattro anni prima, nel settembre del 1948, a Venezia, per poi proseguire a Mogador e Safi in Marocco, quindi a Roma, Tuscania, Viterbo, nuovamente a Venezia e infine ancora in Marocco. La produzione della pellicola è passata alla storia come una delle più tormentate e difficili, tanto che, anni dopo, lo stesso Welles decise di raccontarla in un altro suo film, Filming Othello. Celebre, in particolare, è il campo/controcampo italo/africano, che vede montate inquadrature girate in anni diversi e in set tra loro lontanissimi. Mai il cinema era stato privato così radicalmente del suo dato territoriale (e temporale), collocandosi in un’interzona sospesa, un set immaginario che, in ultima analisi, ne costituiva l’essenza. Cinema “apolide”, cosmopolita, dunque, poiché privo di riferimenti geografici effettivi o di legami con una qualsivoglia cultura nazionale; caratteristica che, in realtà, potrebbe estendersi a tutto il cinema, basti pensare a Chaplin o persino ai Lumière che parlavano a platee intere in qualsiasi parte del mondo. Otello di Welles, però, è «il film apolide per eccellenza», dirà più tardi Enrico Ghezzi in un passaggio di Fuori Orario, poiché è tale per necessità e, soprattutto, per una precisa scelta del cineasta; un essere che è prima di tutto un voler essere; qualcosa che si lega indissolubilmente già al soggetto-regista, prima ancora che al film. È possibile riconoscere una comunità di autori che fanno di questa loro apolidicità un segno distintivo: Orson Welles, appunto, poi Wim Wenders, Atom Egoyan e, ancora, Wes Anderson.

Screamadelica


Ostro è l’esito di un’immaginazione duale, binaria, sotto vari punti di vista: tesa tra Nicola Giunta e Gioele Valenti (che sono i Lay Llamas); tra orografia terrestre e scrutate costellazioni celesti; esaltazione naturalistica e pratica sintetica ecc., in un vinile violaceo stampato dalla Rocket Recordings, distillatrice di psichedelie sfaccettate, spesso intransigenti, ma con una certa predilezione, mi pare, per l’impianto tribale (vedi World Music dei Goat).

Gianfranco Costantiello

r plusForse, prima o poi, arriva per tutti il momento in cui si fa irresistibile il desiderio di vedere com’è fatto al suo interno un giocattolo col quale si è giocato troppo a lungo. Ad esempio, Daniel Lopatin, il compositore di stanza a Brooklyn – meglio conosciuto come Oneothrix Point Never (da ora in poi OPN) – comincia il suo delicato processo di smontaggio già dal bellissimo Replica (2011), per proseguire intensamente, accasandosi intanto presso la Warp Records, negli ultimi due dischi: R Plus Seven (2013), e Commissions I – eppì rilasciato lo scorso aprile, in occasione del “Record Store Day”. Infatti, le traiettorie scintillanti e apparentemente squilibrate dell’ambient-drone degli esordi, sembrano piegarsi a una progressiva decostruzione della frase musicale attraverso un taglio chiaramente minimalista.

Matteo Marelli

alt«La contiguità tra scena musicale e scena cinematografica – afferma Enrico Ghezzi – è ribadita lungo tutta la storia del cinema sonoro» (Ghezzi 2000, p. 369), tuttavia, è dalla metà degli anni Cinquanta, con l’(ir)rompere del rock’n’roll, che si salda l’unione elettrica tra l’occhio meccanico e le scariche soniche riverberanti “impulsi d’ampère”: «i due sensi estetici per eccellenza, - la vista - e l’udito, uniti in un godimento unico […]: linguaggio visibile della musica. Ecco l’autentica Rivoluzione!» (Pirandello 1994, pp. 344-345)

UZAK 14 | primavera 2014

Lo Stato delle cose

Luigi Abiusi

altMentre in sala arrivano film importanti, comunque li si veda, la si pensi, ecc. - penso a Nymphomaniac, magari a Noah, che non ho ancora visto; il che non mi impedisce di avere più aspettative, paradossalmente (e il paradosso sarebbe dato da caratteristiche come la ”colossalità” hollywoodiana e una mancanza di autorialità, almeno in apparenza; ma allora mi viene in mente anche The Counselor, che pur dentro il “genere” non manca di meditazioni esistenziali mettendo addirittura Machado in una paradossale conversazione telefonica), dico, più aspettative da Aronovsky (magari dalla patinatura delle sue immagini, già declinate, anzi proprio sublimate, in senso gotico nel suo Black Swann) che da un Lars Von Trier forse un po' prevedibile nei suoi ruvidi e umbratili allestimenti dell'umano; ma sono pronto a ricredermi, come quando vidi Antichrist che m'affascinò non poco -; e a Gran Budapest Hotel di Wes Anderson, facile obiettivo di una critica ieratica, che non va oltre le apparenze ludiche di certo cinema postmoderno; e ancora al Jim Jarmush accorato e innocente di Solo gli amanti sopravvivono; mentre accade tutto questo nelle sale, mi viene da pensare che un film che sarebbe imprescindibile probabilmente non verrà mai visto se non forse grazie, ancora, a Fuori Orario che, mi risulta, avrebbe acquistato o starebbe per acquistare, i diritti per tre o quattro passaggi televisivi de Les Rencontres d'apres minuit. Film che è diventato anche il manifesto (l'affiche) della “Semaine de la critique” al Festival di Cannes che sta per cominciare. E su cui basta fare un nome su tutti: Jean Luc Godard. Ma anche Cronenberg, cui sceneggiatore è quel Bruce Wagner che la scorsa primavera invitammo qui in italia (a Bari) a tenere una master class per la rassegna “Registi fuori degli schermi”.



Abbiamo incontrato Michelangelo Frammartino in occasione dell’incontro a lui dedicato all’interno della terza edizione della rassegna Registi fuori dagli sche(r)mi. I suoi lavori sono diventati termine di paragone imprescindibile per coloro che vogliano cimentarsi con una sorta di cinema contemplativo e naturalista, sebbene Frammartino si senta più vicino a cineasti come Cronenberg, condividendone la ricerca per una sorta di fusione, attraverso l’occhio meccanico della cinepresa, con l’immagine.

Matteo Marelli, Vincenzo Martino, Michele Sardone

Durante il secondo appuntamento della rassegna Registi fuori dagli sche(R)mi III, abbiamo incontrato Jan Soldat in seguito alla proiezione del suo documentario Der Unfertige, presentato all'ultimo Festival del Cinema di Roma. Caratterizzata da un rigore formale mai fine a se stesso, la (se pur breve) cinematografia di Soldat si è affermata non tanto per la scabrosità dei soggetti rappresentati quanto per lo sguardo autoriale privo di qualsiasi giudizio o intromissione.

Nicola Curzio - Matteo Marelli

Questa intervista non comincia.
Affiora nel farsi d’una chiacchierata con Mirko Locatelli, due settimane prima della sua partecipazione alla terza edizione di Registi fuori dagli sche(r)mi.
Negando un inizio smentiamo in partenza la possibilità di un centro. Resta, come cosa certa, soltanto il punto d’arrivo, con i nostri ringraziamenti per la disponibilità dimostrataci.
Abbiamo deciso, anche per rispettare le indicazioni di messa in scena emerse durante il discorso, di intervenire il meno possibile a posteriori. Giusto qualche levigatura per rendere più agile la lettura. Domande e risposte si succedono secondo il disordine della conversazione.
Pensate quindi a questa intervista non come a un serrato scambio di campi/controcampi, ma a un ininterrotto piano sequenza, che coinvolge nel quadro tutti gli interlocutori assieme.

Leonardo Gregorio

È teatro privato, personaggi sul palcoscenico di un altro pianeta, Les rencontres d’après minuit. Ali, Matthias, Udo, La Stella, Lo Stallone, La Cagna e l’Adolescente in una casa pronta a fare dei loro corpi un’orgia e la musica sintetica degli M83 a svelarne le anime. Un film come oggetto misterioso che lentamente si schiude, un sogno con personaggi in cerca d’amore, più che d’autore, visioni debordanti a pulsare un sentimento (la necessità e la mancanza) delle cose, dell’umanità, del mondo, per diventare meraviglia, libero e rigoroso gioco infinito del cinema. Delle sue forme, delle sue possibilità. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Cannes 2013, approdato in Italia lo stesso anno al Milano Film Festival e recentemente al Cineporto di Bari come capitolo finale di Registi fuori dagli Sche(r)mi III, Les rencontres d’après minuit è il primo lungometraggio di Yann Gonzalez (fra i dieci migliori film del 2013, secondo i Cahiers du cinéma). Francese, classe 1977, il regista guarda al cinema – che conosce, e molto bene – con gli stessi occhi di quando, bambino, nelle videoteche, ha scoperto di amarlo senza averlo mai visto.

Alessandro Cappabianca

alt«Con alterna chiave
tu schiudi la casa dove
la neve volteggia delle cose taciute.
A seconda del sangue che ti sprizza
da occhio, bocca ed orecchio
varia la tua chiave.
Varia la tua chiave, varia la parola
cui è concesso volteggiare coi fiocchi.
A seconda del vento che via ti spinge
s'aggruma attorno alla parola la neve.»

(Paul Celan, Con alterna chiave)

Andrea Bruni

altOltre la soglia

«I manicomi sono ricettacoli di magia nera consapevoli e premeditati/e non solo perché i medici favoriscono la magia con le loro cure intempestive e ibride/loro ne fanno» (Antonin Artaud, Alienazione e magia nera, 1946, dopo nove anni di ricovero coatto).

Chi si ricorda di Charles “Chas” Addams, maestro di humor noir, implacabile vignettista di «The New Yorker», il papà della più amorevole e scombinata delle famiglie assassine. Bene, pare (pardon, ma qui ci si nutre di leggende) che il babbo di Morticia, Gomez & C., una volta all’anno si stancasse del quotidiano, costante, “paso doble” sul baratro della follia, e decidesse di fare il gran salto, di lasciarsi andare oltre il bordo di quell’orrido, di quel precipizio ghignate. Addams allora disegnava una vignetta talmente raccapricciante, abbozzava un disegno presago di innominabili atrocità che, neanche il tempo di posare il pennino, e due nerboruti infermieri – camicia di forza ben stretta fra le manone – suonavano alla porta di casa sua…
Lasciarsi andare: allucinatorio manifesto per cinetiche extravaganze. Oltre la soglia.

«È l’arte che è diventata pornografia o è la pornografia che è diventata arte?» (Franco Fabrizi, Action, 1980)

«È chiaro che il mondo è puramente parodistico, qualsiasi cosa si guardi è la parodia di un’altra, o ancora la stessa cosa sotto una forma ingannevole.» (Georges Bataille, L’ano solare, 1927)

Cose viste

Michele Sardone

Può una nazione essere sempre sul punto di nascere, senza mai portare a termine la sua venuta alla luce? Se c’è, quella nazione è l’America, nella sua dizione più popolare e geopoliticamente vaga e imprecisa: è quel continente sempre nuovo, mai esplorato fino in fondo, colto in quell’istante folgorante che sembra ogni volta la sua prima alba e che poi ci accorgiamo essere la deflagrazione di quel medesimo mondo per come si presentava sino a un attimo prima.

Raffaele Cavalluzzi

«Una nebbia velenosa», «un’oscurità trasparente»: sono le metafore per la depressione di Emily (Rooney Mara) – assassina del marito (Channing Tatum) –, usate per definire il presunto stato sonnambolico in cui la giovane ha agito, e che è stato provocato, a quanto sembra, da una micidiale cura di psicofarmaci. Nel film di Steven Soderbergh, Effetti collaterali (Side Effects, 2013), la su accennata  dimensione metaforica é suggerita come elemento conduttore della vicenda, e soprattutto  performante il succedersi delle immagini e delle stringenti situazioni drammatiche: prevale a lungo con tutta l’acutezza della sua ambiguità.



Ida, un film di straordinaria intensità firmato da Pawel Pawlikowski, regista polacco di formazione britannica alla sua quinta prova, racconta dei pochi giorni che separano dalla cerimonia dei voti perpetui la protagonista (l’esordiente, eccezionale Agata Trzebuchowska), una giovanissima professa cresciuta nella severa misticità di un orfanotrofio.

Vanna Carlucci

Qualcosa finge di respirare intorno a Theodore: solitudini frammentarie, voci preimpostate di programmi di segreteria, di mail, di pubblicità e, ancora, figure umane sullo sfondo che riempiono un vuoto, lo spazio fisico (l’ascensore, l’ufficio, i gradini di un sottopassaggio), figure che continuano a non avere un volto e restano sulla scena come suppellettili da decoro di un altro tipo di vuoto, quello di Theodore: nulla esiste intorno a lui, tutto aleggia, anche una musica malinconica che vuole riprodurre, e quindi creare inteso come ricordare, una lei dentro un vestito ormai smesso, passato, un corpo opaco e che è diventato solo frammento che spezza, separazione: Catherine.

Carmen Albergo

Il Sud è niente. Tutto e niente. Il predicato esistenziale, quanto la congiunzione invalidante, sentenziano con proverbiale insignificanza, volgarizzano le radici dell’atavico quadro di memoria collettiva, che ancora perpetua l’eredità della questione identitaria del mezzogiorno.
Mitologico vaso di pandora, groviglio di piaghe antiche ed energie dissonanti. Spettri custodi, che giacciono nelle viscere della terra e ciclicamente assestano scosse telluriche per scuotere dalla consuetudine la ragione.

Figura Intera


altPrologo

Irina e Otello sono due ingenui. Due diversi. Assediati dagli appetiti. Incapaci di reagire se non con la violenza: verso sé o verso gli altri. In Cechov (Tre sorelle) e in Shakespeare (Otello, il Moro di Venezia), Irina e Otello sono due eroi perdenti, dalla forte volontà, ma incapaci di amare. In Copi (L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi) e in Pasolini (Che cosa sono le nuvole?), Irina e Otello hanno istinti primari, non mediati, e sono incapaci di esprimersi. Comunicano a monosillabi o a frasi fatte. Ma il loro parlare non muove il mondo: semmai è il mondo a muoversi attorno a loro. Stritolandoli.

Stefania Rimini

altLa sfida è riuscire a far muovere una macchina senza benzina ma con del carburante ardente e alternativo. Perché non tentare di utilizzare il tempo di una rappresentazione teatrale per agire sulla carica visionaria ed energetica che proprio l’arte scenica porta inscritta? Perché non provare a trasformare il contratto teatrale in una formula aperta di reciproco scambio, andando a destrutturare lentamente, dall’interno, la prossemica della relazione tra chi agisce e chi guarda? Attuare degli spostamenti progressivi, dentro alla geografia dello spazio scenico, ma, sia ben chiaro, senza alcun coinvolgimento forzato dello spettatore. (Nella tempesta. Motus)

Laura Mariani

Mi si chiede una scheda del libro, pubblicato più di un anno fa. È uno stimolo a riandare sul sito del Teatro delle Albe, dove alla voce “novità” sono raccolte tutte le recensioni, per trarne brani di presentazione ed evidenziare alcuni nodi proposti dai recensori (a malincuore non citando, per evitare ripetizioni, quanto è stato scritto su «dramma.it» , «Hystrio», «il manifesto», «La voce di Romagna», «Prove di drammaturgia»… ). Su quei nodi non interverrò: le domande ben poste possono essere più stimolanti delle risposte.

Giampiero Raganelli

Antonio Latella è una delle figure di maggior spicco della scena teatrale italiana e internazionale, dividendosi tra i palcoscenici nazionali e quelli tedeschi. Tra gli ultimi lavori vanno annoverati i memorabili Un tram che si chiama desiderio, Francamente me ne infischio, A. H., Il servitore di due padroni. Abbiamo incontrato Latella presso l’accademia Campo Teatrale, dove era impegnato in una Masterclass, in concomitanza con l’allestimento milanese di Il servitore di due pardoni.

Matteo Marelli

«Hitler è stato sconfitto ma come tutti i grandi mali non è stato ucciso, si è ucciso per non morire, per custodire l’orrendo segreto della sua nascita. Com’è stato possibile che il cancro Hitler sia entrato nel cuore di milioni di persone […]?» (Latella)
È questo che si chiede Antonio Latella in A.H.. Le due iniziali rimandano per l’appunto a colui che è ritenuto incarnazione novecentesca dell’orrore che ha segnato l'Europa.
Il regista, supportato dall’attore Francesco Manetti qui in un assolo interpretativo che lo fa di diritto coautore dello spettacolo, si interroga su tutte le varie metamorfosi che il male può attribuirsi, cercando allo stesso tempo di cogliere ciò che ne sta all’origine. E la risposta è nella menzogna.

Matteo Marelli

Il servitore di due padroni di Antonio Latella, per dirla pasolinianamente, è spettacolo che si presenta sotto forma di edizione critica di un testo considerato monumentale: l’omonima commedia goldoniana, di cui sono rispettati i personaggi («Pantalone de’ Bisognosi; Clarice, sua figliola. Il Dottor Lombardi; Silvio, di lui figliolo. Beatrice, torinese, in abito da uomo sotto nome di Federigo Rasponi; Florindo Aretusi, torinese di lei amante. Brighella, locandiere; Smeraldina, cameriera di Clarice. Arlecchino/Truffaldino, servitore di Beatrice e poi di Florindo» [Goldoni 2002, p. 4]), gli intrecci drammaturgici, ma arricchita di intromissioni intertestuali, tanto da tramutarsi in opera aperta, quindi non compiuta e definita, che mentre si mostra allo spettatore rivela i meccanismi del suo farsi.



La narrazione inizia con dei corpi che, nell’essenza di corpi, non possono far altro che stentare nel respiro. I sacchetti sulla bocca si riempiono e si sgonfiano nell’attesa che il pubblico si sieda. Il corpo, come sempre, negli spettacoli di Ricci/Forte (Grimmless, Still Life e Imitation of Death andati in scena all’interno della cornice del Teatro Kismet Opera), cattura l’attenzione e si espone. In Imitation of Death, il corpo vuole mostrarsi diverso dall’oggetto, il soggetto si costituisce come qualsiasi cosa non sia morte, non sia cosa, appunto. La costruzione dell’essere vivente passa poco per volta, di grado in grado, dal respiro al movimento, prima difficoltoso, doloroso, poi, in fine, agevole nella musica, terzo e ultimo passaggio fondamentale.

Della Serie


2009. Anthony E. Zuiker, creatore di CSI (di tutte le sue tre versioni: CSI, CSI – NY, CSI – Miami), decide che l’orizzontalità globale dei luoghi del delitto non è più sufficiente, ma che serve qualcosa in grado di rilevarne non solo la diffusione, ma anche i contorsionismi, il dato sempre in fieri delle comunità inconfessabili, la traccia non rilevabile dalla strumentazione scientifica. Quel qualcosa è Sqweegel, neppure un nome, ma un lascito sonoro, che un bambino sopravvissuto all’omicidio della madre, dice di aver sentito fuoriuscire dal killer. Quel qualcosa è Level 26: Dark Origins (già previsti due seguiti cartacei e tre film): libro, sito, film, video, serial, social network, forum, blog, videogame. Si legge il libro e, attraverso dei codici e delle parole chiave appositamente evidenziati, si affina o si complica o si depista la lettura, accedendo ai video relativi sul sito, partecipando alle discussioni e alla realizzazione stessa del racconto, oppure semplicemente al reclutamento sulla rete di altri adepti (operazione appannaggio dei 26 deputy nominati dallo stesso Zuiker, sulla base della frequenza di interventi dimostrata sul sito).

Vincenzo Martino

Fotografie logorate dal tempo, interni fatiscenti, specchi rotti e strumenti da lavoro corrosi dal sangue e dalle carni, corpi in vitro immortalati in espressioni sofferenti; una melodia che appare più un ululato incalzante mentre le fiamme avvolgono un tempo cristallizzato, ignifugo: il tutto inserito in quella manciata di secondi che compongono la sigla di American Horror Story, racconto seriale che si sviluppa come un caotico agglomerato di leggende metropolitane e non, (rac)chiuse in luoghi comuni al cinema di genere.

Inchiostro di Kine

Gemma Adesso

«Piegare non si contrappone a spiegare, piegare significa piuttosto tendere-distendere, contrarre-dilatare, comprimere-esplodere (ma non condensare-rarificare, dicotomia che implicherebbe il vuoto).» (G. Deleuze)

Il libro di Bruno Roberti sul cinema di de Oliveira (Manoel de Oliveira. Il visibile dell’invisibile), è letteralmente una esplosione di pieghe che si tendono e si dilatano in una serie di rimandi interni, nella moltiplicazione di visioni e citazioni, in spazi ariosi e scuri luoghi della memoria. La scrittura gesticola la visione, la rincorre e la precede senza mai restare impigliata nell’impaccio delle trame e delle spiegazioni, ma rinfrangendone gli abbagli in un gioco caleidoscopico di gesti sospesi, voli, accenni di cadute. Spiegate, al massimo, sono le ali dell’Angelus Novus ripreso, come muto testimone del processo incompiuto della creazione, nel movimento immobile dello sguardo rivolto a un trascorso ancora prossimo e polveroso, ma percorribile: «allora il movimento del ritorno è quello di un avvento, come per l’Angelo della Storia di Benjamin il cui sguardo è spinto da un contraccolpo d’ali» (Roberti 2012, p. 187).



L’armonia è: «consonanza di voci o di strumenti; combinazione di accordi, cioè di suoni simultanei (per estens., anche associazione di suoni successivi), che produce un’impressione piacevole all’orecchio e all’animo» (Vocabolario Treccani).

L’armonia è:

«La fede, aveva pensato Eszter, senza poter fare a meno di richiamare alla mente la sua stupidità, non significava credere in qualcosa, ma credere che le cose potessero essere differenti, come la musica, che non rivelava un mondo migliore o il meglio di noi stessi, ma era un modo astuto per nascondere la nostra immodificabile situazione in questo mondo penoso, anzi, per farlo sparire: una cura che non guariva, oppio che placava. Ce n’erano state, aveva pensato, ce n’erano sicuramente state, di epoche fortunate, per esempio quella di Pitagora e Aristosseno, quando i nostri antichi “colleghi di questa esistenza terrena” non conoscevano ancora il tormento del dubbio e non bramavano di uscire dall’ombra della loro candida fede infantile, e dato che sapevano che l’armonia divina è degli dèi, si accontentavano di dare un’occhiatina a quell’irraggiungibile vastità con le melodie dei loro strumenti musicali accordati su suoni puri. Ma dopo, quando gli uomini si liberarono dal peso opprimente delle forze celesti, non fu più così, l’arroganza entrò confusamente nel campo aperto del caos, e non si accontentarono più di una partecipazione fugace a quel fragile sogno, lo volevano nella sua piena realtà, ma dato che quello si dissolse nel nulla ai loro primi brutali approcci, ne ricrearono un altro come meglio potevano: la questione fu affidata a tecnici magnifici, ai vari Salinas e Werckmeister, i quali, lavorando senza risparmiarsi, giorno e notte, riuscirono a rendere vero il falso e, perché negarlo?, a risolvere il problema con un’ingegnosità così brillante che al pubblico riconoscente non restò altro che guardarsi l’un l’altro e applaudire entusiasta: “Be’, così perfetto!”». (Krasznahorkai 2013, pp. 133-134)

UZAK 12/13 | autunno/inverno 2013

Lo stato delle cose


alt«[...] La filosofia, com'è stata prodotta e nutrita dalla poesia nell'infanzia del sapere, e con essa tutte quelle scienze che per mezzo suo vengono recate alla perfezione, una volta giunte alla loro pienezza come altrettanti fiumi ritorneranno a quell'universale oceano della poesia» (F. Schelling, Sistema dell'idealismo trascendentale)


Il cinema, assunto come uno dei prodotti più aberranti dell’industria culturale, era (assieme al jazz e alla musica d’intrattenimento) la bestia nera di Adorno, che si rifiutava di compiere qualunque distinzione di valore al suo interno, con un’assolutezza anche maggiore di quella di Antonin Artaud, la cui ripulsa nei confronti del cinema si era determinata in seguito all’avvento del sonoro (oltre che per personali frustrazioni).
È tanto più sorprendente, perciò, trovare in un paragrafo dell’adorniano Il carattere di feticcio della musica e la regressione nell’ascolto (che risale al 1938), un riferimento cinematografico ai fratelli Marx, che fa il paio con quelle note di Artaud (del 1932, poi raccolte in Il teatro e il suo doppio) nelle quali si parla di Animal Crackers (1930) e di Monkey Business (1931).

 


alt«Più i rapporti delle due realtà saranno lontani e giusti
più l’immagine sarà forte»
(André Breton)

«Non credo alle cose ma alle relazioni tra le cose»
(Georges Braque)

«Mai ho conosciuto un amore che non fosse un bacio
In mezzo alla battaglia
Una difficile tregua…
Un breve indulgere tra opposti stati
In conflitto»
(William Butler Yeats)


EdgarReitzIntervista di Giampiero Raganelli a Edgar Reitz già comparsa su Internazionale.

Dopo la monumentale saga di Heimat, in tre parti più Heimat-Fragmente: Die Frauen, il regista Edgar Reitz torna nell'immaginaria cittadina di Schabbach per ambientarvi un film, Die Andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht, che si svolge antecedentemente al primo Heimat, nell'Ottocento. Protagonisti due fratelli che anelano ad andarsene dal villaggio.
Abbiamo incontrato il regista durante la 70° Mostra internazionale d'Arte cinematografica, in cui il film è stato presentato.


medeas2Wunderkammer è una casa con delle stanze che sono scatole che sono mensole che sono vetrine che mettono in mostra pezzi, parti, corpi e oggetti, madre e figlio. Wunderkammer significa stanza delle meraviglie, e riproduce uno scenario antico risalente al Seicento quando c’erano  piccoli musei grezzi ricchi di oggetti da collezione.


medeas 3La profondità, la stratificazione di Medeas, tutta una densità, una volumetria delle immagini che tendono a non sciogliere il “problema”, o almeno le colpe, ma a cobilanciarle nella carne della contraddizione, delle inclinazioni e dei comportamenti, sono lo strumento di una riconduzione delle normali dinamiche dell’attualità, del quotidiano – quelle che magari vengono assorbite dalle regole della convivenza, della civiltà – al mito, all’oscuro rigoglio della terra, della natura annunciata già nel buio dei titoli di testa da un lento ed enigmatico scorrere d’acqua, che misura l’aporia del vivere, l’endemica impossibilità di sopravvivere quando intervengono gli elementi, gli agenti grumosi, incontrollabili della tragedia.


attesadiunestateEssere dentro una stagione che attende la prossima. Così le immagini si susseguono, il prima e il dopo, il presente con il passato tra le ombre di un interno, le ombre come un grumo di silenzio e d’attesa, come l’arrivo dell’onda e la schiuma, il lampo e la bava del ricordo. Santini strappa pezzi di casa, di strada, di schermi e campi per ricomporre un quadro che non finisce mai, perché gli stessi frammenti torneranno ancora con altra gradazione d’intensità come un tempo sempre al presente: e allora si guarderà la strada da percorrere e quella che ci si è lasciati alle spalle, e ogni frammento avrà l’aria di essere sempre sospirato: così Attesa di un’estate (frammenti di vita trascorsa) (2013) diventa il temporale che apre il varco e che cerca una nuova forma, come la macchia di pioggia sul vetro, come le luci dilatate della festa, un passo alla volta verso la nuova stagione, un passo attutito dalla neve che lascia una lesione, un poro dilatato, il tempo.


a vida invisivel2«Questo cinema non sta dalla parte dello spettatore.
Lo invita al lavoro più che al piacere, o, per essere più precisi, al piacere del lavoro»
(Alberto Seixas Santos)





altQualche anno fa, Antonio Tabucchi, nel «tentativo dissennato di spiegare a un amico una parola indefinibile», scrisse una lettera destinata a Remo Cesarani: «Ebbene, caro Remo, proverò a cacciare con un retino questa parola beffarda e svolazzante come le farfalle che Nabokov notoriamente acchiappava a Luino, e di spillarla al lemma che le compete» (Tabucchi 2013, p. 56).

Aqabat-Jaber  Eyal Sivan

Perché questo è per Eyal Sivan il cinema: politica. O meglio: il mostrare in maniera chiara ed esplicita il proprio punto di vista. Politico. La sua carriera cinematografica prende avvio infatti dalla stesura di una teoria del documentario, di cui il suo primo film, Aquabat Jaber. Passing Through (1987, Grand Prix “Cinéma du Réel” dello stesso anno) nasce come pura esemplificazione. Un film-saggio. “Un progetto estetico-politico”. Così Sivan definisce i suoi film. Non considerandosi colui che svolge una professione, in questo caso quella del regista, ma piuttosto colui che porta avanti una ricerca, estetica e politica, appunto. Di cui il film è solo il contenitore. Un mezzo d’intervento politico atto a stimolare un dibattito.


kotoko1Kotoko di Tsukamoto Shin’Ya si caratterizza certamente per la particolare attenzione che il regista ha dedicato alle questioni relative alla forma, che qui viene investita di una portata significazionale di livello primario, talvolta addirittura superiore a quella riconosciuta ai codici attoriali e verbali.
Soprattutto durante i climax emozionali, le scelte stilistiche di Tsukamoto escludono l’opzione mimetica in favore di una poetica della manipolazione espressiva del reale il cui esito di maggior rilievo è certamente quello di creare una forma particolare di soggettiva, che chiameremo soggettiva mentale-percettiva, nella quale lo spettatore, attraverso una serie di alterazioni dei dati audio-visuali, viene indotto a sperimentare condizioni psicologiche affini a quelle esperite dai personaggi.

Cose viste


Se il cinema è morto, non resta che inscenarne la ricognizione e l'autopsia. Le immagini sulle quali scorrono i titoli di testa di The Canyons sembrano confermare l’assunto di partenza: sale cinematografiche abbandonate, seggiolini consumati dall’incuria, schermi vuoti e sfondati, relitti di un’apocalisse che non ha risparmiato nulla, neanche l’umano, salvo l’occhio che registra i postumi della catastrofe. Paul Schrader assume il punto di vista del superstite che non può nulla se non chinarsi sul corpo ancora caldo della vittima e cercare tracce che conducano all'assassino, e al movente. Ma l'occhio indagatore non giunge ad alcuna conclusione razionale, anzi, le tracce visibili sono solo apparenze, fatte apposta per cogliere in fallo il raziocinio, frammenti e frame residui di uno specchio immaginale rotto.


film the canyons«Questa è la terra morta
Questa è la terra dei cactus
Qui le immagini di pietra
Sorgono, e qui ricevono
La supplica della mano di un morto
Sotto lo scintillio di una stella che si va spegnendo»
(Thomas Stearns Eliot, The Hollow man)

«Col rifiutarsi di nominare, definire o delimitare il vero Iddio, stava sforzandosi di creare quella che potrebbe chiamarsi la plenitudine del vuoto, dove l’immaginazione di Dio possa mettere radici»
(Henry Miller, Il tempo degli assassini)


Cosmopolis5«C’è abbastanza dolore per tutti, adesso» (Cosmopolis)

Rispetto al film Cosmopolis (2012) di David  Cronenberg il fattore cruciale della poetica di Don DeLillo, autore dell’omonimo romanzo (2003) da cui la pellicola è tratta, è dato dalla drammatica percezione del protagonista del racconto, e del testo in generale, della bolla del tempo, che, oggettiva e confermata essenzialmente dalla tecnologia più avanzata, spiazza ogni tradizionale contestualità esistenziale dell’uomo nel passaggio al nuovo millennio.

 


altAccecati da un mondo fastoso che dista solo pochi chilometri, un gruppo di ragazzi svaligia le abitazioni di alcuni tra i personaggi più famosi della frivola Hollywood.





lintrepidoC’era un giovanotto, molto saggio e gentile. Dicono che vagasse molto, molto lontano, per mare e per terra. Era un po’ triste, la stanchezza negli occhi. Ma era molto saggio... Finché un giorno, quel giorno, la magia valicò la mia strada, e mentre parlavamo di tante cose, di folli e di re, questi mi disse: «La cosa più grande che mai si possa imparare, è solo per amore ed essere amati in cambio».
(Nat “King” Cole, Nature Boy)

Figura intera


alt(English Version)

NoveDicembreDuemilatredici

Soundtrack: Eddie Vedder - Guaranteed

È da quasi un mese che rimando questo scritto. Non per pigrizia o per costipazione del tempo. Ma per un cruccio che non so risolvere. Mi spiego.
Scrivere su una rubrica di teatro.
L’idea iniziale era provare a restituirvi per scritto un’esperienza vissuta questa estate in Romania, al Festival estivo di Rosia Montana, luogo che lega musica, teatro e laboratori ad una lotta nel mezzo delle montagne rumene contro una multinazionale Canadese che vuole riaprire una cava per l’estrazione dell’oro che “ammalerebbe” tutta la valle. (Parole come LOTTA… VALLE… l’analogia è facile…).
Progetto bizzarro il nostro1, sulla carta un workshop teorico e pratico di teatro, nella pratica un viaggio interstellare partito dal fango, partito da una domanda:

IS THIS LAND MINE? (può una domanda far partire una rivolta?)


punzoLa stagione teatrale del Kismet OperA di Bari si è aperta lo scorso 26 ottobre con Hamlice, lo spettacolo scritto e diretto da Armando Punzo e messo in scena dalla Compagnia della Fortezza. Dal 1988, gli attori-detenuti del carcere di Volterra portano “fuori” storie e personaggi per invertire i tempi, rifondare gli spazi e immaginare altri confini. Una vera e propria rivoluzione che attraverso i testi letterari passa per il teatro, sovverte la lingua e le forme, per provare a immaginare possibilità altre di sottrarsi a un ruolo definitivo, scritto per sempre.
Partendo dall’Hamlice, abbiamo discusso con Armando Punzo di queste possibilità, di come i corpi degli attori divengano altro nella contaminazione infinita con il mito.


«Vedere un corpo significa proprio non afferrarlo in una visione: la vita stessa vi si distende, vi si spazia».
(Jacques Derrida)

La rovina si mostra da sempre in atto come forma data e mai pienamente compiuta. Se c’è una connessione tra il cinema e il teatro non è tanto nell’inventare la rappresentazione quanto nell’esorcizzare, attraverso la rappresentazione, l’inesorabile deriva della visione dentro i luoghi di un abbandono che sembrerebbe irreversibile. Se il cinema è la forma più riuscita di “teatro fotografato” perché ha riprodotto infinitamente la disgregazione naturale degli elementi (della finzione)1, il teatro rende impossibile la ripetizione fissa di un crollo a venire, ma ne inscena la caduta nella durata di un’azione finita e mai uguale.


È uno stormire di bambine in tutù a sussurrare all’orecchio la folle intenzione: «Mercuzio non vuole morire!». Nonostante gli scontri e le ferite, riprende fiato si rialza e combatte di nuovo, duellando con chiunque abbia una spada perché forte è il desiderio di rivendicare la sua esistenza, e lui sa bene che il teatro e la poesia lo possono salvare.
L’idea scandalosa di questo spettacolo della Compagnia della Fortezza è che Mercuzio non vuole più essere «un sogno iniziato all’apparire della storia», e si ribella a quel testo che lo costringe, ormai da 400 anni, a morire, troppo presto, ogni sera. Non è più disposto al sacrificio per un dramma che non gli appartiene, non accetta che il suo nome sia sinonimo di tragedia: sì, perché quando Mercuzio esce di scena cominciano le morti di tutti i giovani della «bella Verona», che macchiano di «sangue veronese mani di veronesi».


ritorno a casaAnni Sessanta. Teddy, divenuto professore universitario, torna dall’America, dopo nove anni, nella casa londinese, un universo proletario maschile in cui vivono il padre, due fratelli e lo zio; la madre è morta anni prima. L’uomo arriva di notte, con la moglie, una donna che i familiari non conoscono. Non ha avvertito nessuno.


«Muscoli e nervi sono più sicuri di tutte le preghiere. […]
Ciascuno di noi
tiene nelle sue cinque dita
le cinghie motrici dei mondi!»
(Vladimir Vladimirovič Majakovskij, La nuvola in calzoni)

Interrogate ben bene le proprie vertebre ha deciso di credere solo all’evidenza di ciò che agita le sue midolla, non a ciò che si indirizza alla ragione (cfr. Artaud in Pasi 1989, p. 31). Virgilio Sieni inventa una danza in memoria per commemorare le vittime di piazza Fontana, la strage per antonomasia della storia della Repubblica italiana, quella del 12 dicembre del 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano, pensandola come un gioco del tatto che infrange il tabù del tocco: «quale gioco un danzatore può proporre nell’incontro con persone che hanno vissuto e resistito agli sconvolgimenti della vita? L’unica risposta che sento, la più vicina al senso di quest’esperienza, è il “toccare con mano”» (Sieni).

Cineteca


Su Veit Harlan, uno dei più discussi registi del cinema tedesco, pesa, irredimibile, la “scomunica” cui la sua fede politica, la sua formazione culturale e il film al quale è tristemente legata la sua fama lo “abilitarono”. Eppure, al di là del pur non eccezionale rilievo nel panorama cinematografico europeo, la sua filmografia merita attenzione proprio perché ci restituisce con tratti inconfondibili e nelle sue linee essenziali la fisionomia complessiva del periodo storico in cui si colloca: una filmografia “datata”, ma proprio per questo di indubbio interesse per un’analisi della temperie culturale della Germania nazista. Nell’esecrazione che coinvolge il suo operato, si rischia però di trascurare qualche film che non merita l’oblio.

Screamadelica


altPer me, lo so – lo sapevo quest'estate quando ha cominciato a girare nello spazio di giornate ferme (I Don't Mean To) Wonder, blocco distorto di due tre note mistiche e tragiche, estatica avanguardia lanciata a suggerire le stelle fredde –, Stars Are Our Home dei Black Hearted Brother è uno di quei dischi stupefacenti, attesi per molto tempo; venuto da un altrove sempre in via di facimento/disfacimento fantastico; e dilatato nella sua fibra di sinestesia gialla verde fucsia blu, e fredda, in odore di bruma, ancora più scintillante e sonora se si ha un cappello di lana giallo e blu e qualcuno a fianco con cui affrontare l'enorme spazio stellato, la superficie caveosa dei pianeti, con pozze di vernice fiottante sotto luci e lune.

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Una deflagrazione atomica sul punto di inghiottire una città in lontananza oppure il fuoco sordo e incolore che avvolge lo scorcio di una città in un'alba fumosa. Diverse le prospettive di interpretazione a cui si presta la copertina di Tomorrow’s harvest, ultimo disco dei Boards of Canada. Del resto una plausibile chiave di lettura di questi primi anni di nuovo millennio potrebbe facilmente stare in una dialettica che oscilla fra l’inevitabilità della fine e un ritrovato sentimento di intimità, di condivisione, di sogno.
Diciassette componimenti dal suono decisamente umbratile e asciutto come fomentato da un sentimento dell’irreparabile, scandito probabilmente dalle folate di uno scenario apocalittico di una catastrofe imminente, o di una catastrofe già avvenuta (Fukushima?), il cui lascito resta taciuto, imbavagliato. Tomorrow’s harvest allora sembra sintonizzarsi lungo le frequenze distopiche di un capolavoro del passato: Radioactivity (1975) dei Kraftwerk. D’altronde il duo scozzese lo si può considerare figlioccio della storica formazione di Dusseldorf, che è riuscita egregiamente per prima nell’intento di volgere la musica elettronica verso una forma-canzone rispetto, ad esempio, alle suite intransigenti degli albori stockhauseniani.

Della serie


alt«In televisione non c’erano regole, eravamo degli anarchici, potevamo fare quel che volevamo perché eravamo i primi a sperimentarla, nessuno poteva dirci esattamente cosa e come farlo, perché nessuno l’aveva mai fatta prima. Nel momento in cui ci siamo dedicati al cinema, l’abbiamo fatto con molta irriverenza. Rispettavamo John Ford e i suoi western, ma volevamo fare il nostro film western. E forse questa forza ci veniva proprio dalla televisione, dove nessuno ci impediva nulla. Io ho fatto delle cose incredibili in TV. Per esempio: dovevo girare una scena con un uomo su una sedia a rotelle. Volevo fare un primo piano e montarlo con un’inquadratura in campo lunghissimo con lo sfondo a fuoco. Ora, gli obiettivi di cui disponevamo in televisione non mi permettevano di fare queste cose. Così ho fatto costruire una piccola sedia a rotelle e ci ho messo sopra un nano, ottenendo così l’effetto prospettico desiderato…»
(Arthur Penn)

Michele Sardone

Cinema e televisione sono, da anni, posti l'uno di fronte all'altro come due antagonisti, fino a decretare che, se il cinema dovesse morire (o se è già morto), ad ucciderlo sarebbe stata la televisione. La prima volta che il cinema ha rischiato di morire (o almeno, di perdere la sua natura artistica) è stato per mano dei regimi totalitari, che hanno rappresentato in maniera spettacolare la storia che stavano scrivendo: «le grandi messe in scena politiche, le propagande di Stato divenute quadri viventi, le prime manipolazioni umane di massa» (Daney) superavano il cinema, andando ben al di là dei piccoli orrori cinematografici che si celavano dietro la rappresentazione per immagini. Dietro gli allestimenti spettacolari del potere c'erano i campi di concentramento.

UZAK 11 | estate 2013

Lo stato delle cose

Luigi Abiusi

To-The-Wonder-Trailer2Annunciato in uscita per il 23 dicembre 2012, constatata dai distributori l'inconsumabilità di quello che pensavano, forse, potesse essere un prodotto festivo (gli ingredienti sembravano tipici: storia d'amore, attori stagliati nella loro riconoscibile, commercializzabile bellezza, luoghi oleografici, i viaggi - la morte -, eccetera), To the Wonder è stato congelato per mesi, per poi uscire in sala nel calderone incandescente dell'estate, ma insieme, almeno, ad altri film difficilmente piazzabili, di quelli scarni, silenti che fanno sfigurare la bancarella versicolore e gommosa della piazza (ad esempio Holy Motors, La leggenda di Kaspar Hauser, ancora lui; La quinta stagione, ecc.).

Victor Erice

kiarostami(Versione Originale)

Nel 1994, una proposta della rivista «Cahiers du cinéma» ‒ scrivere di una pellicola a scelta per un libro che intendeva commemorare il centenario della nascita del cinema ‒ portò per la prima volta Jean-Luc Nancy a riflettere sull’opera di Abbas Kiarostami. Il libro non venne mai pubblicato, ma il testo, dedicato a E la vita continua (Zendegi va digar hich, 1992) ‒ unica pellicola di Kiarostami vista a quei tempi dal filosofo francese ‒, fu divulgato grazie alla rivista «Cinémathèque».

Alessandro Baratti

Il ny a pas 1«On peut baiser et baiser encore, mais on ne fusionne pas»
(Bruno Dumont).

Il pressbook di Il n’y a pas de rapport sexuel si apre con queste parole: «Da più di dieci anni HPG [Hervé Pierre-Gustave] registra e archivia i making of delle sue riprese con una camera-testimone piazzata su un treppiede. Originariamente queste migliaia di ore erano destinate a dei siti pornografici per una diffusione in live-cam, vale a dire in “falsa diretta”. È a partire da questa materia bruta che Raphaël Siboni ha realizzato un documentario»1. Ma che cosa ha spinto HPG, pornodivo affermato e pioniere del gonzo francese, ad aprire i suoi archivi privati? E perché un titolo così paradossale per un film di montaggio composto da blocchi di making of che mostrano riprese di film hard? Alla prima domanda credo si possa e debba rispondere assai perentoriamente, senza timore di suonare moralisti: nobilitare il proprio lavoro, riabilitare la natura di un genere comunemente considerato come l’ultima spiaggia del cinema, dominio seriale della sessualità idraulica.

Andrea Bruni

sunrise 2«Se chiudo gli occhi compaiono fosforescenti fioriture e appassiscono e rinascono come carnosi fuochi d’artificio… Mani che sinistramente si chiudono in una luce pallida e assi scricchiolanti su strade di medusa» (Robert Desnos)

«"Oltre ai Monti/ della Luna/ giù nella Valle delle Tenebre/ cavalca, cavalca intrepido",/ così l’ombra gli rispose/ "se vai in cerca d’Eldorado!"» (Edgar Allan Poe)

Gemma Adesso

angelica39«Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze di trine. […] Passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi» (D. Campana, La notte, in Canti orfici).

La divinazione delle visioni percepite per mezzo di uno specchio è definita catattromanzia e lo specchio, si sa, è il giocattolo preferito da Dioniso: «ecco la folgorazione orfica: Dioniso si guarda allo specchio e vede il mondo» (Colli 2005, p. 42). Il modo in cui un dio si esprime è nell’apparenza.

Giovanni Festa

FESTANella religione azteca la dea Coyolxauqui non ha le forme tornite della sua epigone mediterranea, Artemide, né, come la bella dea lunare, è nata sulle rive di un fiume.
Ella nasce dal corpo divorato dal fuoco del dio Tecuciztecatl, che si buttò nelle fiamme per creare l’astro notturno, punto lattescente nel cupo cielo primordiale. Inoltre, come attesta un bassorilievo del Templo Major a Città del Messico, il suo corpo è un ammasso smembrato. Suo fratello, il sole, l’ha infatti fatto a pezzi adoperando il Serpente di Fuoco. La dea indossa una cintura di serpenti che le stringe la vita, campanelli le pendono sulle guance e un copricapo a forma di mezzaluna le copre la testa. Sui suoi arti smembrati compaiono piccoli aspidi guizzanti e teste stilizzate di serpente.

Cecilia Ermini

piavoli«Mi piace costruire un cinema che richiami i valori della musica e della pittura più che le regole del teatro. Un cinema che non segua una linea narrativa tradizionale ma che crei il racconto attraverso la concentrazione di diverse voci, di diverse immagini, di diversi frammenti, per trarne un mosaico policromo, un concerto polifonico» (Franco Piavoli)

Tommaso Pomilio

tetsuo-metal-fetishistPer quanto penetrato da circa due secoli, dal cuore del romanticismo più torbido, nel profondo del rimosso occidentale, e fin dal manifesto tecnico postulato nel 1912 per la teoresi futurista («noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall’idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell’intelligenza logica»1), l’uomo bio/meccanizzato – assemblaggio di parti bullonate o feticcio, elettrificata sarcitura di necrotica carne – invade ogni centimetro degli schermi cinematografici, all’albeggiare di quella nuova era terminale che possiamo riconoscere negli anni Ottanta. E di lì, sorto dalle frange più deviate e parossistiche dell’immaginario di massa, andrà a installarsi a pieno titolo come protagonista inalienabile del set di fine/inizio millennio; ossia, di terminale in terminale, come il soggetto nuovo imbrigliato nel network della città virtuale, delle sue piazze desertificanti e chiassose: hardware di nuova carne in alta tensione, energia immaginaria iniettabile da una catastrofe di bioporte fino alla purità dei labirinti virtuali estaticamente senza uscita (fra Strange Days e eXistenz). Per riassumersi infine nello spessore smateriato d’una pelle di avatar, di cui rivestirsi nell’intimità d’ogni laptop: entro il battito invisibile d’altro spazio scandito da connessioni senza fili, a riaccelerarsi ad ogni accensione in giri vorticosi di questo (non) nostro oltremondo. Se il soggetto-cyborg affonda la sua invasione d’ultracorpo nel paesaggio, virtuale o concretamente catastrofico, designato dal design d’un’era telematica, è perché viene a trovarsi sempre più al centro ormai del sistema sociale. O forse, perché è in sé figura della rete sociale, assoluta ed espansivamente disponibile e densa di smateriate identità: modulare connettività di soggetti a sé inconoscibili, e che, fermi sulla postazione (cablata o senza fili), si slanciano in forme di dialogicità soliloquianti.

Nicola Curzio

antiviralIl Film come un corpo. Qualcosa che muta e si trasforma, in un continuo divenire; che vive (e muore) in ogni istante, in ogni inquadratura, fino a quando lo schermo non diventa completamente buio e si riaccendono le luci in sala. Qualcosa, dunque, che è soggetto alla contaminazione: la contaminazione dello sguardo, prima di tutto.

Luca Romano

Cavallo di TorinoIl deserto è l’assenza primordiale del tutto che non conosceremo mai, ma che avverrà e passerà; una percezione indistinta della fine di tutto quello che faremo. Il deserto è nodo e chiodo contemporaneamente.

«Il chiodo è ai sedentari, dove lo pianti resta inchiodato, ultima minimale derivazione edile» (Ferretti 2006, p. 116).

Michele Sardone

tobey maguire in the great gatsby-wide-wallpaperSe le baracconate vanno viste nei baracconi, allora il luogo migliore per vedere Il grande Gatsby dev’essere un multiplex. Non è solo un pregiudizio snobistico (del resto inveratosi puntuale in previsione azzeccata), ma una constatazione formulata a posteriori, dopo che la sua visione venisse preceduta da una buona mezz'ora di spot alternati a trailer di film fracassoni: il flusso di immagini pubblicitarie (profumo glamour; auto di classe che sfreccia in una metropoli angosciosamente deserta; l’ultimo tanga alla moda) e sequenze catastrofiche (la furia sovrumana de L’uomo d’acciaio; la fuga umana di World War Z) e infine pubblicitarie-catastrofiche (The Bling Ring, l’ultimo tanga di Paris Hilton) non ha soluzione di continuità con l’inizio della proiezione vera e propria, e solo dopo qualche minuto, quando ci si accorge che la sequenza che si sta vedendo è un po’ troppo lunga per essere un trailer, si viene sorpresi dal film senza essere pronti al suo inizio.

Matteo Marelli

http://www.youtube.com/watch?v=qZePS5JyUOg

Holy Motors è visione senza fine né inizio, da riprendere daccapo, o dal mezzo, nel mezzo, dando nuove direzioni a linee che s’intersecano, come in un labirinto senza vie d’uscita.

Mariella Lazzarin

Holy maskMotore. Azione. Potere. Tre definizioni o forse sarebbe più appropriato definirli lemmi che si sedimentano tra le pieghe di Holy Motors: un film che dichiara un’esigenza di accumulo imponente interiorizzando da una parte tutto il cinema precedente e, dall’altra, mostrando il rapporto effettivo e complesso tra l’individuo, la società e gli oggetti che abitano la realtà circostante. «Essere e oggetti sono legati» dice Baudrillard «e gli oggetti assumono in questa collusione una densità, un valore affettivo che si accetta di chiamare presenza» (2003, p. 20). Presenze che nel film di Carax diventano esistenze manifeste, oggetti liberati dalla loro funzione primaria in grado di alimentare il loro metabolismo attraverso una nuova soggettività senza limiti ovviamente inversa e contraria dal funzionamento del Reale.

Raffaele Cavalluzzi

Amour-2«Vai a farti fottere, vecchio coglione!» è l’insulto con cui una badante si congeda dallo scontroso ultraottantenne suo datore di lavoro (Jean-Louis Trintignant), che la licenzia per la sua stupida superficialità nelle cure prestate a sua moglie, una vecchia signora (Emmanuelle Riva) invalidata irrimediabilmente da un ictus. L’oltraggio ha il merito di lacerare quella cortina di ovattata ipocrisia con cui la società avvolge e sostanzialmente distanzia da sé, rimuovendolo, l’emblematico episodio finale per il cui tramite la malattia senile suggella per i due protagonisti di Amour – film di rigorosa tristezza di Michael Haneke – un’esistenza – agli occhi del senso comune – protrattasi forse troppo a lungo.

Francesco Saverio Marzaduri

kerenesPoziţia copilului, recita il titolo originale. Stando alla traduzione, “posizione”, ovvero punto di vista, quello “del figlio.” Un figlio, tale Barbu (Bogdan Dumitrache), da annoverare nella già cospicua casistica di giovani irrequieti di cui il cinema rumeno, nella fattispecie quello attuale, è puntellato sino ad essere divenuta tematica tra le più assiduamente costanti. Ma a differenza dei figli “postdicembristi”, questo Barbu, più che altro, sembrerebbe detenere parentela con quella classe sociale appena abbozzata in alcuni illustri precedenti cinematografici (si pensi al fidanzato benestante di una delle protagoniste in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni), vagamente accennata senza essere indagata a fondo. E anziché un dolente segmento storico, a gravare sulle spalle del giovanotto è un rapporto d’odio, sfociante in un feroce conflitto, con la figura materna.

Tsukamoto Shin'ya

tsuka(Versione originale)

Da bambino avevo la testa fra le nuvole.

Visto che non andavo bene a scuola, per fuggire da quelle preoccupazioni scindevo il mio cervello dal corpo e volavo nel mondo della fantasia.

Nel mondo della fantasia ero assolutamente libero, mi perdevo nella storia che avevo costruito nella mia testa. A volte esprimevo tutto questo con delle immagini. Il mio libro di testo diventava tutto nero a causa delle immagini di fantasia che fluivano dal mio cervello.

Giampiero Raganelli

lavReduce dall'entusiastica accoglienza a Cannes con il suo ultimo lavoro, Norte, the End of History, Lav Diaz si conferma come uno degli autori di punta del cinema mondiale. Lo abbiamo incontrato a Milano in occasione del festival “La Milanesiana”.
(a cura di Matteo Marelli)



Vincenzo Martino

solondzIn occasione della rassegna “Registi fuori dagli sche(r)mi 2” abbiamo avuto modo di ospitare Todd Solondz, tra i più spietati poeti dell'angoscia borghese americana, giunto in compagnia dell'amico/collega Bruce Wagner, celebre scrittore nonché autore di Maps to the stars, sceneggiatura dell'ultimo lavoro di David Cronenberg.




Inchiostro di kine

Luigi Abiusi

1000246 497433107010929 1555294181 nIl testo è tratto dalla postfazione al volume Il signore del caos. Sion Sono, a cura di Dario Tomasi e Franco Picollo, ed. CaratteriMobili, 2013

«In un attimo di smarrimento, potrei prenderti le braccia, torcerle come uno straccio lavato da cui si spreme l’acqua, o romperle con rumore, come due rami secchi, e poi fartele mangiare, usando la forza. Potrei, prendendoti la testa tra le mie mani con un’aria carezzevole e dolce, affondare le mie dita avide dentro i lobi del tuo cervello innocente, per estrarne col sorriso sulle labbra, un grasso efficace, che lavi i miei occhi, indolenziti dall’insonnia eterna della vita». (Lautréamont 1978)



 

 

Michele Sardone

recycled cinemaUn lavoro di montaggio di citazioni, suggestioni e aneddoti aggregati fra loro da un'idea di cinema: è questo Recycled cinema, ultimo libro di Marco Bertozzi (che, oltre a essere saggista, è anche professore di Cinema documentario all'Università IUAV di Venezia e film-maker); ma è questo anche lo spirito, secondo lo stesso autore, del found footage (letteralmente: metraggio ritrovato), ovvero di quella pratica di ritrovamento e di reinvenzione dei filmati d'epoca: «utilizzare un film nella sua parte fisica, materica per trarne nuove esperienze della visione».
Il libro di Bertozzi si propone esso stesso come opera di recupero e di ricombinazione: ritroviamo La verifica incerta di Grifi e Baruchello e riemergono, tra gli altri, Gioli e Ken Jacobs, Peleshian e Chris Marker, tutti autori che hanno fatto del found footage un'arte del ricordo e che rischiano a loro volta di essere dimenticati. Abbiamo incontrato Marco Bertozzi durante il laboratorio Digital Heritage tenutosi a Bari lo scorso giugno presso la Mediateca regionale pugliese e organizzato dall'associazione Frammenti e ne abbiamo approfittato per parlare con lui del suo Recycled cinema.*

UZAK 10 | primavera 2013

Lo stato delle cose

Luigi Abiusi

satatangoA essere obiettivi, a oggi, valutando la questione della distribuzione e della diffusione (in sala) dei film, appaiono prospettive inaspettate, margini per una liberazione della visione, proprio laddove gli esercenti (spalleggiati da molte istituzioni culturali, perché il commercio si sa, è sacro) individuano ragioni di sfacelo, di crisi, di capitolazione drammatica dell’“industria”. Il problema riguarda l’avvento del digitale (anzi, direi, dei vari digitali possibili) nelle sale, che mette al bando la pellicola e con essa le modalità di rigida circolazione dei film (un calmiere di commedie stabilito dal mercato a cui anche certa vecchia critica si adegua di buon grado), in favore di una gamma di proposte (innovative, eversive, febbrili) che può essere infinita.

Grazia Ingravalle

the man beneath 1In occasione del primo anniversario della nuova sede del Netherlands Film Institute – l’EYE, il nuovo futuristico museo del cinema di Amsterdam – l’archivio cinematografico decide di riportare alla luce uno dei tesori perduti di Sessue Hayakawa. Sì, letteralmente riportare alla luce, poiché attraverso la proiezione cinematografica fa rivivere ancora una volta, nell’incontro con lo spettatore della epoca odierna, The Man Beneath (William Worthington 1919). Questo film, come accade a tanti capolavori dell’epoca muta, era scomparso dalla circolazione, sino al 2005, quando accidentalmente riemerge tra la polvere dell’archivio olandese.

Liliana Navarra

monteiro3Mi hanno gentilmente invitata a scrivere un testo per commemorare i dieci anni dalla scomparsa di un grande regista portoghese: João César Monteiro.
Purtroppo non ho mai avuto il piacere di conoscerlo personalmente. La prima volta che mi recai in Portogallo fu nel gennaio del 2003, poche settimane dopo il nostro si spense.
Vero incontro, profondo, lo ebbi con la sua opera sei anni fa, quando vidi per la prima volta un suo film. Era un pomeriggio autunnale, un mio amico mi prestò un DVD: A Comédia de Deus. Il titolo mi ispirava, mi preparai un tè, mi sdraiai sul divano e premetti play.
Quando il film terminò, rimasi stupita e alla stesso tempo estasiata. Avevo già avuto svariati approcci con il cinema portoghese con De Oliveira, Botelho, Costa e altri ancora, ma nessuno mai mi aveva segnato come questo, all’epoca per me, sconosciuto regista.

Matteo Boscarol1

oshima«The Man Who Left His Will on Film è il sottotitolo del mio film A Secret Post War Tokyo Story2. Questo sottotitolo illustra l’intero contenuto del film. Un giorno, lo scorso autunno fui posseduto dalla visione di un uomo che lascia le sue volontà in un film. Le mie visioni sono sempre cinematografiche ed il film fu concepito in questo modo.
Di tanto in tanto mi viene chiesto da dove provengono tali idee, ma è assolutamente impossibile rispondere a questa domanda. Appaiono improvvisamente nella mia testa, in alcuni giorni, in certi momenti. È come se sentissi la voce di un’apparizione e posso dire con certezza che sono un artista solo in virtù di queste apparizioni e delle loro voci. Coloro che le vedono e le sentono come me diventano il mio staff ed il mio pubblico» Ōshima Nagisa (1970)

Matteo Marelli

jonesHa ragione Olivier Smolders quando afferma che «la pornografia è il più cinematografico di tutti i generi cinematografici». Perché soddisfa, fino all’indigestione, la pulsione scopica dello sguardo spettatoriale, reso soggetto onnipercipiente, messo nella condizione di vedere tutto, col rischio di spingersi fin dove non c’è più niente da vedere, dentro l’orifizio spalancato, per disperdersi, così, dove nessuna visione è (forse) più possibile. In questo senso il cinema porno è etimologicamente osceno, poiché in esso solo l’ob scaena, ovvero "ciò che non si può mostrare apertamente sulla scena" risulta pertinente alla rappresentazione.
 Quella pornografica è una poetica dell’eccesso. Eccesso di visione: per la volontà di mostrare ciò che i canoni del pudore non vorrebbero venisse esibito. Eccesso di spettacolarità e di invenzione: perché nell’ansia realistica di rivelazione la pornografia va al di là del verosimile; le posizioni sono condizionate dalla presenza di un altro fantasmatico, che è l’occhio della macchina da presa; quindi le improbabili combinazioni posturali trovano una loro giustificazione se considerate in funzione di questo centro ideale della messinscena.

Andrea Bruni

roger-480x270«La macchina da scrivere è la nostra penna. Ma anche quando questa penna è tenuta da un artista, pochi sono in grado di leggere quello che essa scrive, perché la sua storia deve essere letta istantaneamente, al contrario del libro, che si può leggere e rileggere finchè non si è capito. La scrittura impressa sullo schermo non conosce indugi». (Josef Von Sternberg)

Vito Attolini

la chiamano estatePrima di riferire qualche impressione sul film di Paolo Franchi, E la chiamano estate  (uno dei più bistrattati della stagione), è il caso di accennare a quanto sia difficile spesso esprimere un sereno giudizio critico su ciò che si vede nei sempre più affollati festival cinematografici (troppi) che si svolgono a scadenza ravvicinata: autentiche occasioni per una “visione distratta”. Ce lo dice l’accoglienza riservata, nella fattispecie a Roma, al film di Franchi, sottoposto a lazzi e giudizi acri che fanno pensare ad altri obiettivi cui miravano le feroci stroncature, dettate evidentemente da ragioni che poco avevano da spartire con una valutazione un po’ più attenta. È accaduto per molti film cui poi il tempo ha reso giustizia con una doverosa rivalutazione.

Roberta Novielli

Limpero-dei-Sensi-1976Ai no koriida (La corrida dell’amore, questo il titolo giapponese del famoso film del regista del 1976) rappresenta una delle punte più alte della produzione di Ôshima dedicata alla denuncia del proprio paese attraverso i suoi fallimenti: la storia di una coppia vissuta in una stanza è stata spesso intesa come definitiva vittoria del privato sul pubblico. Tuttavia, il film si riferisce a un episodio realmente accaduto nel 1936: la relazione erotica tra Abe Sada e Ishida Kichizo si accende di eccessi, al punto da sperimentare con sempre maggiore intensità lo strangolamento durante l’amplesso. L’uomo, ormai esausto, chiede alla sua amante di non fermarsi e lasciarlo morire. Sada, infine, evira il suo cadavere e porta con sé il pene per quattro giorni, prima di essere arrestata. Dagli interrogatori-fiume che seguono il suo fermo, Ôshima ha tratto con fedeltà i dettagli del suo film, del tutto conforme all’originale amour fou.

Michele Sardone

materia-oscura-01Difficile seguire scrupolosamente questo Bif&st, perdendosi le visioni inedite di quel cinema invisibile (di cui UZAK vorrebbe almeno riflettere una suggestione, una parvenza) in una selva di retrospettive, rassegne, omaggi, tributi dedicati al cinema già visto: come a dire che per ottenere un attestato di maturità ed essere annoverato fra i “grandi” appuntamenti, questo festival infante debba versare un qualche tributo (ne abbiano contati 12) al cinema del passato; con l’inevitabile risultato di dover soffocare il cinema nascituro in visioni uniche, spesso coincidenti con altre visioni egualmente “invisibili” che per molti resteranno tali. C’era forse l’intento di ottenere il massimo numero di pubblico possibile per proiezione: in sala dentro tutti (pubblico e stampa) e tutti in una volta, ma con l’inaspettato risultato che fuori rimaneva sempre qualche scontento a lamentarsi. Arrivati alla quarta edizione ci sarebbe forse voluto un po’ più di fiducia, o daremo ancora una volta ragione a Moretti quando diceva che ci meritiamo (solo) Alberto Sordi… Sembra di rivedere il solito topos per cui la periferia, invece di cercare di affermare una propria narrazione, cerca in tutti i modi di farsi notare dal centro adottandone gli stili, i valori, i volti, le storie: mentre è proprio dalle periferie al di fuori di questa periferia barese che, guarda caso, arrivano le cose più interessanti.

Sergio Arecco

notte e nebbia«In questo testo chiamo shot quello che, negli studi in cui si girano film drammatici, si chiama comunemente cut. In breve, definirei shot “un frammento filmico girato in continuum”. […] In un unico shot, in ogni shot, si deve percepire, grazie al metodo usato dall’autore, il suo temperamento e la sua coscienza del reale. Nel mio ultimo film, Notte e nebbia del Giappone, ci sono solamente quarantatré shots. Vale a dire, in linea di massima, one scene one shot. […] Far durare il piano con una camera che si muove il più liberamente possibile costituisce uno dei miei princìpi tecnici di fondo (il metodo consente inoltre la raffigurazione esaustiva di una scena; una volta, il metodo giusto era considerato quello di tagliare una scena in corso; oggi, quando s’inizia a raffigurare una scena, è bene girarla senza interruzione fino alla fine): sono princìpi stimolati dal flusso di coscienza, dalla soggettività, poiché al flusso di coscienza, alla soggettività dell’autore è affidato il compito di svolgere una funzione critica. Ogni piano deve essere critico. Uno shot deve comportare non solo la critica dell’autore nei confronti dell’oggetto filmato, ma anche l’autocritica dell’autore stesso» (Ôshima in Le pape 1980, pp. 50-52, trad. mia).

Matteo Marelli e Luigi Abiusi

Spring-Breakers-27«Fatevi sotto bambini/occhio agli spacciatori/occhio agli zuccherini». Dopo Spring Breakers il monito ferrettiano vede ribaltate le parti in causa: è il “gangster” a doversi guardare dalla beata ferocia delle adolescenti.
Harmony Korine mostra il lato ferino, orgiastico, brutale, che cova al di sotto del superficialmente innocuo e patinato immaginario giovanilistico. È tutto un catalogo di paramenti e orpelli inerenti per lo più allo scenario gangsta rap-pop: scarpe da ginnastica coloratissime, passamontagna fucsia, canotte, profumi, pistole-fallo, collane che scintillano in sequenze sempre musicate, che sarebbero videoclip d’accatto se non fossero inserite in un congegno perfetto, apparentemente ludico ma in realtà ludicamente e passivamente nichilistico.

Alessio Galbiati

monteiro4«Beve dalle più svariate fonti, esegue piroette in tutti i rami, cancella e omette con la perfezione di un criminale: umore e sovversione sono gli unici tratti lasciati nelle tracce di questo moto perpetuo».
(João César Monteiro, a proposito di De Sade)

«Era una persona di immensa libertà, un grande artista, dal rigore assoluto. Con lui la creazione si faceva nella carne viva. C’era improvvisazione, ma sapeva precisamente quello che voleva. È stupefacente, nel suo lavoro, il modo in cui riusciva ad andare in fondo all’orrore della sordidezza e nello stesso tempo attingere a una luminosità, una poesia, una bellezza straordinarie. Viveva sulla falda tra il fondo degli abissi e il massimo della luce. Era un uomo geniale»
(Manuela de Freitas)

«Eccoci qui di nuovo soli. Tutto è così lento. Così pesante. Così triste. Molto presto sarò vecchio. Allora tutto finirà. Tanta gente è passata per questa stanza. Hanno detto molte cose. Non mi hanno detto molto. Sono andati via. Sono invecchiati. Sono diventati lenti e miserabili, ognuno nel suo angoletto di terra».
(Voce off [João César Monteiro] in apertura al film Recordações da Casa Amarela)

Luca Romano

immagine uzakAll'interno dell'ambito seminariale filosofico “Considerazioni inattuali” in corso a Bari, organizzato dalla professoressa di Linguaggi della filosofia, Annalisa Caputo, in collaborazione con l'Università degli studi di Bari 'Aldo Moro', si terranno le proiezioni di tre lungometraggi (selezionati da Gemma Adesso e Michele Sardone) legati l'uno all'altro attraverso un filo nietzscheano. Nietzsche, infatti, è l'immagine, la rappresentazione della decadenza nel suo splendore e nella sua fine. Il suo pensiero – tratto dalle considerazioni inattuali – è costantemente fuori dal tempo, inattuabile dall'uomo, il nome Nietzsche diventa il luogo di un'utopia. L'immagine e l'opera del filosofo tedesco la rappresentazione di questa utopia, quindi il reale.

Raffaele Cavalluzzi

Reality45663Luciano, pescivendolo e modesto truffatore napoletano, aspira al Grande Fratello (Reality di Matteo Garrone). Va ad una selezione, nel corso della quale i selezionatori e uno psicologo parlano a lungo di lui: ne restano colpiti per probabili turbe psichiche che riscontrano – senza che lui se ne renda conto – nei suoi comportamenti. Non sarà mai “preso”, ma Luciano è convinto che prima o poi succederà il contrario: anzi, immagina che la TV lo controlli e lo faccia spiare per vagliarlo e utilizzarlo adeguatamente nello spettacolo. Per questo impazzisce dolcemente, ma scopre anche la generosità per i poveri, ed è toccato dal benessere interiore che procura lo spirito religioso di cui comincia a essere intrisa la sua solidarietà verso gli umili.

Raffaele Cavalluzzi

The MasterFreddie, il protagonista di The Master (di Thomas Anderson), sarebbe di regola un caso clinico: quello di un marinaio americano disturbato, reduce dalle battaglie delle isole orientali del secondo conflitto mondiale, che si rifiuta di essere curato da medici e psicanalisti. La sua adolescenza era stata alquanto torbida nella banalità del male (il padre morto ubriacone, la madre ricoverata in manicomio, una zia con cui condivideva un sesso precoce e incestuoso): e ora solo intrugli di liquori e droga lo accompagnano nell’oscuro viaggio intrapreso nel mondo ostile del dopoguerra. Rifugiatosi per caso su una piccola nave di crociera, qui incontra – ed è ben accetto – il capo di una curiosa setta religiosa, che predice una sorta di metempsicosi e di mistici rituali che travalicano le leggi della scienza e dei comuni comportamenti di accoglienti salotti borghesi. Il film diventa a questo punto un corpo a corpo tra Freddie e il “maestro” Lancaster Dobb, che si rivela capace di attrarli straordinariamente l’un l’altro. Quindi la loro è solo apparente differenza: alla paranoia anche violenta di Freddie corrisponde l’alienazione religiosa che sublima la smodata ambizione e l’avidità dell’altro.

Inchiostro di Kine

Le nuove forme della cultura cinematograficaAttualmente il panorama della critica cinematografica è quanto mai vasto e multiforme. Se sulle pagine dei quotidiani e dei periodici lo spazio dedicato alla riflessione e alla analisi dei film in uscita si è drasticamente ridotto, con il critico cinematografico di professione che si è visto costretto a cedere il passo al giornalista di costume o allo scrittore o al notista politico, sono invece aumentate grazie alla rete le modalità e le occasioni per fare critica, per dare e ricevere informazioni sul cinema e per ragionare sul fenomeno cinematografico: dai nuovi media (i siti telematici, le testate web, le radio locali), all’editoria specializzata, all’università, ai festival, alle rassegne tematiche, alle tante manifestazioni locali organizzate per iniziativa di enti e associazioni. Eppure quasi per una conseguenza inflattiva, alla moltiplicazione degli spazi e delle occasioni del fare critica, sono pesantemente diminuiti i momenti dell’ascolto e del confronto, si sono marginalizzate progressivamente la funzione e l’incidenza della critica stessa nel processo della produzione e del consumo del cinema. Spesso la critica parla nel vuoto, non comunica, non incide nei processi e nei fenomeni del cinema, restando sempre più ai margini della comunicazione cinematografica fino all’autoreferenzialità, cioè al massimo della specializzazione e/o dell’appiattimento.

Vito Santoro

il-western-italianoIl grande clamore suscitato da Django Unchained di Quentin Tarantino ha inevitabilmente comportato la riconsiderazione del western italiano, fenomeno fondamentale nel quinquennio 1965-1969, capace da un lato di incidere sull’immaginario collettivo, dall’altro di risollevare le sorti economiche dell’industria cinematografica nazionale, allora in riflusso. Basti pensare alla crisi della Titanus di Goffredo Lombardo, letteralmente svenatosi per i forti investimenti richiesti dalla produzione di Sodoma e Gomorra, 1962, di Robert Aldrich e de Il Gattopardo di Luchino Visconti, 1964 (anche se va sottolineato come in quegli anni il valore del mercato italiano superasse ampiamente quello di Gran Bretagna, Francia e Germania…).

Nicola Curzio

Tetsuo  the iron 512cd0e5b9864 220x335Era il 1989 quando un proiettile di nome Tetsuo si conficcava tra/ne gli occhi ipnotizzati di un pubblico attonito che forse, dopo un decennio di visioni, guardava già alla decade seguente, desideroso com’era di velocità, di avanguardia, di futuro. Eppure c’era stato chi, da occidente, aveva a suo modo profetizzato che sarebbe arrivato qualcuno dal futuro per salvare il presente, prima che questo fosse terminato. Il futuro era già presente e nessuno se n’era accorto, non almeno fino a quando uno sconosciuto giapponese, da oriente, spara questo proiettile a velocità supersonica che squarcia il nostro corpo e lo riempie di luce: è Tsukamoto Shin’ya.


Cineteca

Vito Attolini

Annex - Sebastian Dorothy Our Dancing Daughters 03L’inquadratura iniziale riprende dal basso le gambe di una donna che, mentre sta vestendosi dinanzi allo specchio (e, malizioso dettaglio per gli anni in cui fu girata, a un certo punto si infila le mutandine), si muove al ritmo di un charleston: il suo dimenarsi è l’esatto opposto dell’armoniosa compostezza di una danzatrice, la cui immagine apre il film. La donna è Diana Medford, una esuberante ragazza appartenente a una ricca famiglia dell’alta borghesia ed è interpretata da Joan Crawford, un’attrice che nel 1928 – anno in cui fu girato Our Dancing Daughters diretto da Harry Beaumont, di cui ci occupiamo ora – non era ancora la star che sarebbe diventata subito dopo la presentazione del film, il cui straordinario successo fu confermato anche da due successive pellicole affini. L’attrice diventò una delle più ammirate dive dello schermo, dopo una precedente, poco brillante carriera, che comprendeva una dozzina di film, non tutti da ricordare (ma uno di questi, il migliore, The unknown, fu diretto dall’eccentrico Tod Browning, e deve molto alla straordinaria interpretazione di Lon Chaney).

UZAK 09 | inverno 2013

Lo stato delle cose



holy-motorsPare che l'automobile, anzi la Limousine, sia divenuta l'immagine, cioè unico dispositivo di indagine, del cosiddetto contemporaneo, se si vedono le recenti opzioni del Cosmopolis cronenberghiano, ma soprattutto di quell'Holy Motors di Leos Carax, che convoglia perfettamente la militanza, che deve essere non solo della creazione cinematografica, ma anche della critica. È il motore, la macchina, il veicolo dell'attraversamento dello spazio immaginale e del passaggio all'Altro cinematografico, percorrendo il Vuoto che si istituisce tra queste in(ter)dipendenti isole di senso, che vibrano ogni volta (nelle incarnazioni di Denis Lavant e nelle concrezioni del circostante) di sentimento, dolore, perversione, azione anticapitalistica, cioè di Politica, la globalità dei significati, dis-unita proprio attraverso la distanza tra isola e isola. Che è quanto emerge appunto da Holy Motors e che la critica, le critiche, devono mettere in primo piano, nel sogno avatariano di una vita nuova e reale affidata alla carne del simulacro.



lowtide1Siamo sempre più convinti che ciò che condanna il pensiero critico alla ripetizione del fatuo è l’ossessione del nuovo, la convinzione ‒ più o meno consapevole ‒ che ciò che vale la pena vedere, ciò su cui vale la pena scrivere sia ciò che infrange qualcosa di dato per stabilito, un codice, una forma. Ed ecco comparire, volta per volta, entusiastiche ammirazioni per rovesciamenti apparenti, ibridazioni consapevoli, negazioni più o meno annunciate di generi, forme stili. Una sorta di rincorsa spasmodica dell’avanguardia, del nuovo come icona messianica, muove a volte sguardi, percorsi critici, scritture e parole.

Vanna Carlucci - Gianfranco Costantiello

low_tide_minervini2Il modo di girare così calato nella drammaticità del reale ricorda i film dei fratelli Dardenne (d’altronde ho letto che alcuni componenti della truppa dei Dardenne hanno lavorato per questo suo film), ma penso anche al Truffaut de I quattrocento colpi e, soprattutto, al Rossellini di Germania anno zero (nella maniera in cui l’autore è insieme al personaggio). Crede che questi registi abbiano influenzato il suo lavoro? O ce ne sono altri che sente più vicino?

Con Marie-Hélène Dozo, che ha montato tutti i film dei fratelli Dardenne, siamo molto amici e ci frequentiamo anche quando non lavoriamo insieme. Suo marito, Joao Leite, è il produttore dei miei film. Per Low Tide si sono poi aggiunti Julie Brenta (montaggio suono) e Thomas Gauder (missaggio), anche loro stretti collaboratori dei Dardenne. Ciò nonostante, credo che tra i nostri film ci siano grandi differenze, sia formali che sostanziali. I Dardenne partono spesso da un’idea fittizia attorno alla quale costruiscono personaggi e luoghi che, sinceramente, non rappresentano la realtà da cui provengono i Dardenne stessi, vale a dire la Vallonia. I miei film hanno come punto di partenza luoghi e persone reali, ai quali adatto la mia storia, cercando di coglierne e di rappresentarne al meglio le proprie idiosincrasie. Ed è proprio in questa mia ricerca dell’autenticità che m’ispiro principalmente a Rossellini.
Ci terrei inoltre a citare Lav Diaz, che ammiro profondamente per avere il coraggio e l’ambizione di raccontare la(e) storia(e) delle Filippine, un film, un’ora, un fotogramma alla volta. Anche a me piacerebbe raccontare, film dopo film, la(e) storia(e) della vera faccia dell’America, quella del profondo Sud.



lowtide1Low tide si estende nel dominio di elementi primi, terragni, prati oppure terricci apparsi all'improvviso, regno di lordure e rifiuti (magari di latta: sparuta risorsa per i vagabondi, come quelli della Reichardt, in fila a questuare centesimi, e, in contrappunto, mettiamo, gatti morti, impallinati in Gummo), o grigi cavalcavia tipicamente americani – con smog e via vai di macchine sullo sfondo – simili a quelli percorsi da un altro tacito bambino visto qualche anno fa nei paraggi del cinema americano indipendente, quello con le orecchie da coniglio di Gummo appunto (vero canone non solo del cinema di Korine, prima che si attualizzasse in senso pop in Spring Breakers, ma in genere di una certa rappresentazione ruvidamente realistica di un mondo, di un'America subumana), che col suo deambulare dava conto di uno spazio (urbano e suburbano, ma soprattutto cinematografico) e di un'umanità residuali.

Massimo Causo

minerviniLa disciplina dell’indifferenza nutre e organizza il senso dell’esserci del dodicenne protagonista di Low Tide, nemmeno un nome per nominarlo, ma non di meno una presenza forte e contraddittoria nella sua evidente fragilità infantile. Minervini gioca la carta della sua lampante solarità per ricoprirla della polvere della periferia suburbana, disegnando questo ragazzino come un contrappunto in fuga dall’iconografia metropolitana degli skeaters alla Van Sant, per esempio. Non c’è identità, per questo ragazzino, la sua soggettività appartiene solo all’indifferenza di cui è oggetto e alla quale lui risponde nella disarmonia delle mille attenzioni di cui ogni suo atto è espressione. La sua comunicazione silenziosa è fatta di gesti di comunione, di riparazione, di armonizzazione. La verità affettiva di cui riveste l’indifferenza della madre è fatta di esperimenti che occupano la distanza: dormire nel letto che ha preparato per i pazienti dell’ospedale in cui lavora, assaggiare di nascosto il cibo che lei sta mangiando, lavare le sue lenzuola...

Gianfranco Costantiello

da_lontanoLe immagini nel cinema di Santini sono lo scarto di uno sguardo diaframmatico, interiore, evanescente. Docile reclamo verso la finitezza dell’inquadratura, limite che, prima ancora, è proprio dell’occhio, impreparato a trattenere lo spazio intorno. Si susseguono come in un sogno: rincorrono e descrivono traiettorie di luce e buio, oltrepassano soglie e varchi, si sgranano fino a cogliere l’impenetrabile che è scosso dai sussulti di ciò che resta fuori campo. La loro contiguità, se penso soprattutto al lungometraggio Flòr da baixa, viene tenuta dal sonoro ‒ che intreccia fuggevoli ascensioni musicali al respiro segreto delle stanze d’albergo, al tramestio delle strade, allo sciabordio delle onde che torna spesso come a suggerire l’andirivieni, il moto ondoso dell’immagine che appare, schiuma e si perde ‒ e dal ri-attraversamento di un corpo-fantasma di donna che guarda dalla finestra, ché il cinema di Santini è un affacciarsi sul tempo. 

Michele Sardone

in_gialloForse per far emergere alla superficie filmica una non-storia dalla Storia impaludata nella propria autonarrazione è necessario che anche il regista cancelli se stesso. Non poteva far eccezione quell’auto(narrato)re di Carlo Michele Schirinzi che nel suo ultimo lavoro, Natura morta in giallo, cancella dalla scena se stesso, la sua storia, il suo stile, il suo tocco, per dar spazio ad altri corpi, altre storie, altri talenti, altri tocchi.

Giampiero Raganelli

il-cinema-di-koji-wakamatsu-cover«I film di Wakamatsu Kōji offrono ai loro spettatori un’esperienza che non ha equivalente alla luce del sole. È la voce del desiderio, dei propositi delittuosi, e quindi della miseria screziata, che echeggia nella notte». Con queste parole Ōshima Nagisa (1970) si è espresso nei confronti del regista suo protégé, che ha voluto peraltro come produttore per il suo scandaloso Ecco l’impero dei sensi (1978).
Wakamatsu ci ha lasciato improvvisamente il 17 ottobre del 2012, a 76 anni, dopo una carriera di cinquant’anni e di oltre cento film, ancora nel pieno dei suoi progetti e dei suoi tour per i festival di tutto il mondo. Portato via da un incidente stradale, investito da un taxi, proprio come Angelopoulos.

Mariella Lazzarin

deathrow_2179913bL’abolizione della pena di morte
verrà come la morte,
non come la pena di morte,
non si sa quando.
(Jacques Derrida)

 

La morte. Con Death Row e Into the Abyss, Werner Herzog radicalizza la sua poetica di fatti reali ‒ del resto anche My Son, My Son what have ye Done è tratto da una vicenda veramente accaduta ‒ per spostarla letteralmente negli abissi di una storia celata, rimasta necessariamente al buio. Uno sguardo distaccato, una dichiarazione d’intenti, una radicalità drastica, perentoria. Herzog costruisce una cupa tassonomia di sottrazioni: dapprima lo spazio, teso e claustrofobico, per la sua stessa imposta impossibilità di mostrarsi al pubblico; poi il tempo, cinquanta minuti d’intervista ai cinque detenuti, l’amara consapevolezza di un destino ormai segnato, le rinunce, le ammissioni, le ricostruzioni e le lacerazioni; infine la presa di coscienza della impossibilità di agire, la competenza solamente umana di cambiare il proprio destino relegata a divenire spazio chiuso dell’eterna attesa, l’estrema sintesi dove le intenzioni possono prendere vita solo nella parentesi di un miraggio, nell’estensione incisa di una chimera.


mon_voyageIl cinema non è un soggetto. Tutt’al più è un oggetto di riflessione. Nelle sue innumerevoli manifestazioni chiama sì in causa intere legioni di soggetti reali - i cosiddetti addetti ai lavori - ma nessuno di loro, per quanto si affanni a sottometterlo alla propria volontà, ne può controllare l’esuberanza semantica, la spinta centrifuga. Il cinema, insomma, è un’entità paradossale: accoglie docilmente in sé la pulsione espressiva di soggetti disparati, ma non si riduce a tradurla pedissequamente, a dattilografarla. Si presta senza assoggettarsi, si concede mantenendo una certa indipendenza. Questa autonomia non ha niente di soggettivo, d’intenzionale: si configura esattamente come un surplus, un’eccedenza, una resistenza all’ordine imposto da forze estranee. Non c’è autorialità o logica spettacolare che tenga: la materia cinematografica, per quanto pensata meticolosamente o generata digitalmente, sfugge alla traduzione dell’idea che l’ha concepita, resiste alla manipolazione integrale. Ebbene, questo surplus è precisamente l’altro del cinema. Un’alterità che si concretizza prendendo le distanze dalle intenzioni della messa in scena, giacendo sotto di essa, sedimentandosi in un fondo letteralmente inesauribile, suscettibile di infinite scorribande interpretative.


Il_primo_uomo-44491084La sesta edizione nei Tascabili Bompiani dell’ampio frammento del romanzo postumo di Albert Camus Il primo uomo (aprile 2012, a cura di Catherine Camus, trad. di Ettore Capriolo) è uscita quasi contemporaneamente col film che Gianni Amelio ne ha tratto ispirandovisi. Amelio ha trovato nell’opera di Camus l’occasione per trasferirvi il tema centrale della sua vicenda artistica ed esistenziale: la ricerca del padre e, in assenza di lui, delle sue radici nel profondo nostro Sud (la metafora del viaggio è particolarmente significativa nel cinema più maturo di Amelio, da Il ladro di bambini a Lamerica, da Le chiavi di casa a La stella che non c’è).



todo_modo(dal libro L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri, a cura di Diego Mondella, Pendragon, 2012)

«Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo? No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi».
(Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari)



2_e_Cristian-Mungiu-_Beyond-the-HillsNon c’è, ma c’è. Anche in quest’opera cinematografica, meno direttamente “politica” all’apparenza e focalizzata su un tema sin qui inedito per il Noul Val Românesc, quello della spiritualità popolare, di quel retaggio religioso accantonato e a volte rimosso, ma ch’è presente e che torna ad affiorare. Anche in questo suo terzo lungometraggio (e mezzo) di cui è regista e sceneggiatore, Cristian Mungiu mette in gioco topoi e stilemi figurativi, corpi e luoghi ricorrenti che riconducono După dealuri (Oltre le colline, 2012), coerentemente, nel novero stilistico della nuova produzione rumena. Ne mantiene lo stesso sguardo lucido sin quasi al cinismo, l’analisi priva di condiscendenze, l’attenzione agli aspetti sociali più tipici del Paese, e magari più sconosciuti fuori.



silentsouls2I connotati formali di Silent Souls di Aleksei Fedorchenko (misuratissimo ritmo dalle giuste pause, nitida e perfetta fotografia, interpretazioni dense e reali, paesaggi pieni d’aria e di rare atmosfere, gesti e toponimi sconosciuti) si esaltano, con splendida regolarità, nel sentimento dell’amore della natura dei superstiti delle antiche popolazioni ugro-finniche dei Merja; e trovano esito originale nella cadenza onirica del tragitto funebre a bordo di un’auto per le strade solitarie del Nord-Ovest dell’alto Volga, in Russia, accompagnato da echi di canti dallo struggente timbro corale.


bella_addormentata2Fa parlare, com'è ovvio, l’ultimo film di Marco Bellocchio, presentato alla 69° mostra del Cinema di Venezia, dopo le difficoltà incontrate con la Film Commission friulana, da cui è partita la campagna anti-censoria, condivisa da gran parte della critica. Dunque attesissima. Coraggiosa. Emblematica. È la Bella addormentata. Ci vuole più coraggio per vivere o per morire? Sembra essere questa la prima domanda che viene in mente dopo aver visto il film di Bellocchio. Un film che, come sappiamo, prende le mosse dalla vicenda di Eluana Englaro, protagonista assente, che resta sullo sfondo a fare da collante alle altre storie che a essa si intrecciano.

Matteo Marelli

caraxin-holymotorsIl cinema non è mai morto. Perché il cinema non è MAI STATO. Non è mai esistito in una sua fisionomia immutabile. Ognuno sa cos’è e per ognuno è diverso. Se due lo pensano uguale si stanno fregando. Troppo facile piangerne la scomparsa e intellettualmente disonesto redigere accorati necrologi celebranti la cerimonia di un addio: avere una posizione passatista significa dimostrare un accanimento parassitico nei riguardi di un’idea di cinema già da altri teorizzata. Non occorre trincerarsi dietro facili (o difficili…) certezze ideologiche preconfezionate, ma tentare di comprendere il cambiamento per elaborare risposte adeguate.

Grazia Ingravalle

carol-1910Nello stesso anno in cui il grande pubblico (ri)scopre il genio innovatore di Georges Méliès attraverso Hugo Cabret, riemerge anche uno dei più favolosi film del cineasta prestigiatore, Le Avventure di Robinson Crusoe (Les Aventures de Robinson Crusoé, Georges Méliès, 1902). (Di questo film finora si conosceva solo un breve frammento di modesta qualità in bianco e nero). Il nitrato, interamente colorato a mano, fa parte di una donazione alla Cinémathèque Française da parte di un collezionista di dispositivi cinematografici dell’epoca muta ed include, tra le altre, opere di Étienne-Jules Marey, Edison, Pathé e titoli del Phono-Cinéma-Théâtre.

Cineteca

trialCom’è noto, Clarence Brown era il director prediletto di Greta Garbo, protagonista di sette fra i film della folta filmografia del regista. Brown (che a proposito della grande svedese disse di «averla sempre diretta in tono sommesso: i miei consigli non erano niente più che dei sussurri»), fu uno dei più rappresentativi cineasti della stagione d’oro hollywoodiana, quella caratterizzata dalla politica culturale dello studio system, dei cui meriti, spesso discutibili ma talvolta autentici, fu espressione significativa quanto non di rado eminente. Grande talent scout di attori, che evidentemente amava molto, nei duri anni della Depressione era solito dire, accennando al potere carismatico dei veri divi ‒ gran parte dei quali facevano parte della “scuderia” della MGM per la quale girava i suoi film e che di attori era ricco («più stelle che in cielo!» era lo slogan di questa major): «quando uno dice: lasciamo i piatti nel secchio e andiamo a vedere Joan Crawford […] vuol dire che quella è una vera star».

Inchiostro di kine

Matteo Marelli

east-of-bucharest-corneliu-porumboiu-2Francesco Saverio Marzaduri dimostra ferma autonomia intellettuale. Quando rifiuta il pensiero corrente, circa il riconoscimento di una nouvelle vague romena, sostenuto, oltre che dai diretti interessati, anche da una delle voci critiche più autorevoli della Romania, quella di Alex Leo Şerban, secondo cui «non ci sono onde, ma solo individui a sé stanti» (Şerban in Marzaduri 2012, p. 117), lo fa con cognizione di causa. Presa di posizione supportata da solide argomentazioni, che sono quelle che costituiscono il suo saggio, Noul Val. Il nuovo cinema romeno 1989-2009, primo articolato studio – teorico, analitico e di sintesi – mai realizzato finora sulla cinematografia romena.



piccolo-mondo-anticoCinema e Storia: uno “stato dell’arte”, sia per quel che riguarda gli aspetti teorici sia per quel che attiene le linee di ricerca, è costituito dal volume Cinema e storia (a cura di Raffaele Cavalluzzi e Marco Penzi) che si presenta articolato in tre sezioni: nella prima sono raccolti quasi tutti gli interventi di una tavola rotonda svoltasi a Bari nel 2009 in occasione della pubblicazione del volume Visioni retrospettive di Vito Attolini; la seconda comprende una serie di saggi e ricerche; l’ultima è dedicata a note di lettura e discussioni critiche.

UZAK 07/08 | estate/autunno 2012

Lo stato delle cose

low_tide_minervini2I ritorni di settembre riguardano tutta una costellazione di riverberi, sebbene non sia passato molto tempo dalla fine della Mostra di Venezia o del Festival di Locarno, in cui c'è stata la prima presentazione del Film in cui nuoto è una febbre, seguita da quella veneziana il 3 settembre, ragione per cui il numero 7 di Uzak non è uscito in tempo, accorpandosi adesso all'8, in un'edizione doppia che rappresenta il transito verso un autunno di rimuginazioni. Prima tra tutte il capolavoro di Terrence Malick To the wonder, che ho già difeso (nello speciale dedicato alla mostra) da ogni – pur ragionevole – critica, e di cui scrivo diffusamente nel prossimo Filmcritica (per dire, tra l'altro, di una rivista eponima a cui Uzak si sente vicino), perché si tratta di un lirismo spinto, eccedente, manierista come certe “croste” dalla cui immobilità trasudi inquietudine elevata a monismo.

riefenstahl_ex_olympia_12Estratto da S. Velotti, La filosofia e le arti. Sentire, pensare, immaginare, Laterza, Roma-Bari 2012

Abbiamo già accennato al ruolo che l’immaginazione svolge nella percezione del reale, sottolineando come, nel caso della produzione e fruizione artistica, il lavoro dell’immaginazione si svincoli dal suo ruolo di servizio nei confronti dei concetti e dell’agire pratico (per i quali fornisce schemi, illustrazioni, piani) e venga in primo piano nella sua relativa autonomia (quando accade che sono piuttosto i concetti e le azioni che devono fare i conti con la complessità dei prodotti dell’immaginazione, senza riuscire a venirne a capo in maniera soddisfacente o esaustiva).

killer_joePrologo metafisico

Gli Dei Monocoli, sui loro troni di marmo, governano ed osservano. I loro nomi son nomi di leggenda… Fritz Lang, John Ford, Raoul Walsh… In un cielo gravido di nubi, da Walhalla, mille spiragli concedono agli Dei Monocoli un rapido sguardo sui resti di Hollywood, la Grande Babilonia. Ma da molto, moltissimo tempo gli Dei Monocoli sembrano mute statue lignee con aria da Sfinge. Troppi fantasmi senza pace urlano fra Il Sunset Boulevard e la Morgue. Anime in pena sbranate dal Moloch del Buon Senso. Ed i suoi cuccioli dementi: il Politically Correct e la Censura Catodica.

tuttalavita05aMettere il lavoro in immagine, mettere l’immagine al lavoro. Sembrerebbe una pessima battuta, soprattutto in tempi in cui il lavoro si perde sempre più facilmente e il tasso di disoccupazione è salito a dei livelli che non si riscontravano da anni. Eppure il cinema italiano, anche se lentamente e con tutti i problemi strutturali di un’industria anch’essa piuttosto in crisi, al lavoro ci si è messo, ed ha provato a interrogarsi sul fenomeno, o almeno a renderci un’immagine di quel mondo così variegato che risponde alla definizione di precariato. I titoli degli ultimi anni sono a dire il vero in numero piuttosto scarso1, eppure manifestano un chiaro orientamento del cinema italiano, che, oggi come ieri, sembra prediligere il filtro della commedia a tinte grottesche per restituirci una realtà a tratti surreale, che riusciamo ad accettare soltanto ridendoci sopra, per quanto amaramente.

dupa_dealuri_largeIl Caso. Si tratti di personaggi principali o di contorno, le figure che attraversano la seppur ancor breve filmografia di Cristian Mungiu – e, a ben guardare, un po’ tutta la recente produzione cinematografica romena – quasi sempre sono guidati dalla casualità degli eventi. Eventi, come dimostra la più vetusta delle tradizioni narrative, a loro volta molto più grandi di chi vi si trova coinvolto. Paradossalmente, però, non dovrebbe suonare strano come il topos della casualità, tale sia divenuto nella cinematografia in questione, se si pensa all’avvenimento più rilevante accaduto in Romania vent’anni fa or sono: quel 21 dicembre 1989, che vide la disfatta di Ceauşescu in seguito a una sommossa popolare, per l’appunto un episodio trascorso nel segno della casualità.



taurusTerza puntata dello studio che UZAK ha deciso di dedicare alla Tetralogia del potere di Sokurov. Dopo il Faust (2011) e Il Sole (2005), il riavvolgimento del nastro prosegue inseguendo Toro (2001).





moloch-1999-01-gQuarta e ultima puntata dello studio che UZAK ha deciso di dedicare alla Tetralogia del potere di Sokurov riletta nei termini della fiaba. Dopo il Faust (2011), Il Sole (2005) e Toro (2001), il riavvolgimento del nastro si ferma dinanzi a Moloch (1999).



fass«Non conosco altra persona, oltre a me, che insegua con tanta disperata ostinazione quell’utopia probabilmente infantile e impudente che si chiama amore (queste parole, signori miei, bastano a smascherarsi, non è così?), e che affronti angosciosamente sempre le stesse dolci amare esperienze. Ma l’esperienza non serve mai…»: così scrive Fassbinder (in Crucciani 2010) in un breve intervento su Werner Schroeter. Quello sguardo, sempre sull’orlo di una depressione fatale, lascia intuire come per lui l’amore costasse fatica; tanta, da risultargli, alla fine, essere addirittura più freddo della morte.


Arca_Russa_Screenshot«Mi metto in cima al baratro e ci danzo/ su, più squilibrato/ del daino;/ ma meno del maiale.// Non corro alcun pericolo, m’appoggio/ al vuoto delle masse/ celesti che si plasmano/ sulla mia figura.// Il vento mi trapassa/ tra le gambe, sul collo, sotto i piedi:/ imparo la ginnastica del mondo/ i passi della faccia successiva (Marco Guzzi)

Il cinema danza. È danza. In esso danzano le immagini che si incontrano e si allontanano, che si sovraimprimono, fondendosi, quasi a non volersi lasciare andare. E danzano le luci, le ombre, i colori, i corpi, i gesti, gli sguardi e le parole, in un moto infinito di corrispondenze. Di congiuntivi imperfetti. Di ombre del desiderio.

rothkochapelAttraverso Shame di Steve McQueen, ecco un tentativo di rileggere alcuni film dell’ultima stagione cinematografica che hanno un tema in comune: l’iconoclastia, intesa come insofferenza per la perfezione delle forme che si traduce in desiderio dell’apocalisse.




hunger-fassbenderCon Hunger, il suo primo magnifico e stravolgente lungometraggio, il video artist inglese Steve McQueen procura allo spettatore una netta sensazione di abissalità; e, perfino dai suoi apparenti margini, offre una chiave di lettura “religiosa” e, ad un tempo, conseguentemente immanentistica, che trova nella sua originale cifra espressiva una sorprendente conferma.

quijoteLa storia della sua vita è la storia dei suoi libri. Alonso Quijano, ormai incapace di vivere un’esistenza al di fuori dei poemi cavallereschi, sottomesso alla propria folle visione, decide di partire alla volta di un viaggio visionario, per salvare fanciulle e combattere le iniquità. In virtù dell’epica avventura che lo attende si ribattezza Don Chisciotte della Mancia.

diaz-filmPrima di passare a identificare la qualità specifica della struttura di questo film, che ne fa uno dei prodotti più interessanti della cinematografia italiana di questi ultimi tempi, è bene sgombrare il campo da qualche equivoco che si è addensato sul confronto critico-giornalistico che ha accompagnato la sua uscita. È stato dunque registrato da non pochi che il film non mette in chiaro le responsabilità politiche (salvo una fugace immagine di una famigerata conferenza-stampa di Berlusconi) nei fatti di Genova 2001 e nei crudi episodi del massacro della Diaz e delle torture della caserma di Bolzaneto.

Michele Sardone

fanteriaAlessio Di Zio sembra soddisfare l'idea romantica che comunemente si ha del talento: folgorante, sbucato da chissà dove, messo a servizio di lavori brevi e discontinui. Eppure Di Zio è maturo per una retrospettiva (nel prossimo dicembre, a cura del Cineclub Canudo, nel consueto appuntamento dedicato al cinema sperimentale di "Avvistamenti") e all'ultima Mostra di Venezia, nell'ambito della sezione collaterale Cinema Corsaro, ha presentato tre suoi cortometraggi: Fanteria Cavalleggeri, Appunti per un film su Rodolfo Valentino e Roberto Pellegrinaggio.

Im_Still_HereFacciamocene una ragione: la metà degli italiani non va MAI al cinema. Questo il dato che emerge da una ricerca condotta da Anica lo scorso anno. Nel 2010 (l’anno di Avatar!) si sono staccati poco più di 210 milioni di biglietti, ovvero un “reddito pro capite” di due visioni, neonati compresi, in un anno. È ormai troppo tardi per piangere sul latte versato: in passato si sono commessi molti errori, soprattutto sul fronte della chiusura delle sale di prossimità che hanno impoverito il tessuto urbano, culturale ed economico, oltre ad aver impedito di “coltivare” il pubblico (vedi alla voce Francia). Ma che senso ha oggi guardare al passato, quando nel presente nemmeno l’arcinemica tv riesce a mantenere il primato sulle giovani generazioni (nonostante la resistenza dello status quo) e il mercato home video sta morendo?

Cineteca

lettera_da_una_sconosciutaQuando, dopo una lunga assenza dalla sua città natale, Josef von Sternberg ritornò a Vienna per un temporaneo soggiorno, scoprì una città ben diversa da quella che aveva lasciato molti anni prima, quando decise di emigrare in America. Scrisse a tal proposito, senza nascondere il suo rammarico, di aver trovato «una splendida città diventata il volgare parco dei divertimenti del mondo» per colpa di «un’armata di invasori che, deliziati da una musica carezzevole, richiedevano che la città divenisse un gigantesco cabaret». Il suo sconforto nasceva pure dall’aver constatato che i viennesi apparivano disarmati dinanzi a tale realtà, lasciando che la loro città «o piuttosto, mi dispiace dirlo, la sua carcassa» andasse «in decomposizione». Il grande regista scriveva queste parole nel 1922 in singolare disaccordo con tutto ciò che aveva fin allora (e avrebbe ancora) caratterizzato a lungo l’immagine di Vienna nel cinema, non soltanto austriaco.

UZAK 06 | primavera 2012

Lo stato delle cose


kaspar«Così la sicurezza (la “cosa”, come dicono i giuristi) significa: 1°. violenza sulla natura: lavoro. 2°. violenza verso l’uomo: proprietà» (C. Michelstaedter).

La scomparsa di Theo Angelopoulos e di Tonino Guerra e gli anniversari di Pasolini (che oggi avrebbe novant’anni) e Carmelo Bene (morto dieci anni fa) succedutisi negli ultimi tempi, se da una parte ci mettono di fronte alla constatazione di un impoverimento, di una perdita senza rimedio, soprattutto a confronto con l'attuale depressione culturale (quindi etica) dell'Europa mediterranea; d'altra parte, in virtù dello scintillio renitente delle loro opere, delle loro rovine ad innesco, ci chiamano, mi pare di capire, a una resistenza e a un rilancio, anche oltre l’ufficialità un po’ inamidata, confindustriale, appunto, del manifesto allestito dal “Sole24ore”.


eleni-2004-12-g(Versione originale)

La mia amicizia con Theo Angelopoulos risale al 1971, anno in cui fu rappresentata ad Atene la mia prima pièce teatrale. L’anno precedente era uscito il suo primo film Ricostruzione di un delitto. Ne ero entusiasta. Theo Angelopoulos utilizzava un linguaggio cinematografico, su più livelli, completamente nuovo. Anche il suo sguardo sulla contemporaneità greca ai tempi della dittatura militare era nuovo: distaccato e oggettivo. Esaminava minuziosamente la situazione di uno spopolato villaggio greco con lo sguardo distante dell’osservatore. 


morto-theo-angelolupos_02-large A Erland


Prologo


Lo sguardo di Ulisse (To vlemma tou Odyssea, 1995) è il film che – non solo per la posizione intermedia che occupa nella filmografia di Angelopoulos, tra la prima trilogia della storia, seguita da una serie di opere dal contenuto via via più esistenziale, e la seconda (incompiuta) trilogia della storia, anticipata da un film-ponte come L’eternità e un giorno – ci racconta meglio di ogni altro   che cosa significasse, per lui, il cinema: una perenne, estenuante meditazione per immagini sulle potenzialità e i limiti della visione cinematografica, sul complesso rapporto tra visibile e invisibile. Lo sguardo di Ulisse è il film che ci racconta meglio di ogni altro come ciascuna opera del regista greco sia stata un modo d’interrogarsi sul senso del fare cinema oggi, dopo l’eclisse del moderno e le mistificazioni del postmoderno – almeno a giudizio di Angelopoulos, che ha continuato fino alla fine a concepire il cinema come continuum narrativo e a sperimentarne la struttura più classica: quella del viaggio.


recitaLa storia non è finita, non può realmente finire; né mai le storie hanno termine. Lo sostiene in un appena udibile fruscio la voce fuori campo che, nell’incipit de La polvere del tempo (2009), accompagna il carrello avanzante alla volta dell’ingresso di Cinecittà in cui un regista va a ricercare il proprio passato. L’avvio dell’ultimo film licenziato in toto da Anghelopulos (nella regia, nello script pur date le collaborazioni, nel concetto di fondo), secondo segmento di una trilogia iniziata con La sorgente del fiume (2002) e interrotta drammaticamente dalla morte del grande cineasta, falciato da un motorino ma vittima della crisi greca e dei tagli imposti al paese dall’Europa dei banchieri (l’autoambulanza che doveva soccorrerlo e condurlo in ospedale si è dovuta fermare per un guasto risultato poi fatale per la salvezza di Anghelopulos), afferma una verità difficile da pronunciare; una verità avversa coraggiosamente alle parole d’ordine che oggi vanno per la maggiore, ma infine necessaria. Perché un discorso sul presente, della Grecia dell’Italia stessa del mondo, può venire riavviato solo alla condizione di rimettere le cose sulle loro gambe, non invece capovolgendole.


La-leggenda-di-Kaspar-Hauser-300x184Nessuno mette in discussione, se il contatto è avvenuto – e non è facile, perché film di godimento "francescano" come Girotondo e Beket sono stati nascosti agli sguardi indiscreti dal nostro submercato e dalle nostre istituzioni culturali pubbliche – la prepotenza visuale, la "superbia" espressiva, lo charme magnetico, e lo stile saturo fino a esplodere dei film in bianco, nero & grigio di Davide Manuli.


calderonilun 26 gen - Ravenna, Italia.

Inizio da questo. dall'inizio.
"Ciao Matteo!! Sarebbe un onore poter sostenere con voi il lavoro di Davide. Sai, le tre settimane trascorse sull' Asinara sono state un turbinio di emozioni, un tornado nella mia vita. E come ogni tornado, quando è in corso non capisci nulla, l'unica cosa che puoi fare è agire. Agire, reagire agli stimoli, cercare di vivere con un cuore sorridente l'occhio del ciclone. Bello, bellissimo, ancora brodo primordiale nella mia mente, sento di aver arricchito il mio bagaglio emotivo, di aver incastonato una gemma rigogliosa nella mia vita.


sherifPersonaggi impossibilitati ad agire, posseduti da una musica ossessiva in spazi sterminati colti in un grigiore lisergico. Vedendo i suoi film si è colti da una vertigine nichilista amplificata da una pregnante teatralità. Qual è il rapporto fra il suo cinema e il teatro?

Questa domanda mi mette in crisi, perché rischia di diventare un trabocchetto per il lettore… e io non voglio permettere che questo accada.


gifuni_preteAll’interno di questo zoom approfondito sul “caso” Kaspar Hauser, abbiamo voluto intervistare lo scrittore Giuseppe Genna, autore del monologo del prete (interpretato da Gifuni) particolarmente significativo per riflettere sul film specifico e sul cinema in generale.



turin.horse_Radicalmente altri sono gli oggetti inanimati, per esempio le pietre, che Heidegger prendeva a emblema delle cose «prive di mondo» (prive di mondo, direi, in quanto costituiscono il mondo, nella loro estraneità minacciosa, incomprensibile). Il problema comincia con gli animali («poveri di mondo», li definiva Heidegger), di cui percepiamo l’estraneità, e insieme i sintomi di una misteriosa affinità, almeno con alcuni, almeno con quelli ai quali conferiamo il privilegio di un nome (il nome sopravvive a chi lo porta, scriveva Derrida, uno dei pochi pensatori che si sono occupati del ruolo degli animali nella filosofia).


luck2In un’epoca in cui le immagini, soprattutto quelle di più geometrica casualità – la granata ripresa col cellulare finché non ti uccide mandando a nero (Homs, Siria); l’inclinazione giusta della web-cam per meglio illuminare la penetrazione da tergo della propria ragazza (cam4) – afferrano tutte i loro quindici secondi di flagranza cinematografica (non più celebri dei quindici minuti wahroliani, ma di paurosa esattezza nel realizzarne l’assunto: l’uomo, reso visibile, scompare, e la tecnologia resta a segnalare la poesia celibe di questo vuoto), è probabile che al contrario il cinema possibile sia quello capace, come nelle serie tv Usa, di fissare l’immagine in un basso continuo, di fingerla così immutabile nella sua ronde magistrale, da dirottare ogni scatto visionario sulla parola narrata (scritta e sceneggiata) che la anticipa e la sogna.


takeLeggere Take Shelter – seconda fatica di Jeff Nichols apprezzata sulla Croisette nello scorso maggio dopo il suo passaggio al Sundance – come l’ennesimo capitolo di una critica frantumazione del soggetto di quel lungo post 11 settembre che pare non finire mai (non solo cinematograficamente), probabilmente non rende completa giustizia a un lavoro che nelle dinamiche visive adottate ha il suo reale punto di forza, oltre che la sua fondata chiave di lettura.


shame6Brandon (un eccezionale Michael Fassbender) è protagonista e vittima di una infinita coazione a ripetere, nella sfera unica del sesso, di un'angoscia compulsiva, e Shame, il secondo lungometraggio di Steve MacQueen, ne costruisce il profilo drammatico secondo la tipologia dell'alienazione individualistica di un adulto americano che vive, nella solitudine della folla anonima metropolitana, la condizione esasperatamente fallocentrica prodotta da una miscela micidiale di narcisismo ed impotenza ad amare.


cristo_in_corpo«Non ho altro modo di conoscere
il corpo umano che viverlo,
cioè assumere sul mio conto
il dramma che mi attraversa
e confondermi con esso».
(Maurice Merleau-Ponty)

Pasolini è stato un uomo d’azione, «carico di rabbia politica e sociale, di una consapevole tristezza e di una tragica solitudine» (Morandini in Pasolini 1998, p. I), pronto a «gettare il proprio corpo nella lotta» (Pasolini 2003, p. 150), a fare della propria biografia, non soltanto intellettuale, materiale pubblico del suo fare poetico.
Il percorso artistico pasoliniano è profondamente segnato dallo scandalo della corporeità, dalla fisica e fortemente anomala partecipazione dell’autore alla sua opera. Il poeta, riversandovi la propria esistenza (anche quella più intima, personale, sempre però filtrata e arricchita da influenze letterarie ed artistiche che, come messo in luce da Stefano Casi (cfr. Casi 1990, pp. 23-25), hanno dato vita non tanto a un codice autobiografico quanto piuttosto autobiografistico), risulta essere sempre presente «come protagonista corporeo, scrivente-scritto e quasi toccabile» (Giudici in Pasolini 1995-1999, p. XIX).

SUN-03-webSeconda puntata dello studio che UZAK ha deciso di dedicare alla Tetralogia del potere di Sokurov riletta nei termini della fiaba. Dopo il Faust (2011), il riavvolgimento del nastro prosegue verso Il Sole (2005).

«C'era una volta...
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno». (Collodi)


Il Sole è la storia di un dio burattino che voleva diventare un bambino vero. Il burattino si ritrova a capo del Giappone, viene nominato imperatore e venerato dai sudditi come una divinità. Non deve far nulla, ma quel nulla deve farlo bene: scrivere patetiche poesie, sezionare granchi, presiedere riunioni di gabinetto, mangiare, dormire e andare regolarmente al gabinetto. Ma soprattutto deve reggere la pantomima del dio sceso in terra, lanciare proclami, difendere l'orgoglio di una nazione – se necessario, fino a far la guerra.

Inchiostro di Kine


siegleIl cinema di Don Siegel

a cura di Fabio Zaniello

Ed. Il foglio, Piombino 2011

pp. 325

 

Personalità eclettica e stravagante, regista dalle mille sfaccettature, abile direttore di attori affermati e scopritore di talenti, nonché illustre figlio di una Chicago opulenta e frenetica, Donald (Don) Siegel (26 ottobre 1912 – 20 aprile 1991) continua a pungolare la curiosità di studiosi di cinema e giornalisti. Il suo impiego della macchina da presa come endoscopio introdotto nelle pieghe del magma sociale, la sua capacità di modificare il corpo testuale dei polizieschi, della fantascienza e del western giustificano l'elevato interesse attorno alla sua produzione.



copertina_uzak_1
Prossimamente in libreria il primo volume cartaceo di «Uzak»: Il film in cui nuoto è una febbre. 10 registi fuori dagli scheRmi, con saggi su Lisandro Alonso (Luigi Abiusi), Olivier Assayas (Simone Emiliani), Lav Diaz (Giampiero Raganelli), Bruno Dumont (Giulio Sangiorgio, Alessandro Baratti), Michel Gondry (Grazia Paganelli), Yorgos Lanthimos (Michele Sardone), Davide Manuli (Gemma Adesso), Kelly Reichardt (Sara Sagrati), Ulrich Seidl (Matteo Marelli), Apichatpong Weerasethakul (Massimo Causo) e la postfazione di Roberto Silvestri.
Di seguito riportiamo un estratto della prefazione di Luigi Abiusi. Buona visione.

Cineteca


Carmela_film«Non avevo mai interpretato film psicologici: l’intimo tormento dei personaggi non era l’ingrediente preferito del cinema di allora; pochi vi si cimentavano ed erano pionieri. Né, ad onor del vero, io avevo fama di intensa espressività ad eccezione di quella sensuale» (Duranti 1987).





Così, con una franchezza ammirevole, Doris Duranti, famosa attrice “di regime” del ventennio fascista, scriveva, nelle sue memorie, a proposito del film più importante della sua carriera, Carmela (1942), uno dei quattro da lei interpretati con la regia di Flavio Calzavara (gli altri sono La contessa Castiglione, 1942, Calafuria,1943, tratto dal romanzo omonimo di Delfino Cinelli e Resurrezione, 1943, dal capolavoro di Tolstoj).

Zero in condotta


io-sono-un-autarchicoDecidere di affrontare gli anni Ottanta non è una scelta da prendere alla leggera. Non è infatti facile riuscire a osservarli da una giusta distanza e con un occhio non eccessivamente critico o nostalgico. In fondo il problema grosso di questo decennio è di non essere gli anni Settanta: perché quando gli anni di piombo diventano di fango è evidente che qualcosa è cambiato e non unicamente in positivo, e perché arrivando subito dopo i Settanta è impossibile evitare il confronto, con il rischio quindi di far fare agli anni Ottanta la figura del “cugino scemo”, a cui si vuole bene anche se non pare essere all’altezza. Il problema principale quando decidiamo di affrontare un decennio come questo è quello della prospettiva.

UZAK 05 | inverno 2011

Lo stato delle cose


Sokurov-Mother-and-Son-ForestÈ passato un anno da quando Uzak, in un ruminato pomeriggio di fine dicembre, mentre guardavo fuori dalla finestra la nenia delle finestre tristemente addobbate, s'accese sfoggiando un viso lubrico che mostrava nel suo specchio, visioni diverse, screzi, sogni, nottetempo. Nel frattempo sono usciti 4 numeri, uno ogni stagione, e decine di recensioni settimanali, secondo la natura ibrida (o ambivalente) che avevamo scelto di darle. Per marcare questo segmento di esisteza (o di resistenza), il nostro grafico Nino Perrone ha deciso di cambiare un poco la grafica, qualche tinta, la font dello schermo-testata, entro cui continua a riprodursi senza sosta, e con ancora maggiore suggestione, l'illusione della proiezione.

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Una parte non trascurabile dell'opera di Claude Chabrol è ancora poco conosciuta (o addirittura inedita) al di fuori della Francia: si tratta dei film che ha diretto per la televisione, ventiquattro titoli realizzati tra il 1974 e il 2010, l'anno della sua morte.
Nella sua produzione destinata alla TV, Chabrol si è misurato direttamente con i generi popolari, come il feuilleton (Fantômas, ma anche, in un certo senso, il personaggio dell'ispettore Lavardin, a cui aveva in precedenza dedicato due lungometraggi per il cinema) e gli adattamenti dei classici (Goethe, Poe, Henry James). Lavorando per la televisione, Chabrol ha sperimentato condizioni di maggiore leggerezza e rapidità realizzativa (i tempi più veloci delle riprese) e le costrizioni dettate dalla formula di trasmissioni cui i telefilm erano destinati. Costrizioni e rapidità che egli adotta come un disegnatore che cambia matita e sperimenta un tratto più essenziale e veloce, cogliendo in pochi tratti il clima, il respiro di un racconto, il carattere di personaggi che hanno poco tempo per vivere la propria storia.



communeSono diverse le connotazioni della categoria “politico” nell’ultimo film di Peter Watkins La Commune (Paris 1871), realizzato nel 1999. D’altra parte, per Watkins stesso la politicità del cinema è definibile come tale in base non solo e non tanto all’oggetto rappresentato, ma anche e soprattutto alle modalità creativo-produttive dell’opera e alla riflessione teorica di critica totale al sistema dei media che l’opera stessa porta con sé.


blackbird-david-harrower-teatro-studio-expo-milano«Qualcosa di marcio mi ha spinto…
Pensavo di distruggere tutto…
Non l’amore che provavo per te».

Una scala di metallo che porta ad un ballatoio chiuso a vetri. Sul palcoscenico: quattro sedie disposte in ordine sparso, una panca di legno, un armadietto, un bidone della spazzatura, un baule su cui sono appoggiate cartacce, avanzi di cibo, lattine e bicchieri di plastica. In un capannone industriale della periferia inglese «uguale a tutti gli altri» irrompe, all’improvviso, una giovane donna di 27 anni (di nome Una): chiede di voler parlare con Peter Rothschild, un ordinario impiegato sulla sessantina (o semplicemente il custode?), che dice di conoscere.


shinoda1Shinoda Masahiro è stato uno dei più importanti esponenti della nouvelle vague giapponese, la cosiddetta nuberu bagu, nata a fine anni Cinquanta in seno alla casa di produzione Shochiku, a opera di un gruppo di cineasti che aveva fatto parte del «gruppo dei sette» (Shichinin no kai), che si proponeva di rinnovare il cinema nipponico.


faust-mediumPer tentare un contributo di analisi del Faust di A. Sokurov è utile forse cominciare dalla fine: dall'indicazione dei titoli di coda secondo cui l'ultimo film del regista russo è l'atto conclusivo di una tetralogia che lo colloca, quasi come conseguenza, dopo Totem, Il toro e Il sole, tre film su tre figure emblematiche (Hitler, Lenin, l'imperatore giapponese Hirohito) di suprema autorità umana nel corso del XX secolo (ancorché – in queste pellicole – osservata dalla discreta marginalità di situazioni della loro vita, in cui vi è tutt'altro che l'esercizio del potere). E' stato osservato che Faust, però, non sembra avere molto a che fare con le opere del ciclo. Non sembra. E tuttavia la sua sostanza ha a che fare, programmaticamente, con il tema della ricerca del potere, giacché Faust è il fondante mito moderno di essa.

faust_420Una questione privata

Questo studio è la conseguenza d’un appuntamento mancato. Quello tra UZAK e Aleksander Sokurov.
Una volta saputo della partecipazione del regista russo alla 68° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con il Faust, e scoperto l’acquisto dei diritti di distribuzione in Italia da parte dell’Archibald Film, contattammo immediatamente la responsabile dell’ufficio stampa, Paola Papi, per cercare di fissare un incontro durante le giornate lidensi.
Non avemmo risposta.


Dangerous_LedeNon è facile focalizzare lo showdown tra Freud e Jung e la contrapposizione delle loro rispettive metodologie scientifiche in una struttura drammatica che sia capace di tradurre anche le tensioni biografiche in un coinvolgente racconto filmico. Lo ha fatto invece, con un risultato eccellente, David Cronenberg in A Dangerous Method (i due protagonisti sono interpretati da Viggo Mortensen e Michael Fassbender) a partire dalla vicenda a suo modo cruciale di Sabina Spielrein (Kiera Knightley), prima paziente affetta da psicopatologia isterica di Jung, e poi, una volta guarita, giovane studiosa che si avvicinò a Freud – ateo e anch'esso, come lei, ebreo – con l'originalità di una ricerca sulla pulsione di morte che si accompagna all'istinto sessuale, mentre, a sua volta, anche Jung, di fede cristiana, l'aveva curata con un rigoroso metodo freudiano, ricavandone però conseguenze che lo avrebbero indotto a divergere pressoché radicalmente dal suo maestro, fino al misticismo e al sincretismo religioso.


le_havreIl microcosmo sociale che il cinema di Kaurismaki riesce a fecondare e a mettere in forma sembra spontaneamente plasmarsi sulla struttura dinamica di un quadro puntinista, dove accennati tratti di pennello accostati gli uni agli altri scoprono il loro specifico volume proprio nell’orchestrazione sinergica dell’insieme che li assorbe.
Questo principio sineddotico che anima più che mai la materia narrativa di Miracolo a Le Havre permette un’esposizione dei personaggi svincolata dai consolidati psicologismi inevitabilmente inscritti in una ferrea concatenazione di eventi fin troppo concentrata a (di)mostrare la propria coerenza finzionale all’interno della macchina diegetica.


melancholia3"Having for his ordinary companion fear and sadness" (R. Burton).

Un pianeta sta avvicinandosi pericolosamente alla terra e rischia, impattando, di distruggerla: il suo nome è Melancholia (che dà il titolo al film più recente di Lars Von Trier). La parola “melancholia” deriva dal greco  melankalia, composta significativamente da mélas «nero» e khalè «bile», e viene più spesso usata per indicare uno stato d'animo di vaga tristezza, insoddisfazione di sé e del mondo, propensione al pessimismo.


un_cuento_chinoSi è conclusa nei primi giorni di un novembre inaspettatamente caldo (benché reduce da uno dei nubifragi più forti che Roma ricordi da anni) la sesta edizione del Festival del film di Roma. A dispetto di infausti pronostici che ogni anno gravano sulla discussa kermesse romana, la mostra diretta da Piera Detassis torna a risplendere, riportandoci ai fasti di certe edizioni passate.

Nonostante la grande disomogeneità e la sovrabbondanza della selezione, nonostante i molteplici aspetti politici che caratterizzano il festival, alcuni dei film presentati si stagliano, in un panorama internazionale, come prodotti di gran livello.

 


schirinzi01gIndifferenti significanti

Dopo avere ospitato, tra gli altri, Zbig Rybczynski, in una delle edizioni scorse, e aver ri-scoperto figure topiche del sottobosco del cinema sperimentale soprattutto italiano, l'“Avvistamenti” di quest'anno s'è concentrato (quasi) tutto sull'opera di Carlo Michele Schirinzi, uno degli eponimi di un fare cinema ultraindipendente (nel chiuso masturbatorio della propria camera), quindi oltre l'oleografia (in questo caso salentina) che potrebbe derivare dalla promozione delle istituzioni, sempre pronte a sciorinare la bellezza delle vedute, la genuinità dei prodotti tipici, e, in seconda battuta, la portata di presunte opere d'arte, invece plasticoso frutto del più corrivo Mercato (interno).


EWO-3Intro

A prescindere dalla pressante questione tematica (l'omossessualità in tutti i suoi gradi e gradimenti) che spesso inficia l'effetto, il portato estetico, di simili manifestazioni – concentrate, anche comprensibilmente, sull'assunto e un po' meno sulla materia-cinema –, alla fine, si può dire che al Bari Queer Festival si è visto del buon cinema. Come se l'alterità – che comunque è tale solo in confronto alla supposta, sociologica normalità dell'eterosessualità – fertilizzi il terreno cinematografico, facendo rigoglire immagini inedite, accostamenti narrativi e, nel migliore dei casi, formali; insomma, imbastendo una qualche teoria di questo cinema, deterritorializzazioni fiammeggianti e fondanti, ipoteticamente, una sempre nuova immanenza.

Cineteca


1945-unter-den-bruecken1Pensate a un incontro fra Jean Vigo e François Truffaut… Non parliamo evidentemente di un incontro reale, perché il regista di Jules e Jim aveva appena due anni quando l’autore de L’Atalante morì (1934). Parliamo di un incontro (cinematografico) immaginario, suggerito dalla visione di uno dei film più (mi)sconosciuti della storia del cinema tedesco, firmato da un regista, Helmut Käutner (1908-1980), sull’opera del quale, dopo l’attenzione riservatagli dalla critica italiana nel dopoguerra, particolarmente per L’ultimo ponte (Die letzte Brücke, 1953), si è stesa una cortina di silenzio, nonostante una filmografia di innegabile rilievo. Il film che prendiamo in esame è Sotto i ponti (Unter den Brücken, 1945), che a suo tempo non fu presentato in Italia, per ovvie ragioni, tenuto conto del drammatico periodo in cui fu portato a termine. Per fortuna qualche rassegna (poche, in verità: ci riferiamo alla bellissima retrospettiva della Mostra di Pesaro del 1995, che ce lo fece conoscere) lo ha riproposto, rivelandone la incontestabile bellezza.

Inchiostro di Kine


la_scienza_del_sogno«Ogni film contiene sempre un’idea del cinema e un’idea della vita. È con queste due idee che mi confronto quando devo capire se e perché un film mi piace, ed è in base a queste idee che decido».

Interrogato da Roy Menarini su quali fossero i parametri valutativi che era solito adottare per formulare un giudizio critico su un’opera cinematografica, Vincenzo Buccheri rispose parafrasando Truffaut. Perché il cinema per Buccheri è «un’introduzione alla realtà» capace di far sviluppare agli spettatori, visione dopo visione, una coscienza critica sul loro tempo; «un film, prima che un prodotto di mercato, prima che un fatto di linguaggio, è una testimonianza esistenziale. E il critico, se non vuole essere tagliato fuori dal dialogo tra il film e il suo spettatore deve saper cogliere quanto di testimoniale c'è in un film: il suo rapporto con le nostre esistenze, ma anche con il mondo» (Buccheri 2010, p. 50).

Cinema Medioevo


Tarkovskij-AndrejRublev1 - Il passato: cinema e storiografia

Ogni volta che si assiste ad un film di ambientazione storica (in questo caso medievale) o “in costume”, il pensiero corre subito alla sua “fedeltà” rispetto agli avvenimenti narrati e/o all’"ambientazione" (soprattutto scenografia e costumi). Si ritiene opportuno, ora, fissare alcuni “paletti” circa il problema della “riproducibilità” del passato e delle relazioni (pericolose) fra Cinema e Storia. Va dunque ricordato che il passato non è riproducibile, che vi è una differenza di linguaggi fra cinema e storia perché il cinema è sequenza di immagini in movimento e la storia, anzi la storiografia, è studio di temi e problemi riguardanti il passato, è prevalentemente basata sullo studio dei documenti e sul confronto continuo con quanto prodotto dalla ricerca storica e i suoi risultati vengono comunicati attraverso la forma scritta. Va infine ricordato che il cinema è finzione e fenomeno artistico-industriale.

UZAK 04 | autunno 2011

Lo stato delle cose


The-Tree-of-Life-trailer-stunning-image1In questi ultimi mesi è accaduto qualcosa di molto importante, non solo inteso dentro l'ambiente della cultura, ma dentro l'ambiente in generale, cioè in “naturale”, se è vero, riprendendo Deleuze (non vedo chi altrimenti, pur volendo), che ogni storia dell'arte è, innanzitutto, storia naturale. La comparsa di quel The Tree of life, che, piaccia o no (e a molti non è piaciuta l'estrema pulizia, rigorosa, religiosa purificazione delle immagini, divenute così stucchevoli, o solo apparentemente), si installa come uno scuro (cioè misterioso) monolito, nella truculenza del mercato-contemporaneo.


timthumb.phpIl giorno successivo all’attribuzione del Palmarès a The Tree of Life di T. Malick, sulle pagine di cronaca di «la Repubblica» C. Maltese raccontava e commentava a caldo: «Continua invece e andrà avanti chissà per quanto il dibattito della critica, divisa tra entusiasti e stroncatori al limite dell’insulto. Fra i secondi, molti ideologi dell'ateismo, che trovano intollerabile e reazionaria la fede mistica di Malick. Ed è un po’ avvilente stare a discutere ancora nel 2011 se un cattolico può amare Buñuel e un ateo può adorare Bresson, se a un sincero [democratico] è consentito ammirare il filonazista Céline o se è giusto separare le parole di Lars von Trier dal suo cinema, magari per decidere che non piacciono entrambi. A parte questo, se c'è uno che può convincere un non credente dell'esistenza di Dio, nel mio caso vorrei che fosse Terrence Malick» (23-5-2011).

 
tree_of_life_jessica_chastainSaggio tratto da "Filmcritica" n. 615/616

«Colui che si spande come una sorgente, viene conosciuto dalla
conoscenza» (Rainer Maria Rilke)

È qualcosa di incommensurabile che si espande da The Tree of Life, sono punti di sguardo senza misura che si intercalano e trapassano in un montaggio che sembra avvenire senza mediazioni nel cosmo visivo e nella mente, la nostra? Quella di una famiglia archetipica (paterno, materno, filiale intrecciati in un incessante incesto visuale, come se le immagini originassero prima della loro origine e quindi travalicassero il prima e il dopo, l'interno e l'esterno.

THE-TREE-OF-LIFE-malick-brad-pitt-jessica-chastain-80-nuove-fotoArticolo tratto da "Filmcritica" n. 615/616

In Malick l’immagine è sempre stata qualcosa a metà fra la grazia e il nulla, sottilissima e siderale, scintillante e smottante fra luce e tenebre, fra principio e fine.
Una vampa tesa e velocissima, che usa gli ostacoli terreni e ultraterreni come altri punti d’accensione, già e di nuovo incanalata e inoltrata nella miriade di deviazioni e derive che pure la generano.
Come se non fosse mai solo l’immagine, ma il residuo di vita sufficiente ad assorbire tutte le vite, sintomatiche e postume, passate e future. Un nucleo assoluto, di cui forse non esiste immagine esatta, né narrazione concorde, ma solo il film che la cerca e talvolta la intravede.


grantorino03«Rendo grazie a qualsiasi Dio ci sia
per la mia anima invincibile:
sono il padrone del mio destino,
il capitano della mia anima».
(Invictus)

I film del regista americano Clint Eastwood sono sempre più cresciuti lungo due direttrici costanti: l'una tematica, l'altra formale. La prima riguarda il tema della difesa dei diritti civili, che scaturisce a sua volta dall'epica – già dei classici western e dei polizieschi – dell'uomo solo, dell'eroe onesto (ma senza scrupoli nell'uso delle armi) nell'impari lotta contro i nemici dell'ordine e della giustizia. L’altra costante dei film di Eastwood, che è venuta sempre più delineandosi via via anche attraverso la pratica di generi e di soggetti diversi, è quella della regia lineare e puntigliosa, capace, specie nei film della maturità, di portare il respiro della pellicola a contendersi il senso del reale, seguendo la verità delle cose con l’asciuttezza di ogni passaggio interpretativo e in virtù della cura di ogni dettaglio (sempre, però, per così dire, senza darlo a vedere).


decalogo5-2Ci sono autori che immeritatamente finiscono nel dimenticatoio di pubblico e critica. È la sorte toccata a Krzysztof Kieślowski, autore su cui è calata una spessa coltre di silenzio. Una rimozione sfrontata e colpevole. Nell’anno in cui tutti vogliono celebrare il centenario della nascita di Nicholas Ray, a noi sembra giusto dedicare un po’ d’attenzione anche ai quindici anni della scomparsa del regista polacco, autore d’una delle opere di più ampio respiro di tutti gli Anni ’80, Il Decalogo. Con la speranza che si torni a far letteratura critica anche attorno al suo cinema.


L’aggettivo centrale, comunque lo si voglia usare, sia in senso proprio - di riguardante il centro - che figurato - utilizzato per indicare un qualcosa di fondamentale importanza - è particolarmente indicato per connotare il quinto episodio del Decalogo di Krzysztof Kieślowski. Il tema di questo episodio, collocato nel mezzo della struttura complessiva dell’opera, relativo all’imperativo apodittico di Non uccidere, può essere considerato come la premessa che ha dato origine all’intero progetto.


1931187«L'immagine dell'inafferrabile nella vita. E questo è la chiave di tutto».
(O. Welles1)

Più che un titolo, un'onomatopea. Se Blob è il rigurgito, il gorgoglio viscerale della sbobba televisiva propinata quotidianamente, Zaum2 è il fendente nell'etere di un ufo avvistato sugli schermi TV, rombo in fuga supersonica, irraggiungibile come il tempo reale in cui l'immagine si dà.
Zaum è stato un programma settimanale in sei parti di circa un'ora ciascuna andato in onda su Rai Tre questa estate, a cura di Enrico Ghezzi e della redazione di Fuoriorario. Tema di fondo è la catastrofe, rappresentata e montata attraverso un «repertorio raro e intenso da più di duemila anni di immagini3 scagliato e proiettato in carezza costante sulle tematiche e le ossessioni del presente fino a provocarne più l’evaporazione che la fissione»4: più che la presentazione di un programma, è la stessa presentazione ad essere un programma, sorta di libretto d'istruzione per assemblare il dispositivo Zaum, marchingegno composto esemplarmente in sei diverse varianti, potenzialmente scomponibile e ricomponibile all'infinito.

Cinema e Medioevo


7sigillo1. Il Settimo Sigillo. Medioevo, partita a scacchi contro il nulla

La generazione precedente alla mia, quella di chi oggi ha tra i settanta e i novant’anni, è stata forse segnata soprattutto dalla radio; quella successiva alla mia, i trenta-cinquantenni, è una generazione decisamente televisiva; la prossima, quella di chi oggi ha fra i dieci e i trenta, è una generazione informatico-telematica, tutta computer e telefonini. Noialtri che stiamo tra i cinquanta e i settant’anni, noi generazione della guerra in Vietnam, del boom economico e del Sessantotto, noi contemporanei di Bob Dylan e di Sean Connery, siamo senza dubbio una generazione profondamente segnata dal cinema, intrisa di cinema. Non che il grande schermo e la pellicola al nitrato d’argento non fossero cose anche di prima: è ormai praticamente un secolo che ogni generazione ha i suoi idoli cinematografici, e Charlot non vale certo meno di Johnny Depp.


lancelot-joust-audience1. Il sogno del Medioevo

Dove abbiamo imparato, dunque, tutto quello che sappiamo sul Medioevo? E come?
Come ha ben scritto Giuseppe Sergi, ciò che colpisce, negli sguardi sul passato, e sul Medioevo in particolare, è la compresenza di due categorie psicologiche antitetiche, assimilazione e distanziamento. Da un lato si cercano aspetti della storia degli uomini nel passato che più facilmente possano dire qualcosa sul presente, momenti di vita quotidiana, o sentimenti ed emozioni, o che, in prospettiva, indichino possibili sviluppi futuri della civiltà; dall’altro, in positivo o in negativo, il passato impone una fascinazione collettiva indotta dalla diversità dell’esotico ritrovato negli stessi luoghi del presente, ma lontano ormai irrimediabilmente nel tempo.

Cineteca


harold_lloyd_reduced«Aveva… un vocabolario comico insolitamente vasto ed aveva in particolare un corpo sapientemente espressivo… I suoi film derivavano dalla vita quotidiana e vi erano vicini più di qualsiasi altro film comico», scrisse James Agee (1950) a proposito di Harold Lloyd, contrapponendo la sua opera a quella dei grandi comici a lui contemporanei, suoi “rivali”: vale a dire Charlie Chaplin e Buster Keaton, dai quali i film dell’homme aux lunettes d’écaille sono stati in parte “oscurati”. La singolarità di questo grande attore, che ebbe la sua stagione d’oro nei decenni Venti-Trenta, trova le sue ragioni in ciò che James Agee definiva realismo ordinario, quotidiano appunto, alla base di una comicità lontana dalla stilizzazione che caratterizzava quella di Chaplin o Keaton. (Sull’opera di questo grande protagonista del cinema hollywoodiano del muto è da segnalare la monografia italiana di Alessandro Faccioli, Harold Lloyd. L’officina della risata).

Inchiostro di Kine


Immagine-15-211x300«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto». (G. Galilei)


Ceci n'est pas un livre: due libri, in forma di quadro.
Un quadro contempla, attraverso le lenti di un cannocchiale, la sua immagine nel riverbero del più prossimo; tra le due immagini non c'è riproduzione somigliante, ma solo il riflesso capovolto di una similarità che si pensa in proiezione.
Il riflesso della prima immagine è letteralmente: (come). Le parentesi hanno il valore lenticolare dell'ingrandimento, ingigantiscono lo spazio della distanza approssimandolo al nulla che attrae: (come) se IL nulla fosse1.


dispersiNon potevamo non incontrarci. Da una parte noi, gli uzaki al (quasi) completo, impegnati da tempo a recuperare film fuori dal cortissimo circuito delle sale cinematografiche nazionali. Dall'altra loro, Sara Sagrati e Alberto Brumana, co-curatori del libro Dispersi (370 pp., 19 euro), edito da Falsopiano, una guida ai film non distribuiti in Italia. E non potevamo scegliere miglior luogo dell’atrio della Sala Perla, durante l’ultima Mostra di Venezia, poco dopo la proiezione di Cut di Naderi, un film che ha tutte le caratteristiche per diventare anch'esso un clamoroso disperso e che scegliamo come nume tutelare del nostro incontro.

UZAK 03 | estate 2011

Lo stato delle cose

ottonieriQuesto articolo è già apparso sul «Verri», n. 25, 2004.

Nei primi giorni di giugno di questo giugno autunnale, bellico, grigio-lucido come pochi nel vacuum delle parate sottovuoto (l’atterraggio dalle Americhe del Principe Cespuglio alle 0.25 l’ho percepito da un battito elicottero sul cielo del cortile, a vigilare sul corteggio da Ciampino ai Parioli) in questo novilunio incipiente di giugno, livido, febbricitante, blindato, e poi, così perplessamente fuori parte, come le naiadi nel centrotavola del cenone offerto dal suo ultimo vassallo, il Cavaliere del Maradagàl; è in questa lunga notte, percorso da brividi strani, che mi sovviene dell’anniversario.


alpsMAIN11Nel sopravvenuto sentore del sonno, specie di apocatastasi della giornata, mi accorgo che quando sono qua, tendo a non guardare mai in alto, quando mi sveglio, per sapere se c’è o no quel sole appiccicoso, che ti scotta la schiena, mentre stai a scrivere di copertine celesti nella sala stampa e di cinema e scrittura che parlano di sé, parlano da sé nella demiurgia di ciò che sfugge miracolosamente all’egida del vuoto, poi uno sguardo dietro, mentre un cinese fantastica sullo schermo del suo computer (le luci elettriche della sua città dove la sua ragazza balla specchiandosi in una vetrina), e alla finestra, il mare.

 eggelingParagrafo tratto dal primo capitolo del volume Abiusi L. {2011}: Per gli occhi magnetici. Campana Pasolini Erice Tarantino, CaratteriMobili, Bari.

1.2. Lo sguardo
«Cercavo armonizzare dei colori, delle forme. Nel paesaggio italiano collocavo dei ricordi» {Campana in Pariani 2002, p. 56}. L’occhio di Campana, dopo essersi posato sul paesaggio, genera una materia – costituita per una parte dall’obiettività di quelle forme – che si carica di un’energia, comincia a bruciare e a deformarsi (espressionisticamente) per la «suggestione», l’attesa di una lontananza, che si vede, si intravede, torna a fondersi col differenziale del panorama del mondo. La ricordanza è antica, altra morfologia che torna a sé, intensità a priori (nel lessico kantiano), o, detto altrimenti, senza tempo, che arriva a unirsi con il presente e giunge a simbolizzarsi in modo del tutto occasionale, sempre imprevedibile, come accade nell’incipit di Scirocco, in cui lo scorcio “attuale” bolognese trascolora nel «ricordo dorato» di un porto, generando l’ibridazione, l’immagine fantastica, articolata, prima che la sua inedita significazione – funzionale, in quel punto, al dipanarsi diegetico – sia sottoposta al processo erosivo della materia narrativa.


gioventGli anni Cinquanta hanno costituito un periodo di transizione nella storia del cinema americano. Hollywood è stata per certi aspetti la risposta a significativi cambiamenti sociali, economici e politici quali l’isterismo anticomunista successivo alla Seconda Guerra Mondiale, la paranoia della Guerra Fredda degli anni Cinquanta, la ripresa economica successiva alla Depressione e al conflitto mondiale. Dopo gli orrori della guerra, l’America cominciò ad avere una visione più positiva e ottimista della vita grazie anche al diffuso benessere sociale. Si assisté alla tendenza, marcatamente americana, a sottolineare l’importanza di uno stile di vita basato sulla centralità degli affetti familiari e della vita domestica e a un accentuarsi della cultura consumista già descritta da Theodor Adorno e Max Horkheimer nel 1944 in termini a dire il vero non positivi.

esposito

Chi ha paura d’amare John Carpenter? Probabilmente chi non ammette che il cineasta vero lo si vede sempre nel film su commissione e se possibile a basso budget (anche se non ammettere questo volesse dire mancare del tutto uno dei più grandi di sempre come Howard Hawks e il suo più decisivo erede come John Carpenter). E sicuramente chi non sa che al cinema per “film minore” non si intende meno riuscito o sottotono (se non nel bla bla bla accademico medio mediatico mainstream), ma segreto, opaco, misterioso, una variazione seducente di temi già affrontati, una bruciante sottolineatura, una necessaria messa a fuoco, un’incursione tanto apparentemente laterale quanto cruciale e centrale.


Impardonnables3
«Nell’immaginario amoroso, niente contraddistingue il più trascurabile stimolo da un fatto realmente conseguente: il tempo viene scosso avanti (mi vengono in mente delle predizioni catastrofiche) e indietro (mi ricordo con sgomento dei “precedenti”): da un niente prende corpo tutto un discorso del ricordo e della morte che mi trascina con sé: è il regno della memoria, arma della risonanza – del “risentimento”».
(R. Barthes, “La risonanza”, Frammenti di un discorso amoroso).

La mia stagione preferita
è l’estate. Il mio tempo migliore è il passato. La scansione in stagioni e la suddivisione in capitoli della vita forniscono la cifra primaria del cinema di André Téchiné. Un cinema, in cui lo scorrere dei giorni, l’avvicendarsi delle età, il passaggio di generazione sono anima vibrante e istintuale di un ininterrotto romanzo di formazione.


le-gamin-au-velo-le-gamin-au-velo-5«Come nel teatro delle marionette, il tutto gesticolerebbe bene, ma nelle figure non si troverebbe vita alcuna»
(Kant, Critica della Ragion Pratica).

«E perché dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappare di nuovo da casa tua?»
(Collodi, Le avventure di Pinocchio).


Comincia già che è uno sfinimento per gli occhi. L’ultimo film dei Dardenne introduce lo spettatore in una dimensione puramente visiva, di affaticamento che non conosce riposo: le soste non ristorano, lasciano semmai che la vista precipiti in un vuoto che – se non è sogno – è vertigine della caduta.


illusionnisteChe cosa porta lo spettatore in sala, di fronte a uno schermo? Il desiderio di intrattenimento. A seconda del gusto personale, dello stato emotivo, dell'impatto che pubblicità e critica hanno avuto su di lui e di mille altre variabili lo spettatore sceglie la pellicola. Il tipo di distribuzione ricevuta da un film nelle sale è un'altra incognita. Ci sono pellicole di mero intrattenimento e di poco valore che hanno la possibilità di mostrarsi al pubblico per delle settimane in ogni sala italiana e poi ci sono quelle opere di pregio o semplicemente piccole opere che riescono ad accedere a una sala di un cinema sperduto per una serata o poco più.


pippo-delbonoG_marelliSolo sino pochi anni fa Peter Greenaway rimproverava al cinema di essere un medium rozzamente conservatore, refrattario alla sperimentazione, se messo a confronto coi progressi compiuti nella pittura del Novecento. Un giudizio che era frutto di una riflessione elaborata prima dell’evoluzione  del dispositivo cine-fotografico in immagine digitale.
Il passaggio di testimone ha dato inizio ad un nuovo corso, chiamato da Francesco Casetti «Cinema due», una definizione con la quale indicare la trasformazione delle immagini cinematografiche e dei dispositivi che le producono; delle inedite forme di consumo e dei nuovi contesti e rituali di fruizione. Una nuova fase in cui viene a mancare il medium di riferimento, come era stato il cinema almeno fino alla fine del secolo scorso, e che produce molteplici esperienze, molteplici schermi e molteplici forme di realizzazione audiovisiva.

Zero in condotta

Vanishing-on-7th-Street-Hayden-Christensen-Foto-Dal-Film-02È ormai abitudine identificare ogni periodo cinematografico con una serie di registi, accumunandoli  ad una cosiddetta “nuova leva” in grado di accogliere nomi sempre nuovi di anno in anno. È questo il caso di Brad Anderson, cineasta che ha all’attivo solo una manciata di lungometraggi, ma che, nonostante questo, è riuscito a imporsi all’attenzione magari non di tutto il mondo, ma di quella “cricca” che riunisce gli appassionati cinema, soprattutto di genere.
Lungo la sua breve carriera questo regista è riuscito a dimostrare che non servono grandi budget per creare la giusta dose di tensione e che il digitale ben si presta per incorniciare quella morbosità tipica di certi istituti psichiatrici caduti in disuso (Session 9).

Cineteca


tonka_attoliniIl periodo a cavallo degli anni Trenta – caratterizzato dall’affermazione definitiva del sonoro nella cinematografia americana e dal più lento avviarsi verso lo stesso traguardo delle cinematografie europee e asiatiche – è fra i più singolari dell’intera storia del cinema. Questa singolarità deriva dal lento costituirsi di un modello filmico che si colloca sul confine ancora incerto che separa il muto dal sonoro, in una fase storica cioè in cui il primo, che aveva affermato il suo prestigio artistico convalidato da molti capolavori, sta per lasciare il campo al cinema parlato, mentre quest’ultimo si rivela, sia pure per poco, incerto nella sua definizione linguistica (si pensi all’iniziale proliferare del cosiddetto teatro fotografato, giustamente deprecato dai più avvertiti teorici e critici della settima arte).

Cine-Medioevo


prefazione_attoliniTratto da Licinio R. (a cura), 2011: Cinema e Medioevo. Immagini del Medioevo nel cinema, vol. I (il volume in formato ebook sarà allegato al numero 4 di Uzak).

Fin dalle sue origini il cinema ha tratto dal passato, dalla storia, materia per i suoi film, anche per quelli la cui durata, come accadeva ai primordi, non superava pochi minuti. Possiamo dire a tal proposito che il film storico è stato il primo fra i “generi” cinematografici. Il francese Georges Méliès, uno dei padri della settima arte, ne fu l’antesignano, visto che era solito inframmezzare fra un film e l’altro di pura fantasia (questi costituiscono infatti gran parte della sua sterminata filmografia) anche alcuni altri che oggi noi definiamo appunto come “film storici” su avvenimenti del passato: nacque così con lui un modello cinematografico che si fonda sulla rievocazione di eventi lontani nel tempo, il cui potere di suggestione sul pubblico sarebbe rimasto intatto nei decenni successivi, fino ai nostri giorni.


nomedellarosa_montefuscoTratto da Licinio R. (a cura), 2011: Cinema e Medioevo. Immagini del Medioevo nel cinema, vol. I  (il volume in formato ebook sarà allegato al numero 4 di Uzak).

I.
Questo testo si rivolge ai docenti di ogni ordine e grado di scuola; ovvero, si rivolge a coloro che insegnano la storia perché sia appresa con piacere o almeno con interesse.
La storia, infatti, non è disciplina molto gradita agli studenti, che spesso, in assenza di un metodo di studio o di una efficace mediazione didattica da parte del docente, si lasciano andare ad un apprendimento di tipo mnemonico. Suscitare la motivazione intrinseca è, secondo me, il primo step metodologico che un docente deve prevedere nel momento in cui si accinge ad affrontare in classe un argomento di studio. La motivazione intrinseca, infatti, si realizza quando un alunno si impegna nello studio di un argomento perché lo trova interessante e prova soddisfazione nel conoscerlo ed approfondirlo. La motivazione intrinseca è basata, quindi, fondamentalmente sulla curiosità rivolta verso l’argomento di studio che viene proposto dall’insegnante.

UZAK 02 | primavera 2011

Lo stato delle cose

 Tempo elastico

Cinema che per molti versi disinnesca il cinema, questo di Ceccarelli, certamente se lo si considera sotto il profilo delle modalità produttive.

La lavorazione di un film, per abitudine inveterata di certo cinema “di mercato”, si colloca entro un arco di tempo limitato, e così è per una molteplicità di ragioni economiche, organizzative, logistiche, tecniche.

 

Häxan, che in italiano diventa La Strega, conosciuto anche come La Stregoneria Attraverso I Secoli, è un film girato tra il 1918 e il ʻ21 da Benjamin Christensen, genio “minore” dell'avanguardistico cinema danese del primo ventennio dello scorso secolo, il cui rifulgere è sempre stato tenuto parzialmente in ombra dall’abbacinante astro di Dreyer. Non è mia abitudine e tantomeno lo è di Uzak insistere sulla pedissequa esposizione di sinossi e trame ma in questo caso è praticamente impossibile scindere l'analisi del dato contenutistico da quella del livello formale, nel senso che il valore del film risiede tanto nella sua sorprendente tessitura stilistica, potentissima, espressionista e percettivamente lirica, quanto nel piano ideologico sottostante, di grande modernità e umanitarismo, che sullo schermo si sostanzia in una calibrata concatenazione discorsiva di generi cinematografici differenti, all'avanguardia per i tempi suoi, ma non del tutto scontata anche ai nostri, che costituisce uno dei valori primi del film.


bruce_leeBruce Lee Then and Now

By all accounts, in the 1970s, Bruce Lee was the very symbol of postcolonial, diasporic multicultural energy (Kato 2007; Miller 2000; Prashad 2001); the embodiment of what Rey Chow has called “the protestant ethnic” (Chow 2002; Nitta 2010). However, in the book From Tian’anmen to Times Square (2006), Gina Marchetti considers the waning of the affect of the socio-political charge of the image and politics of Bruce Lee in America. That is: although in the 1970s, Bruce Lee was this symbol of postcolonial, diasporic, multicultural “protestant ethnicity”, by the 1990s, the passions and problematics associated with diasporic Asian ethnicity had changed in status, form and content somewhat.

la_terra

Un utile spunto d’analisi del rapporto cinema-paesaggio (come vedremo, specificamente quello pugliese) appare spostandosi dalla professionale categoria di “ambientazione” all’ambito critico che, sulle tracce del Pasolini teorico del cinema, è la sintassi del metalinguaggio: la rappresentazione cinematografica del mare, di una città, di un bosco ecc., non è la rappresentazione individualizzata del mare, di una città, di un bosco, bensì della loro funzione in un quadro – in movimento – che è un sistema di simboli analogici della figurazione (e lo stesso vale per le figure e le forme umane, per la loro gestualità, o i loro distinti tratti fisionomici, i loro linguaggi e il loro agire).

sorelle_mai1«Addio al mondo, ai ricordi del passato, ad un sogno mai sognato, ad un attimo d’amore che mai più ritornerà»
(Domenico Modugno, Vecchio Frac).


Sorelle mai di Marco Bellocchio e L’épine dans le Coeur (Una spina nel cuore) di Michel Gondry sono entrambe storie private e personali che arrivano ad abbracciare ben tre generazioni: zii, figli e nipoti. Composte da materiali eterogenei, attingono alla biografia dei rispettivi autori, e sono solo apparentemente “anomale” all’interno delle loro filmografie. Dal momento che, attraverso il documentario piuttosto che la fiction, la memoria o il sogno, l’invenzione o il repertorio, ambedue i film gridano (sottovoce) l’amore per l’arte del racconto.


performance-03-gMick Jagger/Turner: «Senti questo. L’unica vera performance, quella che veramente inscena, e che lo fa in tutti i sensi, è quella che raggiunge la follia. Capito? Mi sono spiegato? Mi segui?».

Performance è un film dark, paranoico e alienante in cui si parla di identità e molteplicità, sesso e gender, droga e musica. Il trailer e i manifesti lo presentavano così: «This film is about madness. And sanity. Fantasy. And reality. Death. And life. Vice. And versa».


wes_craven«Quando all’inferno non ci sarà più posto per loro, i morti cammineranno sulla Terra». 
Dawn of the dead (Romero 1978).

 

«Bobby, siamo nel deserto, non c’è niente che viva qui!».
Le colline hanno gli occhi
(Aja 2006).


Nessun genere cinematografico come l’horror sta affrontando negli ultimi anni una “riedizione” così massiccia e capillare. I remake hanno infatti coperto quasi tutti gli originali degli anni Settanta e Ottanta, ritornandoci a volte su addirittura con sequel, prequel e reboot. L’ultima casa a sinistra, Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, The Fog, Halloween, Dawn of the Dead e per ultimo Nightmare sono i modelli riportati in vita, per così dire, e adattati all’estetica nostalgica e ipertecnologica di inizio millennio.

blonda_noir_DoubleIndemnity_StaircaseSebbene gli studi sulla teoria dei generi cinematografici siano relativamente recenti, l’effettivo raggruppamento in generi da parte del pubblico – ma anche di registi, produttori e dell’industria cinematografica in generale – ha origini più lontane, tanto che i generi filmici costituiscono una realtà radicata nella cultura e nel modo di pensare il cinema.

 

«Il concetto di genere è indispensabile in termini più strettamente sociali e psicologici come modalità per la formulazione dell’interazione fra cultura, pubblico, film e produttori cinematografici» (Tudor 1973, p. 8)1.

The-road

The Road (2009), il film di John Hillcoat, e, prima ancora, il romanzo di Cormac McCarthy da cui è tratto, rappresentano a nostro avviso un momento importante e per certi versi un punto di arrivo di un genere (o sottogenere), quello cosiddetto postapocalittico, che negli ultimi anni sembra vivere un seppur contenuto revival. Genere che ha in realtà dietro di sé una lunga tradizione tematico-narrativa sulla quale vale la pena di ritornare, anche perché la forza che ha questa storia di un Padre e di un Figlio in viaggio disperato attraverso un mondo sconvolto sembra derivare, almeno in parte, proprio dalla rivisitazione (e in un certo senso dalla messa a nudo) di una serie di motivi mitici profondamente radicati nella cultura occidentale.

Semblonda_classic_Casablancapre più spesso si assiste a un’eccessiva semplificazione di teorie e ricerche operata paradossalmenete proprio da chi tali ricerche le conduce. In effetti, studiosi e teorici – e quelli che lavorano nell’ambito della teoria cinematografica non costituiscono un’eccezione – tendono a generalizzare l’ambito della loro ricerca fino a banalizzarla in modo da renderla più facilmente comprensibile al lettore amatoriale.

Nell’ambito della teoria cinematografica un numero sorprendentemente elevato di manuali presenta il passaggio e la trasformazione del cinema hollywoodiano da classico a postclassico, come se questi periodi fossero in netta opposizione o addirittura come se l’avvento dell’uno avesse determinato la morte dell’altro.

Zero in condotta

magnifico_tumblr_lgc2q23bqw1qedo44o1_500La rivoluzione che, nel giro di qualche decennio, ha interessato il mondo della cosiddetta “comunicazione di massa” ha dato vita ad un nuovo modo di concepire tutto ciò che ci circonda, attribuendo un nuovo valore alle immagini e a tutti quei mezzi attraverso cui vengono propagandate. Basta dare un’occhiata ai recenti fatti di cronaca per rendersi conto che, ormai, è il mezzo a determinare l’evento, la cui riuscita è direttamente proporzionale allo spazio che gli viene dedicato.

BIANCA_E_BERNIEWalt Disney può essere considerato un conservatore rivoluzionario. È conservatore perché la sua poetica non è mai cambiata: al centro dei suoi film c’è sempre uno scontro tra il Bene e il Male che si risolve con la vittoria dei buoni e la realizzazione del sogno che sembrava irrealizzabile (ad esempio l’amore per Biancaneve, Cenerentola e Aurora o diventare un bambino vero per Pinocchio). Ma allo stesso tempo Walt Disney è stato rivoluzionario perché ha introdotto il colore nei cartoon; ha dato al cinema d’animazione la stessa dignità artistica del cinema dal vero con Biancaneve e i sette nani; ha realizzato Disneyland, il parco dei divertimenti più visitato al mondo…

UZAK 01 | inverno 2010

Lo stato delle cose

uzak1_-_uzakUzak è una di quelle parole che ammaliano per il loro suono, come se fossero un puro significante privo di significato. Ma Uzak, in turco, significa lontano, distante.
Nel linguaggio cinematografico esiste una distanza breve, quella fra l'immagine e ciò che essa rappresenta: senza essere copia della realtà, l'immagine cinematografica è particolarmente rassomigliante al suo referente, nel senso che produce una percezione simile a quella prodotta da oggetti e situazioni reali. Sebbene il cinema sia fondato sull'artificio, il piacere della visione nasce dalla capacità che il cinema ha di produrre negli spettatori l'impressione di realtà.

videocracy_lele_mora1

Forse a un anno di distanza le cose sono cambiate. Ma soltanto un anno fa, all’incirca dal mese di settembre, sembrava essere diventato impossibile l’utilizzo anche solo del termine “videocrazia” a prescindere dall’omonimo film di Erik Gandini, presentato con clamore, peraltro prevedibile, alla scorsa Mostra di Venezia, non nella selezione ufficiale, ma come “evento speciale” della Settimana della Critica in (prudente) collaborazione con le Giornate degli Autori.

uzak1_calefato

Visual Semiotics and Fashion
At a first glance, any discourse on the relation between visual semiotics and fashion constitutes a sort of epistemological challenge to the history of 20th century semiotics, in particular to what is presumed to be Barthes’ project of a “Fashion System” conceived of as a reduction of the garment to the word, as a demonstration of the primacy of linguistics over semiology, of the verbal over the non-verbal. Nearby half a century after Barthes’ pioneering work, semiotics can now acknowledge that it is possible to go beyond “described” fashion exactly in the light of Barthes’ lesson.

uzak_1_lettera_a_unamica_scrittriceCara Hélène,
Senza dubbio la prima cosa è spiare se stessi. Il che è come chiederti: tu quando scrivi cosa guardi? E soprattutto: cosa ti riguarda? Altrove  – cioè un luogo il cui esser pubblico o pubblicato è ininfluente – avevo scritto: “Prima regola: l’agente segreto è una credenza popolare, una leggenda metropolitana.
Il fatto stesso che lo si dica segreto misura la distanza fra le proprie convinzioni e la realtà. L’essere segreto si custodisce nella speranza che non sia vero.

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Ci sono film che ci colpiscono con la loro apertura al possibile, coniugando tecnologia e immaginazione. Il cinema di fantascienza spesso ci mette di fronte a un futuro prossimo, basato su una logica del verosimile filmico e, al contempo, ci diverte e a volte stupisce con invenzioni, scenari e oggetti inaspettati. Mondi e cose impossibili nella nostra realtà, oppure invece non così improbabili, vicini a noi eppure alternativi, diversi. Se l’immaginazione del futuro ci mostra spesso un mondo il cui il passato è ancora molto attivo, è per creare un effetto di rilievo, che permette di dare maggiore visibilità all’invenzione del nuovo. Ma anche per rassicurare lo spettatore e per inserire la novità in un frame condiviso, uno scenario psicologico e intersoggettivo che ci permette di collocare un’azione raccontata nella sua giusta intenzione narrativa, senza fraintendimenti.

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Introduzione

Benvenuti nel paese degli orrori

«Ma sono come bambini e Dio li ama». (Madame Tetrallini in Freaks, di Tod Browning)

Il mondo immaginato da Todd Solondz ha il sapore di una Moderna Favola Nera. Dove i bimbi non sono semplicemente i destinatari del racconto ma anche gli sventurati protagonisti. Proprio come nelle fiabe classiche, nelle sue storie l’innocenza è minacciata dalla presenza del Male, e la “mostruosità” non è soltanto sinonimo di difetto o imperfezione fisica, ma anche di abiezione morale.

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Mettiamo da parte il clamoroso fiume di immagini che ha intasato i canali televisivi italiani all’indomani della confessione di un uomo in merito all’assassinio della nipote. Mettiamo da parte le ore di diretta, la colite  di indignazione e di opinionismo d’accatto, i plastici e le mappe delle campagne di Avetrana. Mettiamo da parte la rabbia on demand accesa nelle teste degli spettatori. Proviamo a guardare ai bordi dell’ennesimo caso di cronaca nera che è diventato, come quasi sempre accade, la bacheca su cui affiggere gli sfoghi più viscerali di un paese che ha bisogno di distrazioni rosso sangue.

uzak_1_Riflessione_sul_rapporto_tra_cinema_e_nuovi_media_2L’avvento di internet nell’universo della comunicazione, e di conseguenza anche in quello dell’audiovisivo, è stato un enorme fattore di cambiamento delle nostre pratiche di consumo culturale.
Riuscire a offrire un quadro esaustivo sull’argomento sarebbe solo una presuntuosa ambizione; la sola operazione possibile è forse quella di fornire delle rotte indicative, consci dell’estrema difficoltà nell’analizzare e rendere conto di un magma difficilmente comprimibile e in continua dilatazione.

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Pelle e pellicola condividono la stessa origine latina, pĕllis, ed entrambe suggeriscono l’idea di un continuo passaggio fra interno ed esterno, di una porosità che ne fa dei media «di contatto e scambio» (Baudrillard 1979, p. 118). Così come la pelle del corpo umano può essere pensata come una membrana che separa il pre-significante dal significante, dando luogo ad un percorso della significazione incarnato, allo stesso tempo la pellicola cinematografica può essere considerata come una membrana di passaggio fra ciò che non ha ancora una dimensione significante e il significante, vale a dire il film nel momento in cui si scontra con il sistema interpretativo di chi guarda.

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Non la naturalezza (naturalismo) del racconto, ma la coagulazione (riverberazione) dei significati, degli indizi, implicita alla lirica, modulano le sequenze di Bright star, per cui, «fermo foss’io non in solingo/ splendore», a dispetto dell’insidia cronachistica o agiografica, che, quand’anche fosse, sarebbe inscritta nella letterarietà (quindi nel codice) di un Romanticismo precisamente ricostruito. Un congegno d’irradiazione che accosta o sovrappone sequenze (in)naturali (in relazione allo spinto sfarzo della natura), in cui si condensano, si amalgamano, si confondono, come nello spazio (il)logico della poesia, vissuti, psicologie, il fluire apparente dell’atmosfera.

uzak_1_Lamore_buio_di_Antonio_Capuano

Il segno distintivo del cinema di Antonio Capuano è sempre stato il suo sguardo lucido su Napoli, critico e addolorato; uno sguardo che nel tempo ha dato origine a scelte stilistiche e narrative originali, che ha comportato una focalizzazione su luoghi e figure ritratti in maniera naturalistica e che ha, spesso, imposto al regista la scelta di giovani attori non professionisti. Il cinema di Capuano è stato spesso definito un cinema scomodo, un cinema impegnato a mostrare ad una società distratta e ipocrita la realtà dura e spesso violenta del sottoproletariato urbano.

Zero in condotta

uzak_1_Troppo_fiso_Erotismo_e_pornografia_nel_cinema_3

Tant’eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti.
[...]
quando per forza mi fu volto il viso
ver la sinistra mia da quelle dee,
perch’io udi’ da loro un «Troppo fiso!»

(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio XXXII)

 

Quanto può divenir labile il confine tra fantasia e allucinazione?

Rapsodie

Symbol of a generation, even regardless of all generations: initiates delving into timeless wormholes, into the early Ninetees cathode-ray tube, lighted tunnels as if it was a Videodrome. A surrender. A planned, pacified surrender incubated in the womb of both cinematic and televisual image: that specific, sublime midnight o'clock broadcasting.

«This movie should be played loud».

L’esergo che apre The Driller Killer di Abel Ferrara potrebbe tranquillamente stare in apertura di questo Damned Summer senza disattendere le aspettative implicite nel motto. Se però il film di Ferrara si presentava da subito in tutta la sua forza importante, quello di Pedro Cabereira si innesca con lentezza, secondo una studiata progressione.

No toda es vigilia la de los ojos abiertos

Macedonio Fernandez

Where are you calling from?
A booth in the midwest
Ten years ago
Joan Baez

Al confine fra due mondi (l’occidentalizzato neoliberale e il totalitario), prima della terra di nessuno demilitarizzata, i sudcoreani hanno montato un vasto anfiteatro con una grande finestra-schermo che si affaccia sul lato nord1antani come fosse, trasformandolo in spettacolo: incorniciare2supercazola non è infatti un atto innocente: ogni finestra è sempre, contemporaneamente, uno schermo dove si proiettano prospetticamente una serie di valori. Lo schermo diventa un territorio di mediazione virtuale che implica, nello stesso tempo3prova , una cesura che interpone allo “sfondato” (così si chiamano le grandi simulazioni barocche che rompono la superficie della cupola con un buco beante falso, dipinto) il lato, invisibile e materiale insieme, della superficie diafana di proiezione.

«L'importante per me era sfidarmi ancora, superare quello che avevo già fatto, e dopo aver fatto crollare le montagne in Monte, per andare avanti in quella direzione avrei dovuto aprire gli oceani come Mosè. Quindi ho capito che era il momento per un cambio di direzione radicale rispetto a quello che ho fatto sinora, una sfida che investisse anche il piano stilistico, qualcosa che non avevo mai fatto prima» L’esito insolito di queste premesse battagliere si intitola Magic Lantern, presentato fuori concorso alla 75ª mostra Del Cinema di Venezia, e davvero Naderi sembra aver vinto la propria sfida con l'inaspettato e l’ineguale a sé a guardare questo film di vibranti sentimenti e atmosfere tenui. «Ma che diavolo è? Naderi?…Naderi che fa lui e lei che parlano amoreggiando nello specchio come in un film di Jacques Demy? Ma  no! E’impossibile! Già me li immagino i “fan” (e pronunciando fan sghignazza ironicamente) di Naderi » è consapevole del rischio di scontentare i puristi del naderismo, il nostro apolide del cinema, più di tutto avvezzi a quella sua poetica ruvida, di passioni forti e terribili e intensi stimoli sensoriali, di cui Monte è forse campione. Ma la coerenza, in soggetti di questa schiatta, è forza travolgente e oscura che sulla considerazione dei rischi ha finito per lasciar prevalere quel «Amir se ci credi devi farlo, a prescindere dal resto!!!» che gli rimbombava in testa mentre pensava ai puristi cinefili potenzialmente scontenti. C’è in verità poco da essere scontenti di fronte a questo film che, pur nella diversità dal resto della produzione naderiana, riesce esprimere una complessità che dovrebbe essere in grado di soddisfare i più barricadieri tra i cinefili, nella misura in cui inscrive in un testo apparentemente leggero, una commedia di teneri amori, dipanata però su piani di realtà differenti, un più complesso ordito riflessivo, metalinguistico e cinefiilico, che rappresenta il commosso adieau au langage di Naderi, ma solo a "un certo"linguaggio, quello classico, in cui la riflessione teorica si coniuga con l'affettuosa celebrazione del grande cinema del passato e delle teknè spicciole del suo farsi analogico.

In Magic Lantern si cerca disperatamente una donna, un'identità, un fantasma, e soprattutto l’amore, ma d'altronde il tema della ricerca ossessiva è piuttosto ricorrente nell’opus naderiana, se si ricordano film come Tangsir (Amir Naderi 1973) e Vegas: Based on a True Story (Amir Naderi, 2008), storie di ricerche che diventano ossessioni in cui però, qui sta la differenza rilevante, l’oggetto di valore era un chè di distruttivo, capace di effetti nefasti sulle vite degli uomini, come la vendetta o il denaro. In Magic Lantern il sacro Graal è il più tenero dei sentimenti, l’amore, il che mi porta a domandargli se qualcosa nel cuore granitico di Naderi non sia andato ammorbidendosi con gli anni: «In realtà si tratta di un percorso che avevo iniziato molti anni fa,  con Waiting (Amir Naderi, 1974), che era un film molto personale, volto all’interiorità, che fu censurato nel mio paese e vinse un premio della giuria a Cannes», una linea di sviluppo dell’indagine che lì bruscamente si era interrotta, dopo quel solo episodio, a causa dell’incalzare di eventi che è stata  la sua burrascosa vita : «Ma poi la lotta per sopravvivere, come uomo e come film-maker, la fuoriuscita dal mio paese, le difficoltà continue, mi hanno allontanato un po’ da quel tipo di riflessioni, spingendomi a fare un cinema di sentimenti estremi, di passioni forti, che hanno sempre richiesto una certa irruenza sul piano espressivo». E’ solo dunque ora, a più di quarant’anni di distanza, che Amir sente arrivato il momento giusto per riprendere in mano le fila di quel discorso interrotto a fior di labbra, e ripiegare sull’analisi di sentimenti delicati e intimi. Un’emozionalità che noi amanti del suo cinema non gli riconoscevamo forse abbastanza, per quanto il suo senso alato di umanitarismo fosse stato sempre ben leggibile nelle opere, e che lo ha sempre accompagnato:” Sono sempre stato così, solo che con il tipo di film di che ho fatto non ho potuto mostrarlo più di tanto” .

Un film, Magic Lantern, che può piacere ai critici perché strategico nell’utilizzo di ogni suo codice, a cominciare da quel titolo che per ammissione dello stesso Amir serve ad orientare preventivamente la ricerca di senso di uno spettatore che, sapendo di avere a che fare con una lanterna magica, antesignana del cinematografo, esplorerà da subito  il corpo filmico in cerca di indizi che afferiscano ai processi di coniazione primaria di immagine, alla proiezione della luce creatrice di icone, al cinema nel suo farsi o alle origini della settima arte. Ma anche un titolo che dichiara precise intenzioni, se si considera la non casuale omonimomia con l’autobiografia di Bergman     , collezione preziosa di ricordi cinematografici, come Amir ci tiene a sottolineare: “Ricordi, non rimpianti, ‘fanculo i rimpianti!!! Ho voluto fare un film che fosse come quel libro, quindi non un’operazione sulla nostalgia, e nemmeno la decantazione di una qualche presunta età dell’oro del cinema ormai perduta, semmai è sulla memoria, un richiamare alla mente senza rimpianti ma con affetto infinito affetto quel cinema, questo sì, ma non c’è alcuna forma di rimpianto“. Le strategie testuali attraverso cui Naderi mette in essere questo suo affettuoso omaggio ai fantasmi di un cinema spazzato via dal digitale sono molteplici e funzionalmente intrecciate nell’ordito filmico, dunque è solo per comodità d’analisi che prenderemo in considerazione separatamente il livello che chiameremo del “citazionismo affettivo” da quelli del “riferimento stilistico” e della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche del cinema”, che così denominiamo per pura convenzione.

Quello che rubrico come "citazionismo affettivo" coincide con la pratica naderiana di un continuo accoglimento di suggestioni, atmosfere e ispirazioni provenienti dai film che più ama, in uno scambio senza posa tra il film allo stato attuale di esistenza e il cinema “fantasma”, immanente nell’assenza, vivo solo attraverso la rievocazione affettiva e filmica. Non  è difficile scorgere la provenienza minnelliana di certa levità magica che svincola le scene di Magic Lantern dai livori anche cromatici di Monte (Amir Naderi 2016). Soprattutto la palette e le colorimetrie fortemente emozionali e luminose, sembrano ispirarsi all’uso che ne faceva il regista di Two Weeks In An Other Town ( Vincent Minnelli, 1962), e interrogato Naderi non solo conferma questa intuizione, ma rilancia continuamente: «Se guardi tutta l’estetica estremamente retrò del negozio, in stile Hollywood classica, imbellettata e infiocchettata, è visivamente minnelliana. Ma più di tutto ho voluto far rivivere certe sue qualità di cineasta nel personaggio di Jaqueline (Bisset), tutto modellato sul tipo di donne eleganti e sobrie che lui portava sullo schermo. The Bad And The Beauty (Vincent Minnelli, 1952), Two Weeks in an Other Town e soprattutto The Band Wagon (Vincent Minnelli, 1953), anzi Jaqueline è come se fosse Cyd Charisse di Band Wagon quarant'anni dopo, e infatti la faccio ballare su quella musica come faceva lei, ed è stupenda.»

«Rosebud» dico io a un certo punto: «tutta la sotto trama relativa alla ragazza, la ricerca della sua identità che via rivela ne rivela molteplici altre, e che ci sfugge nel momento stesso in cui sembriamo averla trovata, pare un’omaggio a Citizen Kane (Orson Welles, 1941)». Naderi “mi Batte il cinque” (!!!) emettendo un  prolungato «yeah man!» e mi spiega concitato: «avevo in mente Rosebud sin dall’inizio, è per questo che anche la nostra ragazza, di cui scopriamo via via i molti nomi e le molte vite, proprio come la slitta di Kane che finisce al fuoco nel momento esatto in cui lo spettatore la identifica, ha l'incidente nel momento stesso in cui finalmente lui la trova e contemporaneamente vediamo che la pellicola salta, facendola sparire completamente…mi piaceva l’idea di un’identità che resta molteplice e inafferrabile, che resta comunque un mistero anche di fronte ai nostri sforzi per conoscerla, perché in fondo, la vera identità, la verità, degli uomini ci rimarrà sempre sconosciuta» Inevitabile anche il riferìmento a Hitchcock, che mi pare di rinvenire, ma Amir lo ha confermato, nell’applicazione fruttuosa della tecnica delle “marche testuali isotopiche”, con cui il maestro inglese era solito costruire i suoi film. Si tratta in sostanza dell’abitudine che aveva Hitch di disseminare il film di presenze minute, piccoli indizi visivi che continuamente rimarcassero il tema di fondo del film all’attenzione dello spettatore,  come le molte macchine fotografiche, le fotografie e i dispositivi meccanici per la visione che si affollano in Rear Window (Alfred Hitchcock, 1954), metafiim per eccellenza sulle pratiche di significazione filmica, che rinviano insistamente l’attenzione ai processi della produzione di immagini, o i molti indizi pennuti (la coppia di “inseparabili” i teneri uccellini che innescano l’incontro tra Mitch e Melania nel negozio di animali, l’attacco del gabbiano a Melania, l’uccellino morto che trova la maestra ecc. ecc.) con cui in The Birds (Alfred Hitchcock, 1963) costruisce la suspence in un crescendo tensivo che culmina nell’attacco ai bambini.

Interrompiamo solo temporaneamente il discorso sul citazionismo per rilevare che è a questo livello, quello della disseminazione isotopica di marche testuali afferenti al tema del cinema passato, delle sue pratiche e delle sue competenze artigiane, che si espleta quel livello della rievocazione affettiva che ho chiamato della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche”. L’affetto di Naderi è anche quello per tutto quell’insieme di saperi tecnici, manualità e tecnologie su cui sta calando l’oblio del digitale, un affetto da regista, che si esprime mostrando, inserendo le cose nel corpo dei propri film per omaggiarle. Ed è per questo che nelle immagini di Magic Lantern continuamente tornano i vecchi proiettori, gli obiettivi, le bobine e soprattutto la pellicola, feticcio d’elezione di registi, montatori e proiezionisti, che qui non solo si replica reiteratamente in visione, ma viene addirittura toccata, accarezzata con la voluttà che solitamente si riserva a pelle di donna «Accarezzando la pellicola sta accarezzando lei, la donna che ama, che poi è il cinema, la sua essenza», sino a scoprire in essa il supporto ineliminabile per la vita stessa, se accolta nella sua accezione fantasmica, della finzione filmica, come dimostra la scena in cui, rompendosi la pellicola, lei svanisce, perde ogni residua consistenza materica. Tornando invece, per concluderlo, sul discorso del citazionismo affettivo è Amir stesso a rivelarci inconffessabili passioni cinefiliche. A parte la scena del primo incontro con lei, al negozio, interamente modellata sulla scena di Vertigo (Alfred Hitchcock, 1959) in cui Scotty al bar cerca Madeleine\Judy con lo sguardo e poi lei avanza voltandosi, alcuni omaggi possono ancora sorprendere, come quello a Ugetsu Monogatari  ( Kenji Mizoguchi, 1953) di Mizoguchi, che realizza attraverso le due figure fantasmatiche femminili «perché il fantasma di quel film è talmente fascinoso e reale, che ogni volta che lo mostro in classe ai miei studenti poi ho l’impressione che lei mi segua veramente», o il riferimento ai film di Ophüls come Lola Montès, La Ronde, Pleasure, di cui omaggia, e fa sua, la sensibilità d’uso del medium cinematografico, la caratura emozionale e magica nell’uso di suono e immagini.

Al centro della vicenda troviamo un giovane proiezionista, “piccolo omaggio al fantastico Keaton di Sherlock Jr, in cui fa il protezionista e sogna sé stesso all’interno di un film”, personaggio sintomatico della vocazione metafilmica dell’operazione di Naderi. Per professione, infatti, il proiezionista vive sempre in bilico tra sogno e realtà, finzione filmica e fantasticheria. Non è strano quindi che si veda come protagonista del film che sta proiettando, in cui incontra questa misteriosa ragazza dii cui inizia la ricerca. “ un lavoro legato al mondo dell'immaginazione, della fantasia, il protagonista guarda i film e fantastica, vive parte della sua vita dentro a questo sogno fatto di cinema e parte fuori da esso, nella realtà, ma nella sua mente non c’è discontinuità tra le due dimensioni. Ogni giorno si cala nei mondi fantastici e irreali dei film che proietta, esercita la sua fantasia, la adotta come modalità di vita, quindi nel film non sappiamo mai se quello che vediamo è il suo sogno, un film che sta vedendo e vivendo, o la realtà. Gli basta sfiorare un manichino (altro simulacro, forma di riproduzione dell’immagine umana, noto io) per iniziare a fantasticare”. Ma che forse siamo in un sogno forse doveva risultare chiaro già dall'inizio, quando lui nelle prime inquadrature del film correndo arriva dove ci sono degli orologi, che “se guardi bene sono fermi, perchè il tempo nel sogno, il tempo ad Hollywood, magicamente si ferma.” Questo elemento di incertezza ontologica, di impossibilità di giudizio circa lo statuto di realtà delle cose è la cifra caratteristica dell’intera operazione “Un film-sogno, che è come i sogni, i fantasmi, non risponde a logiche razionali, non offre risposte, anzi ho fatto un film che pone solo domande e non da alcuna risposta”. Effettivamente basandosi sul solo dato schermino è arduo, forse impossibile, dire se il giovane sogni o fantasticando sostituisca la propria immagine a quella del protagonista di un film in corso di proiezione, o se veramente abbia recitato nel film, così come è impossibile stabilire in via definitiva se la fanciulla di cui s’ossessiona esista veramente, sia il personaggio di un film o addirttura un fantasma, visto che in corso d’opera veniamo informati della sua prematura dipartita. Gioca con con le mille possibilità di un’identità liquida Naderi, moltiplicandola per il numero delle bocche che la descrivono e rifrangendola nella moltitudine d’occhi che l’hanno spiata, indice relazioni instabili tra chi avevamo creduto madre e figlia mostrando le loro immagini riflesse in una sovrapposizione identificatoria perfetta. Insinua dubbi più che dare spiegazioni il regista di The Runner, lascia intendere che le due figure femminili siano metafore del cinema (si dissolvono insieme alla pellicola che si rompe) e al contempo lo nega, ed esattamente come voleva, crea un mondo di sogni e presenze fantasmatiche “Esiste davvero questa figlia, visto che la madre, Jaqueline Bisset, racconta di averla solo adottata o è un macguffin puro, un semplice pretesto per visualizzare l’immagine giovane di questa madre ex-diva, una proiezione onirica della sua fame di giovinezza, il sogno chimera di tutte le dive? “non ho risposte da darti se non altre domande, ma proprio questo volevo, sapendo di mettere in difficoltà il pubblico, creare un paesaggio di sogni, di fantasmi…quando guardo certi vecchi film mi capita di provare una strana impressione. Vedo, riconosco quei volti familiari, quello e Bogart, quella la Bergman…mi parlano e ne riconosco le voci…ma so che non sono reali, non esistono, sono fantasmi, tutta quella Hollywood, quelle atmosfere, quel mondo, tutto è diventato fantasma, ecco perché per rendergli omaggio non potevo fare altro che un film di fantasmi.”

E il gioco delle possibilità e dei travisamenti inizia subito, con Naderi che impone allo spettatore una premessa falsificante mostrando nell’incipit l’iconica scritta Hollywood poggiata sul fianco del monte Lee, terra franca di sogni e sognatori, gettando l’ombra del dubbio sulla possibile consistenza finzionale di tutto quanto si vedrà in seguito. E come lui mi ha fatto notare gli orologi che incontra il ragazzo poche inquadrature dopo durante la sua corsa sono tutti fermi, come a misurare un tempo sospeso, incantato. Si noterà anche che la ragazza non lascia impronte mentre cammina sulla spiaggia con lui. La scena della spiaggia, visto che ne parliamo, è alquanto particolare per riuscita visiva e la narrazione della sua acrobatica realizzazione tecnica merita di essere ascoltata. I due ragazzi si ritrovano come per incanto su un’assolata spiaggia di sogno dopo che finalmente lui era riuscito a trovarla tra l’ombra chiusa dentro a un’armadio, il solo luogo in cui lei, che ormai alle ombre appartiene, possa ancora esistere. Si potrà osservare, intanto, che il passaggio dalla tenebra alla luce come forma di traduzione visiva del passaggio da una fase di chiusura o negazione del sentimento a una di apertura ci riporta a Monte, a quella finale e liberatoria deflagrazione luministica conclusiva che chiudeva il film e i destini degli uomini. A un certo punto le immagini immobili dei due ragazzi iniziano a slittare lateralmente a grande velocità sparendo fuori dal margine laterale del quadro come se una invisibile mano le trascinasse con forza fuori dai bordi dell'inquadratura, ogni inquadratura dura pochi secondi e l’immagine di ognuno sparendo lascia posto all’immagine dell’altro, quasi che improvvise cesure di montaggio intervengano a spezzare la continuità di ogni moto, generando una sorta di circolarità, di loop allucinatorio in alternanza. Un effetto visivo insolito sulla cui natura interrogo: “ è stata una scena complicatissima da girare  perché, come tutto il resto, tranne l’effetto delle impronte della ragazza, volevo farlo senza l’ausilio di effetti di post-produzione. Le immagini che vedi slittare in realtà sono le loro immagini riflesse in molti specchi, e slittano perché la macchina da presa si muove rapidamente da uno specchio all’altro.Trattandosi di fantasmi, pure immagini filmiche, non volevo riprendere i corpi reali degli attori, ma una qualche forma della loro presenza fantasmica, così ho deciso che avrei ripreso solamente le loro immagini riflesse in tantissimi specchi conficcati nel mare, e passando lateralmente da uno specchio all'altro ottenere l'effetto di slittamento delle loro immagini che segnalavi tu. Al di là della difficoltà tecnica, del dover posizionare gli attori in modo che si riflettessero in tutti gli specchi nel modo giusto, non sono riuscito ad avere tutti i permessi che occorrevano per posizionare gli specchi, ma quando mi metto in testa una cosa…diciamo che è una scena“pirata”!”

L’altro livello della celebrazione cinefilica posta in essere da Naderi è quello ho chiamato per convenzione dell’”evocazione stilistica”, l’adozione di un “linguaggio cinematografico della memoria” che riattualizza modi della ripresa, del montaggio e delle colorimetrie tipici di quel cinema. Nelle scene del negozio c’è tutto un rivivere affettuoso di movimenti di macchina intenti a seguire pedissequamente ogni minimo spostamento dei personaggi che rinverdisce i fasti di quel cinema “classico” ossessionato dalla centratura del quadro, dal fatto, cioè ,di dover scrupolosamente tenere il soggetto principale quanto più possibile al centro geometrico dell’inquadratura, generando quel tipico modo ondivago di muovere la macchina, i colori stessi sono quelli della Hollywood di quegli anni, aspirano a riprodurre gli effetti derivanti dalle tecnologie ottiche e dai tipi di pellicola che ne erano il supporto: “Sì, ho voluto caricare il livello stilistico di una particolare importanza di senso. Considera che questo è un film girato in digitale, un mezzo che implica precise possibilità di movimento, di colore eccetera, quindi il fatto che il risultato sembri girato in pellicola, e che sia girato in certe parti come un film degli anni '40 o '50 sono scelte intenzionali. E' il mio “linguaggio della memoria”, lo stile che mi riporta a un modo di fare il cinema che ho amato tantissimo e a cui rendo omaggio facendolo rivivere un’ultima volta.” E il fatto che sia girato in digitale un peso lo ha anche perché proprio l’irruzione del digitale è la causa prima di dispersione del cinema che oggi Naderi celebra e ricorda, delle sue tecniche e tecnologie. Girando in digitale e assoggettando questo strumento di natura computazionale alle logiche e alle estetiche estranee dell’analogico non solo Amir dichiara implicitamente una precisa volontà di usare lo stile filmico come medium di negoziazione di contenuti significanti (l’omaggio a un modo di fare cinema espresso attraverso l’assunzione del suo orizzonte stilistico) ma attualizza con la pratica quel superamento dell’analogico da parte del digitale che in modo sottaciuto è il tema di fondo del film: “L’ho già detto, questo film non ha a che vedere col rimpianto, il digitale è l’inevitabile futuro, non  ci si può fare niente, io lo vedo come un cambiamento, non come una perdita,  è lo strumento che usano le nuove generazioni e la sua forza è la facilità:  rende tutto più semplice, più semplice il finanziamento dei film, che si fanno a costo quasi zero, semplifica la tecnica, rende più facile fare riprese praticamente ovunque, in qualsiasi momento e senza l'ingombro di complesse strutture da montare e smontare. Ma la grande facilità è anche la sua grande pericolosità, perchè disponendo di cose facili si tende a dimenticare quelle difficili, si disimpara il senso “educativo” della difficoltà, le pratiche complesse vanno “perdute nel tempo come lacrime nella pioggia” (Cit.) il cambiamento dovrebbe restare tale, non diventare una perdita, ma essere trasformazione.” Ma la questione del digitale interseca le traiettorie significanti del film anche ad un altro livello, inserendosi come dato perturbante nel più generale discorso che fa sull’identità. Durante la spasmodica ricerca della ragazza, infatti, e come ci ha già spiegato il modello ideale era la Rosebud ci Citizen Kane, via via che le sue molte vite e identità alternative vengono a galla insieme alla lunga lista dei suoi molti nomi  si compone un’idea aleatoria e instabile di ciò che chiamiamo “identità” e del suo essere una stabile configurazione di relazioni tra identità corporea, identità antroponomastica e identità comportamentale, che già rappresenta un primo livello dell’interrogazione di Naderi sull’identità, ma che nel film dialoga continuamente con un polo ulteriore della diatriba, nuovo livello della dispersione identitaria, che è il digitale, la nostra identità parcellizzata e smaterializzata tra account social e memorie dei cellulari con le rinnovate possibilità di memorizzazione e connettività interpersonale che offre. Le uniche certezze su chi sia l’amata giovane, in un turbinio di identità reali posticce e simulatorie, arrivano al giovane proiezionista dalle foto e dai piccoli video contenuti nel cellulare che lei ha smarrito “come una versione tecnologica della scarpa di Cenerentola”. Il dispositivo virtualizzante è anche l’unico luogo di condensazione e memorizzazione inopinabile della nostra presenza: “Ormai tutta la nostra “identità”, il nostro sistema di relazioni sociali, le nostre memorie, i nostri affetti, sono custoditi da questo piccolo “coso” (e alza il suo cellulare agitandolo leggermente). L'elenco di persone salvato nella nostra rubrica o nei contatti è la misura dell'estensione della nostra rete di relazioni sociali e lavorative, l'insieme delle persone che ci conoscono. Nel film possiamo definitivamente dire che la ragazza sia sparita solo quando verifichiamo che nessuna delle persone contenute nei suoi contatti o nella rubrica del cellulare ha notizie della sua esistenza. Il telefonino è la nuova forma della nostra proiezione di identità, come prima era il cinema.

E infatti dove ritrova lui i piccoli pezzi dell'identità di lei, i suoi ricordi, le sue parole, le sue paure, che gli permettono di avanzare nella ricerca? Sempre nello scrigno-memoria del cellulare, dove conserviamo le nostre immagini, e i video, i ricordi di lei,  i nostri ricordi. Ricordi che sono immagini e film. Il cellulare è anche il nuovo schermo, la direzione e la dimensione verso cui inesorabilmente va il cinema, il cinema del futuro”.

Il cellulare in quanto schermo, nella sua funzione di produttore e registratore di immagini luminose in movimento, ha il ruolo di interlocutore terzo nel sistema multilivellare di realtà e schermi su cui si struttura il film,  convitato di pietra nella dialettica analogico-digitale che informa l’opera tutta. Magic Lantern, infatti, si sviluppa su una struttura di più film disposti  “a Matrioska” in cui il livello di realtà messo in scena da ciascuno dovrebbe, a rigor di logica, essere “contenuto”, in quanto realtà simulata, nel livello di realtà del film che lo contiene. Noi spettatori vediamo un film (e crediamo che la realtà che rappresenta sia quella oggettiva) che contiene un film, la cui realtà quindi dovremmo percepire come simulata all’interno della realtà oggettiva, che mostra a sua volta un film contenuto in un cellulare, la cui realtà dovremmo recepire come simulazione all’interno della simulazione. Ho però usato il condizionale, perché questo sistema di distinzioni dipende dal rispetto di quella convenzione visiva che chiamiamo “Mise en abyme”, l’immagine nell’immagine, che Naderi con astuzia viola ripetutamente per creare il grado di confusione tra piani di realtà e finzione che stava cercando. Bisogna infatti ricordare che l’economia semantica di cui ci serviamo durante la fruizione di un film è a prevalenza visuale, e che la produzione di significati a quel livello è per lo più pre razionale e pre verbale, producendosi per lo più a partire da indicazioni di tipo visivo, come i rapporti dimensionali, prossemici e dalle qualità cromatiche o volumetriche. La percezione dei vari gradi di finzionalità delle immagini filmiche contenute in altre immagini filmiche dipende in larga misura dalla presenza di particolari “indici visivi di finzionalità” e infatti permane sin tanto che restano visibili la cornice, i bordi, la superficie o lo schermo che limitano fisicamente la seconda immagine, dichiarando, all’interno dell’immagine a schermo intero e della realtà che assumiamo come realtà di primo grado, la sua natura di immagine artificiale, proiettata, imitativa e limitata. Di contro si tende ad obliterare la finzionalità dell’immagine a schermo intero, a ritenerla una forma di continuità con realtà in cui siamo posizionati come spettatori. Naderi quindi, che dopo pochi istanti lascia slittare l’immagine che prima era “en abyme”, schermo nello schermo, nel totalizzante schermo intero, fonda la costruzione del proprio mondo onirico e multilivellare a un grado primordiale della produzione di senso, in cui è l’equiparazione dimensionale delle immagini, il fatto che ometta gli indici visivi che consentivano di discriminare una immagine (e una realtà) di primo grado da una di secondo grado, a fondare l’idea di una equiparazione degli statuti di realtà delle vicende che vediamo in immagine. “Volevo creare una struttura con più livelli di realtà, o di finzione, a seconda di come la guardi, e un primissimo livello arriva già all’inizio, quando mostro a scritta di Hollywood, un simbolo assoluto del sogno e della finzione. Se siamo a Hollywood, dove tutto si confonde non possiamo essere certi della natura di ciò che si vede. E’realtà, finzione o stiamo guardando un film? O è il ragazzo che guarda un film? e dove ci troviamo, nel film che stiamo guardando ora, in quello che guarda il ragazzo, nel cellulare, dove? non deve mai essere possibile dirlo con certezza, perché siamo nel mondo dei fantasmi e dei sogni.” Semmai si potrà sottolineare come ridiscendendo i vari gradi di realtà presenti nei vari film, quello delle immagini del cellulare (per quanto appartenente all’ontologia fittizia di un film contenuto in un film,) sia l’unico che conserva un qualche grado di relazione diretta con la realtà che iconizza, perchè sua registrazione diretta non mediata da istanze di tipo drammaturgico, non frutto di una messinscena, di un’intenzione registica, come invece lo sono sia le immagini del film che guardiamo come spettatori sia quelle del film in esse contenute. Mentre le vicende del giovane proiezionista, della ancora avvenente ex-diva del cinema e della fantasmatica fanciulla vivono a cavallo tra finzione e realtà, costruzione drammaturgica e fantasticheria, le immagini del cellulare sono il solo frammento di verità oggettiva presente nel film, i veri ricordi, registrati senza infingimenti di una ragazza (sulla cui consistenza di realtà si può, anzi secondo Naderi si deve, certamente obiettare). Anche in questo senso, quindi, Naderi riafferma quell’ipotesi di sopravanzamento del digitale sull’analogico che fa da matrice concettuale a Magic Lantern, riconoscendo quella digitalizzata e dispersa, come ultima forma possibile di rappresentazione della nostra identità, capace, più dell’ormai vecchio cinema di farsene depositario veritiero. Per concludere gli chiedo se c’è qualcosa di cui vorrebbe parlare che non gli ho chiesto io “La musica!!!Non hai notato che in questo film uso la musica? Per me è una sfida nella sfida!!! anche perché la ho composta io. E’ stata una ricerca molto molto lunga. Alla fine ho trovato quel senso di trasporto sentimentale che cercavo, nel bellissimo tema che Nino Rota ha composto per La Strada, anche la situazione drammatica è simile perchè Zampanò ha perso la ragazza, e quella musica è davvero stupenda. Avendo in mente il tono emotivo del pezzo di Rota, il suo andamento melodico, ho buttato giù una rudimentale versione del tema e poi ci ho lavorato con Alex Kovacs un bravissimo compositore.

E quindi diciamo che la componente emotiva, il sentimento si ritrova nella componente musicale, poi c’è quell’altro suono, quel rumore oscuro che si sente ogni volta che il tempo a disposizione della ragazza sta per finire e lei sta per sparire ancora.E’ un’assemblaggio di suoni notturni provenienti da Monte, in cui se ricordi quel suono era la voce di forze oscure e ancestrali. Qui significa la stessa cosa è il richiamo delle forze della notte, ldela morte, che richiama la ragazza a sé.

«L'importante per me era sfidarmi ancora, superare quello che avevo già fatto, e dopo aver fatto crollare le montagne in Monte, per andare avanti in quella direzione avrei dovuto aprire gli oceani come Mosè. Quindi ho capito che era il momento per un cambio di direzione radicale rispetto a quello che ho fatto sinora, una sfida che investisse anche il piano stilistico, qualcosa che non avevo mai fatto prima» L’esito insolito di queste premesse battagliere si intitola Magic Lantern, presentato fuori concorso alla 75ª mostra Del Cinema di Venezia, e davvero Naderi sembra aver vinto la propria sfida con l'inaspettato e l’ineguale a sé a guardare questo film di vibranti sentimenti e atmosfere tenui. «Ma che diavolo è? Naderi?…Naderi che fa lui e lei che parlano amoreggiando nello specchio come in un film di Jacques Demy? Ma  no! E’impossibile! Già me li immagino i “fan” (e pronunciando fan sghignazza ironicamente) di Naderi » è consapevole del rischio di scontentare i puristi del naderismo, il nostro apolide del cinema, più di tutto avvezzi a quella sua poetica ruvida, di passioni forti e terribili e intensi stimoli sensoriali, di cui Monte è forse campione. Ma la coerenza, in soggetti di questa schiatta, è forza travolgente e oscura che sulla considerazione dei rischi ha finito per lasciar prevalere quel «Amir se ci credi devi farlo, a prescindere dal resto!!!» che gli rimbombava in testa mentre pensava ai puristi cinefili potenzialmente scontenti. C’è in verità poco da essere scontenti di fronte a questo film che, pur nella diversità dal resto della produzione naderiana, riesce esprimere una complessità che dovrebbe essere in grado di soddisfare i più barricadieri tra i cinefili, nella misura in cui inscrive in un testo apparentemente leggero, una commedia di teneri amori, dipanata però su piani di realtà differenti, un più complesso ordito riflessivo, metalinguistico e cinefiilico, che rappresenta il commosso adieau au langage di Naderi, ma solo a "un certo"linguaggio, quello classico, in cui la riflessione teorica si coniuga con l'affettuosa celebrazione del grande cinema del passato e delle teknè spicciole del suo farsi analogico.

In Magic Lantern si cerca disperatamente una donna, un'identità, un fantasma, e soprattutto l’amore, ma d'altronde il tema della ricerca ossessiva è piuttosto ricorrente nell’opus naderiana, se si ricordano film come Tangsir (Amir Naderi 1973) e Vegas: Based on a True Story (Amir Naderi, 2008), storie di ricerche che diventano ossessioni in cui però, qui sta la differenza rilevante, l’oggetto di valore era un chè di distruttivo, capace di effetti nefasti sulle vite degli uomini, come la vendetta o il denaro. In Magic Lantern il sacro Graal è il più tenero dei sentimenti, l’amore, il che mi porta a domandargli se qualcosa nel cuore granitico di Naderi non sia andato ammorbidendosi con gli anni: «In realtà si tratta di un percorso che avevo iniziato molti anni fa,  con Waiting (Amir Naderi, 1974), che era un film molto personale, volto all’interiorità, che fu censurato nel mio paese e vinse un premio della giuria a Cannes», una linea di sviluppo dell’indagine che lì bruscamente si era interrotta, dopo quel solo episodio, a causa dell’incalzare di eventi che è stata  la sua burrascosa vita : «Ma poi la lotta per sopravvivere, come uomo e come film-maker, la fuoriuscita dal mio paese, le difficoltà continue, mi hanno allontanato un po’ da quel tipo di riflessioni, spingendomi a fare un cinema di sentimenti estremi, di passioni forti, che hanno sempre richiesto una certa irruenza sul piano espressivo». E’ solo dunque ora, a più di quarant’anni di distanza, che Amir sente arrivato il momento giusto per riprendere in mano le fila di quel discorso interrotto a fior di labbra, e ripiegare sull’analisi di sentimenti delicati e intimi. Un’emozionalità che noi amanti del suo cinema non gli riconoscevamo forse abbastanza, per quanto il suo senso alato di umanitarismo fosse stato sempre ben leggibile nelle opere, e che lo ha sempre accompagnato:” Sono sempre stato così, solo che con il tipo di film di che ho fatto non ho potuto mostrarlo più di tanto” .

Un film, Magic Lantern, che può piacere ai critici perché strategico nell’utilizzo di ogni suo codice, a cominciare da quel titolo che per ammissione dello stesso Amir serve ad orientare preventivamente la ricerca di senso di uno spettatore che, sapendo di avere a che fare con una lanterna magica, antesignana del cinematografo, esplorerà da subito  il corpo filmico in cerca di indizi che afferiscano ai processi di coniazione primaria di immagine, alla proiezione della luce creatrice di icone, al cinema nel suo farsi o alle origini della settima arte. Ma anche un titolo che dichiara precise intenzioni, se si considera la non casuale omonimomia con l’autobiografia di Bergman     , collezione preziosa di ricordi cinematografici, come Amir ci tiene a sottolineare: “Ricordi, non rimpianti, ‘fanculo i rimpianti!!! Ho voluto fare un film che fosse come quel libro, quindi non un’operazione sulla nostalgia, e nemmeno la decantazione di una qualche presunta età dell’oro del cinema ormai perduta, semmai è sulla memoria, un richiamare alla mente senza rimpianti ma con affetto infinito affetto quel cinema, questo sì, ma non c’è alcuna forma di rimpianto“. Le strategie testuali attraverso cui Naderi mette in essere questo suo affettuoso omaggio ai fantasmi di un cinema spazzato via dal digitale sono molteplici e funzionalmente intrecciate nell’ordito filmico, dunque è solo per comodità d’analisi che prenderemo in considerazione separatamente il livello che chiameremo del “citazionismo affettivo” da quelli del “riferimento stilistico” e della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche del cinema”, che così denominiamo per pura convenzione.

Quello che rubrico come "citazionismo affettivo" coincide con la pratica naderiana di un continuo accoglimento di suggestioni, atmosfere e ispirazioni provenienti dai film che più ama, in uno scambio senza posa tra il film allo stato attuale di esistenza e il cinema “fantasma”, immanente nell’assenza, vivo solo attraverso la rievocazione affettiva e filmica. Non  è difficile scorgere la provenienza minnelliana di certa levità magica che svincola le scene di Magic Lantern dai livori anche cromatici di Monte (Amir Naderi 2016). Soprattutto la palette e le colorimetrie fortemente emozionali e luminose, sembrano ispirarsi all’uso che ne faceva il regista di Two Weeks In An Other Town ( Vincent Minnelli, 1962), e interrogato Naderi non solo conferma questa intuizione, ma rilancia continuamente: «Se guardi tutta l’estetica estremamente retrò del negozio, in stile Hollywood classica, imbellettata e infiocchettata, è visivamente minnelliana. Ma più di tutto ho voluto far rivivere certe sue qualità di cineasta nel personaggio di Jaqueline (Bisset), tutto modellato sul tipo di donne eleganti e sobrie che lui portava sullo schermo. The Bad And The Beauty (Vincent Minnelli, 1952), Two Weeks in an Other Town e soprattutto The Band Wagon (Vincent Minnelli, 1953), anzi Jaqueline è come se fosse Cyd Charisse di Band Wagon quarant'anni dopo, e infatti la faccio ballare su quella musica come faceva lei, ed è stupenda.»

«Rosebud» dico io a un certo punto: «tutta la sotto trama relativa alla ragazza, la ricerca della sua identità che via rivela ne rivela molteplici altre, e che ci sfugge nel momento stesso in cui sembriamo averla trovata, pare un’omaggio a Citizen Kane (Orson Welles, 1941)». Naderi “mi Batte il cinque” (!!!) emettendo un  prolungato «yeah man!» e mi spiega concitato: «avevo in mente Rosebud sin dall’inizio, è per questo che anche la nostra ragazza, di cui scopriamo via via i molti nomi e le molte vite, proprio come la slitta di Kane che finisce al fuoco nel momento esatto in cui lo spettatore la identifica, ha l'incidente nel momento stesso in cui finalmente lui la trova e contemporaneamente vediamo che la pellicola salta, facendola sparire completamente…mi piaceva l’idea di un’identità che resta molteplice e inafferrabile, che resta comunque un mistero anche di fronte ai nostri sforzi per conoscerla, perché in fondo, la vera identità, la verità, degli uomini ci rimarrà sempre sconosciuta» Inevitabile anche il riferìmento a Hitchcock, che mi pare di rinvenire, ma Amir lo ha confermato, nell’applicazione fruttuosa della tecnica delle “marche testuali isotopiche”, con cui il maestro inglese era solito costruire i suoi film. Si tratta in sostanza dell’abitudine che aveva Hitch di disseminare il film di presenze minute, piccoli indizi visivi che continuamente rimarcassero il tema di fondo del film all’attenzione dello spettatore,  come le molte macchine fotografiche, le fotografie e i dispositivi meccanici per la visione che si affollano in Rear Window (Alfred Hitchcock, 1954), metafiim per eccellenza sulle pratiche di significazione filmica, che rinviano insistamente l’attenzione ai processi della produzione di immagini, o i molti indizi pennuti (la coppia di “inseparabili” i teneri uccellini che innescano l’incontro tra Mitch e Melania nel negozio di animali, l’attacco del gabbiano a Melania, l’uccellino morto che trova la maestra ecc. ecc.) con cui in The Birds (Alfred Hitchcock, 1963) costruisce la suspence in un crescendo tensivo che culmina nell’attacco ai bambini.

Interrompiamo solo temporaneamente il discorso sul citazionismo per rilevare che è a questo livello, quello della disseminazione isotopica di marche testuali afferenti al tema del cinema passato, delle sue pratiche e delle sue competenze artigiane, che si espleta quel livello della rievocazione affettiva che ho chiamato della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche”. L’affetto di Naderi è anche quello per tutto quell’insieme di saperi tecnici, manualità e tecnologie su cui sta calando l’oblio del digitale, un affetto da regista, che si esprime mostrando, inserendo le cose nel corpo dei propri film per omaggiarle. Ed è per questo che nelle immagini di Magic Lantern continuamente tornano i vecchi proiettori, gli obiettivi, le bobine e soprattutto la pellicola, feticcio d’elezione di registi, montatori e proiezionisti, che qui non solo si replica reiteratamente in visione, ma viene addirittura toccata, accarezzata con la voluttà che solitamente si riserva a pelle di donna «Accarezzando la pellicola sta accarezzando lei, la donna che ama, che poi è il cinema, la sua essenza», sino a scoprire in essa il supporto ineliminabile per la vita stessa, se accolta nella sua accezione fantasmica, della finzione filmica, come dimostra la scena in cui, rompendosi la pellicola, lei svanisce, perde ogni residua consistenza materica. Tornando invece, per concluderlo, sul discorso del citazionismo affettivo è Amir stesso a rivelarci inconffessabili passioni cinefiliche. A parte la scena del primo incontro con lei, al negozio, interamente modellata sulla scena di Vertigo (Alfred Hitchcock, 1959) in cui Scotty al bar cerca Madeleine\Judy con lo sguardo e poi lei avanza voltandosi, alcuni omaggi possono ancora sorprendere, come quello a Ugetsu Monogatari  ( Kenji Mizoguchi, 1953) di Mizoguchi, che realizza attraverso le due figure fantasmatiche femminili «perché il fantasma di quel film è talmente fascinoso e reale, che ogni volta che lo mostro in classe ai miei studenti poi ho l’impressione che lei mi segua veramente», o il riferimento ai film di Ophüls come Lola Montès, La Ronde, Pleasure, di cui omaggia, e fa sua, la sensibilità d’uso del medium cinematografico, la caratura emozionale e magica nell’uso di suono e immagini.

Al centro della vicenda troviamo un giovane proiezionista, “piccolo omaggio al fantastico Keaton di Sherlock Jr, in cui fa il protezionista e sogna sé stesso all’interno di un film”, personaggio sintomatico della vocazione metafilmica dell’operazione di Naderi. Per professione, infatti, il proiezionista vive sempre in bilico tra sogno e realtà, finzione filmica e fantasticheria. Non è strano quindi che si veda come protagonista del film che sta proiettando, in cui incontra questa misteriosa ragazza dii cui inizia la ricerca. “ un lavoro legato al mondo dell'immaginazione, della fantasia, il protagonista guarda i film e fantastica, vive parte della sua vita dentro a questo sogno fatto di cinema e parte fuori da esso, nella realtà, ma nella sua mente non c’è discontinuità tra le due dimensioni. Ogni giorno si cala nei mondi fantastici e irreali dei film che proietta, esercita la sua fantasia, la adotta come modalità di vita, quindi nel film non sappiamo mai se quello che vediamo è il suo sogno, un film che sta vedendo e vivendo, o la realtà. Gli basta sfiorare un manichino (altro simulacro, forma di riproduzione dell’immagine umana, noto io) per iniziare a fantasticare”. Ma che forse siamo in un sogno forse doveva risultare chiaro già dall'inizio, quando lui nelle prime inquadrature del film correndo arriva dove ci sono degli orologi, che “se guardi bene sono fermi, perchè il tempo nel sogno, il tempo ad Hollywood, magicamente si ferma.” Questo elemento di incertezza ontologica, di impossibilità di giudizio circa lo statuto di realtà delle cose è la cifra caratteristica dell’intera operazione “Un film-sogno, che è come i sogni, i fantasmi, non risponde a logiche razionali, non offre risposte, anzi ho fatto un film che pone solo domande e non da alcuna risposta”. Effettivamente basandosi sul solo dato schermino è arduo, forse impossibile, dire se il giovane sogni o fantasticando sostituisca la propria immagine a quella del protagonista di un film in corso di proiezione, o se veramente abbia recitato nel film, così come è impossibile stabilire in via definitiva se la fanciulla di cui s’ossessiona esista veramente, sia il personaggio di un film o addirttura un fantasma, visto che in corso d’opera veniamo informati della sua prematura dipartita. Gioca con con le mille possibilità di un’identità liquida Naderi, moltiplicandola per il numero delle bocche che la descrivono e rifrangendola nella moltitudine d’occhi che l’hanno spiata, indice relazioni instabili tra chi avevamo creduto madre e figlia mostrando le loro immagini riflesse in una sovrapposizione identificatoria perfetta. Insinua dubbi più che dare spiegazioni il regista di The Runner, lascia intendere che le due figure femminili siano metafore del cinema (si dissolvono insieme alla pellicola che si rompe) e al contempo lo nega, ed esattamente come voleva, crea un mondo di sogni e presenze fantasmatiche “Esiste davvero questa figlia, visto che la madre, Jaqueline Bisset, racconta di averla solo adottata o è un macguffin puro, un semplice pretesto per visualizzare l’immagine giovane di questa madre ex-diva, una proiezione onirica della sua fame di giovinezza, il sogno chimera di tutte le dive? “non ho risposte da darti se non altre domande, ma proprio questo volevo, sapendo di mettere in difficoltà il pubblico, creare un paesaggio di sogni, di fantasmi…quando guardo certi vecchi film mi capita di provare una strana impressione. Vedo, riconosco quei volti familiari, quello e Bogart, quella la Bergman…mi parlano e ne riconosco le voci…ma so che non sono reali, non esistono, sono fantasmi, tutta quella Hollywood, quelle atmosfere, quel mondo, tutto è diventato fantasma, ecco perché per rendergli omaggio non potevo fare altro che un film di fantasmi.”

E il gioco delle possibilità e dei travisamenti inizia subito, con Naderi che impone allo spettatore una premessa falsificante mostrando nell’incipit l’iconica scritta Hollywood poggiata sul fianco del monte Lee, terra franca di sogni e sognatori, gettando l’ombra del dubbio sulla possibile consistenza finzionale di tutto quanto si vedrà in seguito. E come lui mi ha fatto notare gli orologi che incontra il ragazzo poche inquadrature dopo durante la sua corsa sono tutti fermi, come a misurare un tempo sospeso, incantato. Si noterà anche che la ragazza non lascia impronte mentre cammina sulla spiaggia con lui. La scena della spiaggia, visto che ne parliamo, è alquanto particolare per riuscita visiva e la narrazione della sua acrobatica realizzazione tecnica merita di essere ascoltata. I due ragazzi si ritrovano come per incanto su un’assolata spiaggia di sogno dopo che finalmente lui era riuscito a trovarla tra l’ombra chiusa dentro a un’armadio, il solo luogo in cui lei, che ormai alle ombre appartiene, possa ancora esistere. Si potrà osservare, intanto, che il passaggio dalla tenebra alla luce come forma di traduzione visiva del passaggio da una fase di chiusura o negazione del sentimento a una di apertura ci riporta a Monte, a quella finale e liberatoria deflagrazione luministica conclusiva che chiudeva il film e i destini degli uomini. A un certo punto le immagini immobili dei due ragazzi iniziano a slittare lateralmente a grande velocità sparendo fuori dal margine laterale del quadro come se una invisibile mano le trascinasse con forza fuori dai bordi dell'inquadratura, ogni inquadratura dura pochi secondi e l’immagine di ognuno sparendo lascia posto all’immagine dell’altro, quasi che improvvise cesure di montaggio intervengano a spezzare la continuità di ogni moto, generando una sorta di circolarità, di loop allucinatorio in alternanza. Un effetto visivo insolito sulla cui natura interrogo: “ è stata una scena complicatissima da girare  perché, come tutto il resto, tranne l’effetto delle impronte della ragazza, volevo farlo senza l’ausilio di effetti di post-produzione. Le immagini che vedi slittare in realtà sono le loro immagini riflesse in molti specchi, e slittano perché la macchina da presa si muove rapidamente da uno specchio all’altro.Trattandosi di fantasmi, pure immagini filmiche, non volevo riprendere i corpi reali degli attori, ma una qualche forma della loro presenza fantasmica, così ho deciso che avrei ripreso solamente le loro immagini riflesse in tantissimi specchi conficcati nel mare, e passando lateralmente da uno specchio all'altro ottenere l'effetto di slittamento delle loro immagini che segnalavi tu. Al di là della difficoltà tecnica, del dover posizionare gli attori in modo che si riflettessero in tutti gli specchi nel modo giusto, non sono riuscito ad avere tutti i permessi che occorrevano per posizionare gli specchi, ma quando mi metto in testa una cosa…diciamo che è una scena“pirata”!”

L’altro livello della celebrazione cinefilica posta in essere da Naderi è quello ho chiamato per convenzione dell’”evocazione stilistica”, l’adozione di un “linguaggio cinematografico della memoria” che riattualizza modi della ripresa, del montaggio e delle colorimetrie tipici di quel cinema. Nelle scene del negozio c’è tutto un rivivere affettuoso di movimenti di macchina intenti a seguire pedissequamente ogni minimo spostamento dei personaggi che rinverdisce i fasti di quel cinema “classico” ossessionato dalla centratura del quadro, dal fatto, cioè ,di dover scrupolosamente tenere il soggetto principale quanto più possibile al centro geometrico dell’inquadratura, generando quel tipico modo ondivago di muovere la macchina, i colori stessi sono quelli della Hollywood di quegli anni, aspirano a riprodurre gli effetti derivanti dalle tecnologie ottiche e dai tipi di pellicola che ne erano il supporto: “Sì, ho voluto caricare il livello stilistico di una particolare importanza di senso. Considera che questo è un film girato in digitale, un mezzo che implica precise possibilità di movimento, di colore eccetera, quindi il fatto che il risultato sembri girato in pellicola, e che sia girato in certe parti come un film degli anni '40 o '50 sono scelte intenzionali. E' il mio “linguaggio della memoria”, lo stile che mi riporta a un modo di fare il cinema che ho amato tantissimo e a cui rendo omaggio facendolo rivivere un’ultima volta.” E il fatto che sia girato in digitale un peso lo ha anche perché proprio l’irruzione del digitale è la causa prima di dispersione del cinema che oggi Naderi celebra e ricorda, delle sue tecniche e tecnologie. Girando in digitale e assoggettando questo strumento di natura computazionale alle logiche e alle estetiche estranee dell’analogico non solo Amir dichiara implicitamente una precisa volontà di usare lo stile filmico come medium di negoziazione di contenuti significanti (l’omaggio a un modo di fare cinema espresso attraverso l’assunzione del suo orizzonte stilistico) ma attualizza con la pratica quel superamento dell’analogico da parte del digitale che in modo sottaciuto è il tema di fondo del film: “L’ho già detto, questo film non ha a che vedere col rimpianto, il digitale è l’inevitabile futuro, non  ci si può fare niente, io lo vedo come un cambiamento, non come una perdita,  è lo strumento che usano le nuove generazioni e la sua forza è la facilità:  rende tutto più semplice, più semplice il finanziamento dei film, che si fanno a costo quasi zero, semplifica la tecnica, rende più facile fare riprese praticamente ovunque, in qualsiasi momento e senza l'ingombro di complesse strutture da montare e smontare. Ma la grande facilità è anche la sua grande pericolosità, perchè disponendo di cose facili si tende a dimenticare quelle difficili, si disimpara il senso “educativo” della difficoltà, le pratiche complesse vanno “perdute nel tempo come lacrime nella pioggia” (Cit.) il cambiamento dovrebbe restare tale, non diventare una perdita, ma essere trasformazione.” Ma la questione del digitale interseca le traiettorie significanti del film anche ad un altro livello, inserendosi come dato perturbante nel più generale discorso che fa sull’identità. Durante la spasmodica ricerca della ragazza, infatti, e come ci ha già spiegato il modello ideale era la Rosebud ci Citizen Kane, via via che le sue molte vite e identità alternative vengono a galla insieme alla lunga lista dei suoi molti nomi  si compone un’idea aleatoria e instabile di ciò che chiamiamo “identità” e del suo essere una stabile configurazione di relazioni tra identità corporea, identità antroponomastica e identità comportamentale, che già rappresenta un primo livello dell’interrogazione di Naderi sull’identità, ma che nel film dialoga continuamente con un polo ulteriore della diatriba, nuovo livello della dispersione identitaria, che è il digitale, la nostra identità parcellizzata e smaterializzata tra account social e memorie dei cellulari con le rinnovate possibilità di memorizzazione e connettività interpersonale che offre. Le uniche certezze su chi sia l’amata giovane, in un turbinio di identità reali posticce e simulatorie, arrivano al giovane proiezionista dalle foto e dai piccoli video contenuti nel cellulare che lei ha smarrito “come una versione tecnologica della scarpa di Cenerentola”. Il dispositivo virtualizzante è anche l’unico luogo di condensazione e memorizzazione inopinabile della nostra presenza: “Ormai tutta la nostra “identità”, il nostro sistema di relazioni sociali, le nostre memorie, i nostri affetti, sono custoditi da questo piccolo “coso” (e alza il suo cellulare agitandolo leggermente). L'elenco di persone salvato nella nostra rubrica o nei contatti è la misura dell'estensione della nostra rete di relazioni sociali e lavorative, l'insieme delle persone che ci conoscono. Nel film possiamo definitivamente dire che la ragazza sia sparita solo quando verifichiamo che nessuna delle persone contenute nei suoi contatti o nella rubrica del cellulare ha notizie della sua esistenza. Il telefonino è la nuova forma della nostra proiezione di identità, come prima era il cinema.

E infatti dove ritrova lui i piccoli pezzi dell'identità di lei, i suoi ricordi, le sue parole, le sue paure, che gli permettono di avanzare nella ricerca? Sempre nello scrigno-memoria del cellulare, dove conserviamo le nostre immagini, e i video, i ricordi di lei,  i nostri ricordi. Ricordi che sono immagini e film. Il cellulare è anche il nuovo schermo, la direzione e la dimensione verso cui inesorabilmente va il cinema, il cinema del futuro”.

Il cellulare in quanto schermo, nella sua funzione di produttore e registratore di immagini luminose in movimento, ha il ruolo di interlocutore terzo nel sistema multilivellare di realtà e schermi su cui si struttura il film,  convitato di pietra nella dialettica analogico-digitale che informa l’opera tutta. Magic Lantern, infatti, si sviluppa su una struttura di più film disposti  “a Matrioska” in cui il livello di realtà messo in scena da ciascuno dovrebbe, a rigor di logica, essere “contenuto”, in quanto realtà simulata, nel livello di realtà del film che lo contiene. Noi spettatori vediamo un film (e crediamo che la realtà che rappresenta sia quella oggettiva) che contiene un film, la cui realtà quindi dovremmo percepire come simulata all’interno della realtà oggettiva, che mostra a sua volta un film contenuto in un cellulare, la cui realtà dovremmo recepire come simulazione all’interno della simulazione. Ho però usato il condizionale, perché questo sistema di distinzioni dipende dal rispetto di quella convenzione visiva che chiamiamo “Mise en abyme”, l’immagine nell’immagine, che Naderi con astuzia viola ripetutamente per creare il grado di confusione tra piani di realtà e finzione che stava cercando. Bisogna infatti ricordare che l’economia semantica di cui ci serviamo durante la fruizione di un film è a prevalenza visuale, e che la produzione di significati a quel livello è per lo più pre razionale e pre verbale, producendosi per lo più a partire da indicazioni di tipo visivo, come i rapporti dimensionali, prossemici e dalle qualità cromatiche o volumetriche. La percezione dei vari gradi di finzionalità delle immagini filmiche contenute in altre immagini filmiche dipende in larga misura dalla presenza di particolari “indici visivi di finzionalità” e infatti permane sin tanto che restano visibili la cornice, i bordi, la superficie o lo schermo che limitano fisicamente la seconda immagine, dichiarando, all’interno dell’immagine a schermo intero e della realtà che assumiamo come realtà di primo grado, la sua natura di immagine artificiale, proiettata, imitativa e limitata. Di contro si tende ad obliterare la finzionalità dell’immagine a schermo intero, a ritenerla una forma di continuità con realtà in cui siamo posizionati come spettatori. Naderi quindi, che dopo pochi istanti lascia slittare l’immagine che prima era “en abyme”, schermo nello schermo, nel totalizzante schermo intero, fonda la costruzione del proprio mondo onirico e multilivellare a un grado primordiale della produzione di senso, in cui è l’equiparazione dimensionale delle immagini, il fatto che ometta gli indici visivi che consentivano di discriminare una immagine (e una realtà) di primo grado da una di secondo grado, a fondare l’idea di una equiparazione degli statuti di realtà delle vicende che vediamo in immagine. “Volevo creare una struttura con più livelli di realtà, o di finzione, a seconda di come la guardi, e un primissimo livello arriva già all’inizio, quando mostro a scritta di Hollywood, un simbolo assoluto del sogno e della finzione. Se siamo a Hollywood, dove tutto si confonde non possiamo essere certi della natura di ciò che si vede. E’realtà, finzione o stiamo guardando un film? O è il ragazzo che guarda un film? e dove ci troviamo, nel film che stiamo guardando ora, in quello che guarda il ragazzo, nel cellulare, dove? non deve mai essere possibile dirlo con certezza, perché siamo nel mondo dei fantasmi e dei sogni.” Semmai si potrà sottolineare come ridiscendendo i vari gradi di realtà presenti nei vari film, quello delle immagini del cellulare (per quanto appartenente all’ontologia fittizia di un film contenuto in un film,) sia l’unico che conserva un qualche grado di relazione diretta con la realtà che iconizza, perchè sua registrazione diretta non mediata da istanze di tipo drammaturgico, non frutto di una messinscena, di un’intenzione registica, come invece lo sono sia le immagini del film che guardiamo come spettatori sia quelle del film in esse contenute. Mentre le vicende del giovane proiezionista, della ancora avvenente ex-diva del cinema e della fantasmatica fanciulla vivono a cavallo tra finzione e realtà, costruzione drammaturgica e fantasticheria, le immagini del cellulare sono il solo frammento di verità oggettiva presente nel film, i veri ricordi, registrati senza infingimenti di una ragazza (sulla cui consistenza di realtà si può, anzi secondo Naderi si deve, certamente obiettare). Anche in questo senso, quindi, Naderi riafferma quell’ipotesi di sopravanzamento del digitale sull’analogico che fa da matrice concettuale a Magic Lantern, riconoscendo quella digitalizzata e dispersa, come ultima forma possibile di rappresentazione della nostra identità, capace, più dell’ormai vecchio cinema di farsene depositario veritiero. Per concludere gli chiedo se c’è qualcosa di cui vorrebbe parlare che non gli ho chiesto io “La musica!!!Non hai notato che in questo film uso la musica? Per me è una sfida nella sfida!!! anche perché la ho composta io. E’ stata una ricerca molto molto lunga. Alla fine ho trovato quel senso di trasporto sentimentale che cercavo, nel bellissimo tema che Nino Rota ha composto per La Strada, anche la situazione drammatica è simile perchè Zampanò ha perso la ragazza, e quella musica è davvero stupenda. Avendo in mente il tono emotivo del pezzo di Rota, il suo andamento melodico, ho buttato giù una rudimentale versione del tema e poi ci ho lavorato con Alex Kovacs un bravissimo compositore.

E quindi diciamo che la componente emotiva, il sentimento si ritrova nella componente musicale, poi c’è quell’altro suono, quel rumore oscuro che si sente ogni volta che il tempo a disposizione della ragazza sta per finire e lei sta per sparire ancora.E’ un’assemblaggio di suoni notturni provenienti da Monte, in cui se ricordi quel suono era la voce di forze oscure e ancestrali. Qui significa la stessa cosa è il richiamo delle forze della notte, ldela morte, che richiama la ragazza a sé.

La strada del cinismo, del nichilismo passivo, e del gelido grottesco nei cui anfratti si esaurisca l'umano, che era stata del Lanthimos delle origini – ricordo l'impressione che fece all'epoca Kinetta ma ancora di più Kynodontas, a inaugurare una vera e propria maniera del cinema greco – e aveva raggiunto il culmine soprattutto nel Sacrificio del cervo sacro, ora sembra accantonata in queste Povere creature, così Bella Buxter, una robotica poi flessuosa Emma Stone, con la sincerità infantile che la contraddistingue, lo svela lapidariamente a Lanthimos (Henry): «sei solo un bambino che non sopporta il dolore del mondo. Il mondo non è solo cattivo».

Se l’esperienza estetica è la più alta forma possibile di interazione tra gli esseri umani e tutto ciò che li circonda – come ha magistralmente teorizzato John Dewey nel suo testo più noto, Arte come esperienza –, allora potremmo dire che L’expérience Zola, l’ultimo film di Gianluca Matarrese, ne è una sorta di prova audiovisiva, un’attestazione rivelatrice.

«L'importante per me era sfidarmi ancora, superare quello che avevo già fatto, e dopo aver fatto crollare le montagne in Monte, per andare avanti in quella direzione avrei dovuto aprire gli oceani come Mosè. Quindi ho capito che era il momento per un cambio di direzione radicale rispetto a quello che ho fatto sinora, una sfida che investisse anche il piano stilistico, qualcosa che non avevo mai fatto prima» L’esito insolito di queste premesse battagliere si intitola Magic Lantern, presentato fuori concorso alla 75ª mostra Del Cinema di Venezia, e davvero Naderi sembra aver vinto la propria sfida con l'inaspettato e l’ineguale a sé a guardare questo film di vibranti sentimenti e atmosfere tenui. «Ma che diavolo è? Naderi?…Naderi che fa lui e lei che parlano amoreggiando nello specchio come in un film di Jacques Demy? Ma  no! E’impossibile! Già me li immagino i “fan” (e pronunciando fan sghignazza ironicamente) di Naderi » è consapevole del rischio di scontentare i puristi del naderismo, il nostro apolide del cinema, più di tutto avvezzi a quella sua poetica ruvida, di passioni forti e terribili e intensi stimoli sensoriali, di cui Monte è forse campione. Ma la coerenza, in soggetti di questa schiatta, è forza travolgente e oscura che sulla considerazione dei rischi ha finito per lasciar prevalere quel «Amir se ci credi devi farlo, a prescindere dal resto!!!» che gli rimbombava in testa mentre pensava ai puristi cinefili potenzialmente scontenti. C’è in verità poco da essere scontenti di fronte a questo film che, pur nella diversità dal resto della produzione naderiana, riesce esprimere una complessità che dovrebbe essere in grado di soddisfare i più barricadieri tra i cinefili, nella misura in cui inscrive in un testo apparentemente leggero, una commedia di teneri amori, dipanata però su piani di realtà differenti, un più complesso ordito riflessivo, metalinguistico e cinefiilico, che rappresenta il commosso adieau au langage di Naderi, ma solo a "un certo"linguaggio, quello classico, in cui la riflessione teorica si coniuga con l'affettuosa celebrazione del grande cinema del passato e delle teknè spicciole del suo farsi analogico.

In Magic Lantern si cerca disperatamente una donna, un'identità, un fantasma, e soprattutto l’amore, ma d'altronde il tema della ricerca ossessiva è piuttosto ricorrente nell’opus naderiana, se si ricordano film come Tangsir (Amir Naderi 1973) e Vegas: Based on a True Story (Amir Naderi, 2008), storie di ricerche che diventano ossessioni in cui però, qui sta la differenza rilevante, l’oggetto di valore era un chè di distruttivo, capace di effetti nefasti sulle vite degli uomini, come la vendetta o il denaro. In Magic Lantern il sacro Graal è il più tenero dei sentimenti, l’amore, il che mi porta a domandargli se qualcosa nel cuore granitico di Naderi non sia andato ammorbidendosi con gli anni: «In realtà si tratta di un percorso che avevo iniziato molti anni fa,  con Waiting (Amir Naderi, 1974), che era un film molto personale, volto all’interiorità, che fu censurato nel mio paese e vinse un premio della giuria a Cannes», una linea di sviluppo dell’indagine che lì bruscamente si era interrotta, dopo quel solo episodio, a causa dell’incalzare di eventi che è stata  la sua burrascosa vita : «Ma poi la lotta per sopravvivere, come uomo e come film-maker, la fuoriuscita dal mio paese, le difficoltà continue, mi hanno allontanato un po’ da quel tipo di riflessioni, spingendomi a fare un cinema di sentimenti estremi, di passioni forti, che hanno sempre richiesto una certa irruenza sul piano espressivo». E’ solo dunque ora, a più di quarant’anni di distanza, che Amir sente arrivato il momento giusto per riprendere in mano le fila di quel discorso interrotto a fior di labbra, e ripiegare sull’analisi di sentimenti delicati e intimi. Un’emozionalità che noi amanti del suo cinema non gli riconoscevamo forse abbastanza, per quanto il suo senso alato di umanitarismo fosse stato sempre ben leggibile nelle opere, e che lo ha sempre accompagnato:” Sono sempre stato così, solo che con il tipo di film di che ho fatto non ho potuto mostrarlo più di tanto” .

Un film, Magic Lantern, che può piacere ai critici perché strategico nell’utilizzo di ogni suo codice, a cominciare da quel titolo che per ammissione dello stesso Amir serve ad orientare preventivamente la ricerca di senso di uno spettatore che, sapendo di avere a che fare con una lanterna magica, antesignana del cinematografo, esplorerà da subito  il corpo filmico in cerca di indizi che afferiscano ai processi di coniazione primaria di immagine, alla proiezione della luce creatrice di icone, al cinema nel suo farsi o alle origini della settima arte. Ma anche un titolo che dichiara precise intenzioni, se si considera la non casuale omonimomia con l’autobiografia di Bergman     , collezione preziosa di ricordi cinematografici, come Amir ci tiene a sottolineare: “Ricordi, non rimpianti, ‘fanculo i rimpianti!!! Ho voluto fare un film che fosse come quel libro, quindi non un’operazione sulla nostalgia, e nemmeno la decantazione di una qualche presunta età dell’oro del cinema ormai perduta, semmai è sulla memoria, un richiamare alla mente senza rimpianti ma con affetto infinito affetto quel cinema, questo sì, ma non c’è alcuna forma di rimpianto“. Le strategie testuali attraverso cui Naderi mette in essere questo suo affettuoso omaggio ai fantasmi di un cinema spazzato via dal digitale sono molteplici e funzionalmente intrecciate nell’ordito filmico, dunque è solo per comodità d’analisi che prenderemo in considerazione separatamente il livello che chiameremo del “citazionismo affettivo” da quelli del “riferimento stilistico” e della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche del cinema”, che così denominiamo per pura convenzione.

Quello che rubrico come "citazionismo affettivo" coincide con la pratica naderiana di un continuo accoglimento di suggestioni, atmosfere e ispirazioni provenienti dai film che più ama, in uno scambio senza posa tra il film allo stato attuale di esistenza e il cinema “fantasma”, immanente nell’assenza, vivo solo attraverso la rievocazione affettiva e filmica. Non  è difficile scorgere la provenienza minnelliana di certa levità magica che svincola le scene di Magic Lantern dai livori anche cromatici di Monte (Amir Naderi 2016). Soprattutto la palette e le colorimetrie fortemente emozionali e luminose, sembrano ispirarsi all’uso che ne faceva il regista di Two Weeks In An Other Town ( Vincent Minnelli, 1962), e interrogato Naderi non solo conferma questa intuizione, ma rilancia continuamente: «Se guardi tutta l’estetica estremamente retrò del negozio, in stile Hollywood classica, imbellettata e infiocchettata, è visivamente minnelliana. Ma più di tutto ho voluto far rivivere certe sue qualità di cineasta nel personaggio di Jaqueline (Bisset), tutto modellato sul tipo di donne eleganti e sobrie che lui portava sullo schermo. The Bad And The Beauty (Vincent Minnelli, 1952), Two Weeks in an Other Town e soprattutto The Band Wagon (Vincent Minnelli, 1953), anzi Jaqueline è come se fosse Cyd Charisse di Band Wagon quarant'anni dopo, e infatti la faccio ballare su quella musica come faceva lei, ed è stupenda.»

«Rosebud» dico io a un certo punto: «tutta la sotto trama relativa alla ragazza, la ricerca della sua identità che via rivela ne rivela molteplici altre, e che ci sfugge nel momento stesso in cui sembriamo averla trovata, pare un’omaggio a Citizen Kane (Orson Welles, 1941)». Naderi “mi Batte il cinque” (!!!) emettendo un  prolungato «yeah man!» e mi spiega concitato: «avevo in mente Rosebud sin dall’inizio, è per questo che anche la nostra ragazza, di cui scopriamo via via i molti nomi e le molte vite, proprio come la slitta di Kane che finisce al fuoco nel momento esatto in cui lo spettatore la identifica, ha l'incidente nel momento stesso in cui finalmente lui la trova e contemporaneamente vediamo che la pellicola salta, facendola sparire completamente…mi piaceva l’idea di un’identità che resta molteplice e inafferrabile, che resta comunque un mistero anche di fronte ai nostri sforzi per conoscerla, perché in fondo, la vera identità, la verità, degli uomini ci rimarrà sempre sconosciuta» Inevitabile anche il riferìmento a Hitchcock, che mi pare di rinvenire, ma Amir lo ha confermato, nell’applicazione fruttuosa della tecnica delle “marche testuali isotopiche”, con cui il maestro inglese era solito costruire i suoi film. Si tratta in sostanza dell’abitudine che aveva Hitch di disseminare il film di presenze minute, piccoli indizi visivi che continuamente rimarcassero il tema di fondo del film all’attenzione dello spettatore,  come le molte macchine fotografiche, le fotografie e i dispositivi meccanici per la visione che si affollano in Rear Window (Alfred Hitchcock, 1954), metafiim per eccellenza sulle pratiche di significazione filmica, che rinviano insistamente l’attenzione ai processi della produzione di immagini, o i molti indizi pennuti (la coppia di “inseparabili” i teneri uccellini che innescano l’incontro tra Mitch e Melania nel negozio di animali, l’attacco del gabbiano a Melania, l’uccellino morto che trova la maestra ecc. ecc.) con cui in The Birds (Alfred Hitchcock, 1963) costruisce la suspence in un crescendo tensivo che culmina nell’attacco ai bambini.

Interrompiamo solo temporaneamente il discorso sul citazionismo per rilevare che è a questo livello, quello della disseminazione isotopica di marche testuali afferenti al tema del cinema passato, delle sue pratiche e delle sue competenze artigiane, che si espleta quel livello della rievocazione affettiva che ho chiamato della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche”. L’affetto di Naderi è anche quello per tutto quell’insieme di saperi tecnici, manualità e tecnologie su cui sta calando l’oblio del digitale, un affetto da regista, che si esprime mostrando, inserendo le cose nel corpo dei propri film per omaggiarle. Ed è per questo che nelle immagini di Magic Lantern continuamente tornano i vecchi proiettori, gli obiettivi, le bobine e soprattutto la pellicola, feticcio d’elezione di registi, montatori e proiezionisti, che qui non solo si replica reiteratamente in visione, ma viene addirittura toccata, accarezzata con la voluttà che solitamente si riserva a pelle di donna «Accarezzando la pellicola sta accarezzando lei, la donna che ama, che poi è il cinema, la sua essenza», sino a scoprire in essa il supporto ineliminabile per la vita stessa, se accolta nella sua accezione fantasmica, della finzione filmica, come dimostra la scena in cui, rompendosi la pellicola, lei svanisce, perde ogni residua consistenza materica. Tornando invece, per concluderlo, sul discorso del citazionismo affettivo è Amir stesso a rivelarci inconffessabili passioni cinefiliche. A parte la scena del primo incontro con lei, al negozio, interamente modellata sulla scena di Vertigo (Alfred Hitchcock, 1959) in cui Scotty al bar cerca Madeleine\Judy con lo sguardo e poi lei avanza voltandosi, alcuni omaggi possono ancora sorprendere, come quello a Ugetsu Monogatari  ( Kenji Mizoguchi, 1953) di Mizoguchi, che realizza attraverso le due figure fantasmatiche femminili «perché il fantasma di quel film è talmente fascinoso e reale, che ogni volta che lo mostro in classe ai miei studenti poi ho l’impressione che lei mi segua veramente», o il riferimento ai film di Ophüls come Lola Montès, La Ronde, Pleasure, di cui omaggia, e fa sua, la sensibilità d’uso del medium cinematografico, la caratura emozionale e magica nell’uso di suono e immagini.

Al centro della vicenda troviamo un giovane proiezionista, “piccolo omaggio al fantastico Keaton di Sherlock Jr, in cui fa il protezionista e sogna sé stesso all’interno di un film”, personaggio sintomatico della vocazione metafilmica dell’operazione di Naderi. Per professione, infatti, il proiezionista vive sempre in bilico tra sogno e realtà, finzione filmica e fantasticheria. Non è strano quindi che si veda come protagonista del film che sta proiettando, in cui incontra questa misteriosa ragazza dii cui inizia la ricerca. “ un lavoro legato al mondo dell'immaginazione, della fantasia, il protagonista guarda i film e fantastica, vive parte della sua vita dentro a questo sogno fatto di cinema e parte fuori da esso, nella realtà, ma nella sua mente non c’è discontinuità tra le due dimensioni. Ogni giorno si cala nei mondi fantastici e irreali dei film che proietta, esercita la sua fantasia, la adotta come modalità di vita, quindi nel film non sappiamo mai se quello che vediamo è il suo sogno, un film che sta vedendo e vivendo, o la realtà. Gli basta sfiorare un manichino (altro simulacro, forma di riproduzione dell’immagine umana, noto io) per iniziare a fantasticare”. Ma che forse siamo in un sogno forse doveva risultare chiaro già dall'inizio, quando lui nelle prime inquadrature del film correndo arriva dove ci sono degli orologi, che “se guardi bene sono fermi, perchè il tempo nel sogno, il tempo ad Hollywood, magicamente si ferma.” Questo elemento di incertezza ontologica, di impossibilità di giudizio circa lo statuto di realtà delle cose è la cifra caratteristica dell’intera operazione “Un film-sogno, che è come i sogni, i fantasmi, non risponde a logiche razionali, non offre risposte, anzi ho fatto un film che pone solo domande e non da alcuna risposta”. Effettivamente basandosi sul solo dato schermino è arduo, forse impossibile, dire se il giovane sogni o fantasticando sostituisca la propria immagine a quella del protagonista di un film in corso di proiezione, o se veramente abbia recitato nel film, così come è impossibile stabilire in via definitiva se la fanciulla di cui s’ossessiona esista veramente, sia il personaggio di un film o addirttura un fantasma, visto che in corso d’opera veniamo informati della sua prematura dipartita. Gioca con con le mille possibilità di un’identità liquida Naderi, moltiplicandola per il numero delle bocche che la descrivono e rifrangendola nella moltitudine d’occhi che l’hanno spiata, indice relazioni instabili tra chi avevamo creduto madre e figlia mostrando le loro immagini riflesse in una sovrapposizione identificatoria perfetta. Insinua dubbi più che dare spiegazioni il regista di The Runner, lascia intendere che le due figure femminili siano metafore del cinema (si dissolvono insieme alla pellicola che si rompe) e al contempo lo nega, ed esattamente come voleva, crea un mondo di sogni e presenze fantasmatiche “Esiste davvero questa figlia, visto che la madre, Jaqueline Bisset, racconta di averla solo adottata o è un macguffin puro, un semplice pretesto per visualizzare l’immagine giovane di questa madre ex-diva, una proiezione onirica della sua fame di giovinezza, il sogno chimera di tutte le dive? “non ho risposte da darti se non altre domande, ma proprio questo volevo, sapendo di mettere in difficoltà il pubblico, creare un paesaggio di sogni, di fantasmi…quando guardo certi vecchi film mi capita di provare una strana impressione. Vedo, riconosco quei volti familiari, quello e Bogart, quella la Bergman…mi parlano e ne riconosco le voci…ma so che non sono reali, non esistono, sono fantasmi, tutta quella Hollywood, quelle atmosfere, quel mondo, tutto è diventato fantasma, ecco perché per rendergli omaggio non potevo fare altro che un film di fantasmi.”

E il gioco delle possibilità e dei travisamenti inizia subito, con Naderi che impone allo spettatore una premessa falsificante mostrando nell’incipit l’iconica scritta Hollywood poggiata sul fianco del monte Lee, terra franca di sogni e sognatori, gettando l’ombra del dubbio sulla possibile consistenza finzionale di tutto quanto si vedrà in seguito. E come lui mi ha fatto notare gli orologi che incontra il ragazzo poche inquadrature dopo durante la sua corsa sono tutti fermi, come a misurare un tempo sospeso, incantato. Si noterà anche che la ragazza non lascia impronte mentre cammina sulla spiaggia con lui. La scena della spiaggia, visto che ne parliamo, è alquanto particolare per riuscita visiva e la narrazione della sua acrobatica realizzazione tecnica merita di essere ascoltata. I due ragazzi si ritrovano come per incanto su un’assolata spiaggia di sogno dopo che finalmente lui era riuscito a trovarla tra l’ombra chiusa dentro a un’armadio, il solo luogo in cui lei, che ormai alle ombre appartiene, possa ancora esistere. Si potrà osservare, intanto, che il passaggio dalla tenebra alla luce come forma di traduzione visiva del passaggio da una fase di chiusura o negazione del sentimento a una di apertura ci riporta a Monte, a quella finale e liberatoria deflagrazione luministica conclusiva che chiudeva il film e i destini degli uomini. A un certo punto le immagini immobili dei due ragazzi iniziano a slittare lateralmente a grande velocità sparendo fuori dal margine laterale del quadro come se una invisibile mano le trascinasse con forza fuori dai bordi dell'inquadratura, ogni inquadratura dura pochi secondi e l’immagine di ognuno sparendo lascia posto all’immagine dell’altro, quasi che improvvise cesure di montaggio intervengano a spezzare la continuità di ogni moto, generando una sorta di circolarità, di loop allucinatorio in alternanza. Un effetto visivo insolito sulla cui natura interrogo: “ è stata una scena complicatissima da girare  perché, come tutto il resto, tranne l’effetto delle impronte della ragazza, volevo farlo senza l’ausilio di effetti di post-produzione. Le immagini che vedi slittare in realtà sono le loro immagini riflesse in molti specchi, e slittano perché la macchina da presa si muove rapidamente da uno specchio all’altro.Trattandosi di fantasmi, pure immagini filmiche, non volevo riprendere i corpi reali degli attori, ma una qualche forma della loro presenza fantasmica, così ho deciso che avrei ripreso solamente le loro immagini riflesse in tantissimi specchi conficcati nel mare, e passando lateralmente da uno specchio all'altro ottenere l'effetto di slittamento delle loro immagini che segnalavi tu. Al di là della difficoltà tecnica, del dover posizionare gli attori in modo che si riflettessero in tutti gli specchi nel modo giusto, non sono riuscito ad avere tutti i permessi che occorrevano per posizionare gli specchi, ma quando mi metto in testa una cosa…diciamo che è una scena“pirata”!”

L’altro livello della celebrazione cinefilica posta in essere da Naderi è quello ho chiamato per convenzione dell’”evocazione stilistica”, l’adozione di un “linguaggio cinematografico della memoria” che riattualizza modi della ripresa, del montaggio e delle colorimetrie tipici di quel cinema. Nelle scene del negozio c’è tutto un rivivere affettuoso di movimenti di macchina intenti a seguire pedissequamente ogni minimo spostamento dei personaggi che rinverdisce i fasti di quel cinema “classico” ossessionato dalla centratura del quadro, dal fatto, cioè ,di dover scrupolosamente tenere il soggetto principale quanto più possibile al centro geometrico dell’inquadratura, generando quel tipico modo ondivago di muovere la macchina, i colori stessi sono quelli della Hollywood di quegli anni, aspirano a riprodurre gli effetti derivanti dalle tecnologie ottiche e dai tipi di pellicola che ne erano il supporto: “Sì, ho voluto caricare il livello stilistico di una particolare importanza di senso. Considera che questo è un film girato in digitale, un mezzo che implica precise possibilità di movimento, di colore eccetera, quindi il fatto che il risultato sembri girato in pellicola, e che sia girato in certe parti come un film degli anni '40 o '50 sono scelte intenzionali. E' il mio “linguaggio della memoria”, lo stile che mi riporta a un modo di fare il cinema che ho amato tantissimo e a cui rendo omaggio facendolo rivivere un’ultima volta.” E il fatto che sia girato in digitale un peso lo ha anche perché proprio l’irruzione del digitale è la causa prima di dispersione del cinema che oggi Naderi celebra e ricorda, delle sue tecniche e tecnologie. Girando in digitale e assoggettando questo strumento di natura computazionale alle logiche e alle estetiche estranee dell’analogico non solo Amir dichiara implicitamente una precisa volontà di usare lo stile filmico come medium di negoziazione di contenuti significanti (l’omaggio a un modo di fare cinema espresso attraverso l’assunzione del suo orizzonte stilistico) ma attualizza con la pratica quel superamento dell’analogico da parte del digitale che in modo sottaciuto è il tema di fondo del film: “L’ho già detto, questo film non ha a che vedere col rimpianto, il digitale è l’inevitabile futuro, non  ci si può fare niente, io lo vedo come un cambiamento, non come una perdita,  è lo strumento che usano le nuove generazioni e la sua forza è la facilità:  rende tutto più semplice, più semplice il finanziamento dei film, che si fanno a costo quasi zero, semplifica la tecnica, rende più facile fare riprese praticamente ovunque, in qualsiasi momento e senza l'ingombro di complesse strutture da montare e smontare. Ma la grande facilità è anche la sua grande pericolosità, perchè disponendo di cose facili si tende a dimenticare quelle difficili, si disimpara il senso “educativo” della difficoltà, le pratiche complesse vanno “perdute nel tempo come lacrime nella pioggia” (Cit.) il cambiamento dovrebbe restare tale, non diventare una perdita, ma essere trasformazione.” Ma la questione del digitale interseca le traiettorie significanti del film anche ad un altro livello, inserendosi come dato perturbante nel più generale discorso che fa sull’identità. Durante la spasmodica ricerca della ragazza, infatti, e come ci ha già spiegato il modello ideale era la Rosebud ci Citizen Kane, via via che le sue molte vite e identità alternative vengono a galla insieme alla lunga lista dei suoi molti nomi  si compone un’idea aleatoria e instabile di ciò che chiamiamo “identità” e del suo essere una stabile configurazione di relazioni tra identità corporea, identità antroponomastica e identità comportamentale, che già rappresenta un primo livello dell’interrogazione di Naderi sull’identità, ma che nel film dialoga continuamente con un polo ulteriore della diatriba, nuovo livello della dispersione identitaria, che è il digitale, la nostra identità parcellizzata e smaterializzata tra account social e memorie dei cellulari con le rinnovate possibilità di memorizzazione e connettività interpersonale che offre. Le uniche certezze su chi sia l’amata giovane, in un turbinio di identità reali posticce e simulatorie, arrivano al giovane proiezionista dalle foto e dai piccoli video contenuti nel cellulare che lei ha smarrito “come una versione tecnologica della scarpa di Cenerentola”. Il dispositivo virtualizzante è anche l’unico luogo di condensazione e memorizzazione inopinabile della nostra presenza: “Ormai tutta la nostra “identità”, il nostro sistema di relazioni sociali, le nostre memorie, i nostri affetti, sono custoditi da questo piccolo “coso” (e alza il suo cellulare agitandolo leggermente). L'elenco di persone salvato nella nostra rubrica o nei contatti è la misura dell'estensione della nostra rete di relazioni sociali e lavorative, l'insieme delle persone che ci conoscono. Nel film possiamo definitivamente dire che la ragazza sia sparita solo quando verifichiamo che nessuna delle persone contenute nei suoi contatti o nella rubrica del cellulare ha notizie della sua esistenza. Il telefonino è la nuova forma della nostra proiezione di identità, come prima era il cinema.

E infatti dove ritrova lui i piccoli pezzi dell'identità di lei, i suoi ricordi, le sue parole, le sue paure, che gli permettono di avanzare nella ricerca? Sempre nello scrigno-memoria del cellulare, dove conserviamo le nostre immagini, e i video, i ricordi di lei,  i nostri ricordi. Ricordi che sono immagini e film. Il cellulare è anche il nuovo schermo, la direzione e la dimensione verso cui inesorabilmente va il cinema, il cinema del futuro”.

Il cellulare in quanto schermo, nella sua funzione di produttore e registratore di immagini luminose in movimento, ha il ruolo di interlocutore terzo nel sistema multilivellare di realtà e schermi su cui si struttura il film,  convitato di pietra nella dialettica analogico-digitale che informa l’opera tutta. Magic Lantern, infatti, si sviluppa su una struttura di più film disposti  “a Matrioska” in cui il livello di realtà messo in scena da ciascuno dovrebbe, a rigor di logica, essere “contenuto”, in quanto realtà simulata, nel livello di realtà del film che lo contiene. Noi spettatori vediamo un film (e crediamo che la realtà che rappresenta sia quella oggettiva) che contiene un film, la cui realtà quindi dovremmo percepire come simulata all’interno della realtà oggettiva, che mostra a sua volta un film contenuto in un cellulare, la cui realtà dovremmo recepire come simulazione all’interno della simulazione. Ho però usato il condizionale, perché questo sistema di distinzioni dipende dal rispetto di quella convenzione visiva che chiamiamo “Mise en abyme”, l’immagine nell’immagine, che Naderi con astuzia viola ripetutamente per creare il grado di confusione tra piani di realtà e finzione che stava cercando. Bisogna infatti ricordare che l’economia semantica di cui ci serviamo durante la fruizione di un film è a prevalenza visuale, e che la produzione di significati a quel livello è per lo più pre razionale e pre verbale, producendosi per lo più a partire da indicazioni di tipo visivo, come i rapporti dimensionali, prossemici e dalle qualità cromatiche o volumetriche. La percezione dei vari gradi di finzionalità delle immagini filmiche contenute in altre immagini filmiche dipende in larga misura dalla presenza di particolari “indici visivi di finzionalità” e infatti permane sin tanto che restano visibili la cornice, i bordi, la superficie o lo schermo che limitano fisicamente la seconda immagine, dichiarando, all’interno dell’immagine a schermo intero e della realtà che assumiamo come realtà di primo grado, la sua natura di immagine artificiale, proiettata, imitativa e limitata. Di contro si tende ad obliterare la finzionalità dell’immagine a schermo intero, a ritenerla una forma di continuità con realtà in cui siamo posizionati come spettatori. Naderi quindi, che dopo pochi istanti lascia slittare l’immagine che prima era “en abyme”, schermo nello schermo, nel totalizzante schermo intero, fonda la costruzione del proprio mondo onirico e multilivellare a un grado primordiale della produzione di senso, in cui è l’equiparazione dimensionale delle immagini, il fatto che ometta gli indici visivi che consentivano di discriminare una immagine (e una realtà) di primo grado da una di secondo grado, a fondare l’idea di una equiparazione degli statuti di realtà delle vicende che vediamo in immagine. “Volevo creare una struttura con più livelli di realtà, o di finzione, a seconda di come la guardi, e un primissimo livello arriva già all’inizio, quando mostro a scritta di Hollywood, un simbolo assoluto del sogno e della finzione. Se siamo a Hollywood, dove tutto si confonde non possiamo essere certi della natura di ciò che si vede. E’realtà, finzione o stiamo guardando un film? O è il ragazzo che guarda un film? e dove ci troviamo, nel film che stiamo guardando ora, in quello che guarda il ragazzo, nel cellulare, dove? non deve mai essere possibile dirlo con certezza, perché siamo nel mondo dei fantasmi e dei sogni.” Semmai si potrà sottolineare come ridiscendendo i vari gradi di realtà presenti nei vari film, quello delle immagini del cellulare (per quanto appartenente all’ontologia fittizia di un film contenuto in un film,) sia l’unico che conserva un qualche grado di relazione diretta con la realtà che iconizza, perchè sua registrazione diretta non mediata da istanze di tipo drammaturgico, non frutto di una messinscena, di un’intenzione registica, come invece lo sono sia le immagini del film che guardiamo come spettatori sia quelle del film in esse contenute. Mentre le vicende del giovane proiezionista, della ancora avvenente ex-diva del cinema e della fantasmatica fanciulla vivono a cavallo tra finzione e realtà, costruzione drammaturgica e fantasticheria, le immagini del cellulare sono il solo frammento di verità oggettiva presente nel film, i veri ricordi, registrati senza infingimenti di una ragazza (sulla cui consistenza di realtà si può, anzi secondo Naderi si deve, certamente obiettare). Anche in questo senso, quindi, Naderi riafferma quell’ipotesi di sopravanzamento del digitale sull’analogico che fa da matrice concettuale a Magic Lantern, riconoscendo quella digitalizzata e dispersa, come ultima forma possibile di rappresentazione della nostra identità, capace, più dell’ormai vecchio cinema di farsene depositario veritiero. Per concludere gli chiedo se c’è qualcosa di cui vorrebbe parlare che non gli ho chiesto io “La musica!!!Non hai notato che in questo film uso la musica? Per me è una sfida nella sfida!!! anche perché la ho composta io. E’ stata una ricerca molto molto lunga. Alla fine ho trovato quel senso di trasporto sentimentale che cercavo, nel bellissimo tema che Nino Rota ha composto per La Strada, anche la situazione drammatica è simile perchè Zampanò ha perso la ragazza, e quella musica è davvero stupenda. Avendo in mente il tono emotivo del pezzo di Rota, il suo andamento melodico, ho buttato giù una rudimentale versione del tema e poi ci ho lavorato con Alex Kovacs un bravissimo compositore.

E quindi diciamo che la componente emotiva, il sentimento si ritrova nella componente musicale, poi c’è quell’altro suono, quel rumore oscuro che si sente ogni volta che il tempo a disposizione della ragazza sta per finire e lei sta per sparire ancora.E’ un’assemblaggio di suoni notturni provenienti da Monte, in cui se ricordi quel suono era la voce di forze oscure e ancestrali. Qui significa la stessa cosa è il richiamo delle forze della notte, ldela morte, che richiama la ragazza a sé.

La questione del movimento, della qualità del movimento, è alle origini del cinema di Wenders, si sa: non tanto la motilità dei personaggi dentro l’inquadratura, quanto la tensione della forma verso un "falso movimento", la stasi, a rapprendere cioè le forze cinematografiche in un ecosistema stagnante, uno spazio di fissità degli elementi che scandiscono il tempo. E i 4:3 di Perfect Days testimoniano di questo processo di sfibramento del ritmo, di stagnazione dell’aria: come un’esigenza di fermare l’attimo, magari l’epifania frusciante di luci tra le foglie.

Quando il teatro (o il cinema, aggiungiamo noi) si disinteressa della mimesi, della drammaturgia o della spettacolarizzazione, ha l’occasione di fare qualcosa di miracoloso: disvelare, far emergere l’aletheia delle cose. Così la pensavano Grotowski o Artaud, ad esempio, il quale per tutta la sua vita ha più volte sostenuto, con forza, la necessità di «ignorare la messa in scena» e di “sopprimere” il «lato strettamente spettacolare dello spettacolo». 

«L'importante per me era sfidarmi ancora, superare quello che avevo già fatto, e dopo aver fatto crollare le montagne in Monte, per andare avanti in quella direzione avrei dovuto aprire gli oceani come Mosè. Quindi ho capito che era il momento per un cambio di direzione radicale rispetto a quello che ho fatto sinora, una sfida che investisse anche il piano stilistico, qualcosa che non avevo mai fatto prima» L’esito insolito di queste premesse battagliere si intitola Magic Lantern, presentato fuori concorso alla 75ª mostra Del Cinema di Venezia, e davvero Naderi sembra aver vinto la propria sfida con l'inaspettato e l’ineguale a sé a guardare questo film di vibranti sentimenti e atmosfere tenui. «Ma che diavolo è? Naderi?…Naderi che fa lui e lei che parlano amoreggiando nello specchio come in un film di Jacques Demy? Ma  no! E’impossibile! Già me li immagino i “fan” (e pronunciando fan sghignazza ironicamente) di Naderi » è consapevole del rischio di scontentare i puristi del naderismo, il nostro apolide del cinema, più di tutto avvezzi a quella sua poetica ruvida, di passioni forti e terribili e intensi stimoli sensoriali, di cui Monte è forse campione. Ma la coerenza, in soggetti di questa schiatta, è forza travolgente e oscura che sulla considerazione dei rischi ha finito per lasciar prevalere quel «Amir se ci credi devi farlo, a prescindere dal resto!!!» che gli rimbombava in testa mentre pensava ai puristi cinefili potenzialmente scontenti. C’è in verità poco da essere scontenti di fronte a questo film che, pur nella diversità dal resto della produzione naderiana, riesce esprimere una complessità che dovrebbe essere in grado di soddisfare i più barricadieri tra i cinefili, nella misura in cui inscrive in un testo apparentemente leggero, una commedia di teneri amori, dipanata però su piani di realtà differenti, un più complesso ordito riflessivo, metalinguistico e cinefiilico, che rappresenta il commosso adieau au langage di Naderi, ma solo a "un certo"linguaggio, quello classico, in cui la riflessione teorica si coniuga con l'affettuosa celebrazione del grande cinema del passato e delle teknè spicciole del suo farsi analogico.

In Magic Lantern si cerca disperatamente una donna, un'identità, un fantasma, e soprattutto l’amore, ma d'altronde il tema della ricerca ossessiva è piuttosto ricorrente nell’opus naderiana, se si ricordano film come Tangsir (Amir Naderi 1973) e Vegas: Based on a True Story (Amir Naderi, 2008), storie di ricerche che diventano ossessioni in cui però, qui sta la differenza rilevante, l’oggetto di valore era un chè di distruttivo, capace di effetti nefasti sulle vite degli uomini, come la vendetta o il denaro. In Magic Lantern il sacro Graal è il più tenero dei sentimenti, l’amore, il che mi porta a domandargli se qualcosa nel cuore granitico di Naderi non sia andato ammorbidendosi con gli anni: «In realtà si tratta di un percorso che avevo iniziato molti anni fa,  con Waiting (Amir Naderi, 1974), che era un film molto personale, volto all’interiorità, che fu censurato nel mio paese e vinse un premio della giuria a Cannes», una linea di sviluppo dell’indagine che lì bruscamente si era interrotta, dopo quel solo episodio, a causa dell’incalzare di eventi che è stata  la sua burrascosa vita : «Ma poi la lotta per sopravvivere, come uomo e come film-maker, la fuoriuscita dal mio paese, le difficoltà continue, mi hanno allontanato un po’ da quel tipo di riflessioni, spingendomi a fare un cinema di sentimenti estremi, di passioni forti, che hanno sempre richiesto una certa irruenza sul piano espressivo». E’ solo dunque ora, a più di quarant’anni di distanza, che Amir sente arrivato il momento giusto per riprendere in mano le fila di quel discorso interrotto a fior di labbra, e ripiegare sull’analisi di sentimenti delicati e intimi. Un’emozionalità che noi amanti del suo cinema non gli riconoscevamo forse abbastanza, per quanto il suo senso alato di umanitarismo fosse stato sempre ben leggibile nelle opere, e che lo ha sempre accompagnato:” Sono sempre stato così, solo che con il tipo di film di che ho fatto non ho potuto mostrarlo più di tanto” .

Un film, Magic Lantern, che può piacere ai critici perché strategico nell’utilizzo di ogni suo codice, a cominciare da quel titolo che per ammissione dello stesso Amir serve ad orientare preventivamente la ricerca di senso di uno spettatore che, sapendo di avere a che fare con una lanterna magica, antesignana del cinematografo, esplorerà da subito  il corpo filmico in cerca di indizi che afferiscano ai processi di coniazione primaria di immagine, alla proiezione della luce creatrice di icone, al cinema nel suo farsi o alle origini della settima arte. Ma anche un titolo che dichiara precise intenzioni, se si considera la non casuale omonimomia con l’autobiografia di Bergman     , collezione preziosa di ricordi cinematografici, come Amir ci tiene a sottolineare: “Ricordi, non rimpianti, ‘fanculo i rimpianti!!! Ho voluto fare un film che fosse come quel libro, quindi non un’operazione sulla nostalgia, e nemmeno la decantazione di una qualche presunta età dell’oro del cinema ormai perduta, semmai è sulla memoria, un richiamare alla mente senza rimpianti ma con affetto infinito affetto quel cinema, questo sì, ma non c’è alcuna forma di rimpianto“. Le strategie testuali attraverso cui Naderi mette in essere questo suo affettuoso omaggio ai fantasmi di un cinema spazzato via dal digitale sono molteplici e funzionalmente intrecciate nell’ordito filmico, dunque è solo per comodità d’analisi che prenderemo in considerazione separatamente il livello che chiameremo del “citazionismo affettivo” da quelli del “riferimento stilistico” e della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche del cinema”, che così denominiamo per pura convenzione.

Quello che rubrico come "citazionismo affettivo" coincide con la pratica naderiana di un continuo accoglimento di suggestioni, atmosfere e ispirazioni provenienti dai film che più ama, in uno scambio senza posa tra il film allo stato attuale di esistenza e il cinema “fantasma”, immanente nell’assenza, vivo solo attraverso la rievocazione affettiva e filmica. Non  è difficile scorgere la provenienza minnelliana di certa levità magica che svincola le scene di Magic Lantern dai livori anche cromatici di Monte (Amir Naderi 2016). Soprattutto la palette e le colorimetrie fortemente emozionali e luminose, sembrano ispirarsi all’uso che ne faceva il regista di Two Weeks In An Other Town ( Vincent Minnelli, 1962), e interrogato Naderi non solo conferma questa intuizione, ma rilancia continuamente: «Se guardi tutta l’estetica estremamente retrò del negozio, in stile Hollywood classica, imbellettata e infiocchettata, è visivamente minnelliana. Ma più di tutto ho voluto far rivivere certe sue qualità di cineasta nel personaggio di Jaqueline (Bisset), tutto modellato sul tipo di donne eleganti e sobrie che lui portava sullo schermo. The Bad And The Beauty (Vincent Minnelli, 1952), Two Weeks in an Other Town e soprattutto The Band Wagon (Vincent Minnelli, 1953), anzi Jaqueline è come se fosse Cyd Charisse di Band Wagon quarant'anni dopo, e infatti la faccio ballare su quella musica come faceva lei, ed è stupenda.»

«Rosebud» dico io a un certo punto: «tutta la sotto trama relativa alla ragazza, la ricerca della sua identità che via rivela ne rivela molteplici altre, e che ci sfugge nel momento stesso in cui sembriamo averla trovata, pare un’omaggio a Citizen Kane (Orson Welles, 1941)». Naderi “mi Batte il cinque” (!!!) emettendo un  prolungato «yeah man!» e mi spiega concitato: «avevo in mente Rosebud sin dall’inizio, è per questo che anche la nostra ragazza, di cui scopriamo via via i molti nomi e le molte vite, proprio come la slitta di Kane che finisce al fuoco nel momento esatto in cui lo spettatore la identifica, ha l'incidente nel momento stesso in cui finalmente lui la trova e contemporaneamente vediamo che la pellicola salta, facendola sparire completamente…mi piaceva l’idea di un’identità che resta molteplice e inafferrabile, che resta comunque un mistero anche di fronte ai nostri sforzi per conoscerla, perché in fondo, la vera identità, la verità, degli uomini ci rimarrà sempre sconosciuta» Inevitabile anche il riferìmento a Hitchcock, che mi pare di rinvenire, ma Amir lo ha confermato, nell’applicazione fruttuosa della tecnica delle “marche testuali isotopiche”, con cui il maestro inglese era solito costruire i suoi film. Si tratta in sostanza dell’abitudine che aveva Hitch di disseminare il film di presenze minute, piccoli indizi visivi che continuamente rimarcassero il tema di fondo del film all’attenzione dello spettatore,  come le molte macchine fotografiche, le fotografie e i dispositivi meccanici per la visione che si affollano in Rear Window (Alfred Hitchcock, 1954), metafiim per eccellenza sulle pratiche di significazione filmica, che rinviano insistamente l’attenzione ai processi della produzione di immagini, o i molti indizi pennuti (la coppia di “inseparabili” i teneri uccellini che innescano l’incontro tra Mitch e Melania nel negozio di animali, l’attacco del gabbiano a Melania, l’uccellino morto che trova la maestra ecc. ecc.) con cui in The Birds (Alfred Hitchcock, 1963) costruisce la suspence in un crescendo tensivo che culmina nell’attacco ai bambini.

Interrompiamo solo temporaneamente il discorso sul citazionismo per rilevare che è a questo livello, quello della disseminazione isotopica di marche testuali afferenti al tema del cinema passato, delle sue pratiche e delle sue competenze artigiane, che si espleta quel livello della rievocazione affettiva che ho chiamato della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche”. L’affetto di Naderi è anche quello per tutto quell’insieme di saperi tecnici, manualità e tecnologie su cui sta calando l’oblio del digitale, un affetto da regista, che si esprime mostrando, inserendo le cose nel corpo dei propri film per omaggiarle. Ed è per questo che nelle immagini di Magic Lantern continuamente tornano i vecchi proiettori, gli obiettivi, le bobine e soprattutto la pellicola, feticcio d’elezione di registi, montatori e proiezionisti, che qui non solo si replica reiteratamente in visione, ma viene addirittura toccata, accarezzata con la voluttà che solitamente si riserva a pelle di donna «Accarezzando la pellicola sta accarezzando lei, la donna che ama, che poi è il cinema, la sua essenza», sino a scoprire in essa il supporto ineliminabile per la vita stessa, se accolta nella sua accezione fantasmica, della finzione filmica, come dimostra la scena in cui, rompendosi la pellicola, lei svanisce, perde ogni residua consistenza materica. Tornando invece, per concluderlo, sul discorso del citazionismo affettivo è Amir stesso a rivelarci inconffessabili passioni cinefiliche. A parte la scena del primo incontro con lei, al negozio, interamente modellata sulla scena di Vertigo (Alfred Hitchcock, 1959) in cui Scotty al bar cerca Madeleine\Judy con lo sguardo e poi lei avanza voltandosi, alcuni omaggi possono ancora sorprendere, come quello a Ugetsu Monogatari  ( Kenji Mizoguchi, 1953) di Mizoguchi, che realizza attraverso le due figure fantasmatiche femminili «perché il fantasma di quel film è talmente fascinoso e reale, che ogni volta che lo mostro in classe ai miei studenti poi ho l’impressione che lei mi segua veramente», o il riferimento ai film di Ophüls come Lola Montès, La Ronde, Pleasure, di cui omaggia, e fa sua, la sensibilità d’uso del medium cinematografico, la caratura emozionale e magica nell’uso di suono e immagini.

Al centro della vicenda troviamo un giovane proiezionista, “piccolo omaggio al fantastico Keaton di Sherlock Jr, in cui fa il protezionista e sogna sé stesso all’interno di un film”, personaggio sintomatico della vocazione metafilmica dell’operazione di Naderi. Per professione, infatti, il proiezionista vive sempre in bilico tra sogno e realtà, finzione filmica e fantasticheria. Non è strano quindi che si veda come protagonista del film che sta proiettando, in cui incontra questa misteriosa ragazza dii cui inizia la ricerca. “ un lavoro legato al mondo dell'immaginazione, della fantasia, il protagonista guarda i film e fantastica, vive parte della sua vita dentro a questo sogno fatto di cinema e parte fuori da esso, nella realtà, ma nella sua mente non c’è discontinuità tra le due dimensioni. Ogni giorno si cala nei mondi fantastici e irreali dei film che proietta, esercita la sua fantasia, la adotta come modalità di vita, quindi nel film non sappiamo mai se quello che vediamo è il suo sogno, un film che sta vedendo e vivendo, o la realtà. Gli basta sfiorare un manichino (altro simulacro, forma di riproduzione dell’immagine umana, noto io) per iniziare a fantasticare”. Ma che forse siamo in un sogno forse doveva risultare chiaro già dall'inizio, quando lui nelle prime inquadrature del film correndo arriva dove ci sono degli orologi, che “se guardi bene sono fermi, perchè il tempo nel sogno, il tempo ad Hollywood, magicamente si ferma.” Questo elemento di incertezza ontologica, di impossibilità di giudizio circa lo statuto di realtà delle cose è la cifra caratteristica dell’intera operazione “Un film-sogno, che è come i sogni, i fantasmi, non risponde a logiche razionali, non offre risposte, anzi ho fatto un film che pone solo domande e non da alcuna risposta”. Effettivamente basandosi sul solo dato schermino è arduo, forse impossibile, dire se il giovane sogni o fantasticando sostituisca la propria immagine a quella del protagonista di un film in corso di proiezione, o se veramente abbia recitato nel film, così come è impossibile stabilire in via definitiva se la fanciulla di cui s’ossessiona esista veramente, sia il personaggio di un film o addirttura un fantasma, visto che in corso d’opera veniamo informati della sua prematura dipartita. Gioca con con le mille possibilità di un’identità liquida Naderi, moltiplicandola per il numero delle bocche che la descrivono e rifrangendola nella moltitudine d’occhi che l’hanno spiata, indice relazioni instabili tra chi avevamo creduto madre e figlia mostrando le loro immagini riflesse in una sovrapposizione identificatoria perfetta. Insinua dubbi più che dare spiegazioni il regista di The Runner, lascia intendere che le due figure femminili siano metafore del cinema (si dissolvono insieme alla pellicola che si rompe) e al contempo lo nega, ed esattamente come voleva, crea un mondo di sogni e presenze fantasmatiche “Esiste davvero questa figlia, visto che la madre, Jaqueline Bisset, racconta di averla solo adottata o è un macguffin puro, un semplice pretesto per visualizzare l’immagine giovane di questa madre ex-diva, una proiezione onirica della sua fame di giovinezza, il sogno chimera di tutte le dive? “non ho risposte da darti se non altre domande, ma proprio questo volevo, sapendo di mettere in difficoltà il pubblico, creare un paesaggio di sogni, di fantasmi…quando guardo certi vecchi film mi capita di provare una strana impressione. Vedo, riconosco quei volti familiari, quello e Bogart, quella la Bergman…mi parlano e ne riconosco le voci…ma so che non sono reali, non esistono, sono fantasmi, tutta quella Hollywood, quelle atmosfere, quel mondo, tutto è diventato fantasma, ecco perché per rendergli omaggio non potevo fare altro che un film di fantasmi.”

E il gioco delle possibilità e dei travisamenti inizia subito, con Naderi che impone allo spettatore una premessa falsificante mostrando nell’incipit l’iconica scritta Hollywood poggiata sul fianco del monte Lee, terra franca di sogni e sognatori, gettando l’ombra del dubbio sulla possibile consistenza finzionale di tutto quanto si vedrà in seguito. E come lui mi ha fatto notare gli orologi che incontra il ragazzo poche inquadrature dopo durante la sua corsa sono tutti fermi, come a misurare un tempo sospeso, incantato. Si noterà anche che la ragazza non lascia impronte mentre cammina sulla spiaggia con lui. La scena della spiaggia, visto che ne parliamo, è alquanto particolare per riuscita visiva e la narrazione della sua acrobatica realizzazione tecnica merita di essere ascoltata. I due ragazzi si ritrovano come per incanto su un’assolata spiaggia di sogno dopo che finalmente lui era riuscito a trovarla tra l’ombra chiusa dentro a un’armadio, il solo luogo in cui lei, che ormai alle ombre appartiene, possa ancora esistere. Si potrà osservare, intanto, che il passaggio dalla tenebra alla luce come forma di traduzione visiva del passaggio da una fase di chiusura o negazione del sentimento a una di apertura ci riporta a Monte, a quella finale e liberatoria deflagrazione luministica conclusiva che chiudeva il film e i destini degli uomini. A un certo punto le immagini immobili dei due ragazzi iniziano a slittare lateralmente a grande velocità sparendo fuori dal margine laterale del quadro come se una invisibile mano le trascinasse con forza fuori dai bordi dell'inquadratura, ogni inquadratura dura pochi secondi e l’immagine di ognuno sparendo lascia posto all’immagine dell’altro, quasi che improvvise cesure di montaggio intervengano a spezzare la continuità di ogni moto, generando una sorta di circolarità, di loop allucinatorio in alternanza. Un effetto visivo insolito sulla cui natura interrogo: “ è stata una scena complicatissima da girare  perché, come tutto il resto, tranne l’effetto delle impronte della ragazza, volevo farlo senza l’ausilio di effetti di post-produzione. Le immagini che vedi slittare in realtà sono le loro immagini riflesse in molti specchi, e slittano perché la macchina da presa si muove rapidamente da uno specchio all’altro.Trattandosi di fantasmi, pure immagini filmiche, non volevo riprendere i corpi reali degli attori, ma una qualche forma della loro presenza fantasmica, così ho deciso che avrei ripreso solamente le loro immagini riflesse in tantissimi specchi conficcati nel mare, e passando lateralmente da uno specchio all'altro ottenere l'effetto di slittamento delle loro immagini che segnalavi tu. Al di là della difficoltà tecnica, del dover posizionare gli attori in modo che si riflettessero in tutti gli specchi nel modo giusto, non sono riuscito ad avere tutti i permessi che occorrevano per posizionare gli specchi, ma quando mi metto in testa una cosa…diciamo che è una scena“pirata”!”

L’altro livello della celebrazione cinefilica posta in essere da Naderi è quello ho chiamato per convenzione dell’”evocazione stilistica”, l’adozione di un “linguaggio cinematografico della memoria” che riattualizza modi della ripresa, del montaggio e delle colorimetrie tipici di quel cinema. Nelle scene del negozio c’è tutto un rivivere affettuoso di movimenti di macchina intenti a seguire pedissequamente ogni minimo spostamento dei personaggi che rinverdisce i fasti di quel cinema “classico” ossessionato dalla centratura del quadro, dal fatto, cioè ,di dover scrupolosamente tenere il soggetto principale quanto più possibile al centro geometrico dell’inquadratura, generando quel tipico modo ondivago di muovere la macchina, i colori stessi sono quelli della Hollywood di quegli anni, aspirano a riprodurre gli effetti derivanti dalle tecnologie ottiche e dai tipi di pellicola che ne erano il supporto: “Sì, ho voluto caricare il livello stilistico di una particolare importanza di senso. Considera che questo è un film girato in digitale, un mezzo che implica precise possibilità di movimento, di colore eccetera, quindi il fatto che il risultato sembri girato in pellicola, e che sia girato in certe parti come un film degli anni '40 o '50 sono scelte intenzionali. E' il mio “linguaggio della memoria”, lo stile che mi riporta a un modo di fare il cinema che ho amato tantissimo e a cui rendo omaggio facendolo rivivere un’ultima volta.” E il fatto che sia girato in digitale un peso lo ha anche perché proprio l’irruzione del digitale è la causa prima di dispersione del cinema che oggi Naderi celebra e ricorda, delle sue tecniche e tecnologie. Girando in digitale e assoggettando questo strumento di natura computazionale alle logiche e alle estetiche estranee dell’analogico non solo Amir dichiara implicitamente una precisa volontà di usare lo stile filmico come medium di negoziazione di contenuti significanti (l’omaggio a un modo di fare cinema espresso attraverso l’assunzione del suo orizzonte stilistico) ma attualizza con la pratica quel superamento dell’analogico da parte del digitale che in modo sottaciuto è il tema di fondo del film: “L’ho già detto, questo film non ha a che vedere col rimpianto, il digitale è l’inevitabile futuro, non  ci si può fare niente, io lo vedo come un cambiamento, non come una perdita,  è lo strumento che usano le nuove generazioni e la sua forza è la facilità:  rende tutto più semplice, più semplice il finanziamento dei film, che si fanno a costo quasi zero, semplifica la tecnica, rende più facile fare riprese praticamente ovunque, in qualsiasi momento e senza l'ingombro di complesse strutture da montare e smontare. Ma la grande facilità è anche la sua grande pericolosità, perchè disponendo di cose facili si tende a dimenticare quelle difficili, si disimpara il senso “educativo” della difficoltà, le pratiche complesse vanno “perdute nel tempo come lacrime nella pioggia” (Cit.) il cambiamento dovrebbe restare tale, non diventare una perdita, ma essere trasformazione.” Ma la questione del digitale interseca le traiettorie significanti del film anche ad un altro livello, inserendosi come dato perturbante nel più generale discorso che fa sull’identità. Durante la spasmodica ricerca della ragazza, infatti, e come ci ha già spiegato il modello ideale era la Rosebud ci Citizen Kane, via via che le sue molte vite e identità alternative vengono a galla insieme alla lunga lista dei suoi molti nomi  si compone un’idea aleatoria e instabile di ciò che chiamiamo “identità” e del suo essere una stabile configurazione di relazioni tra identità corporea, identità antroponomastica e identità comportamentale, che già rappresenta un primo livello dell’interrogazione di Naderi sull’identità, ma che nel film dialoga continuamente con un polo ulteriore della diatriba, nuovo livello della dispersione identitaria, che è il digitale, la nostra identità parcellizzata e smaterializzata tra account social e memorie dei cellulari con le rinnovate possibilità di memorizzazione e connettività interpersonale che offre. Le uniche certezze su chi sia l’amata giovane, in un turbinio di identità reali posticce e simulatorie, arrivano al giovane proiezionista dalle foto e dai piccoli video contenuti nel cellulare che lei ha smarrito “come una versione tecnologica della scarpa di Cenerentola”. Il dispositivo virtualizzante è anche l’unico luogo di condensazione e memorizzazione inopinabile della nostra presenza: “Ormai tutta la nostra “identità”, il nostro sistema di relazioni sociali, le nostre memorie, i nostri affetti, sono custoditi da questo piccolo “coso” (e alza il suo cellulare agitandolo leggermente). L'elenco di persone salvato nella nostra rubrica o nei contatti è la misura dell'estensione della nostra rete di relazioni sociali e lavorative, l'insieme delle persone che ci conoscono. Nel film possiamo definitivamente dire che la ragazza sia sparita solo quando verifichiamo che nessuna delle persone contenute nei suoi contatti o nella rubrica del cellulare ha notizie della sua esistenza. Il telefonino è la nuova forma della nostra proiezione di identità, come prima era il cinema.

E infatti dove ritrova lui i piccoli pezzi dell'identità di lei, i suoi ricordi, le sue parole, le sue paure, che gli permettono di avanzare nella ricerca? Sempre nello scrigno-memoria del cellulare, dove conserviamo le nostre immagini, e i video, i ricordi di lei,  i nostri ricordi. Ricordi che sono immagini e film. Il cellulare è anche il nuovo schermo, la direzione e la dimensione verso cui inesorabilmente va il cinema, il cinema del futuro”.

Il cellulare in quanto schermo, nella sua funzione di produttore e registratore di immagini luminose in movimento, ha il ruolo di interlocutore terzo nel sistema multilivellare di realtà e schermi su cui si struttura il film,  convitato di pietra nella dialettica analogico-digitale che informa l’opera tutta. Magic Lantern, infatti, si sviluppa su una struttura di più film disposti  “a Matrioska” in cui il livello di realtà messo in scena da ciascuno dovrebbe, a rigor di logica, essere “contenuto”, in quanto realtà simulata, nel livello di realtà del film che lo contiene. Noi spettatori vediamo un film (e crediamo che la realtà che rappresenta sia quella oggettiva) che contiene un film, la cui realtà quindi dovremmo percepire come simulata all’interno della realtà oggettiva, che mostra a sua volta un film contenuto in un cellulare, la cui realtà dovremmo recepire come simulazione all’interno della simulazione. Ho però usato il condizionale, perché questo sistema di distinzioni dipende dal rispetto di quella convenzione visiva che chiamiamo “Mise en abyme”, l’immagine nell’immagine, che Naderi con astuzia viola ripetutamente per creare il grado di confusione tra piani di realtà e finzione che stava cercando. Bisogna infatti ricordare che l’economia semantica di cui ci serviamo durante la fruizione di un film è a prevalenza visuale, e che la produzione di significati a quel livello è per lo più pre razionale e pre verbale, producendosi per lo più a partire da indicazioni di tipo visivo, come i rapporti dimensionali, prossemici e dalle qualità cromatiche o volumetriche. La percezione dei vari gradi di finzionalità delle immagini filmiche contenute in altre immagini filmiche dipende in larga misura dalla presenza di particolari “indici visivi di finzionalità” e infatti permane sin tanto che restano visibili la cornice, i bordi, la superficie o lo schermo che limitano fisicamente la seconda immagine, dichiarando, all’interno dell’immagine a schermo intero e della realtà che assumiamo come realtà di primo grado, la sua natura di immagine artificiale, proiettata, imitativa e limitata. Di contro si tende ad obliterare la finzionalità dell’immagine a schermo intero, a ritenerla una forma di continuità con realtà in cui siamo posizionati come spettatori. Naderi quindi, che dopo pochi istanti lascia slittare l’immagine che prima era “en abyme”, schermo nello schermo, nel totalizzante schermo intero, fonda la costruzione del proprio mondo onirico e multilivellare a un grado primordiale della produzione di senso, in cui è l’equiparazione dimensionale delle immagini, il fatto che ometta gli indici visivi che consentivano di discriminare una immagine (e una realtà) di primo grado da una di secondo grado, a fondare l’idea di una equiparazione degli statuti di realtà delle vicende che vediamo in immagine. “Volevo creare una struttura con più livelli di realtà, o di finzione, a seconda di come la guardi, e un primissimo livello arriva già all’inizio, quando mostro a scritta di Hollywood, un simbolo assoluto del sogno e della finzione. Se siamo a Hollywood, dove tutto si confonde non possiamo essere certi della natura di ciò che si vede. E’realtà, finzione o stiamo guardando un film? O è il ragazzo che guarda un film? e dove ci troviamo, nel film che stiamo guardando ora, in quello che guarda il ragazzo, nel cellulare, dove? non deve mai essere possibile dirlo con certezza, perché siamo nel mondo dei fantasmi e dei sogni.” Semmai si potrà sottolineare come ridiscendendo i vari gradi di realtà presenti nei vari film, quello delle immagini del cellulare (per quanto appartenente all’ontologia fittizia di un film contenuto in un film,) sia l’unico che conserva un qualche grado di relazione diretta con la realtà che iconizza, perchè sua registrazione diretta non mediata da istanze di tipo drammaturgico, non frutto di una messinscena, di un’intenzione registica, come invece lo sono sia le immagini del film che guardiamo come spettatori sia quelle del film in esse contenute. Mentre le vicende del giovane proiezionista, della ancora avvenente ex-diva del cinema e della fantasmatica fanciulla vivono a cavallo tra finzione e realtà, costruzione drammaturgica e fantasticheria, le immagini del cellulare sono il solo frammento di verità oggettiva presente nel film, i veri ricordi, registrati senza infingimenti di una ragazza (sulla cui consistenza di realtà si può, anzi secondo Naderi si deve, certamente obiettare). Anche in questo senso, quindi, Naderi riafferma quell’ipotesi di sopravanzamento del digitale sull’analogico che fa da matrice concettuale a Magic Lantern, riconoscendo quella digitalizzata e dispersa, come ultima forma possibile di rappresentazione della nostra identità, capace, più dell’ormai vecchio cinema di farsene depositario veritiero. Per concludere gli chiedo se c’è qualcosa di cui vorrebbe parlare che non gli ho chiesto io “La musica!!!Non hai notato che in questo film uso la musica? Per me è una sfida nella sfida!!! anche perché la ho composta io. E’ stata una ricerca molto molto lunga. Alla fine ho trovato quel senso di trasporto sentimentale che cercavo, nel bellissimo tema che Nino Rota ha composto per La Strada, anche la situazione drammatica è simile perchè Zampanò ha perso la ragazza, e quella musica è davvero stupenda. Avendo in mente il tono emotivo del pezzo di Rota, il suo andamento melodico, ho buttato giù una rudimentale versione del tema e poi ci ho lavorato con Alex Kovacs un bravissimo compositore.

E quindi diciamo che la componente emotiva, il sentimento si ritrova nella componente musicale, poi c’è quell’altro suono, quel rumore oscuro che si sente ogni volta che il tempo a disposizione della ragazza sta per finire e lei sta per sparire ancora.E’ un’assemblaggio di suoni notturni provenienti da Monte, in cui se ricordi quel suono era la voce di forze oscure e ancestrali. Qui significa la stessa cosa è il richiamo delle forze della notte, ldela morte, che richiama la ragazza a sé.

C’è sempre qualcosa di cupo nel cinema di Saverio Costanzo, delle zone d’ombra o zone morte, zone di morte, in questo caso, di morta: tutto un ecosistema che vibra di crepuscolo (e d’alba: sono intermezzi luminosi, limini di dormiveglia) in cui si consuma l’esistenza dei personaggi. Finalmente l’alba è l’apoteosi di questo ecosistema - apoteosi barocca, carica di materiale audio-video, segni, sagome anarchiche che sembrano straripare dagli argini dell’inquadratura -, vera e propria apologia del cinema e più in generale dell’immaginazione, della necessitata, imperitura narrazione di forme di cui siamo fatti, di cui siamo sfatti, spossati ogni volta le forme svaniscono facendoci affacciare sul gouffre, il vuoto, infinitamente profondo: è quella teoria dell’abisso presente anche nei film di Bonello e Kröger.

Ricordate l’incipit dello Squalo II (J. Szwarc, 1978)1Non si nasconde forse nelle pieghe della logica completamente consumista del sequel, meglio quando del tutto apocrifo (e anche “mancato”, addirittura mal riuscito), la possibilitá sempre virtuale di un reframing, di re-inquadrare la realtà che si credeva fissa e stabile dell’episodio I  in modo trasversale e inaspettato per far sorgere così nuovi significanti?? Nel fondo dell’oceano, una fotocamera subacquea cade dal braccio mozzato del sommozzatore; l’urto con il fondale sabbioso (dopo una serie di rimbalzi che possiedono la sospensione incredula dell’oggetto a gravità zero cameroniano- kubrickiano e la malinconia invincibile del primo passo sulla luna) fa scattare, accidentalmente, una foto. Ma l’obbiettivo, dov’era puntato? Verso chi o verso Cosa lancia o genera il suo fascio automatico di luce biancastra? Verso lo sterminato fuori campo che si prolunga più in là del margine destro del quadro? Non esattamente. La camera, adoperando la sua proverbiale “intelligenza di una macchina”, registra qualcosa delle potenze del fuori, che contengono dentro di sé non la Cosa, ma l’orizzonte di possibilità infinite della sua incarnazione e manifestazione.

Il cinema di S. Craig Zahler (che con il terzo film sembra aver già generato un discorso filmico coeso, compatto come il cemento) si incontra, forse, tutto dentro questo scatto che “blocca” un fotogramma abissale, tutto dentro questo sguardo che, essendo meccanico, può fissare il fuori senza trasalire e registrarlo ottusamente in una specie di trance ipnagogica del dispositivo abbandonato abissalmente a se stesso, di detour che, a furia di “mirare” con ostinata intensità l’occhio spiraliforme della cosa, trasferisce dentro di esso il suo vertiginoso punto di presa. 

«Molti si rifiutano di credere che l’aldilà non è altro che un freddo infinito vuoto, ma io lo accetto insieme alla libertà che deriva nel riconoscere tale verità.» Il killer di Fincher si pone riflessioni metafisiche perché condannato a vivere un’esistenza liminare, caratterizzata da scetticismo (che esclude la verità assoluta ma non rinuncia alla dialettica), da non scambiare per cinismo (che nega qualsiasi valore e forma di alterità).

 Dei molti discorsi possibili a proposito di e a partire da La Mafia Non È Più Quella D’una Volta scriverei qui solamente di un significato di seconda battuta, una riflessione emergente a posteriori e angolata secondo una prospettiva prettamente comunicazionale. La mafia è uno straordinario capolavoro dell'evoluzione di specie, che ben più di ratti e blatte ha sviluppato un'incredibile capacità di adattamento e sopravvivenza ai mutamenti di contesto ambientale, economico e sociale, riuscendo a mantenere sempre la propria posizione di vertice tra le specie predatorie. Qui si cercherà di riflettere su come questo processo abbia investito di pari passo anche gli aspetti mediatici di comunicazione dell'immagine, il campo entro cui si muovono tanto Ciccio Mira che Maresco, e che quindi anche "L'immagine Della Mafia Non E' Più L'immagine Di Una Volta".

Alla precarietà dell’esistente, ai colpi duri della storia che mescola le carte, disperde opportunità ed esistenze sul piano privato e collettivo, all’urlo sommesso degli ultimi che sopravvivono alle bombe del quotidiano e di una guerra «maledetta» Aki Kaurismäki di Foglie al vento oppone il codice delle inquadrature asettiche, asciutte, essenziali, lineari persino nella tavolozza dei colori utilizzata, che sparge di arancione e di blu quello che sembra il canovaccio dell’azione, elementare, marionettistica quasi nelle posture scelte per gli attori, nel loro porsi in modo statico davanti all’obiettivo spesso frontale, rigido, come se ci mettesse tutti – ed ognuno nella propria solitudine – davanti ad un dipinto d’altri tempi: tempi che sarebbero facilmente collocabili al di fuori da ogni cornice se non ci fosse la voce proveniente dalla radio a dirci che invece il tempo è qui, è distruzione e morte, strage di innocenti, l’Ucraina dei civili massacrati; se non fosse che questo tempo arriva come da lontano a fare da sfondo alla guerra del vivere o, meglio, del non smettere di arrendersi alla non vita, rimandando un po’ più in là l’opportunità di sperare ancora.

Ynon Kreitz è il CEO della Mattel dal 2018, periodo in cui l’azienda versava in una crisi che pareva irreversibile. Kreitz ha cominciato con un drastico taglio del personale: 2.200 licenziamenti, tra il 2018 ed il 2019. Contemporaneamente, ha definito la sua strategia: intrattenimento globale multimediale. Forte della sua carriera trionfale del mondo dei TV Media (Fox, Endemol), ha creato la Mattel Films, pensando già ad un Mattel Cinematic Universe. Il suo obiettivo? Contrapporre eroi/eroine Mattel, nati giocattolo, a supereroi Disney, nati fumetto.

Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata sul Manifesto il 27 aprile 2023

L'energia della bugia, della finzione – le verità più recondite emanate dal falso, dall'artefatto; Nietzsche, poi Heidegger la chiamavano «poesia»: il finto, foss'anche barocco, l'evocazione di mondi, infraregni di fantasia – è il motore di Mediterranean Fever di Maha Haj (premiato a Cannes) che però ha poco di palestinese, di quello che uno si aspetterebbe da un film palestinese, cioè storie di terre e libertà, di popoli invasi e resistenti di fronte al prepotente.

Il cinema non è morto. Giusto! Oppure il cinema è un non morto? La pandemia sembrava aver inferto il colpo di grazia al grande schermo, invece ci voleva solo linfa nuova, anzi, sangue nuovo. Tantissimo sangue, per dare un tocco di colore ad un immaginario fortemente provato dalla privazione, ma anche dall’imposizione. C’è stato un tempo, in questa parte dell’universo, in cui pareva si dovesse vivere di soli cinefumettoni, per ragazzi di tutte le età.

*Una prima versione di questo articolo è comparsa sul "Manifesto" del 28 febbraio 2023.

Il simbolo di una generazione, ma anche a prescindere dalle generazioni, di iniziati che s’addentravano nei cunicoli infiniti, nelle gallerie illuminate dal tubo catodico nei primi anni Novanta, proprio come un Videodrome: una resa, una pianificata, pacificata resa nel ventre dell’immagine, che fosse cinematografica o televisiva, quella particolare, sublime forma di televisione scoccante a mezzanotte, poco importava.

«Davanti alla realtà, l'immaginazione indietreggia, mentre l'attenzione la penetra»

(Cristina Campo, Gli imperdonabili)

La sovversione dell’anima è declinata nelle più variegate sfumature, dal bianco conducono al nero, e dalle tenebre scivolano nuovamente verso chiarori luminosi, la rifrazione della luce accende i grigi, illuminandoli di scintille che accendono la notte; barlumi lattescenti scivolano liquidi tra le pieghe più nascoste della mente umana.

Orsi. Orsi ovunque. Orsi nei boschi. Orsi nelle suburbie. Orsi nelle sale cinematografiche. Quando scrisse Hitler, Giuseppe Genna fece una assai interessante disamina sul lupo e le sue apparizioni nella storia: il lupo, fenrir nella tradizione norrena, si affaccerebbe nell’immaginario collettivo al principiare di stagioni di morte, sarebbe metafora del male che si fa uomo e distrugge.

Il sol dell'avvenire è la conferma che Moretti si muove con sicurezza in questo tipo di cinema, divenuto tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, cinema propriamente morettiano, qualcosa come un archetipo nel panorama cinematografico contemporaneo, che mescola il grottesco, l'onirico (secondo modalità facilmente intelliggibili), l'ironico (e l'autoironico: denudamento ludico dei vezzi e delle nevrosi di Apicella, ora Giovanni), il drammatico, con venature malinconiche (denudamento lirico dei vezzi e delle nevrosi).

«Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso. Umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina» (Zaccaria, 9,9)

Un filo rosso lega l’asino Eo al fuggiasco dallo sguardo allucinato di Vincent Gallo che attraversa l’innevato, splendido Essential Killing. E’ la rinuncia alla parola, bilanciata dal primato dei sensi: della vista, sicuramente, ma anche dell’udito, di quella percezione tattile dei suoni sempre così decisiva nel cinema di Jerzy Skolimowski. Eo, protagonista dell’ultimo film del grande maestro polacco, è un corpo senziente ma non parlante, proprio come quello del soldato afghano in fuga. Attraverso i grandi occhi di Eo è filtrata la realtà (o presunta tale) di un mondo che sembra aver perso ogni speranza: ad essere offerti alla sua contemplazione sono esseri umani infelici e animali resi infelici dagli esseri umani, in un gioco al massacro senza scampo.

L’ossessione dell’atto visivo con cui Schrader impregnava First Reformed, la sua etica intrisa dell’immagine che toccava, sommuoveva, smuoveva le pupille – le divorava: dall’interno, dentro le cavità che costruivano la luce, la perdevano ricomponevano restituivano nel fuoco cinematografico delle particelle in movimento, che era poesia in forma di visione, spazio interstiziale degli elementi del montaggio, schegge, con tutta la teoresi sulla questione ambientale – appare qui, in Tant que le solei frappe, come punto vuoto su cui sono indirizzati gli occhi, obiettivo, potenza direzionale: fuori-fuoco dove si concentra l’Idea, si proietta, si cristallizza dai gangli cerebrali sulle pareti nude, desolate, spente. Dall’alto, nell’incipit del film, la camera dirige l’obiettivo del dispositivo-Cinema e del dispositivo-Occhio verso qualcosa che non c’è (non c’è ancora) ma che già si trova, idealmente, nel punto esatto in cui l’occhio che immagina vuole che sia.

Soprattutto a partire da The Neon Demon, il neon, la luce al neon, sono diventati nell'economia del cinema di Refn un motivo centrale, una specie di egida sotto cui il suo cinema si muove.

Il “new horror” americano è una magnifica realtà, un genere tornato agli antichi splendori degli anni ’70 grazie alle visioni audaci, innovative e coraggiose di registi come Ari Aster, Robert Eggers e Jordan Peele (a cui aggiungerei Rob Zombie, almeno per un paio di titoli).

«On n'aime que ce en quoi on poursuit quelque chose d'inaccessible. On n'aime que ce qu'on ne possède pas». Non può esserci amore, secondo la celebre asserzione proustiana contenuta nella Recherche, se non in ciò che non si possiede, in ciò che è impenetrato, irrisolto, indecifrato.

«Il crollo delle galassie avverrà con la stessa grandiosa bellezza della creazione». È la memorabile falsa citazione da Blaise Pascal che apre Apocalisse nel deserto, maestoso capitolo della filmografia herzoghiana che posa lo sguardo sui pozzi di petrolio in fiamme del Kuwait, durante la guerra del Golfo. Una presa diretta, elevata a Lezione di Oscurità, che nel 1992 portò il regista ad un passo dal fondere, letteralmente, la sua cinepresa mentre in elicottero sorvolava a distanza troppo ravvicinata le lingue di fuoco. L’ossessione di Herzog per il fuoco, per il magma, per il cuore fuso della realtà è una traccia costante nel suo cinema.

The Woman Who Left aveva mostrato come il cinema di Lav Diaz fosse interessato da una ricerca problematica, fosse cinema in divenire rispetto ai suoi film precedenti, che erano un'oceanica esposizione – anche in senso letterale, trasparendo ovunque la sostanza catartica, ipnotica dell'Oceano – oceanica, oltranzista riflessione (anche nel senso di riverbero) sull'entità dell'immagine, e di cui lo stupefacente Storm Children del 2014 è una sorta di sintesi.

Da queste parti - solito bestiario al lido e nelle sue appendici cittadine: ieri ad esempio, mentre mi perdevo per i calli di Cannaregio, zoppicante ed esausto, signore in belletto a bofonchiare di passerelle e percalli - si sente una certa supponenza, e un pregiudizio, riguardo al Padre Pio di Abel Ferrara: roba per papaboys, dice, o per la bassa utenza dei film televisivi in onda su raiuno nelle sere d’autunno - dopo la cena, bucce d’agrumi giacciono sul tavolo, nel piatto insieme a una morta semina di briciole, poi lo sbratto, il crepuscolo del tubo catodico, la tristezza della sera -, ma senza aver visto il film, solo per via del soggetto, il frate, il santo.

Ci sono cose che funzionano in Bowling Saturne di Patricia Mazuy, oggi in concorso a Locarno75: più che altro inferenze, dettagli, escrescenze del corpo portante del film, che è un'energica denuncia del femminicidio in forma di thriller e utilizzando la metafora della caccia.

È partita dal teatro, dai teatri di guerra e dunque dal suo Teatro di guerra (1998), la masterclass di Mario Martone al Cine Parco Tilt a Marconia di Pisticci nell’ambito della 23esima edizione del Lucania Film Festival, diretta da Rocco Calandriello.

Piccolo corpo è la rivendicazione di un respiro. È la lotta dell’esistenza per affermare se stessa, per quanto poco sia durata, è l’affermazione del diritto di avere un corpo, reale, tangibile, «piccolo» nel corpo immenso della madre terra, che dà e toglie, aggiunge e sottrae, nasconde, inghiotte, ridà: quel corpo-mare che ha attraversato lo specchio dell’acqua, scissione di un altro corpo, del corpo-ma(d)re che lo ha partorito senza potergli dare un nome e che quindi lo conduce verso le montagne, al di là del corpo-ventre della pietra scavata, cava, muta, nera, lucente a tratti di un bagliore fioco, che si spegne, muore, atterrisce e mette in fuga con gli occhi stralunati.

Vista nel suo braccio acquatico, nel mezzo di due strati residuali urbani, Oslo si sparge agli occhi, fluttua, in apnea nel prologo: condensata in prolessi narrativa nel doppio sguardo costruito da Trier, prima con la messa a fuoco di lei, al di qua della balaustra, che fuma nel suo vestito nero, stretta nell’elastico, sottile fra i capelli come la striscia a percorrere la schiena; che si gira, le spalle allo spettatore in attesa, volge la testa a quello che appare dall’altra parte salire, poggiarsi sui profili alti della costa; poi con la focalizzazione delle cose, interne ed esterne a quello stesso fluire, in una sorta di orfica corrispondenza del sé, cosmogonia che inizia da lì, da quelle pupille scosse, liquefatte, sempre sul punto di annegare nelle acque trattenute a stento di quel mare.

Paolo Sorrentino sin dal suo esordio cinematografico è stato ossessionato dall’Es, l’intima natura dell’individuo che evoca una scissione della psiche, un riflesso dell’Io, una proiezione del Sé. L’uomo in più nel 2001 narrava di due uomini dallo stesso nome (Tony/Antonio) con una vita e un’indole diverse, tuttavia destinati a incrociarsi. Persino la sua ultima/unica serie televisiva si divide in due: The Young/New Pope.

Gli interrogativi che avanzano in carrellata nello spazio filmico di Annette proseguono lungo la strada attraversata in Holy Motors dalle ingombranti, rumorose limousine, sacre appunto perché motori di un cinema che però gracchia, corvino, la sua obsolescenza, l’abbandono in rimessa mucida.

Il buco, scritto (con la talentosa Giovanna Giuliani) e diretto da Michelangelo Frammartino, è un film di immagini fuori dagli sche(r)mi: singolare e tridimensionale. Anche la narrazione parte da una storia inconsueta: nel 1961 un gruppo speleologico di origini piemontesi esplora per la prima volta l’Abisso del Bifurto, denominato anche "Fossa del Lupo", un profondo inghiottitoio di circa 680 metri sulle pendici del Pollino in Calabria. Parallelamente si raccontano gli ultimi giorni di un vecchio pastore indigeno.

Mi sono perso i primi giorni del festival. In compenso quest'anno sto a Sant'Elena, che è una specie di eremo malinconico, immagine compiuta dell'autunno - io penso che se esiste un luogo, uno spazio, con le sue superfici, i suoi miasmi, i suoi riflessi lunari, che incarni il tempo, l'autunno in modo pieno, istantaneo, quello è Sant'Elena - dove si ha nostalgia di ogni cosa e già scricchiola l'ossame, il giallo carcame delle foglie sotto le suole e nei sobbalzi del vento: sulle panchine, tra i muschi vegetanti nei pori, nei nidi già marci del legno e il barbaglio degli attracchi, lo stridio del silenzio trama segretamente col rantolo macabro dei fantasmi vaganti al vento, e allora si sente un oscuro presagio d'eternità, cioè di precarietà, che rimbomba tra i muri e le barche ammorrate.

Per lo più, il dibattito intorno a L'Événement di Audrey Diwan, vincitore del Leono d'oro all'ultima Mostra di Venezia, si sta svolgendo intorno alla tematica, al cosa, il referente che viene espletato dalle immagini, mai intorno alla forma, al come la regista vede e mostra le cose, al suo sguardo, il gesto tutto cinematografico, che è tutto appunto, "la cosa ultima" del cinema, l'atto di aprire gli occhi e guardare le cose in un certo modo.

Per giustapposizione rapsodica, la resistenza della realtà nel sogno, e viceversa, colta nella fluttuazione delle immagini, il cui anelito a spostarsi nell’orizzonte del visibile dà alla percezione di chi guarda il disorientamento dell’ombra; restando, questo approdare dell’occhio autoriale, sulla traccia di qualcosa che non c’è e che è, forse, ricordo o desiderio, immaginazione: oppure possibilità ricreata, attualizzata nel sogno appunto, nella fuga che da esso ha origine; e questa spinta evocativa, significante con la quale l’obiettivo carica di forza lo spazio del campo vuol dire, proprio, esistere ancora, esistere di più. È frammento, infatti, un istante del finale di Spaccapietre, stacco – nodo che si slaccia fra le mani, nella corsa, nel turbamento della sera, covoni, un luccichio in fondo – , per un momento: ricucendo lo spazio, dita nelle dita. Ed è questo salto dell’occhio-mente di Antò ad allargare la visione, il limen del mondo percepito, percettivo; noumeno già insito nel movimento delle scene dal basso, partendo dalla nuca all’ingiù, sul letto, anticipazione di un’acquisizione (spoliazione) straziante del vivere, intesa come conoscenza, focalizzazione sulle cose, coscienza: sono questi i presupposti del fare cinema di Gianluca e Massimiliano De Serio, i quali mettono in scena tutto uno scorrere sotterraneo, ai margini della civiltà, al limite della quale già in Sette opere di misericordia si compiva la grazia della vicinanza umana, proprio laddove la disumanizzazione dell’umano, la riduzione a bestia, a cosa, lascia, ancora, uno spiraglio per la vita.

Più che per “esprimere”, nel senso dell'etimo latino exprimĕre”, “spremere fuori”, e quindi manifestare verso l'esterno, Gold Mass la musica la fa per “im-primere” o forse per “in-scrivere”, scriversi cose dentro, appunti vergati sulle interne pareti del fegato e del cuore, in una dimensione del discorso che è tutta interiore, sua soltanto.

Il cinema non può che stregare con il suo potere ipnotico, i suoi snake eyes, il piacere della mani-polazione con una protesi meccanica ma adeguata come un guanto, il passo/ritmo sensuale, l’idillio del rito collettivo come un sabba, la conseguente tra(n)s-formazione dello spettatore in testimone/martire di un’esperienza che muore nel tempo di una rappresentazione.

È l’estate a dominare in Cocoon, seconda opera della regista tedesca Leonie Krippendorff, presentata in anteprima mondiale, poco prima dei vari lockdown planetari, nella sezione Generation della Berlinale 2020 e riproposta in questi giorni dal Bari International Gender Festival (BiG, in streaming su Mymovies dal 4 al 12 dicembre).

Una stagione che non è certo solo riconducibile all’ambientazione dell’opera (l’afosissima estate berlinese del 2018, in cui si raggiunse la temperatura record di 38 gradi a luglio), ma aleggia, prende forma nei toni caldi della fotografia, nei corpi cocenti, eccitati, febbricitanti, nelle storie d’amore fugaci, effimere, estive appunto, degli adolescenti protagonisti di questo coming-of-age urbano.

Tra i tanti, meritevoli film che il Bari International Gender Film Festival ha selezionato dai cartelloni dei principali festival internazionali e portato all’attenzione del pubblico italiano non poteva certo mancare il vincitore del Teddy Award, uno dei più importanti riconoscimenti europei destinati al cinema gay-lesbo-bisex-trans-queer-intersexual. Ovvero Futur Drei (No Hard Feelings nel titolo internazionale), indicato dalla giuria specializzata dell’ultima Berlinale come vincitore del premio riservato ai lungometraggi incentrati sulle predette materie che fu già di registi del calibro di Pedro Almodovar, Derek Jarman, François Ozon, Toddy Haynes.

Presentata nel corso della 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Andrej Tarkovskij - Il cinema come preghiera è un’opera molto intima diretta da Andrey Tarkovskij, figlio omonimo del regista russo, che si sofferma sulla figura del padre, raccontandolo come uomo, come persona ma soprattutto come artista.

La concitata forza del momento della visione del dipinto di Michelangelo Merisi, il movimento interno che inquadra le sette opere di misericordia a partire da quella schiena scoperta, dalla bocca a suggere il seno della donna, dai piedi lividi, diventa nel film di Gianluca e Massimiliano De Serio l’istantanea di una marginalità umana, resistente alle scosse violente del quotidiano: tutta una voragine esistenziale, laddove l’istinto di sopravvivenza si mescola alla brutalità del vivere ma si unisce, nel medesimo istante, alla grazia, che è compresenza di luce e buio: così Luminita a fluttuare in primo piano nel campo nero, il volto appena visibile su un bambino che piange, al chiarore di una palla cangiante, sole che si sposta nel vuoto e incanta, le lacrime s’asciugano, il pianto si ferma, ed è lì, in questo galleggiare azzurro nell’aria che s’apre la danza, s’allarga lo sguardo, lunghissimo piano sequenza a scavare gli occhi.

A prescindere da quello che è stato Nolan, da un abbrivio se si vuole tronfio o supponente del suo cinema, tecnicista fino allo stremo (dello spettatore) e alla noia, alla freddezza dello spettacolo in sé, che, nonostante le premesse, come dire, teoriche, non riesce ad andare oltre sé; resta un equivoco sugli ultimi suoi film, da Interstellar in poi, alimentato sadicamente dalla critica (da certa critica in solluchero da stroncatura) ogni volta che s'appressa un suo titolo in sala: rimbomba soprattutto sul web (è lì che il fascino della pirotecnica s'annida e spesso si tramuta in abiura, ma di facciata, penso) la formula "senza cuore" che invece per me va intesa in maniera antifrastica, e ciò vale anche per Tenet.

Nella sezione “Orizzonti” è iraniano un film che ruota sulla desolazione del sole, del suolo, sulle suole impolverate che scorrono fuori campo. Le inquadrature precedono gli oggetti, posizionandosi prima, scivolando nelle carrellate laterali, nelle incrinature delle pareti, nudità dei mattoni: che sono d’acqua, che gocciolano dalle mani brune, callose, e cadono sulla terra scura, sulle scarpe, s’asciugano, senza traccia, senza nome; mattoni rossi come il mezzogiorno, come il sangue da versare, che s’è versato, ancora, da generazioni.

È evidente, palpabile, al termine della visione, come Ismael El Iraki abbia voluto riversare nel suo film d’esordio, Zanka Contact, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 77, un acervo di materiali – fatti di cinema, musica, dolore – non ancora del tutto processati, sminuzzati, trasfigurati. Come se l’urgenza di consegnarlo alle fiamme purificanti della narrazione, del cinema, (è lui stesso a parlare del film come di un “incendio incontrollato”, nato da un desiderio che lo ha “consumato come una fiamma che divora tutto al suo passaggio”) fosse più importante, in fin dei conti, di una raffinazione che lo avrebbe forse reso sì, più esatto e condensato, ma anche, plausibilmente, più freddo e consumato.

«Il cinema non è la realtà, è qualcosa di diverso, forse sempre qualcosa in più, perché quando riprendi qualcosa nel momento stesso in cui diventa cinema immagine, non è più la stessa realtà. Perché per quanto ci si possa sforzare di riprendere in modo documentaristico, il più neutrale possibile, il risultato finale, la ripresa l'immagine, è sempre il reale più il tuo modo di riprenderla che esprime quindi il tuo atteggiamento e le tue intenzioni verso quella cosa»

«I film dovrebbero essere fatti da donne carine che mostrano cose carine», scrive un critico citando Renoir, ma di fare delle cose «carine» alle registe dei cortometraggi del focus Elle presentato a quest'edizione di Concorto Film Festival, non interessa granché. Sulla scia dei neonati movimenti femministi, negli studi di cinema e di serie tv, sembra aver preso di nuovo vita - ovviamente riattualizzandosi, se consideriamo quanto già c'era stato negli ultimi anni del secolo scorso - una riflessione che muove dal bisogno di una presenza femminile (attenzione, non forte, come si è soliti pensare) creatrice, che mostri problematiche e contraddizioni, anche scomode, della propria condizione. Identità di genere, intersezioni di classe, etnia e orientamento sessuale, o ancora questioni delicate quali aborto o malattie tabù che insorgono nelle donne, sono temi ormai presenti in molte narrazioni cinematografiche e seriali e che compongono anche l'eterogeneità tematica - ma anche stilistica, come vedremo - dei cortometraggi di Elle.


Xavier Dolan torna alla semplicità narrativa e al desiderio di leggerezza dei suoi esordi. Matthias e Maxime è la storia di due amici, legati sin dall’infanzia, che si scoprono amanti nell’età adulta. In realtà al talentoso regista non è il soggetto (ormai simile a sue opere precedenti) ad interessare ma le sfumature “sensibili” (e cinematografiche) che implica. Dolan è uno dei pochi che sa dialogare con la macchina da presa e sa mettere in scena le “intime” contraddizioni.

Dei molti discorsi possibili a proposito di, e a partire da, La Mafia Non È Più Quella D’una Volta scriverei qui solamente di un significato di seconda battuta, una riflessione emergente a posteriori e angolata secondo una prospettiva prettamente comunicazionale. La mafia è uno straordinario capolavoro dell'evoluzione di specie, se pensiamo che, ben più di ratti e blatte, ha saputo sviluppare un'incredibile capacità di adattamento e sopravvivenza ai mutamenti di contesto e d’ambiente.

Il vostro film è intriso di una specie di realismo magico volto al contrario: è una favolaccia, appunto, che mi ha ricondotto alle sensazioni provate in infanzia leggendo le fiabe dei fratelli Grimm, ma anche Marquez o Calvino all'università. Per questo vi chiedo: avete avuto dei riferimenti letterari (ma anche cinematografici) precisi per dare forma a questa "maniera" stilistica?

Totò Che Visse Due Volte, favolaccia delle favolacce, me lo concedano i D’Innocenzo, in tre favolette cupe, i tre capitoli del film, in cui muovono le gesta picaresche dei figli ultimi della Ricotta pasoliniana, i figli ancor più degradati e vilipesi, ed anche favolaccia di novella inquisizione, la storia delle vicissitudini del film e della sua distribuzione, in una Italia da processi alle streghe che danna alla gogna questa pellicola invereconda a partire dal lontano1998, l’anno del suo passaggio veneziano.

Già dallo scatto con cui si apriva il libro fotografico Farmacia notturna, si sarebbe potuto intuire il desiderio dei fratelli D’innocenzo di ricercare la purezza nuda dei bambini, raccolta nella luce lattiginosa, adesso così drammaticamente offerta al mondo che la degrada in favolaccia, non epidermicamente (anzi, a tavola Pietro si preoccupa di produrre detergenti adatti alla loro sensibilità di pelle e occhi) ma nelle profondità psicosomatiche.

Da Hong Sang-soo ci si sarebbe aspettati il discorso modulato sul tempo che è diventato cifra stilistica (per altri manierismo) del suo cinema: un tempo che si vuole destituire di identità e sicurezza d’esistere, solo prima facie paradossalmente nell’anima riproduttiva del cinema: è proprio nel ritornare (in fiume alcolico riversato su tavoli grandi abbastanza da riempire il fuoco delle inquadrature, orbita di volti, amori, dolori) reso possibile dal montaggio, che esso stesso si sfibra nelle inferenze di un passato non dichiarato tale, di un futuro pronto a inghiottire il giorno che sorge (The day after).

«Ma allora qual è la verità? Quello che penso io di me, quello che pensa la gente o quello che pensa quello là dentro...».

Il mito come grande contenitore narrativo-espositivo, il divino neoplatonico e l’anima mundi, identità e sessualità, natura e città, la ricerca e la definizione di una propria voce, dell’articolazione del proprio linguaggio: sul piano tematico la continuità tra Dei, suo primo film di finzione, e Dentro di te c’è la terra, ultima opera audiovisiva non fiction del poliedrico artista pugliese Cosimo Terlizzi, presentata nella sezione Onde del 37esimo TFF, appare evidente.

“Marriage Story” inizia con il volto/maschera di Scarlett Johansson/Nicole e la mente va a “Persona”, film di Ingmar Bergman che infonde paura e desiderio di vedere il proprio Io nell’abisso della messa in scena. Questa è non solo la “storia di un matrimonio” tra person(a)e ma anche tra linguaggi (cinema, teatro, suoni, immagini), è un eterno dialogo (verbale e scritto, conciliante e contrastante) sulla (im)possibile “unione” tra form(a)e di rappresentazione.

C’era una volta (in America) una lunga strada, un’automobile in viaggio, due coppie di mezza età che parlano di un matrimonio. È solo l’inizio del racconto biografico di Frank (De Niro finalmente all’altezza delle sue migliori interpretazioni), un uomo ormai anziano in un ospizio. 

Alle rovine terribili della storia Bruno Moroncini oppone questa monografia, edita per «Cronopio», che induce a riflettere sul nostro tempo in delirio, fucina di pensieri totalizzanti, dispotici, dissennati che passano attraverso l’esaltazione dell’individualismo a ogni costo, meccanica di corpi svuotati di ogni possibilità, se pure minima, di redenzione.

Recuperare un archivio. Precisamente, recuperare un mondo di tempo pieno di immagini: cinquecento videocassette girate da Enrico Ghezzi in trent’anni (dalla fine degli anni 70- inizi anni 80) acquisite e digitalizzate: Archivio. Anarchivio, nel rispetto della completa libertà e autonomia delle immagini. Quindi un archivio in movimento. Tempo rovesciato. Tempo che ritorna, immagine che è memoria che fantasma nella sua volatilità riportandosi in scena, nel presente, smontata, rimontata, recuperandone l’eccedenza e realizzare Gli ultimi giorni dell’umanità. Un film. E, se è vero che Niente è vero, tutto è possibile, allora sarà un (non)film di cento minuti e quindici ore.

Who is the King of the Underworld?

Una lenta e agonizzante discesa negli inferi tra malavita, crimine e soldi sporchi. I bassifondi di Londra, latrina di sangue in putrefazione e violenza spietata, ospitano le guerre tra gang per la supremazia dell’Underworld. Nel 1930 due bande, l’italiana dei Sabini e l’inglese White, si contendono il dominio della criminalità londinese, lo sguardo si concentra soprattutto sulle vicende di Jack “Spot” Comer e di Billy Hill.

A prescindere dalle analisi, dalle verifiche in nome di equilibri narrativi, tenuta del tessuto, congruità dell'assunto ecc., che si potrebbero fare ogni volta esce un film di Tarantino, resta il piacere, spesso sottaciuto, inconfessato, per un palinsesto sempre plastico, luccicante, crepitante come nitrato: il gioco (linguistico), con tutte le sue infinite promesse inscritte nella finitudine di quella plastica, e offerto agli infanti, al costo di 75 cent.

C'è una sequenza, in Zombi Child di Bertrand Bonello, frenetica, dai ritmi convulsi e spezzati, quella dell'incantesimo voodoo finale, in cui luoghi e momenti lontani si giustappongono, nel film due secoli differenti, contorcendosi su una linea temporale immaginifica, appannaggio puro della dimensione surreale, nel senso di un qualcosa che transita sopra la realtà effettiva, cui fa capo tutto l'andamento del film.

“Un cerchio con diversi centri. Come è possibile? Non so, ma di fatto è così, ci sono cerchi che hanno più centri”

Tre città, Atene, Istanbul e Odessa, tre anime vagano inquiete, una prostituta ucraina, un profugo sudanese e un faccendiere turco; la storia è quella di un uomo, della sua vita e dei suoi ricordi. La memoria, unica e frantumata, narrata da corpi diversi, in luoghi diversi, in un tempo frammentato, le cui linee anacronistiche si rincorrono e si sovrappongono. Diversi piani temporali si intersecano rendendo il fluido narrativo unico, esattamente come le reminiscenze degli uomini confluiscono in una sola direzione: la storia, dove la storia di uno, di molti, è la storia dell’umanità, un’umanità ferita e dolorante. Il dolore è la direttiva lungo la quale corre e si dispiega il filmico di Partenonas, di Mantas Kvedaravičius, presentato in concorso alla trentaquattresima Settimana Internazionale della Critica, un racconto di pelle livida, calpestata e tumefatta, che emana l’inconfondibile odore di morte, in un non luogo dell’essere.

L’arte del MacGuffin, l’equilibrio alchemico tra generi cinematografici diversi, il film d’inchiesta, la commedia grottesca, il film metalinguistico che ributta sullo schermo i meccanismi in atto del suo farsi nel momento stesso in cui accadono, la scoperta di recondite familiarità tra le consimili prassi della finzione scenica e dell’alta finanza più disinvolta, arti entrambe del travisamento delle identità e della mascherata.

Non tanto lo scrittore, categoria troppo circoscritta, ormai una specie di mestiere oggi, quando ci si intrattiene intorno a bagatelle in estasi da paratassi (perchè la coordinazione e la subordinazione si sono perse tra le deiezioni dell'ultra-contemporaneo), da vezzi, lemmi di plastica, con le zazzere artatamente scompigliate di spume e le barbe azzimate, profumate; quanto l'essere, nudo, che accede a un altro livello, un'altra dimensione, quella della comprensione «del linguaggio dei fiori e delle cose mute», che è nella Benedizione baudelairiana scrutata da Martin Eden all'inizio del film, così attratto da questo affastellamento di mistero che è il libro, quando ancora era uno spirito vergine, rozzo ma già vorace di poesia, cioè di quel significato latente, quel manto di silenzio e di segno che solo dà senso alle cose.

Il rione Sanità, uno dei quartieri più “difficili” di Napoli, la gente del “sistema”, Il sindaco, Antonio Barracano, boss del quartiere che amministra la sua giustizia secondo criteri di ferrea equità, la sua equità, l’hip-hop di area partenopea che fa da sfondo, gli interni domestici soverchi d’ori, velluti e colonne. A considerare solo questi pochi elementi il film di Martone sembra non segnare differenza alcuna rispetto alla dilagante allure gomorriana, che ormai acriticamente, come una moda, fa da referente orientativo per la rappresentazione schermica della napolitaneità.

La pelle squamata, grigio metallo, affilato di Hayat, la chioma corvina e l'ostinazione silente, placida. Con questi tratti, e quindi col suo unico corpo, di femmina, la dodicenne Hayat decide di sfidare la tradizione "dei padri", di porsi al loro stesso livello abbattendo l'imperituro muro di coercizione innalzatosi nel corso dei secoli sulle donne, costrette a concedersi al mare per assicurare prosperità alla popolazione. Ma Hayat in arabo significa vita, e la protagonista di Scales ne è la deflagrazione e naturale, vivido recupero fin dai suoi primi battiti.

Riprendendo il filo del discorso, anche se sarebbe bella una fuga dal discorso, una pura gestica, meccanica, la flagranza dell'immagine, del suono, come auspicava Derrida, osservata e goduta finora, la fuga, solo in Ema di Larrain, torno a Baumbach, al suo Marriage Story, discorso molto competente sulla coppia e le sue (in)congruità (di chi conosce bene la materia) e per certi versi straziante nel momento della coscienza dello iato (in)eluttabile, con corollario d'amore; ripensando magari all'epigrafe truffautiana della Signora della porta accanto: «né con te, né senza di te», e non escludendo il ritorno sulla base del Bez Konca.

C’è una scena, in questo Joker di Todd Phillips, che è tanto ingiustificata e singolare sul piano del racconto (non aggiunge cioè nulla, né all’intreccio, né alla caratterizzazione del suo protagonista) quanto significativa su quello paratestuale, rivelatrice com’è del senso forse più profondo del film, svelato poi anche da tutta un’altra serie di scelte, che investono non solo la scrittura e il montaggio ma anche la direzione attoriale, il production design, l’impianto visivo. Si tratta di una ripresa di pochi secondi, in campo lunghissimo, delle strade di New York-Gotham City viste dall’alto. Come è naturale che sia per un’inquadratura di questo tipo è l’ambiente a dominare, non ci sono personaggi o volti umani riconoscibili, ma solo automobili che transitano su una normalissima strada metropolitana, irrilevante nell’economia narrativa.

Nessuno immagina un mondo, o un modo, in cui la passione ardente, il desiderio, il bisogno di farsi uno con l'altro e sentirlo, prima di tutto nella carne, possano smettere di turbarci, infiammarci, di esercitare una forza e un controllo tirannici, magnetizzando così lo sguardo, orientandolo a un unico punto di fuga, verso cui tutto, affetti, pulsioni, violenze, sembrano convergere. E questo punto è la verità (e nudità) del corpo, magro, spento, quasi trasparente, dei carcerati di El Principe; corpi logori, consunti dall'incedere di un tempo sempre uguale, le risse, le lotte interne per il potere, le giornate vuote, il nichilismo della dimensione carceraria arginato dal sentimento gradualmente riacquisito.

Dal lato oscuro della Luna, quella sua faccia buia e crivellata, sottratta allo sguardo e alla luce, sprotetta e dunque più esposta alla furia meteoritica, a quello non meno impenetrabile e martoriato del cuore umano. Che si tratti di un viaggio interspaziale, dalla Terra a Nettuno, o della spedizione amazzonica di un esploratore alla ricerca di una città perduta, James Gray sa perfettamente che ogni esplorazione scatena inevitabilmente un’implorazione, che ciò che scorre fuori non può che rifluire all’interno, che ogni scoperta porta con sé uno scoperchiamento, lo sgorgare di una materia nuova, ignota.

La storia di un matrimonio non può che reggersi, dietro tutte le apparenze e illusioni, su un disequilibrio, su una serie sterminata di inaccessibili non-detti, quasi vogliano rimanere tali fino alla fine, fino al disfacimento previsto, scanzato. In Marriage Story di Noah Baumbach già si avvertono le brutture, gli scollamenti, dice Nicole alla sua avvocatessa, raccontandole la sua storia e confessandole quanto queste "piccole" cose venivano programmaticamente trascurate durante il suo rapporto con Adam, troppo egoista, troppo preso dalle proprie ambizioni. 

Ammetto di essere molto sensibile alla questione metacinematografica (o viceversa), alle possibilità immaginifiche offerte dalla teoria, dall’avvilupparsi del discorso teorico su di sé, che genera fantasmi al quadrato, denudati nella loro carne fittizia, pulsante; spire di realtà, mondi impalpabili, effimeri, accavallati uno sull'altro in una specie di osmosi, o al contrario di iato; perciò è automatico che quando mi ritrovo di fronte a un film di questo tipo, per quanto mi sforzi di rintracciarvi incongruenze, lacune macroscopiche, veri e propri tonfi, non posso che entusiasmarmi, posto che l'entusiasmo è qualcosa che ogni singola immagine, anche la più vile, si porta appresso sin dal suo sorgere.

Ad arginare il vuoto delle sale, sospese e spoglie, aride, come solo sanno esserlo durante i mesi estivi, ad agosto specialmente, c'è il Concorto Film Festival, che potrebbe essere definito l'oasi-indie italiana del cortometraggio: realtà culturale indipendente e risonante, ed unicum nel panorama cinematografico contemporaneo in Italia, per quanto riguarda la percezione collettiva della realtà delle "piccole" storie sul grande schermo.

«Che vi sia parola e se ne veda il silenzio – e, in questo silenzio, appaia per un attimo la cosa restituita al suo anonimato, al non aver ancora o non aver più nome»: che questo silenzio prema alle fondamenta di ciò che urge d’essere nominato, di avere principio d’es-istenza, che questa essenza d’essere, o meglio dischiudersi  d’essere sia contemporaneamente atto estremo nella distruzione, nella cosa che non è o non è più, come nella poesia errante di Caproni, tutto questo insistere e perdersi e resistere in ciò che merita di restare, di durare, di stare è la teoresi di Giorgio Agamben, del suo pensiero, in questo volume uscito due anni fa per «nottetempo» ma di grande in-attualità (come solo i classici sanno essere).

 Se c'è tra voi chi non conosca ancora
l'arte d'amare, legga il mio poema
e fatto esperto colga nuovi amori!

[…]

S'è vero ch'è selvaggio e che sovente
scalpita e freme, Amore è ancor fanciullo:
docile età ch'è facile a guidarsi.”

(Ovidio, Ars amatoria)

 

Interrogandosi su che cos’è l’amore ci si espone spesso al rischio di immobilizzarlo su di un certo piano, su convenzioni predeterminate, sulla necessità che questo «sentire» umano esaudisca un complesso di aspettative piuttosto che un desiderio, un’aspirazione a realizzarsi e riconoscersi nell’incontro con l’altro. Nel tentativo di rendere meno impervio questo percorso, esistono, e sono senza dubbio sempre esistiti, dei tecnici dell’amore, traghettatori di anime dissipate, sfibrate dal logoro iter di “conquista” e “caccia”; strateghi, quindi, che avranno l’onere di impartire se non proprio delle regole assolute, almeno delle norme e l’amore con cui si ha a che faren consiste in una brama che tende verso un obiettivo definito fin dall’inizio, di impadronirsi cioè di un essere ben preciso, possederlo. Ci si chiede di conseguenza se «questo amore sia ancora amore» e quanto giovi a una sua autentica decifrabilità il ridurlo a una topografia chirurgica, volendo andare lineari da un prima a un dopo, deviando da intermittenze o cortocircuiti.

Esiste un cinema di “ottiche” la cui sua ossessione per il controllo e l’impaginazione rigorosa si serve di una messa in inquadratura che costituisce l’ultimo esito di quella scatola magica, o dispositivo simbolico, che è la prospettiva. Strumento capace di riordinare il reale, la sua autosufficiente autorevolezza non ammette dubbi ma solo confini stabili, e, inoltre, offre all’occhio una postazione certa, installandolo nel centro di un universo in espansione, ma, alla fine, enumerabile e finito (anche se la sua enumerabilità è assai estesa, e la sua finitezza include tutto un gioco di botole, sotterranei e bassofondi babelici), il tutto interpretabile semioticamente, cioè come universo concluso di segni.

«Che ne è dell’io, che ne è di un io, se nel suo petto batte il cuore di un altro? Che cos’è un corpo, che cos’è il mio corpo, se la continuità della sua esistenza, se la sua sopravvivenza è affidata a uno straniero irriducibile e inassimilabile, a un intruso?»

L’intruso, Jean-Luc Nancy

Destinato a trasformarsi in un potente, intenso dispositivo di apertura, a un divenire sfolgorante, mai cauto o fermo, anzi meravigliato, tuttora innamorato delle cose del mondo, degli oggetti, delle sensazioni, di immagini e parole rubate, il cinema-sguardo di Claire Denis, fuori da coordinate spaziotemporali e di genere, autentico e vergine, in un certo senso, non esiste in altri luoghi che non siano i varchi lasciati aperti da ogni inquadratura, suono e immagine: quest’ultima intesa come travolgimento, valico di ciò che accade nell’istante. Di ricerca del significato intimo e dell’essenzialità delle cose.

Esiste tutto un cinema di buona fattura, di sostanza dialettica, circolante in Europa, che spesso non riusciamo a vedere nel serraglio del nostro paese. In questo senso mi pare che il Festival del cinema europeo assolva al compito di mostrare queste opere, magari facendo una ricognizione dei festival maggiori, da Berlino a Toronto, scandagliando le sezioni parallele e dando voce e rilievo ad autori e "scritture" spesso niente affatto risaputi.

Lévinas scriveva che nell’epifania del volto altrui, nell’approssimarsi dell’«Io» all’altro, al volto «d’Altri» la cui realtà e vera natura non stanno nella contemplazione fisionomica, del dato, bensì altrove, si scopre che il mondo ci appartiene nella misura in cui lo si può condividere con l’altro.

Cronofobia è la storia di Anna e Michael, i due protagonisti dalla temporalità sospesa, ai quali è dato incontrarsi in una Svizzera cinerea, dove la luce appare silenziosa, nascosta tra tessuti ipertrofici di un cielo che sta lì a serrare le coscienze.

Nel giorno in cui aleggia nell'aria l'Arca russa, del resto dopo una masterclass intensa di Sokurov ieri mattina, è apparso in concorso al Festival del cinema europeo un film che guarda in qualche modo a quel capolavoro, a quel tipo di esperienza oltranzista, ponendosi però in una prospettiva umile, quotidiana, di ruvido espletamento del giorno, anzi della sera.

Gli occhi deragliano tra le nuvole in lento movimento, ne seguono gli spostamenti, con un ritmo ipnotico, come in una danza arcaica, si perdono negli spazi sconfinati, si elevano al di sopra di ciò che è terreno, spingendosi oltre, verso approdi mitologici. La visione della mdp è rapita da una natura arsa dal sole, in un bianco e nero tagliente e lancinante, echi poetici in cui il vento canta la sua canzone tra i rami degli alberi. Un incipit di una bellezza straziante, una sinfonia, armonica e sontuosa, in cui il tempo è dettato dalla natura e dalle sue sonorità.

La recente monografia sul regista di Pozzolengo, edita sull’ultimo numero del Quaderno del Cinemareale (novembre 2018, anno III, N. 3), accoglie visioni screziate su un’opera che si presenta unica, originalissima, assolutamente costitutiva di un modo di fare cinema che è modo di guardare, di esistere e di stare al mondo. La prassi della creazione, che passa per la scrittura, per l’esperienza sensoriale delle riprese e poi anche per il costituirsi progressivo delle scene, porta alla luce tutto un dispositivo in divenire che si mostra attraverso le ri-costruzioni critiche e di poetica sia degli autori che dello stesso Piavoli.

All’esterno della modesta abitazione di Earl Stone, in Illinois, sventola appesa una bandiera a stelle e strisce, nobile vessillo d’America. È il primo dettaglio a risaltare nell’inquadratura con la quale si apre il film di Clint Eastwood – non avrebbe potuto essere altrimenti – , che poco dopo non manca di rimarcare con irriverenza un veloce scambio verbale con i dipendenti messicani della sua attività di floricoltura.

Filmare l’epos, portare sullo schermo la storia, la leggenda del mito fondativo di Roma non è cosa semplice, si rischia di avventurarsi in una strada impervia, non priva di ostacoli, eppure Matteo Rovere, regista e produttore, con la sua nuova opera, Il primo Re, tenta una nuova dialettica filmica, arricchendo il panorama del cinema italiano e definendo una nuova mappatura cinematografica, non solo tra i generi e i nostri ristretti confini, ma nella sua intera e globale dimensione.

C’è un’esigenza nel Suspiria di Luca Guadagnino che è piuttosto il compendio di una poetica a sé stante, semovente, e fatta di gestualità e materia esperite in forma mobile, in continuo modificarsi: un’esigenza vivida, flagrante, di spogliare il corpo per tornare al suo linguaggio, invece di coprirlo, per alludere o suggerire; e non è un caso che le danzatrici sia in Volk che nel sabba finale - lì senz’altro per comunicare la portata ancestrale, dal significato quasi pagano della danza – si muovano nude, o quasi nude, invasate come fossero delle menadi.

Provando a decriptare l’Angelus Novus di Paul Klee, incuneandosi nel ghigno misterico, quasi leonardesco del volto sgomento, tremante davanti al marasma, Benjamin esplica la sua visione della storia: nel fatuo attendere la rigenerazione, scongiurando il dovere della testimonianza – unica redenzione possibile verso la contemplazione delle cose che ci circondano – e quindi della ricerca, acuminata e soprattutto controversa, nell’ambito delle “possibilità non date”, l’uomo-angelo viene trascinato via, sospinto dal vento e dal tempo di quegli orrori che, invece, vorrebbe stare a guardare, contemplare.

«...siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi. Il desiderio resta sempre, in ultima istanza, desiderio del corpo, desiderio del corpo dell'Altro, e nient'altro che desiderio del suo corpo.»

(J. Lacan - Seminario X - L'angoscia)

Pubblicato per la prima volta nel 1967 e ripubblicato postumo nel 1995, Germania segreta di Jesi ritrova una nuova veste editoriale a cura di Andrea Cavalletti nel volume che qui recensiamo, il quale accoglie anche interessanti materiali inediti in appendice.

*Riprendiamo l'articolo scritto da Cannes da Cristina Piccino e uscito sul «Manifesto» del 15 maggio 2018.

Lucia (Alba Rohrwacher) è geometra. Durante un rilevamento catastale alza l’occhio dal distanziometro e vede una donna con un velo sul capo che le si rivolge in una lingua incomprensibile. Pensa sia una rifugiata e non le fa troppo caso, ma la stranezza della situazione è chiara anche a chi non riconosce l’ebraico antico con cui la signora si è espressa.

Vérité c’est faux

Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
Moi je n'ai pas d'étoile
Le ciel est immobile dans la mer
Moi je n'ai pas de mer.
Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
Pour voiler mon apparence de corps
Je cherche un voile imperméable
Aux regards de la vérité
Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
Elle m'apprenne que je souffre
Car alors je n'aurai pas le mensonge
Pour me dire que c'est faux.

A partire dal limine dell'après minuit, propagato però dalla mattina imminente ‒ e i rimandi al sole, alla luce, dentro e fuori dall'iconografia dello splendore che acceca, frantumando violentemente, evidentemente i notturni delle scene nella dissolvenza in entrata della mano stretta a pugno fra le catene, fra le sbarre ‒  si mostra, come nella scena in primissimo piano del taglio sulle labbra, l’altro "taglio", lo strappo, la lacerazione del contrasto. Ché poi, in fondo, l' indagine perpetrata dalle visioni mediante l'assenza di tutte quante le definizioni, scardina con la decostruzione del senso lineare del racconto l'impalcatura stessa del farsi spazio, e tempo, e ricordo del tempo e dello spazio proprio attraverso la dualità, l'ambiguità propria del dire, del nominare, che è qui visione, poesia, attraverso il paradosso della coesistenza di coralità e solitudine, epicità, perlopiù condotta dai dialoghi, e drammi individuali: compresenza di “storie” e di monadi schizzate fuori, impazzite, dal dolore ("[... ] Andiamo lontano da questa tristezza, siamo dei vecchi naufragi"), non sapendo se alla deriva si trovino uomini o fantasmi, demoni o ombre di uomini (“[…] E voi, chi siete voi veramente?"). 

Già al tempo dei Rencontres d'après minuit (2013) di Yann Gonzalez ipotizzavo l'inizio, così incerto, forse del tutto sognato, di una sorta di poetica - evanescente, appannata, sfumante nel prorpio originario niente - del sogno, nei primi anni Dieci di questo nuovo secolo, quando del resto già Héléna Klotz aveva presentato a Berlino L'Âge atomique (2012) ed evocato il notturno, traslucido palpaitare della giovinezza in corpi così senzienti, dolenti, anelanti alla propria pienezza, alla propria estasi, da non reggere a questo peso e trascolorare in fosforescenza, veglia, lacrima brillante, cioè in musica, nell'ondeggiare dei synth, del dream pop, dell'elettronica eterea, malinconicamente retro.

A proposito di immagine. L’artista austriaco Egon Schiele, il cui taglio espressionista incide in copertina un particolare del Sole d’autunno e alberi, staglia su carta e inchiostro una premessa di passi, nella tensione della direzione chiaroscurale verso l’alto, e subito la inghiotte nella catabasi della distesa bruno-dorata delle foglie cadute, del «foliage» cangiante; già qui l’avvertimento che ci troveremo dinanzi ad una apparente contraddizione, anticipata da quella scelta, di dare avvio all’opera nella compresenza di motivi impressionisti e di fughe d’espressione più intense, dispa(e)rate: l’intuizione che la misura della vertigine si dà tutta in quelle linee che convergono – che divergono – sulle zolle e sui rami brulicanti.

Nel giorno in cui la canaglia fascista infesterà le strade di Trieste, mi piace ricordare il libro di Umberto Saba, quello del titolo, che dice di uno spazio diverso, di contestazione: una città contigua al femminile e alle sue prerogative di grazia, arguzia, bellezza fiammeggiante. E in effetti questo Trieste Science Fiction ne propone: a parte la presenza di Stoya, protagonista algida, abbagliante nel suo biancore al silicio, di Elderlezi Rising (diretto da Lazar Brodoza), viaggio buio, viaggio al neon, e all'eros, nelle plaghe dello spazio profondo; direi soprattutto l'immagine finale di Freaks (di Zach Lipovsky), trionfo di forza femminile che vola, si libera nel cielo in coordinate di Matrix.

Si dice che nel rivolgersi all’erede, Luigi XIV in punto di morte, parlasse di sé come d’un trapassato e che poi il popolo, appresa la sua morte, trasalì di gioia, danzò e cantò la fine di quel tiranno... Per evitare tumulti, il cadavere non attraversò la città, ma venne occultato per vie traverse. "Il cadavere” dice Dumas “entrando nella Basilica, non sfuggì agli insulti di quei miserabili”.

Sono tutti in vario modo interessanti, e di proficua lettura, i saggi contenuti nel recente volume edito da Ombre Corte, L’insorto del corpo. Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud (a cura di Alfonso Amendola, Francesco Demitry e Viviana Vacca): interessanti ma non esenti (salvo qualche eccezione) da un certo manierismo.

A Star is Born porta inscritto già nel titolo il proprio destino di comparazione, ma anche al di là dei precedenti rifacimenti: si tratta proprio di ripensare immediatamente il film alla luce del classico, del melò, di modalità classiche di racconto cinematografico (quindi guardando soprattutto a Cukor); e di rintracciarne, per via di sviluppi e snodi narrativi, eventuali questioni teoriche, di scrittura.

Spesso il cinema (che, oggi, ricoperti come siamo di una seconda pelle elettronico-mediatica, è ovunque, expanded e diffuso e lo si incontra sulle pareti della metropolitana, nella sfilata di televisori dei grandi magazzini, sullo schermo dei telefoni cellulari, sui pullman turistici, o proiettato sul letto limaccioso di un fiume, ma in forme compresse, ottuse e inerti) si inceppa producendo qualcosa come un alone, una interferenza, un contagio che assume varie forme. Trompe l'oeil e Anamorfosi sono due di queste.

 «-Perché continui a filmare?
- Per la memoria»

Still Recording è un atto d’amore. Il protrarsi di un’idea oltre la propria morte, in costante lotta contro la sua natura. Incrinandosi fino a spezzarsi, il vertoviano uomo con la macchina da presa erra tra le rovine di Douma alla ricerca della stasi, momento in cui la vita travalica la guerra, mostrando squarci dai quali sgorga il senso stesso del gesto-cinema.

Tutto è liquido, acqua, fluidi, pioggia; lucide e umide gocce scivolano tra le ramificazioni tese, accarezzano il fogliame e irrorano radici ben salde nel soffice terreno immerso, in una ritmica sinfonia tamburellante. Una storia misteriosa, tra le tenebre, i lamenti di piante carnivore e incubi osceni nella circolarità dei movimenti della mdp che scruta i volti e ruota intorno al corpo, alla ricerca del sé, proprio là dove il corpo appare frazionato in frammenti scomposti dell’immagine, frames in cerca di un ricongiungimento. Mostri che emergono da un maelstrom paludoso, da territori liquidi, animati da correnti agitate nelle profondità, sotto una superficie apparentemente calma e vitrea, ciò che non si vede e non si conosce spaventa, per la sua diversità e per la sua unicità.

Con l’invenzione degli specchi, ma ancora prima, rimirandosi come Narciso nelle più varie superfici riflettenti, e poi con l’arte del ritratto (pittorico o scultoreo), l’umanità, come sosteneva Borges, ha coltivato l’arte abominevole di moltiplicare se stessa? Io direi piuttosto che ha messo in opera tutti i mezzi possibili per moltiplicare la propria effige, e poi per eternarla, farla esistere anche dopo la propria morte: tentativi di sopravvivenza.

Bella, anzi bellissima, la storia di Emanuela Ligarò, in arte Gold Mass, “artigiana delle frequenze” che col suo primo demo, arrivato solo dopo un apprendistato di studi, ascolti e composizioni durato anni, conquista l’attenzione di produttori internazionali del calibro di Howie B, che ha prodotto fra i tanti Björk, gli U2, e l'oscuro Tricky, di Marc Urselli, che tutti ricordano come produttore di Lou Reed, Nick Cave, Patitucci, Mike Patton e Jhon Zorn, e di Paul Savage storico produttore dei Mogway, con cui poi è effettivamente entrata in studio per lavorare a Transitions, l’album che uscirà ad Aprile 2019.

Sembra darsi nel senso della perdita, il primo lungometraggio del regista libanese Nadim Tabet, nel sole che si accascia mentre i muri si scrostano e si riardono, in un tempo perduto: lo dicono gli occhi affossati dei protagonisti, le loro voci fuori campo che arrivano a slargare le inquadrature sulla città o a rinvenire da un grumo di memoria attimi trattenuti in fotografie analogiche; non solo simulacri di ricordi, ma ricordi esse stesse, corpi di pellicola, di pelle, che su di sé conservano il segno della luce, del tempo.

Nella prefazione alla Persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter si legge «io lo so che parlo perchè parlo ma che non persuaderò nessuno […] o in altre parole “è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi"», che dice, implica, la volontà di una resistenza umanistica, di un parlare produttivo, persuasivo, in tempi di Rettorica propagante, prevaricante (certo, la retorica, la sorba risaputa del mondo volgare, ottuso, privo di dialettica, ma non per questo non veritiera e pressante e denunciabile) e riguarda ovviamente anche quello che si può e si deve dire a proposito delle opere, delle immagini (e che oggi si fa con sempre maggiore violenza, senza argomenti, anzi con il gusto, il compiacimento di non averne, di dileggiare opere e autori, in estasi da followers), visto che sto qui proprio per dire delle immagini di D'Anolfi e Parenti.

«Viviamo con esseri che noi stessi abbiamo creato, baciamo fantasmi, difendiamo spettri: discutiamo d’arte con lupi mannari, trattiamo d’affari con spiriti, andiamo in giro con ombre di persone mai esistite».
(Contessa Maria degli Obrapali - Stanislaw Ignacy Witkiewicz)

Nuestro Tiempo è un film a rilascio lento, ritardato, congegno a riverbero, perchè teso tra la dimensione istintuale, animale - tori che si scornano, scorazzano nella prateria, sventrano asini, tra il ronzio delle mosche calate immancabilmente sulle interiora: una rude poesia, una ruvidità dell'immagine evocativa, che è di Reygadas sin da principio del suo cinema - e quella cerebrale, mentre dispiega le dinamiche di una coppia emancipata del nostro tempo.

C'è una dimensione analogica, di (precario) artigianato degli accrocchi, fumanti, unti, che risulta interessante nel First man di Chazelle - a fronte, peraltro, di molte altre parti invece stantie e stereotipe -; un intrico di lamiere, saldature, tubi zigrinati che te la fanno sentire tutta l'alta velocità (e la precarietà, l'incrinarsi del concetto stesso di sopravvivenza, di resistenza agli urti, allo schianto) con cui gli astronauti vengono scagliati nell'etere: vibrazioni vertiginose di plance, lampadine rosse di allarme, rutilare di cabine lanciate, lasciate a turbinare follemente nell'interstizio spaziale.

Opera prima seducente, ispirata al noto romanzo di Ingo Schulze, quella di Andreas Goldstein, che ha il merito di coniugare, affondando le radici nel discorso biblico della dimensione originaria degli uomini, linearità narrativa e memoria, mediante un’architettura che dilata, intensificandola, la vita, interiore dei singoli e collettiva dei popoli, nel traslato del simbolo e dell’allegoria. Poiché nei rimandi continui a parole, situazioni, oggetti presenti nella Genesi – a partire dagli stessi nomi, che esplicitamente richiamano quelli di Adamo ed Eva, e l’insistenza delle inquadrature sul giardino, la presenza del rettile strisciante, sebbene stenti nell’erba alta, secca, ma nella scatola si muova a tratti, impedito negli spostamenti, fino alla lettura della cacciata dall’Eden da parte di Adam seduto sul letto, mentre  Evelyn ostenta la carnalità delle labbra – il regista non esclude l’apertura al mondo, l’immersione nella storia, nel suo divenire.

La persuasione dell’attesa, della possibilità che filtra dalle finestre chiuse, dello sguardo che si spalanca al mondo, al desiderio del mondo, si staglia dall’orizzonte del visibile, al passo col tempo, della musica delle parole e della vita fuori campo: «Per ogni estatico istante dobbiamo pagare un’angoscia, in pungente e tremante rapporto con l’estasi. Per ogni ora d’amore, aguzze elemosine d’anni, amari spiccioli contesi e scrigni colmi di lacrime». Dopo la prigione dei moniti, l’autoritarismo dei precetti, dell’accademia puritana del terrore che si compie, amputando nell’intimo l’aspirazione all’esistenza: si sfanno file di ragazze ordinatamente, ferma al centro la macchina da presa sulle figure silenti, fino al volto di Emily, rimasta nel mezzo dell’inquadratura in una ribellione coraggiosa, che arde quieta.

Della morte, non dell'amore
Luigi Abiusi

Più che nei suoi film precedenti il Paul Thomas Anderson del Filo nascosto sembra dedicarsi alla contemplazione della malattia, quindi a quello che, alla fine, è in sé la malattia, cioè la proiezione della morte, ora effettuata sulle pareti a fiori, nel contesto liberty di una decadenza ormai orfana di ogni estenuazione, ogni lirismo. E le musiche da camera (Brahms, Faurè, Schubert) sono il sostegno di questa fotosintesi inversa (altrove parlavo di “alienazione da camera”), per cui la luce di proiezione appassisce, decompone quei fiori sul muro anziché farli gemmare, esalanti così una putrescenza che intacca la pellicola, proprio la sua epidermide, l'atmosfera del film, ora ingiallita, illividita come la carne sfatta di un cadavere.

Non sarà certo la parola, laicamente intesa, né tantomeno il Verbo a salvarci, se lo si chiede a Sharunas Bartas. Quand’essa infrange il silenzio – cosa che avviene a maggior frequenza da Seven Invisible Man (2005) in poi, rispetto ai suoi lavori degli anni Novanta – non è mai per risolvere, sgrovigliare, dirimere, ma, al massimo, per fabulare, tamponare i fiotti amari dell’impotenza, continuare a sorreggere l’impalcatura incerta dell’esistenza.

L'impotenza del poeta, la sua strutturale disorganicità rispetto al sistema del potere e la sua silenziosa ribellione allo scandalo del silenzio imposto. Due film dalla Berlinale 68 per dire della resistenza del poetico dire rispetto alla violenza della Storia: Dovlatov di Aleksey German Jr. e Season of The Devil (Ang Panahon ng Halimaw) di Lav Diaz. Due scorci dagli anni '70, col tallone dei regimi sulla coscienza dei popoli, funzioni oppressive del potere alle prese con le funzioni libertarie dello spirito: Aleksey German Jr. disperde le speranze dello scrittore russo Sergei Dovlatov nella nebbia d'apparato dell'Unione Sovietica, che non seppe dargli voce di stampa e lo costrinse a fuggire a New York per sfuggire alla lenta morte del suo spirito. Lav Diaz s'inventa invece  il poeta del popolo Hugo Haniway, che si oppone al regime di terrore instaurato dai miliziani di Marcos nella sua patria martoriata e si martirizza nella ricerca disperata della sua donna, Lorena, medico volontario nei villaggi degli oppressi.

The Disaster Artist di James Franco si è certo distinto per apprezzamento da parte del cinefilissimo popolo del Torino Film Festival, dove è sfilato, nel generale compiacimento ilare, nella sezione After Hours. Si concorda tutti sul fatto che sia commedia a dir poco esilarante, dal ritmo pirotecnico, nel senso che i motivi di riso si susseguono con lo stesso ritmo scoppiettante e irregolare delle esplosioni prodotte dai fuochi nelle notti di festa, tutti d'accordo sulla qualità della performance istrionica di Franco attore-mattatore e regista e sul fatto che pratichi un comico intelligente, alternativo e quant'altro. Considerazioni, queste, più che corrette e criticamente necessarie, ma di cui ci occuperemo solo nel prosieguo.

Il giuramento tra i fiori di crisantemo

Valentina Dell'Aquila

Ci ricorda una piattaforma videoludica L’immortale, con più livelli di scontro, più simulazioni che si vanno ad addensare in sfide di velocità e difficoltà con avversarsi del clan rivale (e non solo) sempre più acute e spadaccine, zombieficazioni sempre più striscianti; si vanno ad arricchire difese e armi e se ne perdono altre (le qualità fisiche ad esempio, la prestanza nella lotta, la percentuale di salute, etc).  L’abitante dell’infinito (è così che nel manga del 1993 di Hiroaki Samura viene definito Manji, nell’adattamento filmico interpretato da Takuya Kimura idolo degli SMAP), ex samurai nonché ronin dell’epoca feudale Tenmei dello shogunato Tokugawa 1783, dopo l’assassinio dei cento samurai, è infestato dal parassita kessenchu, sanguisuga che rigenera e riprogramma dopo ogni sfida il suo corpo eterno rendendo le sue ferite vulnerabili al dolore più estremo ma non alla morte.

Observando el cielo è una ricerca ma anche un viaggio durato sette anni in cui Jeanne Liotta frantuma il tempo per captare campi celesti e registrare il movimento degli astri e della luce e del buio incisi su pellicole da 16mm.
Osservare il cielo è contemplarlo che è privilegio dell’uomo la cui stessa denominazione greca (ἂνθρωπος) mi rimanda ad una definizione di Platone in Cratilo 399c: «questo nome ἂνθρωπος, uomo, significa che mentre gli altri animali non considerano né ripensano né riesaminano (ἂνθρωποὖσιν) mai nulla di ciò che vedono, l’uomo non appena ha visto, ἀνἀθρἐι e cioè riflette ciò che ha visto, donde a ragione soltanto l’uomo tra gli animali fu denominato ἂνθρωπος, cioè colui che riesamina ciò che ha visto. Ma ἀνἀθρἐωè composto di ἀνω + ἀθρἐω= guardare verso l’alto: «degli altri animali infatti solo l’uomo guarda in alto”» (Rocca S.); solo l’uomo, una volta acquisito il suo status erectus (quella verticalità che lo contraddistingue, tra le altre cose dall’animale) ha potuto levare gli occhi al cielo e ricevere tutto l’inaudito spazio del cosmo.

La pronuncia delle cose
Luigi Abiusi

La dimensione in cui si muove Chiamami col tuo nome e sembra gocciolare sulla pietra della pila, sgranare gli occhi verso un orizzonte di attese (immagini), di questo qui e ora che è già ricordo, fantasticherie debussiane che si rincorrono per tutto il tempo, è quella intima, adolescente, fatta della sostanza dei dubitativi pomeriggi passati nella penombra delle soffitte, tra un libro, una canzone a impregnare i muri, un corpo di pesca da riempire, mentre da fuori arrivano i gridi delle rondini che si arrossano nei cortili e tra i vecchi palazzi.





«Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il “linguaggio”, è contenuta una determinata concezione del mondo, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza, cioè della quistione: è preferibile “pensare” senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè “partecipare” a una concezione del mondo “imposta” meccanicamente dall’ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente [...] o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità?» (A. Gramsci 1975, pp. 1375-1376).


 


«This movie should be played loud».

L’esergo che apre The Driller Killer di Abel Ferrara potrebbe tranquillamente stare in apertura di questo Damned Summer senza disattendere le aspettative implicite nel motto. Se però il film di Ferrara si presentava da subito in tutta la sua forza importante, quello di Pedro Cabereira si innesca con lentezza, secondo una studiata progressione.

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«À quoi bon un cinéaste en temps de manque? À faire parler la Terre! Entrer dans le secret d'un Soleil, d'une brume et du magnétisme tellurique - via les indigènes du secteur...»
(F. J. Ossang, Mercure insolent)



«A occhi chiusi e nello sforzo di prendere sonno,
vedo brillare, sul fondo delle mie palpebre,
una brace: è l’anima ostinata,
il relitto lampeggiante
del naufragio glorioso del mio giorno.»
(René Char, da A una serenità contratta)


È ammirevole come un autore riesca ad essere coerente con se stesso nonostante il passare del tempo e delle mode. Si ha l’impressione che Terence Davies abbia girato A quiet passion esattamente come avrebbe fatto trent’anni fa: sceneggiatura accuratamente letteraria, ambientazione invariabilmente nel passato (che nei suoi film va dall’oleografico Ottocento fino ai non meno crepuscolari anni Cinquanta), piani sequenza con predilezione per i movimenti laterali o circolari, e in sottofondo la voce fuoricampo, che narra senza spiegare nulla, che preferisce aggiungere una sensazione piuttosto che una spiegazione, che viene anche lei dal passato, come voce lontana sempre presente.


«… Allora, dopo essere stata nell’ala morta, mia sorella scrisse un testo per descrivere quello che succedeva là dentro:

La sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che la scatola cranica debba spezzarsi, sollevarsi)… La sensazione che la cella sia “in viaggio”. Ti svegli, apri gli occhi: la cella sta viaggiando; di pomeriggio, quando entra la luce del sole – di colpo si ferma. La sensazione del viaggiare però non riesci a togliertela. Non puoi dire con certezza se tremi di febbre o di freddo – in ogni caso hai freddo. Per potere parlare in tono normale devi fare lo stesso sforzo che faresti per parlare a voce alta, quasi come urlassi. La sensazione di ammutolire – non riesci più a identificare la semantica delle singole parole, la puoi solo indovinare – … La sensazione di bruciare interiormente… Agenti, visita, cortile ti sembrano essere fatti di celluloide – i visitatori non ti lasciano niente. Mezzora dopo riesci a malapena a ricostruire se la visita è avvenuta oggi o la settimana scorsa… La sensazione che il tempo e lo spazio siano incastrati uno nell’altro – la sensazione di trovarsi in una stanza di specchi deformanti – di sbandare. La sensazione di essere spellata…».


Chi ha paura di Krisha? Il suo primissimo piano in incipit è promessa di spavento, stato di attesa e rivelazione moltiplicato dalla musica gravida di pathos, graffiante. Allora Krisha la si scruta con sospensione, si cerca un indizio su quel viso che è cartografia del tempo, residuo di bellezza, occhi consumati ma aguzzi. Poi tutto cambia, o quasi.


Strofa, ritornello strofa, ritornello, strofa ritornello, strofa ritornello. Quattro ripetizioni e un finale dissonante e sorprendente come in un pezzo dei Sonic Youth degli anni ruggenti. Beautiful things è una canzone punk noise. Sul petrolio. Una sonata sbieca e lisergica. La struttura è quella di tutte le canzoni. Ogni strofa una storia, la testimonianza in prima persona di una vita di fantasma, uomini senza volto che dietro e intorno al petrolio ci vivono, ci lavorano e ci muoiono. Van, Danilo, Andrea e Vito, la chanson delle loro esistenze laterali, racconta per intero il viaggio immane dell'oro nero. Dall'estrazione alla diffusione capillare dei prodotti derivati, passando per il trasporto su navi cargo lunghe quanto l'Empire State Building e per terminare in ciclopiche strutture per lo smaltimento del disavanzo, le deiezioni del organismo mercato, la distruzione di quei rifiuti che sono la più cospicua produzione del sistema bulimico dei nostri consumi.


altAntefatto
Succede che durante le giornate della 22a edizione del Milano Film Festival venga organizzata una performance-incontro dal titolo Falsiritorni (dall’oltrecinema). A fare da relatori ci sono Emiliano Montanari ed enrico ghezzi che partendo dalle suggestioni de L'avventura (il cui set diventerà per ghezzi una delle tante magnifiche ossessioni1) si abbandonano a un flusso di coscienza sul cinema, l’archeologia delle immagini e i ritorni. In questa discussione dissennata, dove a imporsi è la monologia ghezziana, a un certo punto colgo (tra indistinto brusio) parole chiare: «al cinema non esiste la prima visione. Solo seconde, terze, quarte... visioni». E quella che lì per lì mi sembra poco più di una frase ad effetto, due giorni dopo si carica di senso.


Non ci sono molti modi per affrontare l’oscurità, è dalla luce stessa che viene generata, in una forma differenziale tra la presenza e l’assenza della luce stessa. In questo senso bisogna affrontare il documentario della coppia Ben Rivers, Ben Russell dal titolo A Spell to Ward Off the Darkness. E dal titolo bisogna partire, infatti, per addentrarsi nel film, un incantesimo è qualcosa che trascende il reale e lo trasforma, diventando esso stesso reale. È il reale che immagina se stesso, è in questo senso che il tempo interviene sulla narrazione, come passaggio, talvolta in contrazione, talvolta in distensione.


altDall’interno di un abitacolo, attraverso un parabrezza sporco, seguiamo l’incedere costante di un autoveicolo. Fuori il cielo è sereno, così azzurro da rendere meno triste l’anonimo paesaggio circostante. Un uomo, poco più avanti, indica la strada. Sta quasi correndo. Forse è a causa sua se fin da subito si avverte un vago senso d’inquietudine. Un attimo dopo la situazione si fa più chiara: ci troviamo a bordo di un’ambulanza chiamata a soccorrere qualcuno. Quella sottile sensazione di turbamento trova ora una possibile giustificazione, ma non per questo svanisce e, al contrario, s’infittisce col passare dei minuti. Due soccorritori scendono dal veicolo, l’autista rimane al suo posto. Una nuova inquadratura ribalta la prospettiva e ci mostra il volto di quest’ultimo in primo piano, mentre fuori campo si sentono le voci dei suoi colleghi e di una donna che li informa dell’accaduto. Per alcuni interminabili secondi la mdp non si muove di un millimetro, poi finalmente un nuovo stacco di montaggio. Stavolta la ripresa è a mano e si sofferma in particolare sulla figura del dottore. Il paziente non si vede, ma il rumore del suo respiro disturbato diventa man mano insopportabile. Di nuovo all’interno dell’ambulanza, in corsa verso l’ospedale, questa volta è l’infermiera ad essere inquadrata da vicino mentre fornisce assistenza al malcapitato, di cui ancora restano celate le sembianze.


Un terzetto di scienziati è in missione per conto dell’Onu in Bolivia, per poter indagare sulle cause di un disastro ambientale. All’aeroporto attendono la loro guida locale, che non arriverà mai e che mai vedremo nel corso del film e il cui nome verrà detto, come fosse un dettaglio di alcuna importanza, un’unica volta: Helmholtz.

«Mai dimenticarsi. Con le piccole dimenticanze si è rovinata tutta una vita.
Dimenticare è una tragedia. Per una rosa»
(Per una rosa, Marco Bellocchio)




 


L’immagine come struttura potenziale, l’immagine come scorcio di un tempo nel paesaggio dell’immagine, l’immagine come una riviviscenza di un punto nel tempo che ritorna e che è sempre un altro, pieno del Senso e delle cose. Viaggio a Montevideo rappresenta una lontananza che, come tale, non è mai raggiunta, è un viaggio che ammette la partenza, il ritorno mentre «il tempo  è scorso, si è addensato, è scorso» (Campana 2003, 49). Il titolo del film di Giovanni Cioni – presentato nella sezione Satellite alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2017 – recupera tutta la cosmogonia poetica di Dino Campana il cui movimento squama il paesaggio su cui l’occhio si posa per aprire un varco, «un ponte di passaggio» che anticipa la visione.


Una superficie d’acqua immota all’apparenza viene astrattamente percorsa da animali, dall’animalità che siamo capaci di esprimere quando gravemente feriti.
Clover torna a casa, nella campagna del Somerset, Inghilterra. E qui, tutto l’impianto della fattoria di famiglia ci dice che è in atto una dislocazione, uno spaesamento. Un’abitazione che non è agibile e, dunque, vuota, a causa di un’alluvione; un container dove essere provvisori ontologicamente, un bestiame che viene continuamente spostato, un cane affamato dimenticato in uno sgabuzzino tra i suoi escrementi.


altGli Uochi Toki sono una delle intelligenze più lucide della scena musicale italiana, un ordigno sonoro che nasce dal cortocircuito tra lucidi deliri verbali («Mi sento molteplice e difficile, come i casi nella terza declinazione / Inseriti in frasi che parlano della nostra situazione») e oscure basi elettroniche; un progetto terroristico votato alla destrutturazione dei generi («Non appartengo ad un ambito / Basato su di una iconografia/audiografia che non sento mia / Dove vengono sistematicamente condannate le mie cause e le mie scelte»; o ancora: «Noi siamo alternativi, anzi, alterativi, anzi, alternati come la corrente, anzi, trasversali»); un rimedio da assumere come forma di autodifesa contro le menzogne che agiscono insinuandosi nelle pieghe del linguaggio, nei presupposti taciti delle abitudini retoriche, che il duo in questione, composto da Matteo “Napo” Palma (agli straripanti testi) e Riccardo “Rico” Gamondi (ai miasmi rumoristici), manomette con  instancabile metodica.


La morte degli infanti è sempre difficile da spiegare, da essere accettata, e quando si tratta di suicidio diventa un vero cul de sac del senso, una ossessione senza fughe. Da qui prende forma Children Are Not Afraid of Death, Children Are Afraid of Ghosts, opera prima del cinese Rong Guang Rong, che ha aperto le danze al Festival Del Nuovo Cinema di Pesaro.
Per tentare una breve analisi del testo converrà discutere separatamente dei vari livelli di significazione che condensa, tenendo ben presente che nell'amalgama del film la separazione non è avvertibile e il tutto è fluido.


Nel 2015 la BBC ha lanciato una serie di documentari intitolata BBC Four Goes Nuclear e dedicata al settantesimo anniversario della tragedia nucleare di Hiroshima. Il tempo in cui le materie radioattive perdono progressivamente la loro radioattività, cioè il tempo necessario affinché il 50% degli atomi si sia disintegrato nel caso dell’uranio-235 è di 710 milioni di anni.


Si definisce scientificamente “determinismo”, la concezione secondo la quale ogni avvenimento nella realtà sia necessariamente legato ad altri da un nesso di causa-effetto. Tutto quello che si vede è in funzione d'altro, tutto quello che accade è il risultato di qualcosa. Tutto. Vicino o lontano, percepibile o incomprensibile che sia.


alt«Possa venire il giorno (e forse verrà presto) in cui fuggirò nei boschi di qualche isola dell’Oceania, a vivere d’estasi, di calma e d’arte, circondato da una nuova famiglia, lontano dalla lotta europea per il denaro. Lì a Tahiti potrò ascoltare, nel silenzio delle belle notti tropicali, la dolce musica sussurrante degli slanci del mio cuore in amorosa armonia con gli esseri misteriosi che mi saranno attorno. Finalmente libero, senza preoccupazioni di denaro, potrò amare, cantare e morire» (Paul Gauguin)1



altQuesto cuore stesso, che pure è il mio, resterà sempre per me indefinibile. L’abisso che c’è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato. Sarò sempre estraneo a me stesso.
(Albert Camus, Il mito di Sisifo)


 


Pare che l’incontro fra Simone Weil e Lev Trockij scadde in lite: la Weil rinfacciava a Trockij la cruenta repressione, ad opera dell’Armata Rossa, della rivolta anarchica di Kronstadt del 1921. Esattamente come le potenze capitaliste, sosteneva quello scricciolo di donna dinanzi al gigante della Rivoluzione, lo Stato comunista fondava il proprio potere sulla repressione della libertà e dell’autodeterminazione.
La prendiamo un po’ alla lontana, perché quando si parla, come accade in Under Electric Clouds, di Russia e Storia, non si può che parlare di Rivoluzione (dove storia e rivoluzione sono necessariamente maiuscole): non per niente parte del film, presentato nel 2015, è ambientata nel 2017, a cent’anni dalla madre (strana madre: senza figli) di tutte le rivoluzioni.

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«A minha terra não é inefável. / A vida na minha terra é que é inefável./ Inefável é oque não pode ser dito (La mia terra non è ineffabile. È la vita nella mia terra a essere ineffabile. Ineffabile è ciò che non può essere detto)».
(Jorge de Sena)

«E por isso em cada gesto ponho / solenidade e risco (E per questo in ogni gesto metto solennità e rischio)».
(Sophia del Mello Breyner Andresen)

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto      
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che,largo,esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.
(Giovanni Pascoli, Il Lampo)

«Sta lontano da tutto o il fulmine ti colpirà»


alt«Dovrei venire, guardarti, tirarti fuori, baciarti e sostenerti, per non farti scivolare via. Ti prego, credimi, un giorno verrò e ti porterò via con me» (Bachmann-Celan 2011, p. 17)

È difficile riuscire ad entrare in un territorio pericolante come è quello dello spazio della parola senza cadere, inevitabilmente, in un linguaggio che eccede se stesso per diventare goffamente retorica. The Dreamed Ones tenta nell’impresa e lo fa lasciando che siano le parole ad occupare il campo della macchina da presa.


Due trans in un bar fanno colazione, i vestiti economici, le pance scoperte e il caldo del Natale a Los Angeles festeggiano l’uscita dal carcere, dopo 28 giorni, di Sin-Dee. Intanto un tassista armeno nel giorno della vigilia di Natale trasporta gente tra le strade della città del cinema. Nel corso della colazione Alexandra rivela all’amica che durante la sua assenza è stata tradita da Chester, compagno e protettore, con una prostituta bionda, e così inizia il percorso delle due attraverso le strade e i marciapiedi di Hollywood in cerca del compagno e della prostituta. Così inizia Tangerine, realizzato nel 2015 da Sean Baker utilizzando degli iPhone 5.


James White (Christopher Abbott) è una vita sospesa. Quella di suo padre, figura che ha conosciuto poco, è appena finita, mentre quella di sua madre (Cynthia Nixon) è sempre più corrosa da un tumore che si estende, la nega e la trasforma. James White è il nome di questo film; e il tempo che passa. I nomi dei mesi che si succedono sono i capitoli di uno svolgimento apparentemente piano, una identità che non è riuscita mai a definirsi, le pagine vuote di un diario inconscio, di ciò che non si riesce a dire, a fare, a mutare, di fughe da se stessi fino poi a trovare nel dolore più profondo, nella perdita più grande, la violenza della verità.

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Intervistato nel 1966 da Patrick Brion e Jean-Louis Comolli per i “Cahiers du cinéma”, Jacques Tourneur sosteneva che il cinema dovesse «evocare le cose senza mai mostrarle» nella misura in cui «l'unico vero orrore è nello spirito» dello spettatore che «teme ciò che non conosce e quel che non sa di aver visto».


Dopo Pierrot Lunaire (2014) e Gerontophilia (2013), un’opera, quest’ultima, completamente invasa da una quiescenza malinconica, da un desidero non ancora sveglio  ̶  se paragonato all’assoluta determinazione di The Raspberry Reich (2004), Hustler White (1996) e No Skin off My Ass (1993)  ̶ , dopo Otto; Up with Dead People (2008) e L.A. Zombie (2010), che sembravano davvero attendere il terzo ed ultimo capitolo di una trilogia horror-gore, The Misandrists gravita per la prima volta in un senso grammaticamente opposto, quello cioè di un humor-soft-core anni Settanta totalmente popolato da donne.


alt«Da dove veniva quel bizzarro rumore, quel ritmo lontano?... Un canto sordo che sembrava uscire dalle pareti... Sì, si sarebbe detto che le pareti cantassero!»

(Il fantasma dell’Opera, Gaston Leroux)




Verso la fine di Rat Film ci ritroviamo nel bel mezzo di un paesaggio ricostruito rozzamente al computer, in 3D. La ricostruzione virtuale non è un granché, permette anche di oltrepassare i muri e, se assumiamo un particolare punto di vista, il suolo scompare e si spalanca un abisso stellato: c’è forse questo in fondo a un’immagine?


Abbiamo un protagonista di cui non sapremo mai molto, un giovane uomo che ha perso i nomi dei luoghi, le mappe e le bussole d’ordinanza. Che ha desideri ma non li sa nominare. È però anche un uomo del suo tempo, in contatto con le tecnologie del suo tempo, e attraverso queste intuisce la possibilità inebriante di una deriva, proprio come la intendeva Guy Debord: un viaggio non pianificato per liberarsi dalla routine quotidiana, lasciandosi trascinare dalle attrattive del paesaggio e dagli incontri che questo suggerisce. Ma colui che va alla deriva non è un flâneur che sa dove andare e cosa pensare; è piuttosto uno che si getta in pasto al proprio disorientamento emotivo per riscoprire uno spazio che non conosce e che non comprende. Così Pierre si lascia alle spalle compagno, appuntamenti e Parigi, e parte affidandosi ad un navigatore speciale – Grindr, applicazione per incontri omosessuali che mappa corpi e desideri geo-localizzando gli utenti.
Eppure lo spirito ludico della partenza è frustrato già al primo tentativo d’incontro: Pierre non comprende le indicazioni stradali offerte dal potenziale amante e così si perde. È da questo primo rendez-vous mancato che il disegno sottile di Jours de France si manifesta implacabile: la spinta erotica di Pierre deve necessariamente sovrapporsi ad un impulso di riscoperta del Territorio.


«Questa mattina dunque vengo accanto al tuo cuscino, vengo a tirarti i capelli e assisto in estasi ai primi segni di vita del tuo risveglio. Mi siedo su una seggiola rosa, la testa appoggiata ai piedi del tuo letto, e ti contemplo con lo stupore che mi assale ogni volta che ti vedo…(Giro in fretta la testa perché mi accorgo che sto per piangere di tenerezza)» (Balthus, pag. 24).


Nelle tenebre elementari un gocciolio d’alba introduce alla scena prima - il fuoco artificiale dissecca la superficie - dalla terra argillosa emergono i corpi scrostati, le pelli arricciate, la virgola impercettibile dell’angelico sesso.





Il titolo STUDIO etimologicamente sintetizza l’atto e il luogo, il gesto e l’officina: implica una mobilità (mentale, fisica)  che parte da una zona interna  per tendere verso l’esterno (dal lat. stùd-ium che propriamente vale come impulso interno e il tendere con zelo), dunque un movimento che rievoca parallelamente l’atto di creazione artistica. Non c’è solo la volontà da parte di Francesco Dongiovanni di filmare i volti che nascono dal pennello dell’artista tarantino Pierluca Cetera ma qui, al lavoro, c’è anche l’occhio cinematografico. Si tratta dell'opera nell'opera, nel loro farsi, ovvero "l'occhio e la mano", lui che insegue l’altro in una specie di officina per due.


altIl nero è un problema. Rappresentare il nero è un problema, lo è stato e lo è nel cinema, lo è nella fotografia, lo è anche nella stampa dei disegni, delle graphic novel. È un problema perché ancora oggi non si riesce ad assorbire la totalità della radiazione luminosa, quindi non si riesce a rappresentarlo. Ma più che un problema di rappresentazione è necessario capire il nero come questione sociale, perché la percezione dei colori è una questione sociale, trasformando il lavoro sul nero come un lavoro sulle parole e sul concetto. Ed ecco che il nero diventa un contorno, una forma che delimita un qualcosa, il tratto di una scritta, o il contorno di un volto. Scostarsi dalla bicromia bianco/nero è allontanarsi dall’essenza del tratto e della comunicazione, in favore di qualcos’altro che complica, che rende la comunicazione stessa incomprensibile.

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«Per la felice e gioiosa riaffermazione del cinema quale strumento privilegiato di descrizione e analisi della realtà, in grado di stemperare la drammatica eredità dell’Algeria nell’apertura incondizionata e fiduciosa al futuro delle giovani generazioni». Così, nell’ambito del concorso Amore e Psiche del MedFilm Festival 2016 a Roma, la giuria ha motivato il Premio per la Miglior Regia al film Le jardin d’essai.

alt«Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna […]. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. […] Sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione» (Leopardi 1982, p. 151).

altIl 14 settembre 2012 la nave da crociera Adventure of the Seas avvista, nella tratta di mare che separa la costa nordafricana e la Spagna, un gommone in avaria carico di migranti partiti dall’Algeria. Una storia “d'ordinaria migrazione” che il passeggero Terry Diamond decide di filmare. Ciò che ne ricava è una ripresa, in bassa risoluzione, di 3 minuti e 36 secondi che poi caricherà su YouTube.


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When the pilot was killed in Mogadishu or in Aden, you said that for each victim in Aden, we should execute a terrorist in Stammheim, in public. And that’s democratic?... You don’t care about laws, but you call yourself a democrat!
There are situation when you don’t care about laws, and you call yourself a democrat? Ordinary murders often act for the wrong reasons. But what worries you about terrorists is that you could understand them. How can there be situations when you don’t care who makes the law? And what laws! Democracy is a form of State which is the most humane, yes or no? Would authoritarianism be better?
(R. W. Fassbinder in (I) Deutschland im Herbst, AA. VV. 1977-78)

altAntiporno, nuovo gioiellino meta riflessivo di Sion Sono appena passato al trentaquattresimo Torino Film Festival, ha molti dei tratti più riconoscibili di questa sorta di unicum che è il segno autoriale di Sono. Anche in questo caso le protagoniste sono giovanissime, poco più che adolescenti e il fatto che Kyoko sia una scrittrice di fama richiama tanto la professione del marito di Izumi in Guilty of Romance che la Taeko di Strange Circus del 2005 il cui romanzo finge da cornice a tutta la storia.

altUna figura umana vaga sul piano desertico del mondo: potrebbe essere questa l’immagine che persiste durante la visione di un film della Reichardt. Data un’immagine così scarna ( e disperata, ma la disperazione è forse conseguenza di una così drastica scarnificazione dell’immagine stessa), ognuno dei termini che la compone acquisisce un determinato peso emblematico: la figura, la vaghezza, il deserto (fisico e metaforico nel quale si muove) sono rappresentazione esistenziale dell’umano.

altTrevor è un giovane stand-up comedian senza arte né parte. Di notte si esibisce con scarso successo nei locali della sua città, di giorno sfoga la sua rabbia e la sua frustrazione ascoltando musica a tutto volume e appiccando piccoli incendi dove gli capita.



altC’era una volta: è la promessa di una narrazione, di Mysterious object at noon, di un allontanamento dal presente: un viaggio, quello del cinema di Weerasethakul, che sin dal suo esordio si addentra nel territorio thailandese, quotidiano militarizzato, realtà tropicale in bianco e nero da cui far riemergere quel paesaggio misticheggiante e trasognato dei racconti popolari, dei miti e delle leggende, che si ritrova come dolcemente sospeso sulle palpebre di chi quasi ammalato favoleggia a occhi aperti, alla luce alta del mezzogiorno o del meriggio, luogo del quotidiano assopito, rivelazione impenetrabile.

altL’elemento minore tra i pronomi è, nel film di Verhoeven, un monumento alla distanza. L’imponenza della terza persona femminile non solo segna l’interruzione del rapporto io-tu, ma si espone ad una magnifica perversione, quella delle potenzialità virtuali dell’umano, o meglio, della creazione di un umano estremamente pensato.



altUna grande casa colonica in un paesaggio subtropicale, sei ventenni che tornano nel posto in cui il loro amico Miguel ha trascorso gli ultimi giorni di vita prima di suicidarsi. Vogliono inscatolare e raccogliere tutto ciò che l’amico ha lasciato dietro di sé: piatti audio ancora attaccati alle casse, cavi che giacciono sul pavimento, vestiti e oggetti sparsi qui e là.
Miguel registrava ossessivamente i suoni della natura e i suoi discorsi solitari, e quelle registrazioni ora riecheggiano ovunque nella casa e all’esterno, attraverso altoparlanti che confondono i piani della percezione, tra un prima e un dopo, tra la notte e il giorno e tra la vita e la morte (dal catalogo del TFF).


Gli animali notturni si muovono in gruppo e nella notte mostrano la loro parte più oscura, creature che vivono ai margini di un baratro, lontani dalle dinamiche di una società retta dalla competizione e che esclude molti dei suoi figli. Lo sguardo viaggia ad alta velocità tra le tenebre dei cunicoli metropolitani, tra buio e luce, in un’alternanza di oscure derive e abbacinanti consapevolezze. L’architettura sociale, sempre più solida e rigida, poggia le sue fondamenta sul potere e su un sistema prepotente che schiaccia la personalità umana, non lascia spazi di fuga, ma solo margini di impotenza, solitudine e frustrazione.


altLa Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro ospita in questi giorni Robert Todd e una serie di appuntamenti e incontri sul suo cinema; a tal proposito ricordavo una bellissima intervista, forse una delle poche fatte a Robert Todd, quella con Mike Hoolboom. L’intenzione, o meglio, la definizione di questa intenzione sul cinema di Todd, trascende la stessa possibilità critica sulla sua opera. Non è soltanto per l’ingovernabilità, per quest’anarchico riportare la natura così come natura è (e cioè storia, spreco, oblio). Perché somiglia al caso, alla provvidenza, alla natura viva e morta; somiglia al tentativo, all’evento, all’insufficiente. In altri termini: l’impossibilità di una critica starebbe a preservarne l’esperienza. Non una esperienza umana, sia chiaro, o del post-visibile, o come comunemente si dice: esperienza lirica. No (quanto più dimentico, tanto più sono - natura).

Tornando a Hoolboom, quello di Todd sarebbe un cinema dell’ecologia, un manifesto dei cambiamenti climatici, cui unico strumento sarebbe l’attenzione; parla di prospettiva post-umana, di uno sguardo post-umano, pre-politico, di una camera che collabora con la sua materia come una ferita d’argento che si apre, e si apre di nuovo, e che respira. Forse in Speak: when there are no words (1997) si racconta davvero l’espropriazione di questa parola (che non si vuole), la caducità del verbale: “sono consapevole del mio mondo come uno spazio interno di "non-parole. In realtà ho difficoltà a generare parole che corrispondano la ricchezza e la stranezza di pensiero”. Quel processo di dissoluzione, di degenerazione della parola, di distanza da questa (bocca) - e tuttavia lo stesso interesse per la sua organicità , per la sua manifestazione spirituale, per il suo essere acquatico in Speak e cementificarsi - è, e sarà sempre il maggiore grado dell’insufficiente, perciò immagine.



Il Comune di Pesaro - Assessorato alla Bellezza e la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
presentano

Robert Todd Lost Satellite
un programma di proiezioni dei film di Robert Todd che incontrerà il pubblico martedì 11 ottobre a Pesaro mentre lunedì 10 ottobre sarà il pomeriggio dedicato a un workshop con il cineasta e la sua Bolex 16mm, alla scoperta del suo metodo di ripresa: il punto di vista, l’osservazione, l’attesa, la luce, la distanza dal soggetto, in dialogo e confronto con i partecipanti.
Il workshop è gratuito, con un numero massimo di 12 iscritti.
Iscrizioni: [email protected] (inviare mail di iscrizione dal 1° ottobre, specificando nell’oggetto ‘Workshop Todd’ e inserendo nel corpo della mail i propri dati anagrafici, il recapito telefonico e postale. Le iscrizioni verranno accettate in ordine cronologico e fino ad esaurimento posti).

Qui di seguito tutte le informazioni sulle due giornate pesaresi e su quella milanese del 12 ottobre.

Robert Todd Lost Satellite
Pesaro, lunedì 10 ottobre
ore 14/18 workshop con Robert Todd

Pesaro, martedì 11 ottobre
Sala Pasolini / Cinema Sperimentale Piazza del Popolo
ore 17.30 incontro con Robert Todd
ore 21.00 proiezione
Cathedral 16mm, 20’ / Slow rise 16mm, 7’ / Summer light 16mm,15’
Summer’s eve hd, 6’ / Riverside hd,14’ / Passing 16mm, 4’
Golden hour 16mm,16’ / Cove 16mm, 7’

Milano, mercoledì 12 ottobre
NABA Nuova Accademia di Belle Arti Via Darwin 20
ore 15/17 incontro con Robert Todd
O’ Via Pastrengo 12
ore 20.00 proiezione
Threshold 16mm,19’ / Repair 16mm,14’ / Antechamber 16mm,11’
Dew 16mm, 3’ / Fountains of youth 16mm, 20’ / Interplay 16mm, 6’
Free forms 16mm, 9’ / Falling 16mm, 6’

COMUNE DI PESARO Assessorato alla Bellezza
MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
a cura di Mauro Santini e Gianmarco Torri
con la collaborazione di Tommaso Isabella
media partners: filmidee.it - uzak.it
Info: [email protected] / milano: [email protected]


altSi potrebbe dire che Centro Historico è un film che si sviluppa su quattro capitoli-organi interni, ognuno  girato da un diverso grande regista (Aki Kaurismaki, Pedro Costa, Manoel de Oliveira e Victor Erice): si tratta, di fatto, di quattro micro film aventi ognuno un proprio titolo ma che insieme si riaccodano ad un nucleo centrale che è appunto: Centro Historico.

altHo spartito con i mortali un dono degli dèi; per questo fui inchiodato al mio destino.
Cercai la scaturigine segreta del fuoco che si cela nel midollo della canna, maestro d’ogni arte, via che si apre.
Questo fu il peccato di cui pago la pena inchiodato e in catene in faccia al cielo.
(Eschilo, Prometeo Incatenato)


altSono molti mesi che Anders (Anders Danielsen Lie), 34 anni, cresciuto da genitori progressisti, non fa più uso di droghe, anche un semplice bicchiere di birra pare un ricordo lontano, restano solo le sigarette. Sono i suoi ultimi giorni in un centro di disintossicazione nelle campagne fuori Oslo; dall’ultima seduta di gruppo emergono le paure di chi, come lui, si appresta a ritornare all’esterno, al mondo. Anders invece trattiene tutto; poche ore prima ha tentato di ammazzarsi in un lago, con giacca e braccia cariche di pietre, ma qualche istante dopo è riemerso dall’acqua a respirare. Questo, però, nessuno lo sa. C’è un colloquio di lavoro in città – per una redazione – che lo aspetta: scrive molto bene, ma non lo fa da anni. L’incontro va male a causa sua, ma quelle ore saranno soprattutto un ritorno, tra deambulazioni e fermate, a persone, luoghi, ricordi fondamentali della sua esistenza.


alt«Non siamo qui a rievocare un passato tanto glorioso quanto irrimediabilmente finito. Qui, a Palazzo Te, sotto lo sguardo esigente di illustri testimoni, che hanno segnato, confermandolo e rigenerandolo, l’arcaico patto tra antichi uomini e antichi cavalli, si celebra un rito a evocare il futuro».
GLF

A Mantova, a Pallazzo Te, è appena andata in scena La Cerimonia del Sé, spettacolo di teatro barbarico della Libera Compagnia di uomini, cavalli e montagne. Abbiamo incontrato, qualche settimana fa, Giovanni Lindo Ferretti, che di questa Corte Transumante è voce e parola.

alt«Uno dei più grandi misteri è il motivo che induce migliaia di persone a passare i loro fine settimana estivi in ex campi di concentramento guardando forni in un crematorio» (Loznitsa). Sintomo di un imperialismo che è guerra spirituale, il turista, privo di una reale consistenza corporea, è un fantasma ossessionato da rovine, in cerca di cultura, di spettacoli di una cultura: non è davvero lì, si muove attraverso astrazioni, defunte iconografie, raccogliendo immagini anziché esperienze, e la vacanza non è che una nuova miseria sulla miseria altrui (cfr. Bay).


alt«Le cinéma est un art d'une fantomachie, si vous voulez, et je crois que le cinéma quand on ne s'y ennuie pas c'est ça, c' est un art de laisser revenir les fantômes» (Jacques Derrida)








«E quando furono saziati, disse ai discepoli: “raccogliete i pezzi avanzati che nulla si perda”.»
Giovanni, 6:12






altÈ un movimento embrionale che sta per darsi mentre qualcos’altro è in procinto di giungere, il film di Alessandro Comodin; occhi aperti e in attesa, il tempo di una rincorsa e i I tempi felici verranno presto. Il plurale preannuncia un salto temporale, un varcare soglie e confini per ritrovarsi in età differenti che scorrono sempre in avanti, in un utopico futuro proiettato per aria.



altÈ possibile che la comunicazione avvenga attraverso i sensi di cui ogni uomo è dotato, tuttavia è possibile anche che questo non avvenga, che qualcosa non funzioni in chi comunica, in chi riceve il messaggio o nel tramite, la letteratura filosofica (e non solo) a riguardo è molto ampia. I punti di rottura di una comunicazione possono essere molteplici e ognuno di questi può non essere il solo.


altPierre e Manon si amano. Fanno dei documentari con niente e sopravvivono facendo piccoli lavoretti. Pierre incontra una giovane stagista, Elisabeth, che diventa presto la sua amante. Egli non ha intenzione di lasciare Manon per Elisabeth, ma vuole stare con entrambe. Un giorno Elisabeth scopre e rivela a Pierre che la sua donna ha un amante. Manon e Pierre si separano.

altSolo la famiglia può donarti la misura della tua crudeltà
(Antonin Artaud, I Cenci)


Citando Godard possiamo dire che La calle de la Amargura di Arturo Ripstein è al contempo un conte de faits (un racconto di fatti) e un conte de fées (un racconto fiabesco). È lo stesso regista a  convincerci di questa lettura quando dichiara: «Il mio film è tratto da una storia vera - un omicidio che fece scandalo in Messico nel 2009 -, ma questo non viene dichiarato. E non è un caso. Perché preferisco l’invenzione [...]. La realtà è un’occorrenza passeggera. La verosimiglianza è, ai suoi massimi livelli, eterna. E` questa la mia aspirazione. La storia, i personaggi, l’atmosfera, la struttura del film sono più veri che mai, perché pur essendo nati dalla realtà sono diventati, grazie al cinema, una meravigliosa finzione.»


altDeserto. Lo sguardo della mdp segue una traiettoria circolare che rivela il vuoto circostante. Nessun punto di riferimento, nessuna coordinata spaziotemporale: un limbo grigio impermeabile alla luce, un luogo opaco e misterioso. A un tratto, una voce metallica, marziana, cattura l’attenzione: un messaggio di rivolta si propaga nell’aria, diffuso tramite onde radio, trasportato dal vento: il mondo cui crediamo di appartenere in realtà non esiste. Le immagini che lo compongono celano il nulla. L’unica maniera per sopravvivere sta nel puro movimento.

alt“Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre...”


altUn americano a Parigi, ma Vincente Minnelli è lontano. Brady Corbet è l’attore, il corpo, il racconto, il vuoto che potrebbe  essere atterrato, poniamo, da un set di Harmony Korine,  o di Gaspar Noé, di Gus Van Sant. Ed è per il regista Antonio Campos, classe 1983, il volto perfetto, unico, come già lo era stato Ezra Miller nel suo Afterschool (2008). Mentre Simon Killer (2012) è solo il titolo di un film, un’approssimazione, una bugia. Una eventualità, o meglio l’ambiguità perfida del cinema, dell’inquadratura che c’è, dell’inquadratura che manca. Perché il film stesso si pone come realtà falsata, inturgidita, un effetto, fittizia nervatura thriller, mette in scena l’erosione, un realismo fallimentare che pedina le figure ma che non può più dire.


altNon è tanto per contarsi – forse meglio sarebbe dire contemplarsi – in quanto italiani se, contravvenendo al fastidio avverso a ogni forma di patriottismo festivaliero, provo a proporre una prospettiva italiana dall'ormai lungo ritorno da Cannes 69. Il fatto è che, lontano dai riflettori della competizione, il cinema italiano che ha praticato la Croisette quest'anno sembra offrire, nel bene e nel male, un quadro un po' insolito rispetto ai turgori autoriali che, sempre nel bene e nel male, ci accompagnano al Festival. Cannes 69 è stato per gli italiani il festival delle incertezze, delle deviazioni dalle calligrafie autoriali che pure amiamo. Tutto ha viaggiato su una proficua fragilità, su una disfunzionalità che coinvolgeva prassi filmiche, definizioni caratteriali, linee narrative, osservazioni e contemplazioni.


altDestatisi dalla visione di Cemetery of Splendour, si resta con l'impressione che forse la narcolessia che ha colpito i soldati nel film sia molto più pervasiva, che una malia tropicale abbia preso ciascuno di noi; una sindrome astenica che si manifesta con l'atto stesso del vedere e che ci induce a percepire ogni cosa che vediamo, anche la più raccapricciante e più prossima a noi, come uno spettacolo che non ci riguarda e dinanzi al quale non ci sentiamo chiamati ad avere alcuna reazione.


alt«Il Purgatorio è un transito. Un passare. Uno sconfinare. E Napoli – come ci ricorda Enzo Moscato – è sempre stata una città di profondi sconfini. Non soltanto architettonici [...]. Si potrebbe dire che Napoli è un’espressione, non tanto metaforica, ma proprio fisica, concreta, della purgatorialità».

altTempo e corpo, figura dell’assenza

Quella di Hou Hsiao-Hsien è un’immagine che si muove per mancanze, per assenze, va e viene lungo l'annerimento di gallerie e barbagli antelucani (Dust in the Wind), che ritornano (Goodbye South, Goodbye); scorre attraverso lumi e fumi d’oppio, tra battiti di palpebre (Flowers of Shanghai) che assopiscono la luce. Fluisce notturna, cadenzata da neon che fuggono dentro gli occhi, voltati a scrutare in volto lo scorrere lucente del tempo nel breve e lacerato tempo della carne, dando vita ad un’immagine discontinua, a salti1, per poi dissolversi, cadere nel buio (Millennium Mambo). Sono queste cadenze (dell’immagine) a lenire (e desiderare) la ferita della luce, come se fosse l’immagine a guardare, a battere le sue palpebre, ad annullare le distanze che separano luoghi e tempi, e a ricongiungere l’incessante vagare dei corpi, smagati ma desideranti per viali, paesaggi ed epoche Taiwanesi.

altSalpato da un porto di luccicanze, crepuscolo elettrico, cigolante già il proprio non essere più, la propria evanescenza accesa nel tremolio dei fari, Dead Slow Ahead è ecosistema di galleggiamento, di deriva, protratta avaria in acque morte. Vive in una massa, un’inerzia d’acqua-tempo stagnante nonostante il moto ondoso che si vede dagli spiragli dell’inquadratura: mare aperto e spume, fino a banchi d’acqua colloidale, che si muovono lentamente in una plaga bianca, come intima ossessione, lo slow, dello sbaraglio del mare.

alt

Al loro spirito che aleggia, ad arte.

Cosa urge? È la domanda che tormenta «tutti quelli che si chiedono».
Cosa è Urge? Teatro, cinema o la domanda stessa che azzera il verbo per eccellenza.
Urge l’impossibilità di dire e di rappresentare uno qualsiasi tra i sensi se contemporaneamente accade di annegare e di asfissiare nei barconi o nel recinto che definisce la pericolosità di un essere. L’essere umano immerso in questa vastità c’entra quanto tutto il resto, che sia sogno o reale/leale, il suo voto è una para opinione (un letterale paradosso), la possibilità di una conoscenza alternativa. Scrivere di questa urgenza indicibile equivale ad assumersi il rischio della caricatura, perché la narrazione smagliata di Bergonzoni e la prospettiva multipla di Rodolfi si negano ostinatamente ad ogni interpretazione.


altSembra quasi che - nel cinema di Philippe Cote - l’occhio vaghi dentro uno spazio che ha fatto del tempo la propria estensione, un tempo che fa da sfondo al fondo dell’immagine: un movimento accelerato che diventa curvatura, torsione brulicante nella grana della superficie materica, dell’immagine che affiora dal proprio supporto, la pellicola.


altIl movimento perpetuo della macchina culla il sonno dei passeggeri, gli spazi onirici che divagano tra le immagini che scorrono nel finestrino e i pensieri che si riflettono come le immagini nel vetro. Gli occhi di una bambina affrontano il passaggio con il sonno, la bocca si apre e il respiro diventa ritmico, ci si lascia cullare al di là dei paesaggi che la macchina attraversa.

fragil

«Terrore di amarti in un posto così fragile come il mondo
pena di amarti in questo luogo di imperfezione
dove tutto ci spezza e ammutolisce
dove tutto ci mente e ci separa».

Sophia Mello Breyner Andresen


 


altDi passaggio da Milano, per la promozione italiana di Le mille e una notte distribuito in sala da Milano Film Network, siamo riusciti a incontrare Miguel Gomes. Del film, di cui già abbiamo detto in forma di frammento e pensiero in occasione dell'anteprima allo scorso festival di Cannes, torneremo a parlare, diffusamente, sul prossimo numero della rivista. Intanto, qui di seguito, l'intervista, da cui comunque partiranno le prossime letture che vi proporremo.

alt«La questione al centro di Heart of a Dog è: che cosa sono le storie? Come sono fatte e come sono raccontate? Dall’inizio alla fine mi ha guidato lo spirito di David Foster Wallace, il cui “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” è stato il mio mantra.»



Starlet. Si chiama così il suo cagnolino, anche se è maschio ma non importa. Una starlet è lei, che muove i primi passi e il suo corpo lungo e magro tra i set losangelini del porno con il nome di Tess Steele.






alt«Io non sono mai stato innamorato, sono stato solo malato.»
(A. Ż.)


Naturalmente di tutti quei rovesci votati all'annientamento – a quello stato insomma che si fa cadavere dell'altro, nevrosi – ora non resta che una pallida risonanza. E quel che pareva essere rapacità per l'osceno, per il mostruoso, secrezione, mutilazione, bestiame, ora qui è candore.

alt«L'assurdo è la lucida ragione che constata i suoi limiti»
(Albert Camus)

Edgar, da sempre cameriere di un decadente ristorante, è infelice. I suoi giorni si avvicendano sempre uguali tra sofferenze e umiliazioni: sua moglie è malata e lo tradisce con il dottore, i clienti lo insultano e malmenano, la sua amante possessiva lo perseguita. Decide dunque di bussare alla porta dello “sceneggiatore”, colui che sta (ri)scrivendo la storia della sua vita.


altNel segno di membra implose, di prigioni della carne, si apre lo schermo di Antonia su L'ombre di Rodin ed è subito specchio, epifania, dialogo impossibile fra due anime già rassegnate all'immobilità, alla tragedia. La statua e Antonia Pozzi, fanciulla in fiore colta nelle tormente adolescenziali, nell'apparente semplicità dei suoi sedici anni: famiglia, risate argentine con le compagne di scuola, studio “matto e disperatissimo”, bagliori d'amore, nelle segrete del suo animo dove accarezza desideri, afflati, sogni di culla e nell'austerità sconfinata della pagina bianca che affida una voce, con afflato quasi religioso, al suo pensiero.


altThe Assassin è un film che fa male in questo suo farsi lama sottile e spietata: il taglio che genera è un batter di ciglia che capovolge lo sguardo, il mondo risucchiato nelle orbite per farsi di piombo.





alt

Tutto ciò che ho praticato finora, lo chiamo opera
d’amore…
Medea sono adesso,
cresciuta è la mia natura
grazie alla sofferenza.

(Seneca, Medea)

 



altL'infinita fabbrica del Duomo di D'Anolfi e Parenti racconta la secolare costruzione del Duomo di Milano, iniziata più di sei secoli fa e non finita nel Novecento, dal momento che, pezzo dopo pezzo, il Duomo è ad oggi sottoposto a un continuo lavorio di restauro.
Nel film si narra anche come sia stato il popolo il vero fautore dell'edificazione, non solo attraverso il lavoro delle braccia, ma anche con le sue donazioni. La bellezza di una chiesa affranca infatti il lavoro dall'utilità cui è legato: se per il mondo della produzione il lavoro è una merce che deve essere sfruttata per l'utile, per il mondo della gloria, invece, la ricchezza ha ragion d'essere solo per cantare la magnificenza del divino e per mettere in contatto, attraverso la realizzazione di opere inutili e in pura perdita (come l'edificazione di un tempio, per l'appunto), il popolo con la divinità.


altCome sostiene Tommaso Isabella «Il cinema di Ben Rivers si è sempre mosso sapientemente sulla soglia incerta tra finzione e documentario, nell’intervallo che sta tra intuizione e costruzione» (Isabella). Un posizionamento interstiziale scelto per problematizzare lo statuto dell'immagine, e che rappresenta una delle questioni chiave attraverso cui poter provare a leggere e interpretare molta parte del cinema contemporaneo.

alt

“- La sopravvivenza è divenuta immortalità, l'eternità si è sostituita al tempo, dopo un millennio di balbettii, l'umanità è pervenuta a inventare l'anima immortale tra il primo doppio e la prima anima la differenza di struttura mentale è assai considerevole... Abbiamo appena considerato le società che ignorano: la prima, il nostro sentimento di destino; la seconda, il nostro sentimento della nascita; la terza, il nostro sentimento dello scambio; l'ultima, il nostro sentimento della morte. Tra gli uomini di cui abbiamo appena parlato e il Greco, l'uomo gotico e noi stessi, cosa c'è di comune?

alt

“Esther, tu existes tellement fort, comme une montagne.
Moi, c’est comme si mon existence ou le monde qui m’entoure tremblotait.
Alors, ça me rassure.
Que tu veuilles de moi ou non, je m’en fiche.
Si tu existes, ça veut dire que je ne suis pas enfermé dans un rêve.
En toi, à tes pieds, je dépose ma croyance.”

(da una lettera di Paul a Esther)

 


altMr. Zhang Believes del cinese Jionjiong Qiu è ulteriore, eccedente conferma di un cinema che riflettendo sulla stringente, ottusa contingenza (nelle cui pieghe si sedimenta l'enunciato politico, civistico, etico), non può fare a meno di riflettere su se stesso, sulle proprie possibilità di essere rispetto al tempo; di riflettersi come dispositivo di inerzie, attriti, parvenze che trovano linfa nella storia (verso cui cerca la massima rispondenza), pur destrutturandola in eco, cicaleccio, intreccio di scene riverberanti (di oscurità e voci, canzoni) in un teatro di posa, quale luogo di composizione ed elezione dell'opera, cioè una sorta di “gioco del mondo”.


altNon c’è dubbio che il cinema di Francesco Dongiovanni sia tutto concentrato nella riflessione abissale sul tempo e non c’è dubbio che questa riflessione, travalicando se stessa, investa gli spazi di una memoria sconosciuta per lasciarli riemergere come microcosmi residuali di un’interiorità misteriosa.


altI connotati sono quelli del delirio di tipo kafkiano, non stereotipo, ma radicato alla sostanza ruvida delle cose: dati concreti di fondo, ma amplificati a dismisura, fino a creare un universo in cui la regola è l’eccesso e l'aporia; non una soluzione dei fatti nutriti dalle cose, ma una dissoluzione continua degli eventi; accensione di eventi che si perdono nella continuità audio-video.


altPegaso, l’Orsa Maggiore, il Dragone, Andromeda… Jay Cavendish è questo: un ragazzo di 16 anni di ricca famiglia che osserva disteso il cielo notturno e le sue costellazioni,  che fa della sua pistola una matita per tracciare da lontano la Cintura di Orione, prima di ripensare ancora a lei, a Rose, contadina,  prima di addormentarsi sul terreno di una terra straniera.


altSolo il corpo ferito esiste
J.B.

La grammatica è una macchina splendente, riflettente, raggiante (che poi la macchina, lo strato veloce, la sezione lamierata, specchiata è sempre, ad esempio: nell'abuso fotografico di porzioni d'alluminio, di riflessi obliqui su automobili lustre, e membrature, e interstizi cromati. Quindi abitacoli, telai, portiere angolate... e nel vetro, nel mezzo, prospettive e cruscotti di luce, lazzi di fori, schizzi e cavità in finiture. «Tutti i termini erotici sono tecnici e il godimento è mediatizzato tramite un apparecchio tecnico, attraverso una meccanica, e si riassume in un unico oggetto: l'automobile»[Baudrillard, 2010]. Questo vuol dire che una nuova edilizia spaziale, un nuovo stato metabolico sgorga dalla macchina, e che nelle sue periferie si situa il nuovo sangue).

alt«In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte» (Nietzsche, Frammenti Postumi)

La realtà è probabilistica, non è determinata a priori, il ruolo dell'osservatore è quindi cruciale. Ogni essere vivente osserva se stesso e il mondo (probabile) che lo circonda; osserva i mutamenti e le circostanze: così facendo presuppone che il suo reale non sia universale, che il suo sia un percorso individuale in un senso unico di marcia costellato da spazi numerati ma ripetuti infinite volte. Questi rappresentano le possibilità di variazione del suo cammino e ad ogni bivio è come se l'essere si scindesse in due storie probabili esistenti, simultaneamente, allo stesso tempo.


alt«Aspettiamo che la luce vada via».
Nell’attesa di cui il film si compone, il regista è soggetto-oggetto iperbolico della visione, incluso nell’inquadratura fissa che (lo) contempla e che procede in apparente assenza di direzione; al centro della scena, l’incarnato vivente della sua immaginazione: Lee Kang-sheng è contemporaneamente l’amante confidente, l’interrogato muto, l’oggetto attuale della visione e la proiezione ancora possibile. L’attesa immobile nella luce equivale alla parola detta (di Tsai) e a quella mancata (di Lee), è l’evento puro che non si vede e che, non essendo subordinato al risultato, fa a meno dell’azione1.


Gli uomini di questa città io non li conosco: eppure Scaldati, come Maresco, sembra conoscere benissimo gli uomini, che siano o meno di una determinata città, regione o nazione. Nel dire di non conoscerli si riflette piuttosto una dichiarazione di distanza, voluta e al tempo stesso subita, che una minoranza pone nei confronti della maggioranza.

altLuccica, il nero. La Folie Almayer si apre così, dentro una musica (wagneriana) dispiegata nella piega arancia delle acque, nel buio arcano della notte e nell’apparente immobilità del fiume. Il buio come presentimento sul limite dell’acqua, tenebra conradiana ai confini del mondo. Lì, nel mezzo, c’è la casa di Almayer, luogo di sospensione, di messa in dubbio, di assenza. Almayer si è perso nel desiderio, perso in un luogo che non gli appartiene ma che in qualche modo lo tiene ancora stretto.

altDel che cosa sia, alla fine, il desiderio per un corpo, Wakamatsu ne ha fatto visione e immagine sino al limite attraverso il quale il corpo scompare. Nella sua produzione, terminata nel 2012 a causa di un incidente, il finale è etereo, in Hotel Blu Kaien tutto ruota attorno all'immagine pura di un corpo, il corpo di Rika, donna immagine, appunto, priva di parola e di volontà che aleggia in virtù degli spettri che da sempre invadono il mondo letterario e cinematografico.

alt«Takes a teen age riot to get me out of bed right now»
(Sonic Youth – Teen Age Riot)






alt

Comme le feu,
l’amour n’etablit sa clarté
que sur la faute e la beauté des bois en cendres.

(Philippe Jaccottet)

 

 

 

 

altÈ nel continuo palesarsi di un’ombra, nel suo espandersi attraverso gli spazi vuoti eppure quasi claustrofobici delle stanze e dei locali, della notte riversa sul cemento dei palazzi, dei corridoi deserti di un ospedale, che David cerca, con tenera inconsapevolezza, di uscire dal bozzolo buio della sua adolescenza.



alt

E vi è un punto fosforoso dove si trova tutta la realtà,
ma cambiata. Un punto d’utilizzazione magica delle cose.
(Antonin Artaud)

 

 

 


alt«Mar Nero, 22 giugno 1939. Cara mamma, sul mare fa freddo ed è grigio. È cosi bello viaggiare lentamente e vedere l’Europa trasformarsi impercettibilmente in Oriente». La voce è quella di Irène Jacob, i pensieri, gli occhi, il tempo, la vita, sono della ginevrina Ella Maillart (1903-1997), chiamata “Kini”, partita su una Ford Cabriolet quell’estate insieme svizzero-tedesca Annemarie Schwarzenbach – un’amicizia forte, anche difficile, con la zurighese che forse nutriva anche qualcos’altro, un bisogno soprattutto – alla volta dell’Est.


alt

Così immediate le rovine
Da assomigliare alla certezza dell’amore.

(Vladimir Holan)






altQuale peso incunea i sensi sino allo sgretolamento? E quale l'elettricità che scossa, squassa e conclude macerando?
In Haemoo le forme umane si brutalizzano catatoniche, precipitano in una perdita di coscienza, rovesciano in abusi di sangue. Nei muscoli una paralisi malata, nel cuore un moltiplicarsi di crepe: si attraversa il disordine e si giunge all'immondo. Diretto da Shim Sung-bo, basato sulla strage del 2001 della Taechangho, il film registra la traversata verso la Corea del Sud di un equipaggio di pescatori alle prese col trasporto, e la conseguente morte per asfissia di 25 immigrati.


altSembra quasi di non vederla Arianna mentre vaga per le strade di un’isola lontana, assente nella mappatura geografica del mondo. Sembra quasi il fantasma (e lo è) di un mito che rievoca il suo nome - Arianna -, anima perduta in una ferita che torna continuamente a sanguinare.


È difficile resistere alla tentazione di contrapporre all'attuale fantasmagoria di film di fantascienza un mockumentary di Fedorchenko di dieci anni fa, Primi sulla Luna: contrapposizione che vedrebbe da una parte la seriosità dei blockbuster (troppo costosi per non prendersi, appunto, sul serio) e la leggerezza di un piccolo capolavoro ironico (di un'ironia tutta “sovietica”, mista a cinismo e sentore di morte).


alt«Pareva di muovere in un mondo di fantasmi / E di sentir me stesso l'ombra di un sogno» (Alfred Tennyson)







È una ricerca espressiva sempre più radicale quella del cinema di Tsai Ming Liang che fa della lontananza il centro focale della visione. Lontananza dal grande schermo, mantenendo una promessa che aveva fatto sobbalzare qualche anno fa, e dai contesti originari ai quali sorprendentemente ritorna.




alt«Sei un uomo? Io credo di sì». Jauja di Lisandro Alonso è la ricerca che parte da questa domanda, come ritaglio di forme che cercando, si perdono nel paesaggio «Dove stai andando? È lontano?» la risposta non può che essere non lo so, per la natura stessa della ricerca, così come il credo di sì non può che essere dubitante, sfumato nel paesaggio stesso, materia priva di sostanza, eterea, onirica.

alt

Cominciamo dalla fine. La didascalia conclusiva che compare nei titoli di coda di Alleluia ci informa che quello che abbiamo visto è «Liberamente ispirato alla storia vera di Martha Beck e Raymond Fernandez» celebrati dalle pagine di cronaca nera come i “killers della luna di miele” o “gli assassini dei cuori solitari”: «due amanti – come li racconta Márquez negli Scritti costieri – che forse, durante il fidanzamento, non sfogliavano nostalgiche margherite come i protagonisti dei romanzi romantici, ma scaricavano un mitra contro le pareti di casa ripetendo il classico ritornello: “M'ama, non m'ama...”» (Márquez 1998).



altLe immagini favolose di Métamorphoses di Christophe Honoré godono di un’aura fortemente cinematografica poiché, come ci ricorda Pavese per bocca di Leucotea, gli dèi non sono altro che il luogo, la solitudine e il tempo che passa; e, dopotutto, cos’altro mostra il cinema se non l’apparire dell’essente non come essere ma come divenire?

 

 

altDa qualche parte nel Texas, in un tempo sospeso, anni Settanta probabilmente. Ruth e Bob (Rooney Mara e Casey Affleck) avanzano in un quadro pittorico perfetto, simmetrico. Le fronti a sfiorarsi, i passi di un’unica cadenza, e i poliziotti, uno per ciascuno di loro, a dividere le loro strade. Perché il crimine, tra Ruth e Bob, non è un mero dettaglio. Si sono arresi dopo un conflitto a fuoco con la polizia che ha ucciso il loro compagno, mentre Ruth ha ferito un agente (Ben Foster): Bob si prenderà tutta la colpa, la sua donna è incinta, ma tornerà da lei – le assicura –«Aspettami e basta, va bene?», le dice prima di essere separati chissà per quanto.  Il sentimento d’attesa pervaderà tutto.

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La grande illusione

 

Per chi decide di percorrere il Sunset Boulevard in tutta la sua lunghezza, da Downtown fino all’Oceano, all’apparenza di un andare morbidamente oscillatorio – un mondo parallelo dove si susseguono a perdifiato quartieri opposti e cangianti, grandi come città che sembrano appartenere a universi agli antipodi – dovrà lentamente rivedere la prima impressione e fare i conti, al contrario, con l’incanto inerte di una memoria troppo solida per essere vera. Qui piuttosto comincia la discesa nel vuoto, qui si dipana una malinconia lontana, con nel fondo un tramonto bruciante, di altrettanto intatta avvilente bellezza.


alt«Il y a le stable et l’instable, l’immobilité et le changement» (Eric Rohmer)




 


 


alt«Hai paura di tuffarti nella sorgente plasmatica. Hai paura di essere distrutta e ricreata, vero? E scommetto che pensi di averla risvegliata tu la mia carne? Ma tu della carne conosci solo i precisi canoni della società; non riesci a penetrare le antiche paure, il terrore malsano della carne. Bevi a gran sorsate. O rinuncia. [...] Parlo della penetrazione oltre il velo della carne».
(Seth Brundle, La Mosca)


alt«La lunga notte piena degli inganni delle varie immagini.»
(Canti Orfici, Dino Campana)






Nel prefilmico di Boxing Gym sembra esserci una domanda: come funziona una palestra? Domanda che di volta in volta può essere declinata, nella cinematografia di Wiseman, a seconda del luogo in esame nel film – un manicomio, una caserma, un grande magazzino, una palestra, un'università. Luogo che fatalmente, durante la visione, riconosciamo come eminentemente cinematografico (quanti film abbiamo visto ambientati in un manicomio o in una caserma, in un'università...), tant'è che la domanda di partenza diventa: come funziona questo luogo chiamato cinema?

«Viva il soldato che disubbidisce a un ordine criminale». 
(Anatole France)


Quando la disubbidienza ostinata e silenziosa si oppone all’ovvietà della Storia rischia la resa inevitabile a uno sconosciuto destino o l’incontro tra le rovine al centro della terra.

altCos'è Simone Weil? Comprenderne l'essenza non è un comprenderne lo spazio interiore, è arrivare ad una possibilità di “cosificare” il soggetto. Capire chi è Simone non è sufficiente, bisogna arrivare a capire cos'è. È la ripetitività del ritmo: gli attimi di silenzio tra i singoli rumori che si alternano.





altIl vero viaggio di scoperta
non consiste nel trovare nuove terre,
ma nell'avere nuovi occhi
Marcel Proust









altParigi, un piccolo appartamento, un uomo e una donna.

«Nella bocca che vuole da
un’altra bocca
il miele che nessuna estate può
maturare […]
Nell’angoscia dei corpi
che non si trovano
Urta, tardi.»

(Yves Bonnefoy)


Bird People fa dello spazio, dell’umanità, dell’assenza, l’inquadratura da cercare, una relazione da individuare, una geometria possibile, la parola e il gesto da trovare tra silenzi e voci di sottofondo, in mezzo a pensieri che scivolano come flussi, fiumi di dati su computer, cellulari, sugli schermi perennemente  connessi.


altA volte capita di essere colti di sorpresa da un'immagine, magari entrando in una chiesa o in un rudere scalcinato: crediamo di aver visto o di poter vedere tutto, nella quotidiana tempesta di percezioni che ci avvolge come una selva indistinta, ma dinanzi all'epifania dell'inconsueto non possiamo che rimanere straniti, come se avessimo aperto gli occhi per la prima volta.



«Si ode a sera lo stridio dei pipistrelli.
Due morelli saltano sul prato.
L'aceto roso fruscia.
Al viandante appare la piccola osteria.
Delizioso il vin nuovo con le noci.
Delizioso: vacillare ebbro nel bosco che si oscura.
Tra i rami neri suonano campane tristi.
Sul viso goccia la rugiada».

(Georg Trakl)


“Educazione sentimentale”: la disamina di un titolo è sempre un po’ sospetta, capziosa, e chi la conduce rischia di svilire e disanimare il film. E però è difficile sottacere dell’effetto di straniamento causato dalla giustapposizione tra il temine “educazione” e il cinema sovversivo e dirompente di Julio Bressane, autore che dagli esordi degli anni Sessanta ha fatto della propria “maleducazione” (intesa come refrattarietà al rispetto delle convenzioni cinematografiche) l’unica regola da seguire in modo integerrimo.


altSi dice che su uno degli scudi che formano il carapace della vegliarda e possente tartaruga cosmofora sia ritratto, con dignità divina, somma e maestosa, il volto di Manoel de Oliveira colto nell’atto di pensare. La bella fronte, corrugata e arcana, sotto il profilo fisiognomico ci dice che Colui conosce il Mistero e i suoi araldi, ed è capace quindi di sublimi vette e di ime profondità.


alt«A metà percorso tra West Egg e New York l’autostrada raggiunge bruscamente la ferrovia e la costeggia per quasi mezzo chilometro come per evitare una zona desolata. È la valle delle ceneri: una tenuta fantastica dove le ceneri crescono come il frumento, creando alture e colline e giardini grotteschi; dove la cenere assume la forma di case coi camini e il fumo che ne esce, e infine, con uno sforzo di fantasia, di uomini grigio-cenere che si spostano confusamente e già in via di disfacimento nell’aria polverosa. Di quanto in quando una fila di carri ferroviari grigi arriva strisciando su una rotaia invisibile, emette uno scricchiolio spettrale e si ferma; e subito gli uomini grigio-cenere sciamano con le vanghe di piombo, e sollevano una nube impenetrabile che nasconde le loro operazioni misteriose» (Il grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald)


Abacuc è l’ultimo figlio di quella stirpe terremotata che ha il proprio capostipite in Innocenti Totò, padre della catastrofica progenie di anime in pena (flatulenza tellurica eruttata dalle macerie di una realtà postuma, detritica) trovata e inventata da Cinico Tv.





«Mi fissai d'allora in poi in questo proposito disperato: d'andare inseguendo quell'estraneo ch'era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell'uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere.» (Pirandello, Uno, Nessuno e Centomila)


alt(letto su una rivista di moda, in attesa dall'oculista)

«Non so quante diottrie per occhio manchino a Jean-Luc Godard. Potete vederlo levarsi o indossare gli occhiali per leggere un foglio, oppure guardare nel mirino di una macchina da presa (e/o di una telecamera). Come mette a fuoco un miope? E uno strabico? (mettiamo le mani avanti: chi scrive ha sofferto di astigmatismo).


altDopo l'apoteosi fantasmatica, metempsicotica (serie di corrispondenze, congiunture orarie tra Parigi e Taipei), e metatemporale, per una cognizione del tempo tutta cinematografica, “a orologeria” di What Time Is There?; svegliatasi dal sonno pesante, acqueo (quando il peso della valigia, come quello dei materassi di I Don't Want To Sleep Alone, attraversa il quadro e l'acqua da sinistra a destra, e trascorre in galleggiamento, dimenticanza, sogno), Shiang-Chji si ritrova dentro la dura verità di The Skywalk Is Gone, biascicata da un vigile che cerca di multarla nel frastuono della città, sotto il sole acuminato della tarda mattinanata, e il vario, indistinto formicolare sui marciapiedi.


«Non c'è dentro, né spirito, né fuori o coscienza, nient'altro che il corpo così come lo si vede, un corpo che non cessa di essere, anche quando cade l'occhio che lo vede. E questo corpo è un fatto». (A. Artaud)





alt«Così pieno e traboccante d’anima e in generale così strutturato e determinato dalla partecipazione affettiva, il cinema risponde a dei bisogni […] quelli di ogni immaginario, di ogni fantasticheria, di ogni magia, di ogni estetica: quelli che la vita pratica non può soddisfare. Bisogno di sfuggire a se stessi, e cioè di perdersi nel mondo esterno, di dimenticare il proprio limite, di meglio partecipare al mondo e cioè in fin dei conti di sfuggire a se stessi per ritrovarsi […] di essere maggiormente se stessi, di elevarsi all’immagine di questo doppio che l’immaginario riflette in mille vite».
(Edgar Morin, 1982)


Alberi è una cineistallazione di Michelangelo Frammartino, proposta, dopo la presentazione al MOMA PS 1 di New York, in anteprima italiana all’edizione 2013 del Filmmaker Festival all’interno del cinema Manzoni, storica sala milanese, chiusa dal 2006, riaperta per l’occasione. Alberi «è un lavoro che riflette sulla natura delle immagini e che interroga lo spettatore sulla pratica della visione».

altL’espressione di un volto o le pieghe del deserto hanno in comune – nel film di Bartas – la stessa frequenza cardiaca interna. Dune dalle crepe del vento dove ogni spostamento d’aria produce uno scardinamento maggiore degli spazi, degli angoli degli occhi allargati e allagati ma ancora così claustrofobici.




altJames Franco, dopo essersi misurato con As I Lying Dying, altro grande romanzo faulkneriano, riparte dal capolavoro The Sound and the Fury, da Benjy e da quel lamento che prova a dire il tormento indicibile dell'esistenza prima di spegnersi nell’odore malinconico dello stramonio.

 


Camille Claudel 1915 è nei volti. Chiusa in un manicomio poco dopo la morte del padre, dopo la fine della sua relazione con Rodin, Camille Claudel osserverà se stessa sino alla morte in un contorno di urla, pianti e disperazione. Parlare di Camille Claudel 1915 di Dumont è parlare della scultura, dell'arte. «Il suo è un cinema che rigetta il senso compiuto e sterile, che, immune a semplificazioni, rifiuta grumi tematici e ridicole considerazioni intellettuali» (Sangiorgio, Baratti, 2012, p. 57).


Il quindicenne Gary cerca di affrancarsi da un padre violento e alcolizzato, capace di compiere qualsiasi mostruosità. Trova aiuto e protezione in Joe, un uomo duro, solitario e devoto al suo lavoro. La loro è una lotta per la sopravvivenza nell'ostile terra del Texas.







altRitorno a Itaca. Perché se l’Odissea novecentesca delle ideologie è fatalmente giunta alla fine del suo viaggio, non resta che rifugiarsi nel Mito, nel regime del puro immaginario, tornando a casa dopo sedici anni per fare i conti con chi è rimasto.



Abbandonata dal suo fidanzato, Adèle, depressa e svuotata, va a vivere da sua cugina Rachel. Per dimenticare Mathieu e ritornare a vivere, le raccomanda Rachel, deve incontrare altri uomini…






altAbel Ferrara s'aggira per Mulberry Street, una delle vie principali di Little Italy, che è stata location di alcuni dei suoi primi film, vagabondando per gli stand in corso di allestimento per la festa di San Gennaro, che dura dieci giorni: questa potrebbe essere la trama. Eppure, nessuno degli elementi appena nominati è l'oggetto del film.



alt«[…] in casi di questo tipo, la scoperta del dettaglio che "significa", più che offrire la prova di una perspicacia analitica da parte di colui che osserva il quadro, offre la prova di una efficacia propria di quella pittura in cui il dettaglio è stato pensato come esca per lo sguardo, punto di cattura. La potenza di un’esca del genere si misura dal fatto che la fissazione sul dettaglio induce lo sguardo a cercare qualcos’altro rispetto a ciò che il dipinto mostra.
Così crediamo di essere freudiani, perché siamo incuriositi da ciò che non si vede […]» (G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale)

«Una nuova mitologia si presenta
proprio nelle propaggini mature della modernità […].
Il mezzo che richiama alla ribalta nuovi mitologemi
di una società ormai avviata verso il suo divenire-massa […]
è il cinema».
(Karl Marx, Per la critica dell’economia politica)


altQuesto è il luogo delle mute cose

Sabato 26 aprile 1986. L'umano comincia alla fine di una settimana di fatica, con un’esplosione e una nube che arriva dal cielo, fumi tossici e tinte fosche a sgomentare l'infanzia. Chernobyl più che il nome di un luogo fisico, è la definizione della minaccia aerea, un terrore impalpabile che si insidia nella pelle e modifica il respiro. È l’ombra nera che arriva di notte per portare via dai sogni, un voto alla terrestrità, la fuga furibonda e la perdita improvvisa di un celeste fondamento.

 

men-horses-729-620x349L'immagine di un uomo la si riconosce dal profilo, dai movimenti, dalle parole. L'immagine di un cavallo la si riconosce dal profilo, dai movimenti. Se l'uomo tace e se il cavallo si ferma, l'uomo e il cavallo si ritrovano ad essere, davanti alla vita, la stessa identica cosa.


Cytaem blokadnuju knigu, “leggendo il libro dell’assedio”, l’Assedio di Leningrado. Questo il titolo e il soggetto letteralmente affrontato da Sokurov. All’interno d’una sala di registrazione persone di diversa professione, età, coinvolgimento con l’argomento trattato, si alternano al microfono per leggere pagine di diario di chi visse in prima persona quella tragica esperienza durata dal settembre del 1941 al gennaio del 1944, che conta, solo di civili, un milione di morti.


altNel suo celebre saggio dedicato allo studio dei colori, Goethe propose uno dei primi esemplari di “cerchio cromatico” (in inglese color wheel) dove «i colori in esso diametralmente opposti sono quelli che nell’occhio si richiamano reciprocamente. Così il giallo richiama il violetto, l’arancio l’azzurro, il porpora il verde, e viceversa. Così anche le gradazioni si richiamano reciprocamente, il colore più semplice richiama quello più composto e il più composto quello più semplice» (Goethe 2013, p. 33). Incuriosisce il fatto che il secondo lungometraggio del giovane americano Alex Ross Perry, intitolato appunto The Color Wheel, sia stato girato interamente in bianco e nero, su pellicola 16mm. Dove sono i colori?


Un corpo si muove nello spazio. Traccia traiettorie, misura con i passi la durata di uno sguardo, ma soprattutto prende coscienza di che cos’è un territorio: un’intelaiatura di segni, una struttura che si appropria dello spazio e, attraverso i nomi dei luoghi, (questa è l’Algeria, di là Marsiglia, in mezzo il mare e la speranza di incontrare un marinaio che ti porti via) ne definisce il senso.


alt«E poiché a causa della pienezza del mondo tutto è connesso, e ciascun corpo agisce su ciascun altro corpo, piú o meno a seconda della distanza, e per reazione ne viene modificato: ne deriva di conseguenza che ogni monade è uno specchio vivente che si rappresenta l'Universo secondo il proprio punto di vista».
(Leibniz)


altC’è un che di rassicurante nel sapere che dopotutto, dopo tutti i passivi nichilismi e cinismi di certo cinema mitteleuropeo, vaghi per l'Europa una nuova generazione di registi entusiasti e malinconici, ironici e lirici allo stesso tempo, smodati soprattutto rispetto ai canoni di equilibrio iconico-narrativo che vigono nel cosiddetto cinema d’autore; capaci di reinventare non solo la propria tradizione mediterranea, ma anche quella più dialetticamente europea, almeno a partire dalla comune base cogitante illuminista e arrivando a un postmodernismo che, fuori da citazionismi a sé e dentro la rianimazione e la mutazione della carne letterario-cinematografico-musicale, si presenta come l'unica forma di umanesimo possibile, anche contro certi richiami all'ordine realistico (io direi più che altro, descrittivo-mimetico) di cui s’è letto qua e là nei mesi passati.


Durante gli anni della guerra in Corea, gli ufficiali della RAF Bill e Percy rimangono in patria nel campo d'addestramento per formare le nuove reclute. Tra soprusi e minacce dei propri superiori, impareranno quanto può essere dura la vita militare anche senza stare in trincea.



 


«I met my love by the gas works wall/Dreamed a dream by the old canal/Kissed a girl by the factory wall/Dirty old town/Dirty old town.»
Non dirò mai a nessuno della prima volta che andai al cinema. Del buio, della prima luce – fiat lux, e fu la luce, e fu il mio nome. Una volta, una giovane artista disse di non riuscire a vedere un film per intero nel suo scorrimento, del suo dover alzarsi, andarsene e poi tornare. Perché, come sentiva Fassbinder, «i film liberano la testa», ma imprigionano il cuore. E non voglio, non posso, che grazie a quella luce le altre ombre presenti in sala vedano la testa libera, il cuore imprigionato e il vero volto.


alt«Penso che se il diavolo non esiste, ma l’ha creato l’uomo, l’ha creato a sua immagine e somiglianza» (I fratelli Karamazov, Fëdor Dostoevskij)

L’impiegato di un ente governativo, Simon, (ri)vive le stesse giornate sentendosi costantemente fuori dal suo corpo («come Pinocchio è un ragazzo di legno, non vero»). La sua frustrazione partorisce un doppio, un dostoevskijano Sosia (lo script è basato sull’omonimo romanzo) che è, allo stesso tempo, suo opposto.


Nostalgia luzIl deserto di Atacama, in Cile, è una grande porta sul passato: il clima arido e secco favorisce il lavoro degli archeologi, mentre la trasparenza del cielo aiuta gli astronomi a sondare l'enigma dello spazio celeste. Sempre nel vasto deserto, alcune donne vanno alla ricerca di quel che resta dei corpi dei loro compagni, i desaparecidos del regime Pinochet. Patricio Guzman, con Nostalgia de la luz, film poetico e struggente, torna a raccontare il suo Paese, avvicinando il cinema alle stelle, perché, il cielo, si sa, condivide irrevocabilmente il medesimo spazio di una pellicola: il passato.

alt«Quel giorno, vedendo le braccia congelate del ragazzino sul sedile della macchina, avevo capito che la sfortuna era venuta a farci visita. E noi ce l’eravamo legata ben bene sotto i piedi, come un blocco di cemento. Avevamo preso la decisione in assoluto peggiore: scappare. Misi in moto la decrepita Dodge Fury ’74 di mio fratello e via».
(The Motel Life, Willy Vlautin)

Love_Exposure_S_Sono_2009_3Yu è un ragazzo che fotografa mutandine di ragazze per commettere peccati da confessare al padre, prete cattolico che ha preso i voti dopo la morte della moglie. È lo spunto da cui parte la lunga corsa di Love Exposure, vero film-exploit di Sono Sion, in cui religione, erotismo e grottesco convivono e si mescolano in vorticosa quiete.


Esiste nel cinema di Claire Denis uno sguardo (quello della macchina da presa) che comprime i volti e i corpi, che non li lascia da subito sfiatare; esiste cioè una contrazione fisica iniziale che è tensione emotiva, a bloccare il corpo stesso, quello di un padre e di una figlia, corpi presenti che si toccano, si prendono per mano, mangiano insieme ma che ancora non hanno visto un punto di fuga, lo sfogo, un cambio di direzione (che in Trouble every day coincideva, ad esempio, con l’atto cannibale, il sapore del sangue, e qui è esigenza di ritornare alla vita reale, all’amore) e si preannuncia nell’attrito del tram che si sfrega con queste due esistenze trattenute nell’affetto famigliare, nel vuoto di un padre che ha perso sua moglie e di una figlia che gli resta amorevolmente accanto: una vita ovattata in cui l’uno protegge l’altro ma che si scortica un po,’ come la fine del giorno, quando Lionel torna a casa dopo aver osservato un cielo che fila i colori, scorrendo nella calma serale mentre lui guida un tram.


Murielle e Mounir. Lei è belga, insegnante, lui un marocchino accolto anni prima in Europa dal dottor André Pinget, a cui è molto legato. Sono giovani Murielle e Mounir, si innamorano, si amano, lei va a vivere da lui. La sua casa è quella del medico, sono in tre. La coppia si sposa e ha dei figli, la casa diventa più stretta, così come gli spazi di libertà di Murielle. Cambia lei, cambia Mounir, cambiano casa (ancora col dottore, da cui dipendono economicamente), ma soprattutto diventa sempre più inquietante e morbosa la presenza continua di Pinget. Mounir è sempre più succube di lui, Murielle sempre più isolata, svuotata, persa.


below-sea-levelIn una base militare dismessa, con un poligono di tiro ancora in funzione, a 190 miglia da Los Angeles e 120 piedi sotto il livello del mare, c'è una comunità che vive senza poliziotti, pompieri, governo, elettricità, acqua...
[didascalia iniziale del film]





Un uomo – passato dai tempi lontani dell’alcolismo a una vita più ordinata, più vicina al volere di Dio – muore. Ha avuto sette figli maschi da due diverse donne. Tre, da una parte, ancora non gli perdonano di averli abbandonati e continuano a odiarlo. Gli altri quattro figli, invece, continuano ad amarlo. Il suo funerale segnerà l’inizio di una violenta faida fra i due gruppi.


Jia Zhangke raccoglie una serie di interviste ad alcuni testimoni a riguardo di eventi significativi accaduti durante gli anni delle Rivoluzione Culturale cinese. Come spazio comune viene scelta Shangai, ma le traiettorie delle diverse vicende attraversano anche Hong Kong e Taiwan.



MudArkansas. Due adolescenti in cerca di avventura, un misterioso fuggitivo e la sua donna. Tre destini che si incrociano sullo sfondo di un fiume che fa da protagonista come silenzioso testimone di segreti, ansie di fuga, promesse d'amore e speranze di salvezza.




pequenoNell’area del Riobamba, sulle Ande ecuadoregne, un cane e un cavallo sono gli “attori” unici di un’opera lirica sull’amore.







altUn gatto parlante chiuso in gabbia scandisce il tempo di un'attesa. I suoi padroni, Sophie e Jason, hanno trenta giorni a disposizione per cambiare la propria vita di coppia. Tra ordinaria quotidianità e desiderio di voler essere qualcun altro, il destino è affidato ai poteri magici di Jason...



«Un suono non deve mai venire in aiuto a un’immagine, e un’immagine non deve mai venire in aiuto al suono […] non bisogna che immagine e suono si prestino man forte, ma che lavorino ognuno a sua volta in una specie di scambio continuo». (R. Bresson)




alt«E il Signore Dio disse:
“Non è bene che l’uomo sia solo:
voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”»
(Gen. 2, 18)

Lee Kang-sheng / Denis Lavant: iridescenti dioscuri protagonisti di percorsi cinematografici che ne hanno fatto incarnazioni fantasmatiche di quella che Bauman, ad esempio, definisce società dell’incertezza, o modernità liquida. Figure proteiformi che superano la logica dell’identità nel senso di una moltiplicazione dei processi di identificazione; chiamati a rappresentare «il mondo attorno […] tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati – abitato da -  vite […] frammentate in una serie di episodi mal collegati fra loro» (Bauman 2003, p.4).


alienationUn uomo è alla guida di una macchina d'epoca e sta per attraversare il confine. È un greco di oltre cinquan'anni. È diretto in Bulgaria, per comprare un bambino. Per poter contrabbandare il neonato, Jorgos ha allestito nel bagagliaio dell'auto uno scomparto segreto mascherato da serbatoio di gas. Il bambino non è ancora nato: il greco lo aspetta in una casa isolata di montagna insieme alla madre, suo fratello sordomuto e l'ostetrica. La nascita avviene durante una notte di tempesta.
[dal sito delle Giornate degli autori]


altAttraverso il finestrino di un’automobile in corsa, un fotografo riprende il paesaggio circostante. Le immagini del video barcollano assecondando la strada sconnessa. Apparentemente, un comune “filmino di viaggio”, un punto di vista registrato e riproducibile, un personale e privato home video. A un tratto, un gregge di pecore occupa lo spazio della ripresa; l’occhio meccanico della telecamera s’ipnotizza e quel flusso di animali si trasforma, si astrae, si stacca per divenire qualcos’altro: immagine. Prima ancora dell’immagine video/cinematografica, però, è l’atto stesso dello staccarsi, del separarsi, che qui, e altrove, nel cinema di Atom Egoyan, assume rilevanza decisiva.


Les rencontres daprès minuitÈ mezzanotte. Cuori solitari, in conflitto con se stessi o con la propria personalità pubblica, raggiungono una misteriosa casa hi-tech nel buio, per partecipare a un rito di lussuria e riconciliazione. Accolti da un maître sui generis, le anime si svestono delle loro disperazioni per ritrovarsi in un’orgia di mezzanotte, dove ogni confessione diventa storia fantastica. Un'occasione di ristoro dal dolore, nell'attesa di sapere se all'alba tutto sarà diverso.
[Dal catalogo del MFF]


Nella periferia di Taipei, al Fu-Ho, un cinema prossimo alla definitiva chiusura, si proietta, in una notte di pioggia sferzante, un wuxiapian del 1967, dal titolo Dragon Inn. Tra gli angusti corridoi, i sottoscala, i magazzini, i bagni di questo fatiscente edificio, si muoverà un corteo di spettri, un’erranza di fantasmi, un vagare di sonnambuli come mossi dai ricordi puri del sogno e del contatto umano.


de la guerre11Dopo una notte passata accidentalmente dentro una bara, Bertrand, regista e uomo in crisi, si sente cambiato. Ora vuole ricercare il piacere, il senso di sé, e si ritrova  ben presto a far parte di una misteriosa “setta”.






0012d214 mediumUn ambiguo collezionista di film "maledetti" e rari commissiona a uno scout la ricerca di un film leggendario, creduto distrutto. La ricerca si rivelerà pericolosa e misteriosa, segnata da enigmatiche bruciature di sigaretta.

 



ndIncroci, rimandi, omaggi: Hong Sang-soo sfiora i confini di un luogo per entrare in un altro tempo, si colloca in mezzo a quel cinema francese che è stato, tra gli altri, di Rhomer e che svela dei personaggi succubi di un inganno, di una trasparenza opaca della vita, di un desiderio inconscio e che è un conflitto interiore e morale.


ertoErto, un paese delle Alpi friulane. Nella sua valle impervia viene costruita alla fine degli anni Cinquanta la diga del Vajont, all’epoca la più alta del mondo. Nel 1963 un versante del monte Toc precipita nel lago artificiale della diga, provocando un’ondata che uccide quasi 2000 persone. Dall’altro lato della valle, di fronte a quel monte, gli Ertani non hanno mai smesso, prima e dopo la catastrofe, di mettere in scena la Passione di Cristo. Ogni anno, da tempo immemorabile, la sera del venerdì santo un Cristo ertano viene tradito, condannato e crocifisso, mentre la Storia va avanti con le sue costruzioni e distruzioni, le sue vittime e i suoi sopravvissuti, i suoi calvari reali e immaginari.
(dal sito ufficiale del Festival di Locarno)

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Un bus in miniatura attraversa le strade del South Bronx prima di finire schiacciato sotto le ruote del n. 66 (quello vero). L'“incidente” prefigura l'infrangersi del Sogno contro la Realtà.






02La scrittrice di successo Taeko sta scrivendo il suo ultimo romanzo (una storia macabra nella quale si intrecciano sesso e violenza familiare), quando viene avvicinata dal misterioso Yuji, un ragazzo che sta in realtà indagando sul passato della donna.





Electroma2Parafrasando i Daft Punk: Electroma è un robotico videoclip che cerca in tutti i modi di trasformarsi in umano cinema. È la tragedia di due macchine autocoscienti che fallendo nel tentativo di farsi umane decidono di distruggersi in un deserto rosso di gusvansantiana memoria.



Una sperduta centrale termica dismessa in Siberia, un edificio fatiscente, dai muri scrostati, immerso nelle lande desolate, coperte di ghiaccio, un paesaggio rarefatto ed estremo. È il maniero di un uomo dal volto coperto perennemente da una maschera di cera, che passa il suo tempo a riempire gigantesche lavagne di formule matematiche e fisiche, immerso in teoremi e principi astratti. Capace di masturbarsi calzando delle scarpe femminili rosse dai tacchi a spillo ed esclamando “Plutone!” al momento dell'orgasmo. Tre nani dotati di poteri paranormali, telepati – comunicano tra loro con il pensiero, senza aprir bocca – sono incaricati della missione di raggiungere quella vecchia cattedrale nel nulla e di impadronirsi furtivamente della cosa più preziosa in essa custodita: la distanza. A ciò si aggiunge un barile fumante, in grado di parlare, sempre in via telepatica, in russo ma anche in giapponese.

 les-eclats-ma-gueule-ma-revolte-mon-nom

Calais, Nord della Francia. Migranti che aspettano di riuscire ad attraversare la Manica, conquistare la traversata, raggiungere l'Inghilterra. Nel frattempo si tengono lontano dalla polizia. Attendono, si lavano, fumano, si nascondono, si scaldano mentre raccontano della fatica, dei soprusi e delle loro identità travolte.

[dal catalogo del Torino Film Festival 2011]



maelstromDurante una piovosa sera d'estate, Bibiane, giovane donna di 25 anni, con la sua auto investe un passante che attraversa la strada. Spaventata, fugge. L'uomo va a casa e si spegne serenamente nella sua cucina. Ma la vita di Bibiane non impiega molto tempo a trasformarsi in caos quando incontra Evian, un uomo bello e molto loquace, che non è altri che il figlio dell'uomo che è stato investito.

[dalla sinossi ufficiale del film]


alt«So in this great disaster of our birth
We can be happy, and forget our doom.»
(George Santayana)






Leonardo Gregorio

The-Passage-promo6Ana ha appena scoperto che il suo cancro è terminale. Jack è da poco uscito di prigione ed ha disperatamente bisogno di soldi. Harold viaggia in autostop all'inseguimento della sua passione. Non hanno nulla in comune oltre a non avere nulla da perdere. Per questa ragione e per un paio di bigliettoni i tre incominciano un viaggio insieme...

[dalla brochure del film]


Rafael e sua sorella aspettano a casa una madre che probabilmente non tornerà più. È un mondo orfano quello narrato dal portoghese João Salaviza, saturo di chiaroscuri (come la fotografia, in questo caso di Tjasa Kalkan) e di zone franche da battere. Figure familiari del tutto assenti o separate dai figli dalle sbarre di un carcere (vedi il padre immigrato di Cerro negro), bambini e adolescenti in balìa di se stessi e di un destino più grande di loro, perché i genitori - purtroppo - non si scelgono.


germanLa spedizione di un gruppo di scienziati sul pianeta Arkanar, praticamente una copia della Terra, ferma al medioevo. Devono agire in incognito per cercare di favorire il progresso della popolazione locale e salvare gli intellettuali dalle persecuzioni, senza però commettere violenze o uccidere. Ma uno degli osservatori, Don Rumata, si spinge oltre…


pas-de-repos-pour-les-br-ii02-gTre ragazzi si inseguono, si cercano fra loro, invertendosi spesso i ruoli, in uno spazio senza coordinate reali, fino a incrociarsi, forse, nel sogno. Un incubo ossessiona uno di loro: l'arrivo del penultimo sogno, quello che precede la morte...





kotoko«Ma certo. Che ne potete sapere voi? Avete mai sentito il suono di un violino? No. Perché se aveste ascoltato le voci dei violini come le sentivamo noi, adesso stareste in silenzio, non avreste l'impudenza di credere che state ballando. Il ballo è... è un ricamo... è un volo... è come intravedere l'armonia delle stelle... è una dichiarazione d'amore... Il ballo è un inno alla vita».

Il prefetto Gonnella in La voce della luna (Federico Fellini, 1990)


Drug-WarMing, cinico trafficante di droga, si schianta in auto contro un negozio dopo l’esplosione del suo laboratorio dove si fabbrica eroina. Si salva la vita, ma ha la moglie e il cognato bloccati dentro la fabbrica. Lei, funzionario di polizia intelligente e attento, prova a rintracciare gli altri criminali offrendo a Ming l'opportunità di ridurre la pena detentiva. Ming decide di aiutarlo, tradendo tutti i suoi fratelli, ma all'ultimo minuto... Un viaggio all’interno del labirinto di mafia e traffici illegali, il primo film cinese che osa parlare apertamente di droga.
[Dal catalogo del Festival Internazionale del Film di Roma]


Nell'eterna ricerca della bellezza, risuonano le parole pronunciate da Renoir, nel film, immerso nella luce, di Gilles Bourdos: «Il dolore passa, la bellezza resta». La vita di Pierre-Auguste Renoir (Michel Bouquet) non è narrata, non c'è nemmeno la vita di Jean Renoir (Vincent Rottiers), il regista secondo figlio del pittore francese, non è narrata la vita della modella Andrée (Christa Théret), ma c'è un passaggio, la consegna di un testimone dalla pittura al cinema, un testimone fatto della stessa sostanza: la luce.


LINCONSOLABLEDopo Femmes entre elles, un altro Dialogo con Leucò.









storyFiction: quanto è frutto della fantasia e dell'inventiva, contrapposto a quello che fa riferimento a eventi reali. Non Fiction: Solondz.





michaelMichael è un giovane assicuratore modello con un orrendo segreto da nascondere. Nessuno lo scopre, almeno fino a quando la madre non scende nello scantinato della sua abitazione. Una porta blindata la separa da una verità che ci pone davanti alla “iper-normalità” dell'abiezione umana.



Phil-Spector 1L’avvocato Linda Kenney Baden rappresenta la difesa nel processo di condanna per la morte Lana Clarkson. Il suo cliente, incriminato in seguito alla telefonata del proprio autista che lo ritiene responsabile dell’uccisione della ragazza, è Phil Spector, tra i più importanti produttori discografici statunitensi.

 


hukkle3Hukkle è una parola onomatopeica che imita il singhiozzo. È il singhiozzo di un uomo anziano che scandisce come un metronomo il ritmo dell’esistenza di un intero piccolo universo rurale, autosufficiente, composto da microcosmi altrettanto autosufficienti. Tra questi, quello degli uomini toccato da morti misteriose, tra loro collegate da un apparentemente innocuo scambio di bottigliette che passano di mano in mano tra le anziane donne del paese.

aita

Aita è la successione di svariate inquadrature fisse intorno e all’interno di una vecchia villa basca del Tredicesimo secolo, disabitata e morsa dal logorio del tempo, ereditata dal regista Josè Maria De Orbe. Un anziano custode se ne prende cura estirpando i rovi abbarbicati sulle persiane, rigovernando il giardino, tarantolando da un corridoio ad un altro e da una stanza all’altra nell’avvicendarsi di buio e luce.


DONO Post VSUn vecchio e una ragazza (una ritardata, una santa, una puttana?); Caulonia e il tempo che pare essersi arenato come una nave lungo una spiaggia; poi un dono, inatteso come un miracolo, e dalla cromatura come quella del cielo.

 

 

 


large 270402L'influenza o dell'inesorabile precipitare di una donna che perdendo il lavoro si impone l'autoesclusione dal mondo, abbandona le abitudini, dimentica i figli e sé stessa.

 

 

 

 


o somma luce«O somma luce che tanto ti levi / da' concetti mortali, a la mia mente / ripresta un poco di quel che parevi, / e fa la lingua mia tanto possente, / ch'una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente; / ché, per tornare alquanto a mia memoria / e per sonare un poco in questi versi, / più si conceperà di tua vittoria».
(Dante, Paradiso, Canto XXXIII)


birdsongI re magi vagano per il deserto alla ricerca del Salvatore. Non c'è una cometa che li guidi, solo un angelo ogni tanto appare. Durante il riposo, per far passare il tempo, si raccontano quel che hanno sognato. Lungo il cammino si accorgono di aver sbagliato strada, tornano indietro, girano attorno a una montagna, si accovacciano su un dirupo. Forse, sembra suggerire uno dei tre, si potrebbe andare sulle nuvole e farsi trasportar da loro.


KARBEYAZ 001Hasan percorre chilometri di strada innevata per vendere Ayran, per sfamare i suoi fratelli. Altre vite gli fanno da spalla: la madre, un forestiero, un uomo che soffre di mal d’amore, un padre che non c’è e uno scenario bianco come la neve.



beyondUn cantante di pansori adotta due giovani per farne una coppia artistica di successo. Dong-ho si innamora della sorellastra, Song-hwa.








Leviathan«Le trame dei film sono l'oppio del popolo. Viva la vita com'è!» Džiga Vertov









quartier-lointain-24-11-2010-5-gThomas Verniaz è un disegnatore di fumetti francese senza più ispirazione e con una famiglia che sente lontana. Un treno sbagliato lo porta nel suo paese natale dopo 25 anni di assenza. Colto da malore, sulla tomba della madre, si ritrova nel luglio del 1967 nel suo corpo di quattordicenne. Tenterà di cambiare il passato, impedendo al proprio padre di abbandonare un giorno moglie e figli.


THE BAY 1Chesapeake Bay, Claridge, 4 luglio 2009. La Festa dell’Indipendenza invade la piccola cittadina, stand, barche, parate, gare di cibo stanno per occupare ogni spazio e ogni momento della luminosa giornata, mentre la giovane reporter Donna del canale locale WVBR cerca di realizzare un reportage dell’avvenimento. Pian piano, però, alla gioia e al calore della festa si sostituisce l’orrore e il caos: una strana forma di epidemia virale inizia a colpire la gente del posto e un numero altissimo di pesci viene ritrovato morto nelle acque della baia. Tre anni dopo il disastro, Donna ricostruisce quanto avvenuto…


bressane«È disteso su sette colli altrettanti luoghi da cui godere esaltanti panorami, il vasto, irregolare e multicolore insieme di case che costituisce Lisbona. Per il viaggiatore che arriva dal mare, Lisbona, anche da lontano, si erge come un’affascinante visione di sogno, contro l'azzurro vivo del cielo che il sole colora del suo oro. E le cupole, i monumenti, i vecchi castelli si stagliano sopra il turbinio di case, come araldi lontani di questo luogo delizioso, di questa regione fortunata».


Ixjana[Presentato nella sezione "Bright Future" dell'International Film Festival di Rotterdam]

Lo scrittore esordiente Marek viene accolto nella villa di un importante, quanto eccentrico, editore, che lo riceve durante una festa in costume, vestito da re con tanto di corona ed ermellino. Gli comunica che pubblicherà il suo romanzo e Marek festeggia dandosi alla pazza gioia in quel baccanale stravagante alla Eyes Wide Shut, ubriacandosi e dimenticando ogni cosa. Ma il suo migliore amico Arthur è rinvenuto cadavere in quello stesso party e Marek è tormentato dal cercare di ricordare cosa sia successo anche con l'atroce dubbio di un suo eventuale ruolo in quell'omicidio.


Eternal_Homecoming[nella sezione "Signals" dell'International Film Festival di Rotterdam dedicata a Kira Muratova]

C'era una volta un re, seduto sul sofà... Come la famosa filastrocca che si può ripetere all'infinito, così è l'ultimo film di Kira Muratova, Eternal Homecoming. Un uomo va a trovare una vecchia amica per confidarsi sulla sua situazione sentimentale di difficile soluzione: è nel pieno di una liaison con un'amante, ma al contempo vuole ancora molto bene alla moglie. Quale scegliere? La domanda non ha risposta nel film ma innesca una, potenzialmente infinita, riproposizione della stessa.


su_re1[In concorso alla 42a edizione dell'International Film Festival Rotterdam]

Opera seconda per il filmmaker di Nuoro Giovanni Columbu, dopo Arcipelaghi (2001). Come in quel film il regista partiva dalla polifonia narrativa del romanzo di Maria Giacobbe, di cui peraltro spezzava la linearità del racconto, così in Su Re mette in scena la passione di Cristo riproponendola quattro volte, basandosi ogni volta su uno dei Vangeli canonici che l'hanno testimoniata, mettendone così in luce differenze e discrepanze.


4Jack goes boating
. Jack va in barca. Non come Robert Louis Stevenson, lo scozzese malaticcio che girava il mondo da un sanatorio all’altro facendo leva sulla sua malattia – sfruttandola – per placare la sete di corsa e di vita, tanto da arrivare nel 1880 a biasimare profondamente gli inglesi per il disprezzo che provavano per le storie avventurose; no, piuttosto come Jerome K. Jerome, altro figlio della Britannia – e non è un caso: l’Impero Britannico non si reggeva forse sulla trinità albionica composta dalla regina Vittoria, il golden standard e la Royal Navy? –, precursore di uno dei massimi paradigmi della società moderna, il tempo libero e il viaggio turistico, le zone d’ombra illuminate dalla sottile e indolente ironia di Tre uomini in barca.


nocheUn uomo prossimo alla pensione segue, nel Cile attuale, le lezioni di francese di Jean Giono, racconta alla radio di quando, da bambino, andava al cinema con Beethoven e ricorda i lunghi tramonti dorati in compagnia del temibile pirata Gamba di legno. Nel frattempo, un'oscura trama di assassini incrociati avviluppa il suo presente...


macauUna telefonata di Candy, splendida “puttana” meticcia, certa, dopo la morte di un carissimo amico, di essere la prossima vittima, riporta, a distanza di 30 anni, João Rui Guerra da Mata a Macao. Un viaggio che crede lo farà tornare indietro nel tempo, ai giorni più felici della sua vita. Ma lì non trova più alcun punto di riferimento, la trasformazione ha cancellato qualsiasi traccia della colonizzazione. La città è una quinta barocca, ché  non cessa di modificarsi e cambiare forma sotto i nostri occhi.



liverpoolLisandro Alonso con
La libertad (2001), Los muertos (2004), Fantasma (2006) e Liverpool (2008) rivoluziona, in appena sette anni, il linguaggio cinematografico argentino, rompendo con la tradizione e accordandosi alla visione del nuovo corso già intrapresa da Pablo Trapero, Lucretia Martel, Martin Rejtman, Celina Murga ecc.

 


Marfa-GirlTra le sterminate praterie del Texas, in territorio di Frontiera, adolescenti e non praticano quotidianamente sesso. E violenza. Dal sedicenne Adam che è fidanzato con la coetanea Inez ma va al letto con la vicina di casa più grande Donna. Al rude poliziotto Tom, la cui morbosa fissazione per la famiglia del ragazzo sfocia nel sangue. Un giorno si insedia nella comunità locale una giovane e affascinante artista che, come una maledizione, a poco a poco semina il germe del peccato...


innocence2Un collegio femminile, un parco recintato e lo sviluppo di tre ragazzine in bilico tra giochi d’infanzia e l’opportunità di diventare adulte. Il mistero dell’innocenza e il desiderio di perderla.





fitoussiAntoine esiste a giorni alterni. I giorni di esistenza sono occupati dalla presenza insostenibile del vuoto che verrà. Imprigionato in un presente senza legami, non possiede passato né immagina un futuro diverso dall’attesa che dilata le ore. Un giorno d’esistenza incontra Clementine e la percezione del vuoto svanisce finché gli mancherà lo spazio del ritorno.


IL_FIUME_A_RITROSO_jolandaL’acqua scorre trasportando con sé altre immagini, come quelle dei versi della poesia In quale bosco di Pierluigi Cappello: «Dove hai incontrato/te stesso in chissà quale bosco dei miei occhi/quando ti sei voltato e mi hai detto, Dio, quanto sole/così lontano, diverso, quanto ad uno ad uno i giorni/stringono il cuore e separano». Dove le parole: bosco, occhi, giorni, cuore, si seguono e si inseguono, nel loro incontrarsi, stringersi, separarsi. Proprio come le immagini del cinema di Mauro Santini, e del suo ultimo film Il fiume, a ritroso, che si incontrano, si stringono, intrecciandosi, e si allontanano, separandosi, perdendosi, per poi ritrovarsi, ancora, nel sapore delicato dei gesti e degli sguardi che si ripetono nel tempo che ci attraversa.


TargetRussia 2020. Tre uomini e due donne della ricca borghesia moscovita giungono al Target, un luogo sperduto dell'ex URSS, le cui radiazioni hanno la proprietà di dare l'eterna giovinezza. Ritornati a Mosca insieme a un'abitante di un villaggio vicino il Target, scopriranno che la loro percezione dell'esistenza è mutata in modo irreversibile e tragico.


TwixtJohn Baltimore nel "bel mezzo del cammin di sua vita si ritrova  per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita". Una dimensione onirico-allucinatoria, avvolta nelle classiche nebbie del gotico vampiresco, squarciate da fiammeggianti fluorescenze. A guidarlo all’origine dei propri spettri, per poterli rendere reali e trasformali in strumento per dare spiegazione del reale, il primo fra i poètes maudits, Edgar Allan Poe.


bes_vakit_immTerre meravigliose venute fuori dal movimento millenario della Terra, raccoltesi in guglie e torri di roccia, tengono in seno un piccolo villaggio dai sentieri pietrosi, palpitanti, custodi di storie, speranze, amori e rancori di tre piccoli ragazzi e delle loro famiglie.




kisekiDei bambini partono alla ricerca del punto più alto da cui guardare l’incrocio dei treni a una velocità che realizza miracoli.







Straub_LE-STREGHEIn un bosco, Circe dialoga con Leucò intorno alla sua relazione con Odisseo, uomo che non comprendeva il sorriso e che non voleva farsi né maiale né dio.






alamarNatan è il figlio di due genitori separati che vivono in due realtà separate, l’Italia e il Messico. Alamar è il viaggio di un bambino alla scoperta e ricerca della propria casa. È lo splendido racconto della vicinanza tra padre e figlio prima di tornare ancora una volta a una separazione, all’assenza.


storieswetellSarah Polley indaga tra i segreti di una famiglia di cantastorie: scherzosamente interroga un cast di personaggi più o meno affidabili, provocando risposte piacevolmente schiette, ma perlopiù contraddittorie, alle medesime domande. Mentre ognuno riferisce la propria versione della mitologia familiare, i ricordi attuali si trasformano in fugaci apparizioni nostalgiche di un passato movimentato e divertente e delle ombre che si celano sotto la superficie.

 dansUn uomo torna a Strasburgo per ritrovare una donna conosciuta sei anni prima in un bar della città.





 


sanzimei_05In un villaggio di montagna dello Yunnan, provincia cinese sudoccidentale, vivono insieme al nonno tre sorelle. Le bambine raccolgono tuberi, preparano il pastone per i maiali, mangiano riso e verdura, sfangano gli stivali, accompagnano le pecore al pascolo, riempiono le gerle di sterco e lo ammonticchiano in una casupola. Dopo tanto tempo ritorna il padre per portare via con sé le due figlie più piccole in città, dove ha trovato un'altra donna e un altro lavoro. La maggiore resta al villaggio per badare al nonno e continuare a studiare in una scuola lercia quanto la baracca in cui viene raccolto lo sterco.


secretosUn uomo politico cileno in esilio ritorna in patria per riportare un frammento di verità riguardo la storia del suo paese. Una volta arrivato innesca un gioco di rivelazioni a catena, una sorta di telefono senza fili attraverso il quale si perdono e si confondono verità e menzogna.

 


Bi-mong.DreamJin sogna avvenimenti che poi scopre essere divenuti reali, verificatisi nella maniera e nei luoghi prefigurati nel sonno. Solo che, nella realtà, protagonista di questi accadimenti (angosciosi, dolorosi, delittuosi) non è lui bensì una ragazza, Ran, sonnanbula, che compie le azioni al posto suo, mentre lui le evoca in sogno. I due, sconosciuti l'uno all'altra, sono accomunati dall'essere entrambi reduci da relazioni sentimentali finite poco tempo prima.


O_Fantasma_2000_Fantasma_O_2Sergio è vittima di un desiderio sempre più indefinibile. Cerca di soddisfarlo in un interminabile girotondo di anonimi incontri sessuali. Una notte incontra il ragazzo dei suoi sogni e la sua vita ne è sconvolta. Lo spia, penetra nella sua casa, rovista nella sua immondizia. Rifiutato, cerca rifugio nei rifiuti. È solo. Non appartiene più a questo mondo.



Tatarak-Wajda-PALUCH2Durante le riprese di Tatarak, Krystyna Janda scopre che il marito, Edward Klosinski, collaboratore dello stesso Wajda, è gravemente ammalato. Il lavoro al film (il cui soggetto è tratto dal celebre dramma di Jaroslaw Iwaszkiewicz) coincide con la perdita di Edward.
Nel film Krystyna è Marta, una donna ammalata di cancro che incontra il giovane Bogus dal quale si sente irresistibilmente attratta e che perderà tragicamente. L’arte e la vita finiscono inevitabilmente per intrecciarsi in un film parzialmente recitato, in un racconto totale sul fluire.


Wuthering_HeightsWuthering  Heights è una folata di vento: è il ricordo che decolla a pieni polmoni e dai rami sbatte contro il vetro di una finestra. Bussa forte finchè Heatcliff non lo lascia entrare, mentre sbatte la testa contro la parete, riempiendo la superficie di tutti i sensi, di una materia sospesa, pulviscoli o immagini di un’infanzia e di una terra mai dimenticata: dissolvenza.


Alps_5_Lanthimos_bodyQuattro attori creano un’agenzia, Alpeis, con la quale si offrono come avatar (nel senso proprio di reincarnazioni in forma diversa) di persone morte, vengono ingaggiati da tutti coloro che non riescono a superare un lutto e insieme ai loro clienti ricostruiscono scene di vita passata. Dall'assenza dei corpi originari emerge l'essenza irreale del sistema delle immagini capitalistico.  


les-amours-imaginaires-7-gL’utopia del ménage à trois, gli amori impossibili. Xavier Dolan raccoglie e rivisita gli occhi tristi, le teste basse, i baci rubati di certo cinema francese nella personale e narcisistica veste omosessuale.





dolan«Più tardi si vedono le cose in modo più pratico, pienamente conforme con il resto della società, ma l'adolescenza è il solo tempo in cui si sia imparato qualcosa». Avrà modo di capirlo Hubert, 16 anni tormentati dall’odio, vissuto come una vera e propria dannazione. Perché principio e fine di ambascia e rancore è la propria madre, per lui una pericolosa  antitesi nociva.

elenaElena, un’ex infermiera, ha sposato Volodja, un borghese più vecchio di lei ma molto più ricco. Lei ha un figlio, Sergei, indigente e indolente, che le ha dato due nipoti e che campa con i soldi che sua madre gli passa di nascosto; lui ha una figlia, Katya, viziata e probabilmente sterile, che vive sola. L’equilibrio che hanno raggiunto si spezza quando Volodja ha un infarto.


red_stateTre compagni di scuola scovano un annuncio online di una 38enne in cerca di sesso facile. Insieme vanno da lei, ma in realtà si tratta di un’esca per catturare ragazzi colpevoli di lussuria, da punire sull’altare di una setta ultrareligiosa e conservatrice…




lola_filmUn ragazzo è stato ucciso; un altro è stato imprigionato perché sospettato di omicidio. Sepa, la nonna della vittima, cerca dei soldi per il funerale; Puring, la nonna dell’assassino, cerca dei soldi per pagare la cauzione per il rilascio. Tra le baracche di una Manila dimenticata dal mondo, le vicende di questa umanità minima si incontreranno per soccorrersi e riconoscersi nel divenire indifferente che le sovrasta.


un-lac-10Alexi è un taglialegna e vive all’interno di un bosco innevato con la sua famiglia. Alexi è innamorato di sua sorella Hege ma l’arrivo di uno straniero romperà gli equilibri intorno al lago.






lionHerzog esplora la Chauvet Cave, una caverna nel Sud della Francia, nella quale sono state dipinte le più antiche immagini che siano mai state ritrovate: figure di cavalli, rinoceronti e leoni risalenti a 35mila anni fa sembrano rianimarsi per effetto del 3D.







FLOR_1«Alzai gli occhi e vidi…» Dove non siamo stati. Lo sguardo scivola lentamente tra le ante socchiuse di un balcone. Una veduta. Spiraglio di aria e di luce. E si posa sui riflessi azzurri delle acque del mare, su cui, un attimo dopo, si prende a scorrere, cullati dalle onde che ripetono la loro nenia urtando contro lo scafo della nave.


Hors_Satan_defLe gars è un vagabondo, un uomo al di là del bene e del male. Elle è una ragazza che lo segue fedelmente tra i sentieri della Costa d’Opale, luogo dei loro devoti pellegrinaggi. Bruno Dumont, giunto al settimo lungometraggio, sembra riallacciarsi alle dinamiche del lavoro più sperimentale e defilato della sua filmografia: Twentynine Palms. Ma l’infelice pellicola presentata a Venezia quasi dieci anni fa è uno scialbo ricordo. Il registro è cambiato, le idee appaiono più solide: siamo, probabilmente, davanti al capolavoro del regista francese.


la_terre_abandoneeLa guerra civile nello Sri Lanka è colta in una pausa surreale che fa da sfondo alle vicende di esseri parziali rappresentati nella quotidianità di una vita senza aspettative. Abolito il mistero, il vento solo muove nella desolazione. 





ne_change_rienJeanne Balibar non è solo straordinaria interprete del miglior cinema francese (Desplechin; Assayas; Honoré; Le Bosco; Rivette), ma anche cantante. Pedro Costa la segue esibirsi in questo percorso artistico parallelo. Una serie di concerti con il gruppo di Rodolphe Burger in Francia ed in Giappone, ma anche lezioni di canto lirico per interpretare la Périchole di Offenbach. Termine di riferimento è One plus one di Godard. JLG è una sorta di presenza/assenza nel film: in una canzone è la sua stessa voce, campionata da Histoire(s) du cinéma, a ripeterci «ne change rien pour que tout soit différent».


rua-aperana-52Attraverso le tre sezioni in cui si divide il film (fotograma, fotodrama, fototrama), Julio Bressane rievoca i luoghi che hanno contrassegnato la sua filmografia.






attenberg_1Marina ha 23 anni e insieme alla sua amica Bella decide di avvicinarsi al genere umano (come in quei documentari sugli animali di David Attenbourgh) e in particolare al sesso fino ad allora tenuto a distanza con l'aiuto della sua amica/rivale Bella. Intanto assisterà alla lenta morte di suo padre, Spyros ( malato terminale) in una Grecia uggiosa e decadente.


silent-lightAleggia qualcosa di ineffabile e fuggevole in queste lande spopolate messicane, al di là dell’accorata vicenda umana: un sussurro tra gli alberi, un respiro a rasentare l’erba dei campi, l’incessante frinire al trascolorare di una luce silenziosa ed eterna che una mano occlude per non accecare gli occhi.

 




bach1Die Stille vor Bach è un invito a riconsiderare cosa possa oggi significare essere e sentirsi europei al di là delle contingenze economico-finanziare. Uno sguardo sulle profonde relazioni tra immagine e musica, e su come quest’ultima possa diventare patrimonio condiviso attorno al quale tornare a riflettere sul senso di "sentire comune".


the-girlfriend-experience-the-girlfriend-experience-08-07-2009-6-g_-_Copia«La smorfia imbronciata della ragazza è portatrice di questa usura e, al tempo stesso, partecipe del fantasma […]. Usata, affaticata, disincantata dopo che si è, probabilmente, abusato di lei per metterla in vendita, attende l’usura del cliente […]. L’abuso e l’usurpazione possono ricominciare a scuotere un altro occhio. È inutilizzabile – e, al contempo, è come se l’inutilizzabile di questo uso infinitamente ripreso continuasse a fremere non lontano dall’inutilizzabile, non sfruttabile, non esponibile nudità. Qui, nell’immagine, è infatti ancora presente una nudità che, nonostante tutto, ci emoziona, mentre siamo colti dalla tristezza che la foto ha colto».


captive-brillante-mendoza-huppert-06Maggio 2001. Al Dos Palmas Resort sull'isola Palawan nelle Filippine, sbarca nella notte un gruppo di uomini armati che rapisce tutti i presenti, locali e stranieri, a nome di Osama Bin Laden. Inizia così una lunga "cattività", per ostaggi e rapitori, in continuo movimento nella giungla, che durerà circa 16 mesi.



Un-hritierNel realizzare nel 1994 Lothringen!, il regista Jean-Marie Straub aveva tratto ispirazione dal romanzo Colette Bodauche dello scrittore e politico francese Maurice Barrès, facente parte della trilogia Les Bastions de l'Est. Sedici anni dopo, riprende in mano il progetto e si dedica a un secondo libro, Au service de l'Allemagne, e si reca in Alsazia per percorrere i sentieri attraversati da Joseph, il medico di campagna, protagonista dello scritto.


strange_case_of_angelicaIl fotografo ebreo Isaac viene chiamato da una ricca famiglia per scattare alcune foto alla loro giovane figlia Angelica, morta per una fatalità subito dopo le nozze. Davanti all’obiettivo, il volto della ragazza riprende incredibilmente vita. Per l’uomo, l’immagine di Angelica diventa un’ossessione che conduce a un tragico e ineluttabile destino.


Guilty-of-Romance-testoLa gente va nei love hotel per fare sesso. Ci sono persino dei distretti riservati ai love hotel. Negli Anni ’90 molte prostitute lavoravano nelle strade di Maruyama-cho, un distretto ricco di questi alberghi. E qui, avvenne un mistero, alla vigilia del ventunesimo secolo.

[Dalla didascalia posta in apertura al film]


025_meeks_cutoff_blurayOregon, 1845. Una carovana di tre famiglie diretta verso le montagne di Cascade ha smarrito la strada maestra seguendo una scorciatoia, non tracciata, indicata loro dalla guida Stephen Meek. Con l’esaurirsi delle scorte di sopravvivenza, la tensione nel gruppo crescerà fino ad esplodere all’apparizione di un indiano.

 

 


kaboomSmith vive nel campus universitario. Passa le giornate con Stella, la sua migliore amica, intrattiene una relazione sessuale con London e sogna di andare a letto con Thor, il biondo surfista con cui condivide la stanza. Una notte, sotto l'effetto di biscotti allucinogeni, Smith si convince di aver assistito all'assassinio della splendida ragazza con i capelli rossi che popola i suoi sogni. Cercando di ricostruire la realtà dei fatti, il ragazzo e i suoi amici finiscono per trovarsi coinvolti in un mistero che sta per cambiare per sempre non solo le loro vite ma le sorti di tutta l'umanità.


114644-1-naissance-des-pieuvresDentro i bordi di una piscina, l’adolescenza si racconta attraverso tre ragazzine quindicenni e il loro movimento a-sincrono di fronte al sesso, all’amicizia, al mondo che si apre davanti a loro solo per essere appreso.

 

 

 

 


muratovaDalle finestre della grande casa costruita sul palco l’attore vede una ragazza che forse aspetta qualcuno e in quel momento fiocca la neve e i fiocchi si confondono con gli spettatori mentre una porta si apre su un immenso parco di alberi spogli e di figure veloci in lontananza. Sopra e sotto le assi di legno (del teatro?) si susseguono serpentini i pedinamenti, un fuoco di fila irrappresentabile di suicidi, incesti, omicidi.


FIVE-DAY_SHELTER2Periferia irlandese: nel corso di cinque giornate alcune persone si sfiorano incrociando i rispettivi destini. Un umanità allo sbando sopravvive in uno stato di quieta disperazione, tra l’indifferenza e la desolazione di un paesaggio degradato. “Animali” cinici, aggressivi, ma anche maltrattati e uccisi come sono realmente i cani e i gatti che accompagnano la lenta agonia delle loro squallide vite.


eyes_wide_open--400x300Storia d’amore omosessuale, ambientata a Gerusalemme, tra due ebrei ultra-ortodossi. Uno dei due è però sposato e padre di quattro figli, nonché membro rispettato della comunità religiosa, che si opporrà al loro rapporto.





socialism2Il titolo didascalico (Film Socialisme) funge già da sinossi, come il prenome del suo regista è meglio reso nella contrazione (JLG) di un impronunciabile esistenza. La costruzione di una sinfonia in tre momenti riporta rispettivamente tre diversi punti di vista, magnificando la funzione straniante e straordinaria del cinema che consente di vedere con i propri occhi la visione di un altro, negando la visione: il mondo visto dal ponte luccicante da una nave da crociera, un’arca fantasma che conserva un campione di varia umanità; lo sguardo dei figli proiettati nel fuori campo di un futuro che non si dà; la tragedia greca che si ripete e si intreccia alle leggende rivoluzionarie della modernità. Il trailer riassume in 4m e 29s la sintesi di 1h e 45m di Storia della specie. Svanita l’immagine nel buco nero dello schermo, comincia l’azione (come da Principio).


hjl2006Cina, primi anni Novanta. Una ragazza appena laureata viene condotta con l'inganno in uno sperduto villaggio di pastori e venduta come moglie a uno di essi. Violentata, incatenata e controllata di continuo dai componenti della sua nuova famiglia, tenta ripetutamente di fuggire, ma ogni volta, proprio quando pare essere a un passo dalla salvezza, viene catturata dai suoi aguzzini e riportata al villaggio.


une-vie-meilleure-festival-roma-2011.gifParigi. Yann è un cuoco ambizioso a cui sta stretto il lavoro alla mensa. Nadia è una cameriera di origine libanese con un figlio di 9 anni, Slimane. Quando i due si incontrano decidono di mettere su un’attività in proprio: un ristorante. Grazie ad un prestito, credono di aver coronato il loro sogno. Ma il locale non è a norma e, per aprirlo al pubblico, hanno bisogno di ulteriore denaro che non posseggono. Nadia parte per il Canada, dove le hanno promesso un altro lavoro. Mentre Yann rimane a Parigi a prendersi cura del bambino, arrangiandosi come può.


NothingPersonal_2_750pxIn campo  lungo, sotto una densa e plumbea coltre di nuvole foriere di pioggia, una donna sola, crine scarlatta, cammina  su terre battute dai venti. L’aria è fredda, la luce bluastra. Sta fuggendo da qualcosa o qualcuno. Non è permesso saperlo, a noi, così come all’uomo che decide di darle ospitalità. Tra loro non deve esserci nulla di personale. Lei stabilisce che anche il conoscere i rispettivi nomi sarebbe un’infrazione del contratto stipulato: solo lavoro in cambio di cibo. Una severità che verrà però mitigata da piccoli gesti infinitesimali, reciproca dimostrazione di mutuo soccorso.

sonbaharYusuf dopo dieci anni di prigionia torna a casa. Ad attenderlo l’anziana madre, il vecchio amico Mikail e una donna.


air_doll31Hideo vive con una bambola gonfiabile, Nozomi, che vive durante l’assenza di lui. Attraverso il cinema, Nozomi  scopre il respiro di tutte le cose, impara a guardare e a parlare e, nella durata di una storia d’amore, fa esperienza del mondo.
Alla fine del film, la bambola saprà che il soffio è il nulla assoluto che anima la creazione.



BlissfullyYoursMin è affetto da una malattia della pelle. Orn prepara rimedi naturali. Roong è la sua fidanzata. Tutti  e tre si lasciano dietro la città per addentrarsi e perdersi, tra silenzi e atti d’amore, nella vasta foresta tailandese.








taxidermiaTre racconti esemplari, tra loro legati da una contiguità generazionale. Nonno, figlio e nipote. Rispettivamente: un erotomane soldato magiaro; un campione nazionale d’abbuffata durante gli anni della dominazione sovietica; ed un rachitico imbalsamatore. Tre corpi accomunati dalla tara genetica della devianza. Tre vicende tra loro concatenate attraverso le quali tracciare la Storia recente d’Ungheria.


Jean-GentilIl professore haitiano Jean Remy Genty cerca un lavoro da contabile a Santo Domingo. Passa da un ufficio all’altro lasciando curricula, ma nessuno è disposto ad assumerlo. In città non c’è lavoro e viene oltretutto sfrattato dalla sua misera abitazione. Con una borsa di plastica in mano, decide di affrontare un lungo, solitario e disperato viaggio all’interno della foresta tropicale. Fino a perdersi in mezzo alla natura incontaminata, isolato da tutto il mondo e solo in comunione con Dio e con la spiritualità dell’isola.


kinettaUn uomo registra degli ordini su un mangianastri; una ragazza, sola in una stanza, li esegue per esercitarsi; i due poi mimano la scena dell'omicidio descritta sul nastro dinanzi a un cineoperatore, che li riprende con la sua "kinetta". 





0914-im-still-here-and-joaquin-phoenixjpg-bdf3b2ced2d13f27_largeIn un momento particolarmente felice della propria carriera, dopo i meriti riconosciutigli anche grazie alle ottime interpretazioni di Quando l’amore brucia l’anima e Two lovers, Joaquin Phoenix decide d’abbandonare la carriera d’attore. Soffocato dall’inautenticità a cui lo costringe la professione e dal mondo che ad essa gravita attorno, desidera solo rimpossessarsi della sua vita. Come? Grazie all’hip hop.


im_here_spike_jonzeSheldon e Francesca sono molto diversi. Così tanto che quando si trovano capiscono subito che senza l’altro non possono più continuare a stare. Insieme si completano. Lei soddisfa il suo bisogno di condivisione. Lui capisce la sua importanza e proprio per questo sente l’esigenza di darle tutto se stesso. La loro relazione assume i contorni di una vera e propria educazione sentimentale, una scoperta dell’amore e delle sue dolorose (ma necessarie) declinazioni.


Libert1Francia, 1943. Una famiglia di zingari attraversa il Paese durante l’occupazione nazista. Sul suo cammino trova Claude, un bambino abbandonato, e decide di portarselo dietro. Quando i gitani mettono le tende vicino ad un villaggio, apprendono dagli abitanti che le leggi del regime di Vichy vietano il nomadismo. Pur avendo la protezione del sindaco e di un’istitutrice, vengono arrestati e internati. Grazie all’aiuto del sindaco, che offre loro una proprietà, vengono poi rilasciati. Nonostante però la nuova sistemazione, gli zingari tornano di nuovo a spostarsi. Fino a quando le guardie francesi non irrompono nell’accampamento e li prelevano a forza caricandoli sui camion.

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La steppa russa, distanze impercorribili fanno da sfondo all'incrocio degli sguardi di Vera e Pasha, amanti destinati all'inevitabile epilogo, sotto lo sguardo di un dio assente.

 




pontypool-locals1Grant Mazzy è uno speaker radiofonico. Durante un collegamento in diretta, l’inviato Ken Loney con voce tremate racconta fatti di cannibalismo che si stanno verificando per le strade di Pontypool. Visioni orrorifiche che rimandano a memoria La guerra dei mondi di Wells. Qui però non si è di fronte ad una sadica provocazione, ma ad un virus sconosciuto, che si propaga attraverso un inedito canale di contagio, la parola parlata.


metropia4Anno 2024. L’Europa, alle prese con una profonda crisi energetica, è attraversata da una gigantesca rete metropolitana. Una mattina, Roger Olafsson, impiegato della Trexx Corporation (multinazionale che gestisce il traffico ferroviario) decide di non andare al lavoro. Entra in una stazione e sente delle strane voci nella sua testa. Poco dopo incontra l’affascinante Nina, che presta il suo volto per una pubblicità dello shampoo, e la segue. Lei, figlia di Ivan Bahn, il capo della società, lo aiuterà a disfarsi di questa fastidiosa voce che lo perseguita. E gli aprirà gli occhi su una pericolosa verità: l’uomo è al centro di una cospirazione e rischia di essere ucciso.


Cold_FishShamoto, padre premuroso e preoccupato, nonchè gestore di un piccolo negozio di pesci tropicali, si troverà coinvolto in una serie di omicidi messi in atto da un suo, ben più realizzato, collega, Murata, il quale lo ha avvicinato con uno stratagemma, cioè mediante Mitsuko, la figlia di Shamoto, sorpresa a rubare in un supermercato e da Murata "salvata". Da lì in poi Shamoto si ritroverà in un vortice di orrore che muterà irreversibilmente la sua psicologia e la sua idea di morale.


enter-the-void-18-31770Tokyo è un immenso flipper scosso da lampi di luce elettrica. Oscar è un piccolo puscher ammaliato dalle fluorescenze urbane, più dedito al consumo che allo spaccio. Vive con sua sorella Linda. I due si sono da poco ritrovati dopo la separazione coatta subita in seguito alla tragica morte dei genitori. Una sera, raggiunto un amico cliente al Void, sorta di postmoderno Karakova Milk Bar, è freddato da un poliziotto da cui cercava di sfuggire. A questo punto la sua anima compie un percorso d’ascesa lungo le traiettorie descritte dal Bardo Thodol.

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Una novizia viene ricacciata nel mondo dalla madre superiora a causa del suo eccessivo struggimento per la mancanza di Dio. Attraverso l’esperienza esteriore, l’incontro con attivisti musulmani e la ricerca estenuata dell’invisibile potrà tornare al monastero e a nuova vita.




in-my-skin-dans-ma-peau-2La vita di una trentenne piena di successi lavorativi e con una relazione amorosa stabile, verrà messa in discussione da una ferita alla gamba durante una festa. Ogni tentativo di non cedere all' attrazione maniacale verso il proprio corpo e il proprio sangue sarà inutile e la porterà ad un totale stravolgimento emotivo e psicologico.



bagheadtopChad, Matt, Michelle e Catherine sono quattro aspiranti attori che decidono di passare un weekend in uno chalet di montagna per scrivere la sceneggiatura di un film di cui saranno anche i protagonisti. Le idee però scarseggiano e i ragazzi sono presi più dalle loro vicende sentimentali che dalla stesura del copione. Fino a quando Michelle non fa uno strano sogno: un uomo con la testa coperta da un sacchetto di carta. Matt convince allora gli amici a prendere ispirazione da questo episodio per farne il soggetto del film. Ma un vero killer con la testa nascosta in una busta, che si aggira nei dintorni, li spaventerà a tal punto da costringerli, prima a barricarsi in casa, e poi a una disperata fuga nel bosco…



madeoUna madre e un figlio. Lui rappresenta per lei l’altra metà del suo universo. Lei deve proteggere dalle quotidiane vessazioni la sua creatura fragile, una mente di bambino in un corpo da adulto. Il loro rapporto, già carico d’ambiguità, degenera una volta che il ragazzo è accusato dell’omicidio di una ragazza. La madre si mostrerà disposta a tutto pur di dimostrare l’innocenza del figlio, anche di ignorare la realtà dei fatti.


6-2Un prete in crisi di coscienza vede nella medicina un antidoto ben più efficace della fede ai mali dell’uomo. Si presta quindi come cavia per sperimentare un vaccino contro un virus letale. Una volta infetto, per una fatale trasfusione di sangue il prete muta in vampiro. Con un pretesto horror, Park Chan Wook riflette sul cinema e sulla poetica dello sguardo.


Visage_2009_01L’attore feticcio di Tsai Ming Liang, Lee Kang-sheng, è diventato maturo per interpretare il ruolo del regista: all’interno del Louvre deve infatti girare un film sul mito di Salomè. Il cinema che ripensa se stesso, attraverso i fotogrammi di una memoria riflessa in una composizione magrittiana di specchi, riassume l’intenzione metacinematografica e mai risolta della visibilità di una superficie attraverso l’eccesso e la ridondanza (dalla scelta di attori famosi, ai costumi barocchi, dalle parti musicate a quelle più esplicitamente teatrali) che tolgono l’aria allo spazio, impedendo che la scena riflessa (ricordata) possa finire.


La_Morte_rouge_4Il regista, nel suo soliloquio, risale lentamente dal presente della città di San Sebastian, fino al passato remoto in cui, proprio lì, esisteva una sala cinematografica, il Gran Kursaal, luogo della sua prima proiezione, quando aveva cinque anni. Il film era L'artiglio scarlatto (1944) di Roy William Neill, con Basil Rathbone nei panni di Sherlock Holmes. Da allora, da quella prima visione "impressionante", la sua esperienza di uomo nel mondo è cambiata per sempre.


wendy_and_lucyWendy è una ragazza in viaggio nel cuore degli Stati Uniti, diretta in Alaska. Possiede solo un'auto e un cane (Lucy), e un piccolo gruzzolo che le serve per portare a termine il viaggio. Ma, giunta in una cittadina dell'Oregon, sorgono dei problemi: la resistenza della ragazza viene messa a dura prova, finchè non giunge un aiuto inaspettato.


zarteManu e Jakob sono due giovani fidanzati, disoccupati e senza fissa dimora, che vivono in una tenda da campeggio nel bosco. Ogni giorno, per tirare avanti, accudiscono le persone in difficoltà e danno loro servizi in cambio dei pasti. La ragazza fa da badante ad un’anziana donna (la signora Katz), mentre il ragazzo entra a far parte di una famiglia che ha da poco subito la perdita del proprio figlio a seguito di un incidente. Jakob finisce per affezionarsi alla coppia (Martin e Claudia) a tal punto da non volersene più andare. Da quel momento i rapporti fra i due iniziano ad incrinarsi. Fino a quando Manu non lo convince a fuggire, e a riprendere così la loro vita da nomadi.

lc2Lone Man è un killer solitario che si muove tra Madrid e l’Andalusia con lo scopo di portare a termine una missione non ben precisata. Il suo viaggio è scandito da gesti che si ripetono, da luoghi che ritornano ossessivamente e dagli incontri con i suoi contatti con i quali si scambia delle scatole di fiammiferi dalle quali estrae un biglietto con un codice cifrato che poi ingoia.

im_a_cyborg

Una giovane donna viene rinchiusa in un manicomio perché crede di essere un cyborg con la missione di riconsegnare la dentiera alla nonna, anch’essa internata (ma in un’altra struttura) per la sua convinzione di essere un topo. La ragazza si farà aiutare da un altro folle, capace a suo dire di rubare e riprodurre l’anima e le schizofrenie altrui.


Los_muertosLa statuetta della Madonna, e un uomo che fuma e beve mate.
Nel silenzio di una prigione argentina aspetta che un documento gli renda la libertà.
Fuori il tempo resta quello dell’attesa e le persone assumono il volto dei luoghi da raggiungere.
L’uomo ha avuto una figlia, che a sua volta avrà avuto dei figli.
Bisognerà che percorra lunghe desertiche distanze nella foresta senza mai raggiungere il luogo delle sue intenzioni.
Comprerà una camicia verde e tutto il verde del mondo avrà l’odore selvaggio della lontananza.
Nel silenzio della Pampa aspetta che una prostituta gli restituisca anche l’ultimo strappo di pelle.
Un pupazzo agonizza al sole.

napoli_napoli_napoli10_01

Abel Ferrara, assieme all’ex detenuto Gaetano Di Vaio, intervista le donne della Casa Circondariale femminile di Pozzuoli a Napoli. Le giovani recluse si confessano, sviscerando ogni particolare: dal retroterra sociale e culturale alle difficili vicende familiari, dai reati commessi (furto, rapina, spaccio di droga) al momento dell’arresto. La maggior parte proviene dai Quartieri Spagnoli, Secondigliano, Scampia, tra le zone più degradate della città, in cui domina la disoccupazione, la vita di strada e la guerra fra i clan della camorra per spartirsi il territorio. Il regista intervista la gente comune, ma anche politici, magistrati e operatori sociali impegnati nella promozione della cultura e nella tutela della legalità. In parallelo, si svolgono due tracce narrative di finzione. Nella prima, si racconta un episodio di vendetta tra gruppi criminali: Carmine viene strangolato da due scagnozzi mentre è sotto l’effetto degli stupefacenti. Nel secondo, un dramma familiare dove si alternano miseria e violenza, che culmina con l’abuso di un padre ai danni di sua figlia.

tokyo

Una donna non riesce a dare una direzione alla sua vita. Un misterioso straniero spaventa e uccide inermi cittadini. Un uomo sceglie di recludersi in casa. E nel frattempo Tokyo presagisce la catastrofe...

 

 

 

 

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Eugene conduce una doppia vita. Nella vita reale è un uomo di mezza età, sposato (con Milada) e insoddisfatto. Nella vita parallela, condotta all’interno dei sogni, insegue la sua innamorata, Eugenia. Per comprendere meglio la natura dei suoi sogni, Eugene si rivolge a una psicoanalista, la dottoressa Holubová. Questo e la scoperta di come accedere liberamente al mondo onirico gli permettono di addentrarsi nel suo passato. Il tempo trascorso fuori casa dal marito portano Milada a sospettare una relazione extraconiugale e a pedinarlo. Eugene dovrà scegliere tra il sogno e la realtà.

silent_soulsTanya è morta. Miron e Aist, rispettivamente marito e amante, decidono di congedarsi dalla donna celebrando il rituale d’addio come previsto dalla tradizione della cultura Merja, antica etnia ugro-finnica. Sanno che così facendo possono scongiurare la minaccia della distruzione del mondo da cui provengono e soddisfare, di conseguenza, il bisogno di salvezza ad essa congiunto.

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Lei ama lui, ma lui fatica a capire che ama lei. A complicare le cose, i piani di un uomo di potere per possedere lei. Intanto, nel paese è il Caos. I Promessi Sposi vivono e lottano insieme a noi, se pur in Egitto.

 

 

 

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Cinque amici nel loro piccolo paese sul mare. Un passato che li unisce ma un’infanzia che ritorna ostinatamente e di cui non si vuole fare a meno. L’impossibilità di andare avanti e crescere. Sogni e prerogative: tutto resta sospeso per le strade di Falkenberg.

 

 

repo-chick

Pixxi De La Chasse, rampolla di una ricchissima famiglia di Los Angeles, è una giovane viziata, presuntuosa e spendacciona. A causa della sua irresponsabile condotta di vita (è stata arrestata per ben 18 volte per guida pericolosa!) viene diseredata dai genitori e, così, si vede costretta a trovare un’occupazione. Dopo aver conosciuto Arizona Gray ed Agua, i due “repo men” venuti a requisire la sua spider rosa (la ragazza non ha pagato alcune rate), anche lei decide di far parte della squadra di recuperatori della città. Il suo lavoro consiste nel recuperare i beni che la gente non può più permettersi di pagare. In breve tempo, sbaraglia la concorrenza diventando la migliore sulla piazza. Mentre è impegnata in una missione critica, su un fantomatico treno, dove deve recuperare una grossa taglia di soldi (un milione di dollari), rimane coinvolta assieme ai colleghi in un complotto terroristico.

bela_tarr

"Un monumento minimalistico: The Turin Horse di Bela Tarr"
[Minimalistisches Monument: Bela Tarrs The Turin Horse, «Perlentaucher.de. Das Kulturmagazin», traduzione dal tedesco di Arcangelo Licinio]

In una casa, un uomo e una donna; in una stalla: un cavallo. Il cavallo "prende" l’acqua dal pozzo, gli uomini mangiano patate. L'uomo è seduto in silenzio davanti al suo piatto, picchia con il pugno sulle patate prima di ficcarsele, ancora calde, in bocca. Allo stesso modo, muto e sordo, siede di fronte al pezzo di legna tagliato che colpisce con l’ascia, o di fronte alla cintura nella quale infila i buchi. La donna – che in tutto quello che fa si comporta in modo un po’ più raffinato dell’uomo, ma che non ha tuttavia nulla da ridere – soffia sulle patate prima di mangiarle con gusto. Quando il cavallo deve essere attaccato al carro, ricalcitra.

Copia_di_kynodontas-1-g

In un oggi non ben definito, due sorelle e un fratello, nonostante l’evidente maggiore età, vivono come se fossero ancor dei bambini. Questa condizione d’infantilità è il risultato di una dottrina educativa assoluta ed intransigente. È il padre a volere dei figli addestrati come se fossero dei cani. Questi devono accettare incondizionatamente come unica realtà quella che la figura genitoriale decide di far conoscere loro. 

 hunger-hunger-19-11-2008-2008-1-g1981: il governo britannico priva dello stato politico tutti i prigionieri paramilitari. Il repubblicano irlandese Bobby Sands, recluso a Maze nei pressi di Belfast, muore dopo 66 giorni di sciopero della fame. Dopo sette mesi lo sciopero venne interrotto; il governo inglese accettò le richieste dell’IRA senza un riconoscimento formale della condizione politica.

3

Storia di uno spacciatore (il “Dealer” del titolo), impegnato nel distribuire dosi a stupefacenti casi umani. Una di questi sostiene di avere avuto una figlia da lui. Lo spacciatore si affeziona alla bambina e incomincia a cambiare il suo punto di vista sulle cose: va a trovare il padre, ancora sconvolto dalla morte assurda della moglie; incontra un vecchio amico, adoratore del dio sole; chiude la propria insoddisfacente storia con una ragazza. Quando la presunta figlia respinge con delicatezza le cure dello spacciatore, questi decide di suicidarsi, lasciandosi bruciare nel solarium ereditato da un suo cliente.

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È la notte della vigilia di Natale. Parigi è messa a fuoco dalle rivolte nella banlieue. Sarah è una fotoreporter, ma la sua particolare condizione le impedisce d’andare a documentare quello che sta succedendo nelle periferie. Sta per partorire. E quando succederà il suo compagno non le sarà accanto. È morto, quattro mesi prima,  in un incidente in cui entrambi rimasero coinvolti. Decide di trascorrere da sola le ore che precedono il parto. Qualcuno però suona alla sua porta. Si tratta di una donna misteriosa che dimostra di conoscerla.

poly

Il 6 dicembre 1989 un ragazzo si introduce nell’École Polytechnique di Montreal. È armato e deciso ad uccidere il maggior numero di ragazze possibile. È mosso da una rabbiosa misoginia. Tra i coinvolti di questa insana mattanza ci sono Valérie, ferita ma sopravvisuta al massacro, e Jean-François, compagno di corso della ragazza, che, invece di assecondare l’istinto di fuga dettato dalla gravità delle circostanze, rimane nel tentativo di prestare primo soccorso alle vittime. La ricostruzione del delitto si serve del punto di vista di tre personaggi.

synecdoche

Caden Cotard è un regista teatrale. È anche marito e padre. Purtroppo la sua arte e la sua vita non procedono lungo medesime traiettorie di sviluppo. Tanto è rivolta al successo la prima quanto sembra essere irrimediabilmente destinata al fallimento l’altra. Consapevole di questo, una volta rimasto solo e vittima di sempre più acute manifestazioni ipocondriache, tenta di mettere a fuoco la sua esistenza facendone materia del suo ultimo lavoro teatrale. Vuole riuscire a dar forma al proprio dolore.

intro

Corpi sofferenti, costretti all’immobilismo, si susseguono in scene apparentemente scollegate e mute: le sole parole dette filtrano attraverso apparecchi radiofonici, le note liriche sono tutto ciò che resta di un’impossibile narrazione che punteggia il film.
L’attore feticcio di Tsai Ming-Liang, Lee Kang-sheng, viene aggredito a causa di un debito di gioco; uno sconosciuto si prenderà cura di lui, mentre parallelamente una giovane ragazza passerà le proprie giornate ad accudire un corpo gravemente ammalato. Tra questi personaggi si instaurerà una relazione erotica al limite tra completezza e mancanza. Bandito è il senso (della vita e della sofferenza) in un finale che non contempla possibilità di coerenza nel mondo.

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Nel gennaio del 2009 Oliver Stone si reca in Venezuela per intervistare il Presidente Hugo Chavez, e per capire perché la sua immagine è stata manipolata dai media americani.Vengono ripercorse le tappe della sua ascesa: emerge come membro dell’esercito e diventa un eroe nazionale quando tenta il golpe nel 1992 contro il governo di Carlos Andrés Pérez e, per poco, non rischia di morire.

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Un ragazzo torna a casa, in un non-luogo isolato dal resto del mondo, sul Delta del Danubio. Scopre di non avere più una casa, ma una sorella di cui ignorava l’esistenza. Insieme decidono di costruire un nuovo rifugio, sull’acqua, lontano dal centro. Gli abitanti del villaggio non riescono ad accettare la loro “innaturale” relazione…

white_materialIn un paese dell’Africa centrale, l’esercito regolare si appresta a ristabilire l’ordine in seguito alla rivolta popolare capeggiata da un ufficiale ribelle, soprannominato “le boxeur” (il pugile). Tutti i cittadini occidentali fuggono via, allarmati dal pericolo di un’imminente guerra civile.La francese Maria Vial, la cui famiglia possiede una coltivazione di caffè da tre generazioni, non ascolta le raccomandazioni del governo locale e decide invece di restare. Non ha intenzione di rinunciare al raccolto della stagione.

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Il tenente Kurokawa, gravemente mutilato, torna nel suo villaggio natale insignito con la medaglia al valore per la Seconda Guerra Cino-Giapponese. Sua moglie Shigeko dovrà prendersi cura di lui, impossibilitato a compiere qualsiasi gesto poiché privo di tutti e quattro gli arti, e tutte le speranze saranno rivolte a lei, perché accudisca con rispetto e devozione il valoroso soldato di fronte alla comunità e all'Imperatore.

Michele Sardone

forestUn aspirante suicida abbandona il proprio cane, unico suo amico, ad una esterefatta sconosciuta; due ragazzi parlano di un ospite misterioso; un padre non si capacita della pubertà della figlia; un uomo piange il suicidio dell’unico amico, senza trovare conforto nella sua compagna; una donna racconta uno scabroso ricordo della sua adolescenza; due ragazze si mettono alla ricerca di un misterioso amico perso nella foresta... e nel mezzo del fluire di queste storie, la leggendaria apparizione del gigantesco pesce gatto.

Il freddo e solitario pianista Zetterstrøm, divenuto famoso e tornato nella natia Copenhagen per un concerto di gala, si ritrova a ripercorrere il proprio passato, che aveva dimenticato, entrando in contatto con una “Zona” dagli strani poteri (nel mezzo della città) e un emissario che lo induce a ricordare. L'origine di questa amnesia e del suo ostinato esilio è Andrea, donna affascinante che egli un tempo aveva amato.

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Per comprendere quanto il nesso Natura/Utopia sia insito e inscindibile nel filmare di Mario Martone basterebbe considerare (alla vigilia di Capri Revolution) due piccoli-grandi film. Si tratta di Teatro Sommerso, realizzato per la Triennale di Milano nel 2008, e di Pastorale Cilentana, realizzato per l’Expo nel 2016. Lungi dall’essere film “d’occasione” sono due lavori che “postillano” in modo ispirato un nesso cruciale: quello che unisce il fare arte, il fare cinema, il fare teatro con il nucleo di vita racchiuso nel binomio Natura-Utopia.

(Traduzione: Giovanni Festa)

 La storia del cinema mostra da sempre l'utilizzo degli animali nei film. Dai famosi cavalli di Eadweard Muybridge allo sconosciuto cane protagonista di Adiós al lenguaje (Godard, 2014), un grande bestiario di specie diverse vive fantasmagoricamente nella terra delle ombre; l'asino di Bresson, gli uccelli di Hitchcock o i gatti di Varda e Marker, tra tanti altri casi, esistono attraverso il cinema, da esso imbalsamati. Sarebbe impossibile calcolare il numero approssimativo di animali usati nel solo cinema di Hollywood. Spiccano, in questa vastissima produzione, alcune commedie con animali assai note la cui abilità filmica resterà ineguagliata: A Dog's Life (1918) e The Circus (1928), di Charlie Chaplin; The Cameraman (1928), di Buster Keaton; Bringing Up Baby (1938) e Monkey Business (1952), di Howard Hawks. Oltre ad essere opere di poeti della comicità, hanno in comune un certo meccanismo comico legato a un motivo propriamente baziniano: l'incontro reale tra la bestia e l'umano.

Alcuni dei più grandi momenti comici di queste opere coincidono, nella loro forma, con le idee di André Bazin sull'unità spaziale del cinema, indipendentemente dal fatto che queste commedie ineffabili fossero o meno oggetto diretto degli scritti del critico francese (che sosteneva di non condividere l'entusiasmo incondizionato dei "giovani turchi" per Hawks e si riferí anodinamente a Monkey Business); qualcosa di simile accadrà con altre opere che appariranno dopo la morte (nel 1958) del co-fondatore dei Cahiers du cinéma. In questo senso, le analisi di Bazin su come alcuni animali furono filmati e rappresentati nella loro interazione con persone nei film documentari (di avventura) e nelle finzioni (favole) includono anche l'estetica della peggiore e miglior commedia animale del secolo scorso. La crisi di questa linea genealogica della commedia, di cui non esistono molti esponenti, comporterà la fine del regime estetico concettualizzato nei testi critici di Bazin, sovvertito dall'arrivo del cinema contemporaneo: in una nuova confluenza del comico con gli animali nel cinema e una forma di relazione audiovisiva completamente differente tra l'animale e l'umano. Rabbits (2002) e What Did Jack Do (2017), di David Lynch, sono due esempi perfetti di questa estetica contemporanea. Si tratta di un cinema digitale, che non è governato dal concetto di ontologia dell'immagine cinematografica:

La visione baziniana del cinema - inseparabilmente legata al cinema come punto di vista - affronta oggi uno stato del cinema in cui l'immagine non è più necessariamente estratta come campione del reale. L'immagine elettronica ignora l'argento vivo. È in questi termini che, per la via dell'assurdo, Bazin resta attuale. (Serge Daney, André Bazin).

Si tratterà quindi di tornare a Bazin attraverso l'assurdo, mano nella mano con eccelsi commedianti. Lo stesso critico, un grande umorista che amava gli animali e ne scriveva (a volte in modo divertente), apre le porte a questa deriva.   Il meccanismo che governa le azioni comiche che ci interessano - il motivo dell'interazione tra la bestia e la persona - e che rende baziniane (anche se indirettamente o in maniera non intenzionale) certe commedie straordinarie del secolo scorso, non va ricercato nei testi che Bazin ha dedicato specificamente al cinema comico (tra gli altri il suo libro su Chaplin, che considerava uno dei grandi cineasti), ma in alcuni testi di Che cos’é il cinema?, soprattutto in Montaggio proibito:

Quando André Bazin si interroga sul cinema, di solito trova le sue risposte in film marginali. Documentari, reportage, film "poetici" o "dal vivo" gli consentono di formulare con chiarezza una legge per lui fondamentale: ogni volta che è possibile racchiudere elementi eterogenei nella stessa cornice, il montaggio è proibito. In questo senso, vedremo che l'essenza del cinema si converte in una storia di animali. (Serge Daney, Lo schermo fantasmatico, “Bazin e gli animali”).

 Il noto articolo inizia con alcuni paragrafi dedicati al cinema e alla letteratura per ragazzi che presentano i film di Albert Lamorisse per il pubblico infantile (chi ha visto Le ballon rouge da bambino sarà d'accordo con tale classificazione). Il detto criptato nel titolo Montaggio proibito emerge dall'analisi che il critico fa dei cortometraggi di Lamorisse e di un film brutto e dimenticato di Jean Tourane - la cui aspirazione era «imitare Walt Disney usando animali veri» -. D'altra parte, Bazin mette in luce il «film di finzione tendente alla favola» di Lamorisse, il cui cinema definisce anche come "poesia":

 Quanto a Il palloncino rosso, invece, faccio notare e voglio dimostrare che non deve e non può dovere nulla al montaggio. Il che è paradossale, considerando che lo zoomorfismo attribuito all'oggetto è ancora più immaginario dell'antropomorfismo degli animali. Il palloncino rosso di Lamorisse, ha effettivamente realizzato i movimenti che gli vediamo fare davanti alla telecamera. È chiaro che questo è un trucco, ma che non deve nulla al cinema in quanto tale. L'illusione nasce qui, come in un gioco di prestigio, dalla realtà. È qualcosa di concreto che non risulta dalle estensioni virtuali del montaggio. (Bazin, Montaggio proibito).

 Bazin fa una distinzione tra i cortometraggi di Lamorisse – in cui la favola è supportata dall'unità spaziale delle azioni e dalla loro realtà pre-filmica (il pallone segue efficacemente il bambino come un cucciolo) – e Une fée ... pas comme les autres (Tourane, 1957), basato esclusivamente sul montaggio, principalmente sull'effetto Kuleshov. Giustamente viene criticata proprio la volgare antropomorfizzazione in cui incorre questa rappresentazione del regno animale secondo una forma laboriosa e paesana di vita (gli animali esercitano mestieri, ecc.). Bazin fa una descrizione in se stessa comica della forma del film (il senso dell'umorismo del critico):

 Perché è molto importante notare che gli animali di Tourane non sono stati addestrati ma solo addomesticati. E praticamente non fanno mai le cose che gli vediamo fare (quando questo accade, è un trucco: una mano fuori dal quadro dirige un animale o si tratta di finte zampe mosse come marionette). Tutto l'ingegno e il talento di Tourane consiste nel far rimanere gli animali pressoché immobili per tutta la durata dell'inquadratura nel luogo in cui li ha piazzati; la decorazione, la disposizione e il commento sono sufficienti per dare alla postura dell'animale un significato umano che l'illusione del montaggio specifica e amplifica in modo così considerevole che a volte lo crea quasi completamente. Viene costruita, così,  un'intera storia con numerosi personaggi e relazioni complesse (così complesse che la sceneggiatura è spesso confusa), dotati di caratteristiche variegate, con i protagonisti che spesso non devono fare altro che mantenere la calma nel dentro l’inquadratura. L'azione apparente e il significato che il film acquisisce non sono praticamente mai pre-esistiti al film, nemmeno come frammenti di scena, cioè nell'unità minima del piano. (Bazin, Montaggio proibito).

 Non sono assai lontane da questi trucchi le pedestri "all-barkie" Dogville comedies della MGM, dei primi anni '30. In uno di questi cortometraggi di cast puramente canini (Bow-Wow Inn Dancing Review, diretto da Jules White e Zion Myers), diversi cani, travestiti da persone sono costretti a posare come burattini che fingono di ballare, cantare o suonare della musica per il divertimento degli spettatori. Sono opere fallimentari in termini cinematografici, in linea di principio perché riducono il cinema a pochi trucchi banali. Prodotti della sperimentazione hollywoodiana della fine degli anni '20 e l'inizio degli anni '30, alcuni dei quali parodiavano film precedenti – per esempio, The College (1927) di Keaton; tali opere non godono certo della grazia secolare di altre commedie. Questo ci porta direttamente al cuore del comico: la risata. Nel pensiero di Stendhal, il comico è ciò che fa ridere la gente con una risata folle ed è il prodotto di una folle immaginazione. Casualmente, nel suo finale, Montaggio proibito passa dalla favola animale alla commedia con una menzione al lavoro di Chaplin. Nel momento critico, il comico si farà beffe del pericolo (insieme alla domanda su come filmarlo) che stare nella gabbia del leone comporta:

Alcune situazioni esistono cinematograficamente solo quando viene messa in luce la loro unità spaziale, in maniera particolare situazioni comiche basate sui rapporti dell'uomo con gli oggetti. In questi casi, come ne Il Palloncino rosso, sono quindi consentiti tutti i trucchi, ma non le comodità del montaggio. I burlesque primitivi (soprattutto Keaton) ed i film di Charlot sono, in questo senso, pieni di insegnamenti. Se il genere burlesque ha trionfato prima di Griffith e del montaggio, è perché la maggior parte delle gag mostrava una comicità dello spazio, del rapporto dell'uomo con gli oggetti e il mondo esterno. Chaplin in The Circus è infatti nella gabbia del leone e i due sono chiusi insieme nella cornice dello schermo. (Bazin, Montaggio proibito, in Che cos'è il cinema?)

Ovviamente queste riflessioni di Bazin devono più al Henri Bergson di Materia e Memoria che a quello de Il riso, poiché non si tratta più di teatro ma di cinema. In questo senso, il critico considererebbe la formidabile scena di Chaplin nella gabbia del leone come un momento propriamente cinematografico (irriproducibile in altre arti o rappresentabile solo attraverso il montaggio). In questo punto cruciale, il motivo dell'incontro tra la persona e la bestia è polarizzato dal comico: «Molte cose ci fanno ridere quando vengono raccontate per scherzo, anche se non ci farebbero ridere nella vita reale». (Stendhal, Sul riso). La scena in cui Charlot si chiude accidentalmente nella gabbia del leone si presenta chiaramente come una complessa gag cinematografica (che include anche una tigre e un cane).

A differenza dei film criticati da Bazin, le commedie di Hawks, Keaton o Chaplin considerate non sono basate semplicemente sull'interazione tra animale e persona o sull'antropomorfismo. Ogni fase della commedia è organicamente integrata in una racconto comico e contenuto e forma coincidono pienamente: «una situazione, alcuni personaggi, un'azione strutturata, un'ultima parola, una storia» (J.-C. Carrière, Il circolo dei bugiardi). Le storie divertenti (azioni esagerate, folli, ecc.), i personaggi comici affascinanti e permanentemente inappropriati sono l'altra faccia del genio dell'improvvisazione, dell'arte della messa in scena, insieme alla bellezza del gag, la pianificazione precisa dello spazio, il senso del ritmo, le formidabili performance (di Keaton, Chaplin o Katherine Hepburn e Cary Grant). Le straordinarie scene di animali, pur contribuendo in modo significativo e generale alla narrazione, costituiscono solo una parte della spettacolare esposizione comica e narrativa di questi film.

Il circo è una catena multipla di azioni comiche che coinvolgono Chaplin con diversi animali. Le sue piccole e grandi scene di burlesque utilizzano tutti gli elementi delle attrazioni circensi: dal cavallo che rincorre Charlot dappertutto; al branco di animali totalmente fuori controllo, coinvolti nell'atto di magia il cui trucco viene continuamente svelato; le scimmiette che all'improvviso escono da una valigia come fossero pagliacci scesi da un auto; e la grande scena comica in cui Charlot cammina senza rete sulla corda tesa e le scimmie si gettano sopra di lui - strisciandogli sul corpo e mordendogli la faccia, abbassandogli i pantaloni, ecc. -. Si tratta di una scena perfetta nel suo genere: il modo in cui viene girata l'interazione tra le scimmiette e il velocissimo comico è sospeso tra il credibile e l'incredibile, creando un momento cinematografico divertente che contribuisce alla mitologia del vagabondo. Chaplin aveva filmato altre formidabili scene di animali in A Dog’s Life, quando salva il cucciolo dal branco che lo rincorrerà per la strada creando caos al suo passaggio. Oppure quando un altro cane li insegue e morde il vestito di Charlot appendendosi alla stoffa, mentre il comico cerca di scappare. O l'immagine della coda del cane che spunta dai pantaloni del comico (con il dettaglio dell’animale che scodinzolando fa suonare lo strumento a percussione).

Da parte sua, Bringing Up Baby mette in scena una serie di situazioni assurde che includono non solo il leopardo addomesticato che dà il nome al film, ma anche un secondo leopardo (questa volta selvaggio), un cucciolo di cane e i personaggi di Katherine Hepburne e Cary Grant. Le azioni dei protagonisti sono sempre comiche secondo i codici della screwball comedy, con situazioni al limite dell'inverosimile: i felini sciolti, il grosso cane che ruba l'osso del dinosauro, fanno si che i personaggi corrano sempre dietro di loro. Ancora una volta, possiamo parlare di bazinismo per riferirci a diversi momenti, ad esempio quando il cagnolino e il leopardo giocano o quando Hepburn trascina il leopardo selvaggio con una corda fino all'edificio della polizia, dove scopre di tenere con sé il leopardo sbagliato. Sono tutte scene straordinarie. Anche l'antropomorfismo è portato alla perfezione in alcune delle situazioni di questi film: le azioni del piccolo cameraman in The Cameraman, per esempio; in questo senso, la forma più perfetta dello stesso fenomeno è l'incredibile scena nel laboratorio di Monkey Business in cui lo scimpanzé apre la sua gabbia, prepara l’elisir della giovinezza e poi lo versa nel bidone d'acqua che berranno gli scienziati.

Perfezione della messa in scena hawksiana, tanto citata dagli adepti della politique des auters, nella sincronia del movimento dell'animale e della macchina da presa, filmando sempre da un punto di vista privilegiato la metamorfosi che avviene davanti agli occhi degli spettatori nel momento in cui lo scimpanzé apre la gabbia, oscilla usando lo stipite della porta e si lancia sulla sedia, accomodandosi al tavolo da lavoro del farmacista. L'animale addestrato compie alcune azioni straordinarie che vengono filmate bazinianamente, senza tagli. Lo spettacolo è così perfetto che, in apparenza, tende a incorporare l'animale. E nello stesso tempo è così strano che alcuni istanti dell'azione dello scimpanzé fanno pensare allucinatamente alla figura dell'automa descritta da Walter Benjamin nelle sua Tesi sul concetto di storia: un nano, maestro di scacchi, si nasconde dentro la figura del turco con il narghilè, in modo tale da non venire mai scoperto. Succede che i magnifici animali che compaiono in questi film sembrano strani (come la pantera in Cat People di Jacques Tourneur) in termini di morfologia ed etologia: la loro fisionomia è l'opacità nella quale si leggono somiglianze e differenze con l'umano (soprattutto nel caso di alcuni primati).

I comici che ci interessano sono capaci di evocare e di congiurare il potere dell'animale nella loro stessa arte. Risolvono brillantemente un'impresa doppiamente difficile, poiché devono filmare le azioni dell'animale in maniera  tale che possa contribuire attivamente alla rappresentazione comica. Nello stesso modo in cui ogni traccia del comportamento dell'animale che evidenzia il dispositivo della rappresentazione cinematografica è stata abilmente cancellata secondo le convenzioni della trasparenza, la tensione tra improvvisazione e progettazione in questi film scompare nella perfezione della forma: «Cominciare come lui, all'improvviso, con la sua maschera da clown, con quell'arte di prevedere ogni dettaglio e nello stesso tempo farlo sembrare improvvisato» (Gilles Deleuze e Claire Parnet, Dialoghi). Infine, il motivo baziniano a cui si fa riferimento può essere considerato come una serie di temi letterari o come incidenti cinematografici (come scrive Serge Daney).

La parte degli incidenti di ripresa evoca risonanze baziniane in termini di ontologia cinematografica, ma questa non è più esclusivamente legata alle questioni del pericolo e della morte. I termini della proposizione sono invertiti: ora importa come è il comico nella realtà e non come appare la realtà nel comico. Gli animali esotici e pericolosi scompaiono lasciando il posto ad animali domestici (sulla scia del ricorrente gag con i cani, in Chaplin, Hitchcock, Jerry Lewis, la screwball comedy, ecc.) La forma più diffusa del motivo dell'animale polarizzato dal comico più diffusa è costituito dalle graziose fotografie di animali durante le riprese: come quelle dell'affollata audizione durante la quale centocinquantadue gatti neri (portati al guinzaglio, in borse, dai loro padroni) furono presentati per ottenere un ruolo nell'adattamento cinematografico di Poe Tales of Terror (Roger Corman, 1962): «Gli animali degli abissi diventano figure di carte da gioco senza spessore» (Deleuze, Lewis Carroll).

La tentazione e il rischio di incorporare tali materiali nella commedia sono evidenti. È il caso di Film (Alan Schneider, 1963). Il regista sapeva bene di non poter modificare o aggiungere nulla all’unica opera scritta per il cinema da Samuel Beckett, anche se pensava, ad esempio, che le smorfie che Buster Keaton, protagonista del film, faceva agli animali erano «più divertenti del materiale comico incluso nel film» (Schneider, Sulle riprese di Film). Keaton, cercò di apportare idee per nuove scene in un’opera che non solo trovava noiosa, ma che nemmeno capiva. All'inizio il grande regista e attore apprezzava, della sceneggiatura, solo il gag (squisitamente baziniano) che consisteva nello scacciare il gatto e il cucciolo dalla stanza, dove sarebbero rientrati successivamente: un passaggio comico che è di per sé una piccola trovata geniale e che era stata progettata con grande precisione dall'autore irlandese. Schneider ha scritto di sé che rideva e piangeva perché durante le riprese di questa gag, il comico lanció il chihuahua troppo presto con il risultato che il cane cominció a comportarsi in modo insicuro: il regista finí per lamentarsi del fatto di non avere comparse o “doppi” animali. In definitiva, si tratta di tutto ciò che funziona male e che nella commedia rivaleggia con «l'atmosfera comica e irreale» del film che Beckett segnala nelle note di lavoro.

Love Is a Strange Thing (Tracey Emin, 2000) incarna il motivo baziniano nella sua forma comica definitiva sia perché lo riduce alle sue componenti fondamentali, sia perché sembra un gag basato proprio su di esso (la sua brevità è simile a quella del formato del motto di spirito). La voce fuori campo del video (il testo) racconta un sogno fatto dall'artista britannica, dove incontra un cane con il quale inizia a interagire:

Mentre mi avvicinavo al ponte, lo vidi seduto lì.

All'improvviso mi disse: "Molto bene Trace", con voce assai profonda.

Che? Che strano, mi sta parlando un cane! E disse di nuovo: "Molto bene Trace. Che ne pensi se lo facciamo?

"Se facciamo cosa?"

"Ti piacerebbe scopare?"

"Ehm ... cosa?"

"Questo, se vuoi scopare".

"Mmm ... Scusa ma ...".

"Cosa c'è che non va? Non ti piaccio? Non mi trovi attraente? "

"No, non è quello, è solo che ... beh ... sei un cane".

Sembrava ferito. I suoi occhi grandi e tristi. Sembrava ferito. E quando ricominciai a camminare, mi guardò e mi disse: “Tracey, Tracey, proprio tu. Non avrei mai immaginato che fossi così prevenuta”.

L'ironia dell'autoritratto e la nitidezza della narrazione in prima persona sono raddoppiate dal pessimismo comico con cui l'artista fa riferimento alle condizioni di realizzazione del suo video e al fatto di filmare con l'animale:

Ho dovuto usare un bull mastiff, un cane che faceva paura. Sono andata a una scuola di teatro per cani, ma quello che mi piaceva, un pastore tedesco che era capace di sorridere, aveva subito una piccola operazione, si era rasato un po’ il pelo ed era assai timido davanti alla macchina da presa. Quindi l’unico cane disponibile era quel bull mastiff, che ha mantenuto una erezione per tutto il film. E si muoveva e sbavava, cosa che mi imbarazzava molto. Inoltre, ho paura dei cani. Ho pensato che sarebbe stato molto bello per me fare un film con un cane, come un modo per costringermi a superare quella paura. (Tracey Emin, How it Feels)

 A contropelo di Bazin, in Love Is a Strange Thing Emin immagina, scrive e (per qualsiasi motivo) non si mostra fino al finale; il pericolo non appare più sullo schermo (anche se il cane e l’artista condividono la stessa inquadratura) e il comico passa per la lingua che delira su alcune immagini. La letteratura rientra così nell'immagine comica, attraverso lo humor nero, con formidabile potere corrosivo e sebbene l'aneddoto ci riporta al regno baziniano del pre-filmico, nell'opera ci troviamo nell’ambito dell’artistico (l'audiovisivo), solo che nel mondo di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Giovanni Festa è scrittore, critico cinematografico e storico dell’arte. PHD in filosofía della comunicazione e dello spettacolo (Universitá della Calabria), ha collaborato con l’Universitá de La Plata (Argentina) dove ha concluso un postdoc in “Teoria dell’immagine”, e quella di Morelos (Messico). Fra le sue pubblicazioni,  Il montaggio sacrificale delle immagini attraverso Ejzenstejn Warburg e Bataille (2017), Il Cavaliere  e la Donzella. Storia labirintica di un archetipo figurativo (2013), il libro collettaneo Per un cinema del reale (a cura di Daniele Dottorini, 2013), il catalogo Pathos e Estasi. Le orme di Caravaggio nella Napoli del ‘600 (2014), il romanzo Harakiri station e il monologo per il teatro La Ferita Risanata (2012). Scrive per le riviste Fata Morgana, Filmcritica, Reflexiones Marginales.

(Traduzione: Giovanni Festa)

 La storia del cinema mostra da sempre l'utilizzo degli animali nei film. Dai famosi cavalli di Eadweard Muybridge allo sconosciuto cane protagonista di Adiós al lenguaje (Godard, 2014), un grande bestiario di specie diverse vive fantasmagoricamente nella terra delle ombre; l'asino di Bresson, gli uccelli di Hitchcock o i gatti di Varda e Marker, tra tanti altri casi, esistono attraverso il cinema, da esso imbalsamati. Sarebbe impossibile calcolare il numero approssimativo di animali usati nel solo cinema di Hollywood. Spiccano, in questa vastissima produzione, alcune commedie con animali assai note la cui abilità filmica resterà ineguagliata: A Dog's Life (1918) e The Circus (1928), di Charlie Chaplin; The Cameraman (1928), di Buster Keaton; Bringing Up Baby (1938) e Monkey Business (1952), di Howard Hawks. Oltre ad essere opere di poeti della comicità, hanno in comune un certo meccanismo comico legato a un motivo propriamente baziniano: l'incontro reale tra la bestia e l'umano.

Alcuni dei più grandi momenti comici di queste opere coincidono, nella loro forma, con le idee di André Bazin sull'unità spaziale del cinema, indipendentemente dal fatto che queste commedie ineffabili fossero o meno oggetto diretto degli scritti del critico francese (che sosteneva di non condividere l'entusiasmo incondizionato dei "giovani turchi" per Hawks e si riferí anodinamente a Monkey Business); qualcosa di simile accadrà con altre opere che appariranno dopo la morte (nel 1958) del co-fondatore dei Cahiers du cinéma. In questo senso, le analisi di Bazin su come alcuni animali furono filmati e rappresentati nella loro interazione con persone nei film documentari (di avventura) e nelle finzioni (favole) includono anche l'estetica della peggiore e miglior commedia animale del secolo scorso. La crisi di questa linea genealogica della commedia, di cui non esistono molti esponenti, comporterà la fine del regime estetico concettualizzato nei testi critici di Bazin, sovvertito dall'arrivo del cinema contemporaneo: in una nuova confluenza del comico con gli animali nel cinema e una forma di relazione audiovisiva completamente differente tra l'animale e l'umano. Rabbits (2002) e What Did Jack Do (2017), di David Lynch, sono due esempi perfetti di questa estetica contemporanea. Si tratta di un cinema digitale, che non è governato dal concetto di ontologia dell'immagine cinematografica:

La visione baziniana del cinema - inseparabilmente legata al cinema come punto di vista - affronta oggi uno stato del cinema in cui l'immagine non è più necessariamente estratta come campione del reale. L'immagine elettronica ignora l'argento vivo. È in questi termini che, per la via dell'assurdo, Bazin resta attuale. (Serge Daney, André Bazin).

Si tratterà quindi di tornare a Bazin attraverso l'assurdo, mano nella mano con eccelsi commedianti. Lo stesso critico, un grande umorista che amava gli animali e ne scriveva (a volte in modo divertente), apre le porte a questa deriva.   Il meccanismo che governa le azioni comiche che ci interessano - il motivo dell'interazione tra la bestia e la persona - e che rende baziniane (anche se indirettamente o in maniera non intenzionale) certe commedie straordinarie del secolo scorso, non va ricercato nei testi che Bazin ha dedicato specificamente al cinema comico (tra gli altri il suo libro su Chaplin, che considerava uno dei grandi cineasti), ma in alcuni testi di Che cos’é il cinema?, soprattutto in Montaggio proibito:

Quando André Bazin si interroga sul cinema, di solito trova le sue risposte in film marginali. Documentari, reportage, film "poetici" o "dal vivo" gli consentono di formulare con chiarezza una legge per lui fondamentale: ogni volta che è possibile racchiudere elementi eterogenei nella stessa cornice, il montaggio è proibito. In questo senso, vedremo che l'essenza del cinema si converte in una storia di animali. (Serge Daney, Lo schermo fantasmatico, “Bazin e gli animali”).

 Il noto articolo inizia con alcuni paragrafi dedicati al cinema e alla letteratura per ragazzi che presentano i film di Albert Lamorisse per il pubblico infantile (chi ha visto Le ballon rouge da bambino sarà d'accordo con tale classificazione). Il detto criptato nel titolo Montaggio proibito emerge dall'analisi che il critico fa dei cortometraggi di Lamorisse e di un film brutto e dimenticato di Jean Tourane - la cui aspirazione era «imitare Walt Disney usando animali veri» -. D'altra parte, Bazin mette in luce il «film di finzione tendente alla favola» di Lamorisse, il cui cinema definisce anche come "poesia":

 Quanto a Il palloncino rosso, invece, faccio notare e voglio dimostrare che non deve e non può dovere nulla al montaggio. Il che è paradossale, considerando che lo zoomorfismo attribuito all'oggetto è ancora più immaginario dell'antropomorfismo degli animali. Il palloncino rosso di Lamorisse, ha effettivamente realizzato i movimenti che gli vediamo fare davanti alla telecamera. È chiaro che questo è un trucco, ma che non deve nulla al cinema in quanto tale. L'illusione nasce qui, come in un gioco di prestigio, dalla realtà. È qualcosa di concreto che non risulta dalle estensioni virtuali del montaggio. (Bazin, Montaggio proibito).

 Bazin fa una distinzione tra i cortometraggi di Lamorisse – in cui la favola è supportata dall'unità spaziale delle azioni e dalla loro realtà pre-filmica (il pallone segue efficacemente il bambino come un cucciolo) – e Une fée ... pas comme les autres (Tourane, 1957), basato esclusivamente sul montaggio, principalmente sull'effetto Kuleshov. Giustamente viene criticata proprio la volgare antropomorfizzazione in cui incorre questa rappresentazione del regno animale secondo una forma laboriosa e paesana di vita (gli animali esercitano mestieri, ecc.). Bazin fa una descrizione in se stessa comica della forma del film (il senso dell'umorismo del critico):

 Perché è molto importante notare che gli animali di Tourane non sono stati addestrati ma solo addomesticati. E praticamente non fanno mai le cose che gli vediamo fare (quando questo accade, è un trucco: una mano fuori dal quadro dirige un animale o si tratta di finte zampe mosse come marionette). Tutto l'ingegno e il talento di Tourane consiste nel far rimanere gli animali pressoché immobili per tutta la durata dell'inquadratura nel luogo in cui li ha piazzati; la decorazione, la disposizione e il commento sono sufficienti per dare alla postura dell'animale un significato umano che l'illusione del montaggio specifica e amplifica in modo così considerevole che a volte lo crea quasi completamente. Viene costruita, così,  un'intera storia con numerosi personaggi e relazioni complesse (così complesse che la sceneggiatura è spesso confusa), dotati di caratteristiche variegate, con i protagonisti che spesso non devono fare altro che mantenere la calma nel dentro l’inquadratura. L'azione apparente e il significato che il film acquisisce non sono praticamente mai pre-esistiti al film, nemmeno come frammenti di scena, cioè nell'unità minima del piano. (Bazin, Montaggio proibito).

 Non sono assai lontane da questi trucchi le pedestri "all-barkie" Dogville comedies della MGM, dei primi anni '30. In uno di questi cortometraggi di cast puramente canini (Bow-Wow Inn Dancing Review, diretto da Jules White e Zion Myers), diversi cani, travestiti da persone sono costretti a posare come burattini che fingono di ballare, cantare o suonare della musica per il divertimento degli spettatori. Sono opere fallimentari in termini cinematografici, in linea di principio perché riducono il cinema a pochi trucchi banali. Prodotti della sperimentazione hollywoodiana della fine degli anni '20 e l'inizio degli anni '30, alcuni dei quali parodiavano film precedenti – per esempio, The College (1927) di Keaton; tali opere non godono certo della grazia secolare di altre commedie. Questo ci porta direttamente al cuore del comico: la risata. Nel pensiero di Stendhal, il comico è ciò che fa ridere la gente con una risata folle ed è il prodotto di una folle immaginazione. Casualmente, nel suo finale, Montaggio proibito passa dalla favola animale alla commedia con una menzione al lavoro di Chaplin. Nel momento critico, il comico si farà beffe del pericolo (insieme alla domanda su come filmarlo) che stare nella gabbia del leone comporta:

Alcune situazioni esistono cinematograficamente solo quando viene messa in luce la loro unità spaziale, in maniera particolare situazioni comiche basate sui rapporti dell'uomo con gli oggetti. In questi casi, come ne Il Palloncino rosso, sono quindi consentiti tutti i trucchi, ma non le comodità del montaggio. I burlesque primitivi (soprattutto Keaton) ed i film di Charlot sono, in questo senso, pieni di insegnamenti. Se il genere burlesque ha trionfato prima di Griffith e del montaggio, è perché la maggior parte delle gag mostrava una comicità dello spazio, del rapporto dell'uomo con gli oggetti e il mondo esterno. Chaplin in The Circus è infatti nella gabbia del leone e i due sono chiusi insieme nella cornice dello schermo. (Bazin, Montaggio proibito, in Che cos'è il cinema?)

Ovviamente queste riflessioni di Bazin devono più al Henri Bergson di Materia e Memoria che a quello de Il riso, poiché non si tratta più di teatro ma di cinema. In questo senso, il critico considererebbe la formidabile scena di Chaplin nella gabbia del leone come un momento propriamente cinematografico (irriproducibile in altre arti o rappresentabile solo attraverso il montaggio). In questo punto cruciale, il motivo dell'incontro tra la persona e la bestia è polarizzato dal comico: «Molte cose ci fanno ridere quando vengono raccontate per scherzo, anche se non ci farebbero ridere nella vita reale». (Stendhal, Sul riso). La scena in cui Charlot si chiude accidentalmente nella gabbia del leone si presenta chiaramente come una complessa gag cinematografica (che include anche una tigre e un cane).

A differenza dei film criticati da Bazin, le commedie di Hawks, Keaton o Chaplin considerate non sono basate semplicemente sull'interazione tra animale e persona o sull'antropomorfismo. Ogni fase della commedia è organicamente integrata in una racconto comico e contenuto e forma coincidono pienamente: «una situazione, alcuni personaggi, un'azione strutturata, un'ultima parola, una storia» (J.-C. Carrière, Il circolo dei bugiardi). Le storie divertenti (azioni esagerate, folli, ecc.), i personaggi comici affascinanti e permanentemente inappropriati sono l'altra faccia del genio dell'improvvisazione, dell'arte della messa in scena, insieme alla bellezza del gag, la pianificazione precisa dello spazio, il senso del ritmo, le formidabili performance (di Keaton, Chaplin o Katherine Hepburn e Cary Grant). Le straordinarie scene di animali, pur contribuendo in modo significativo e generale alla narrazione, costituiscono solo una parte della spettacolare esposizione comica e narrativa di questi film.

Il circo è una catena multipla di azioni comiche che coinvolgono Chaplin con diversi animali. Le sue piccole e grandi scene di burlesque utilizzano tutti gli elementi delle attrazioni circensi: dal cavallo che rincorre Charlot dappertutto; al branco di animali totalmente fuori controllo, coinvolti nell'atto di magia il cui trucco viene continuamente svelato; le scimmiette che all'improvviso escono da una valigia come fossero pagliacci scesi da un auto; e la grande scena comica in cui Charlot cammina senza rete sulla corda tesa e le scimmie si gettano sopra di lui - strisciandogli sul corpo e mordendogli la faccia, abbassandogli i pantaloni, ecc. -. Si tratta di una scena perfetta nel suo genere: il modo in cui viene girata l'interazione tra le scimmiette e il velocissimo comico è sospeso tra il credibile e l'incredibile, creando un momento cinematografico divertente che contribuisce alla mitologia del vagabondo. Chaplin aveva filmato altre formidabili scene di animali in A Dog’s Life, quando salva il cucciolo dal branco che lo rincorrerà per la strada creando caos al suo passaggio. Oppure quando un altro cane li insegue e morde il vestito di Charlot appendendosi alla stoffa, mentre il comico cerca di scappare. O l'immagine della coda del cane che spunta dai pantaloni del comico (con il dettaglio dell’animale che scodinzolando fa suonare lo strumento a percussione).

Da parte sua, Bringing Up Baby mette in scena una serie di situazioni assurde che includono non solo il leopardo addomesticato che dà il nome al film, ma anche un secondo leopardo (questa volta selvaggio), un cucciolo di cane e i personaggi di Katherine Hepburne e Cary Grant. Le azioni dei protagonisti sono sempre comiche secondo i codici della screwball comedy, con situazioni al limite dell'inverosimile: i felini sciolti, il grosso cane che ruba l'osso del dinosauro, fanno si che i personaggi corrano sempre dietro di loro. Ancora una volta, possiamo parlare di bazinismo per riferirci a diversi momenti, ad esempio quando il cagnolino e il leopardo giocano o quando Hepburn trascina il leopardo selvaggio con una corda fino all'edificio della polizia, dove scopre di tenere con sé il leopardo sbagliato. Sono tutte scene straordinarie. Anche l'antropomorfismo è portato alla perfezione in alcune delle situazioni di questi film: le azioni del piccolo cameraman in The Cameraman, per esempio; in questo senso, la forma più perfetta dello stesso fenomeno è l'incredibile scena nel laboratorio di Monkey Business in cui lo scimpanzé apre la sua gabbia, prepara l’elisir della giovinezza e poi lo versa nel bidone d'acqua che berranno gli scienziati.

Perfezione della messa in scena hawksiana, tanto citata dagli adepti della politique des auters, nella sincronia del movimento dell'animale e della macchina da presa, filmando sempre da un punto di vista privilegiato la metamorfosi che avviene davanti agli occhi degli spettatori nel momento in cui lo scimpanzé apre la gabbia, oscilla usando lo stipite della porta e si lancia sulla sedia, accomodandosi al tavolo da lavoro del farmacista. L'animale addestrato compie alcune azioni straordinarie che vengono filmate bazinianamente, senza tagli. Lo spettacolo è così perfetto che, in apparenza, tende a incorporare l'animale. E nello stesso tempo è così strano che alcuni istanti dell'azione dello scimpanzé fanno pensare allucinatamente alla figura dell'automa descritta da Walter Benjamin nelle sua Tesi sul concetto di storia: un nano, maestro di scacchi, si nasconde dentro la figura del turco con il narghilè, in modo tale da non venire mai scoperto. Succede che i magnifici animali che compaiono in questi film sembrano strani (come la pantera in Cat People di Jacques Tourneur) in termini di morfologia ed etologia: la loro fisionomia è l'opacità nella quale si leggono somiglianze e differenze con l'umano (soprattutto nel caso di alcuni primati).

I comici che ci interessano sono capaci di evocare e di congiurare il potere dell'animale nella loro stessa arte. Risolvono brillantemente un'impresa doppiamente difficile, poiché devono filmare le azioni dell'animale in maniera  tale che possa contribuire attivamente alla rappresentazione comica. Nello stesso modo in cui ogni traccia del comportamento dell'animale che evidenzia il dispositivo della rappresentazione cinematografica è stata abilmente cancellata secondo le convenzioni della trasparenza, la tensione tra improvvisazione e progettazione in questi film scompare nella perfezione della forma: «Cominciare come lui, all'improvviso, con la sua maschera da clown, con quell'arte di prevedere ogni dettaglio e nello stesso tempo farlo sembrare improvvisato» (Gilles Deleuze e Claire Parnet, Dialoghi). Infine, il motivo baziniano a cui si fa riferimento può essere considerato come una serie di temi letterari o come incidenti cinematografici (come scrive Serge Daney).

La parte degli incidenti di ripresa evoca risonanze baziniane in termini di ontologia cinematografica, ma questa non è più esclusivamente legata alle questioni del pericolo e della morte. I termini della proposizione sono invertiti: ora importa come è il comico nella realtà e non come appare la realtà nel comico. Gli animali esotici e pericolosi scompaiono lasciando il posto ad animali domestici (sulla scia del ricorrente gag con i cani, in Chaplin, Hitchcock, Jerry Lewis, la screwball comedy, ecc.) La forma più diffusa del motivo dell'animale polarizzato dal comico più diffusa è costituito dalle graziose fotografie di animali durante le riprese: come quelle dell'affollata audizione durante la quale centocinquantadue gatti neri (portati al guinzaglio, in borse, dai loro padroni) furono presentati per ottenere un ruolo nell'adattamento cinematografico di Poe Tales of Terror (Roger Corman, 1962): «Gli animali degli abissi diventano figure di carte da gioco senza spessore» (Deleuze, Lewis Carroll).

La tentazione e il rischio di incorporare tali materiali nella commedia sono evidenti. È il caso di Film (Alan Schneider, 1963). Il regista sapeva bene di non poter modificare o aggiungere nulla all’unica opera scritta per il cinema da Samuel Beckett, anche se pensava, ad esempio, che le smorfie che Buster Keaton, protagonista del film, faceva agli animali erano «più divertenti del materiale comico incluso nel film» (Schneider, Sulle riprese di Film). Keaton, cercò di apportare idee per nuove scene in un’opera che non solo trovava noiosa, ma che nemmeno capiva. All'inizio il grande regista e attore apprezzava, della sceneggiatura, solo il gag (squisitamente baziniano) che consisteva nello scacciare il gatto e il cucciolo dalla stanza, dove sarebbero rientrati successivamente: un passaggio comico che è di per sé una piccola trovata geniale e che era stata progettata con grande precisione dall'autore irlandese. Schneider ha scritto di sé che rideva e piangeva perché durante le riprese di questa gag, il comico lanció il chihuahua troppo presto con il risultato che il cane cominció a comportarsi in modo insicuro: il regista finí per lamentarsi del fatto di non avere comparse o “doppi” animali. In definitiva, si tratta di tutto ciò che funziona male e che nella commedia rivaleggia con «l'atmosfera comica e irreale» del film che Beckett segnala nelle note di lavoro.

Love Is a Strange Thing (Tracey Emin, 2000) incarna il motivo baziniano nella sua forma comica definitiva sia perché lo riduce alle sue componenti fondamentali, sia perché sembra un gag basato proprio su di esso (la sua brevità è simile a quella del formato del motto di spirito). La voce fuori campo del video (il testo) racconta un sogno fatto dall'artista britannica, dove incontra un cane con il quale inizia a interagire:

Mentre mi avvicinavo al ponte, lo vidi seduto lì.

All'improvviso mi disse: "Molto bene Trace", con voce assai profonda.

Che? Che strano, mi sta parlando un cane! E disse di nuovo: "Molto bene Trace. Che ne pensi se lo facciamo?

"Se facciamo cosa?"

"Ti piacerebbe scopare?"

"Ehm ... cosa?"

"Questo, se vuoi scopare".

"Mmm ... Scusa ma ...".

"Cosa c'è che non va? Non ti piaccio? Non mi trovi attraente? "

"No, non è quello, è solo che ... beh ... sei un cane".

Sembrava ferito. I suoi occhi grandi e tristi. Sembrava ferito. E quando ricominciai a camminare, mi guardò e mi disse: “Tracey, Tracey, proprio tu. Non avrei mai immaginato che fossi così prevenuta”.

L'ironia dell'autoritratto e la nitidezza della narrazione in prima persona sono raddoppiate dal pessimismo comico con cui l'artista fa riferimento alle condizioni di realizzazione del suo video e al fatto di filmare con l'animale:

Ho dovuto usare un bull mastiff, un cane che faceva paura. Sono andata a una scuola di teatro per cani, ma quello che mi piaceva, un pastore tedesco che era capace di sorridere, aveva subito una piccola operazione, si era rasato un po’ il pelo ed era assai timido davanti alla macchina da presa. Quindi l’unico cane disponibile era quel bull mastiff, che ha mantenuto una erezione per tutto il film. E si muoveva e sbavava, cosa che mi imbarazzava molto. Inoltre, ho paura dei cani. Ho pensato che sarebbe stato molto bello per me fare un film con un cane, come un modo per costringermi a superare quella paura. (Tracey Emin, How it Feels)

 A contropelo di Bazin, in Love Is a Strange Thing Emin immagina, scrive e (per qualsiasi motivo) non si mostra fino al finale; il pericolo non appare più sullo schermo (anche se il cane e l’artista condividono la stessa inquadratura) e il comico passa per la lingua che delira su alcune immagini. La letteratura rientra così nell'immagine comica, attraverso lo humor nero, con formidabile potere corrosivo e sebbene l'aneddoto ci riporta al regno baziniano del pre-filmico, nell'opera ci troviamo nell’ambito dell’artistico (l'audiovisivo), solo che nel mondo di Alice nel Paese delle Meraviglie.

(Traduzione: Giovanni Festa)

 La storia del cinema mostra da sempre l'utilizzo degli animali nei film. Dai famosi cavalli di Eadweard Muybridge allo sconosciuto cane protagonista di Adiós al lenguaje (Godard, 2014), un grande bestiario di specie diverse vive fantasmagoricamente nella terra delle ombre; l'asino di Bresson, gli uccelli di Hitchcock o i gatti di Varda e Marker, tra tanti altri casi, esistono attraverso il cinema, da esso imbalsamati. Sarebbe impossibile calcolare il numero approssimativo di animali usati nel solo cinema di Hollywood. Spiccano, in questa vastissima produzione, alcune commedie con animali assai note la cui abilità filmica resterà ineguagliata: A Dog's Life (1918) e The Circus (1928), di Charlie Chaplin; The Cameraman (1928), di Buster Keaton; Bringing Up Baby (1938) e Monkey Business (1952), di Howard Hawks. Oltre ad essere opere di poeti della comicità, hanno in comune un certo meccanismo comico legato a un motivo propriamente baziniano: l'incontro reale tra la bestia e l'umano.

Alcuni dei più grandi momenti comici di queste opere coincidono, nella loro forma, con le idee di André Bazin sull'unità spaziale del cinema, indipendentemente dal fatto che queste commedie ineffabili fossero o meno oggetto diretto degli scritti del critico francese (che sosteneva di non condividere l'entusiasmo incondizionato dei "giovani turchi" per Hawks e si riferí anodinamente a Monkey Business); qualcosa di simile accadrà con altre opere che appariranno dopo la morte (nel 1958) del co-fondatore dei Cahiers du cinéma. In questo senso, le analisi di Bazin su come alcuni animali furono filmati e rappresentati nella loro interazione con persone nei film documentari (di avventura) e nelle finzioni (favole) includono anche l'estetica della peggiore e miglior commedia animale del secolo scorso. La crisi di questa linea genealogica della commedia, di cui non esistono molti esponenti, comporterà la fine del regime estetico concettualizzato nei testi critici di Bazin, sovvertito dall'arrivo del cinema contemporaneo: in una nuova confluenza del comico con gli animali nel cinema e una forma di relazione audiovisiva completamente differente tra l'animale e l'umano. Rabbits (2002) e What Did Jack Do (2017), di David Lynch, sono due esempi perfetti di questa estetica contemporanea. Si tratta di un cinema digitale, che non è governato dal concetto di ontologia dell'immagine cinematografica:

La visione baziniana del cinema - inseparabilmente legata al cinema come punto di vista - affronta oggi uno stato del cinema in cui l'immagine non è più necessariamente estratta come campione del reale. L'immagine elettronica ignora l'argento vivo. È in questi termini che, per la via dell'assurdo, Bazin resta attuale. (Serge Daney, André Bazin).

Si tratterà quindi di tornare a Bazin attraverso l'assurdo, mano nella mano con eccelsi commedianti. Lo stesso critico, un grande umorista che amava gli animali e ne scriveva (a volte in modo divertente), apre le porte a questa deriva.   Il meccanismo che governa le azioni comiche che ci interessano - il motivo dell'interazione tra la bestia e la persona - e che rende baziniane (anche se indirettamente o in maniera non intenzionale) certe commedie straordinarie del secolo scorso, non va ricercato nei testi che Bazin ha dedicato specificamente al cinema comico (tra gli altri il suo libro su Chaplin, che considerava uno dei grandi cineasti), ma in alcuni testi di Che cos’é il cinema?, soprattutto in Montaggio proibito:

Quando André Bazin si interroga sul cinema, di solito trova le sue risposte in film marginali. Documentari, reportage, film "poetici" o "dal vivo" gli consentono di formulare con chiarezza una legge per lui fondamentale: ogni volta che è possibile racchiudere elementi eterogenei nella stessa cornice, il montaggio è proibito. In questo senso, vedremo che l'essenza del cinema si converte in una storia di animali. (Serge Daney, Lo schermo fantasmatico, “Bazin e gli animali”).

 Il noto articolo inizia con alcuni paragrafi dedicati al cinema e alla letteratura per ragazzi che presentano i film di Albert Lamorisse per il pubblico infantile (chi ha visto Le ballon rouge da bambino sarà d'accordo con tale classificazione). Il detto criptato nel titolo Montaggio proibito emerge dall'analisi che il critico fa dei cortometraggi di Lamorisse e di un film brutto e dimenticato di Jean Tourane - la cui aspirazione era «imitare Walt Disney usando animali veri» -. D'altra parte, Bazin mette in luce il «film di finzione tendente alla favola» di Lamorisse, il cui cinema definisce anche come "poesia":

 Quanto a Il palloncino rosso, invece, faccio notare e voglio dimostrare che non deve e non può dovere nulla al montaggio. Il che è paradossale, considerando che lo zoomorfismo attribuito all'oggetto è ancora più immaginario dell'antropomorfismo degli animali. Il palloncino rosso di Lamorisse, ha effettivamente realizzato i movimenti che gli vediamo fare davanti alla telecamera. È chiaro che questo è un trucco, ma che non deve nulla al cinema in quanto tale. L'illusione nasce qui, come in un gioco di prestigio, dalla realtà. È qualcosa di concreto che non risulta dalle estensioni virtuali del montaggio. (Bazin, Montaggio proibito).

 Bazin fa una distinzione tra i cortometraggi di Lamorisse – in cui la favola è supportata dall'unità spaziale delle azioni e dalla loro realtà pre-filmica (il pallone segue efficacemente il bambino come un cucciolo) – e Une fée ... pas comme les autres (Tourane, 1957), basato esclusivamente sul montaggio, principalmente sull'effetto Kuleshov. Giustamente viene criticata proprio la volgare antropomorfizzazione in cui incorre questa rappresentazione del regno animale secondo una forma laboriosa e paesana di vita (gli animali esercitano mestieri, ecc.). Bazin fa una descrizione in se stessa comica della forma del film (il senso dell'umorismo del critico):

 Perché è molto importante notare che gli animali di Tourane non sono stati addestrati ma solo addomesticati. E praticamente non fanno mai le cose che gli vediamo fare (quando questo accade, è un trucco: una mano fuori dal quadro dirige un animale o si tratta di finte zampe mosse come marionette). Tutto l'ingegno e il talento di Tourane consiste nel far rimanere gli animali pressoché immobili per tutta la durata dell'inquadratura nel luogo in cui li ha piazzati; la decorazione, la disposizione e il commento sono sufficienti per dare alla postura dell'animale un significato umano che l'illusione del montaggio specifica e amplifica in modo così considerevole che a volte lo crea quasi completamente. Viene costruita, così,  un'intera storia con numerosi personaggi e relazioni complesse (così complesse che la sceneggiatura è spesso confusa), dotati di caratteristiche variegate, con i protagonisti che spesso non devono fare altro che mantenere la calma nel dentro l’inquadratura. L'azione apparente e il significato che il film acquisisce non sono praticamente mai pre-esistiti al film, nemmeno come frammenti di scena, cioè nell'unità minima del piano. (Bazin, Montaggio proibito).

 Non sono assai lontane da questi trucchi le pedestri "all-barkie" Dogville comedies della MGM, dei primi anni '30. In uno di questi cortometraggi di cast puramente canini (Bow-Wow Inn Dancing Review, diretto da Jules White e Zion Myers), diversi cani, travestiti da persone sono costretti a posare come burattini che fingono di ballare, cantare o suonare della musica per il divertimento degli spettatori. Sono opere fallimentari in termini cinematografici, in linea di principio perché riducono il cinema a pochi trucchi banali. Prodotti della sperimentazione hollywoodiana della fine degli anni '20 e l'inizio degli anni '30, alcuni dei quali parodiavano film precedenti – per esempio, The College (1927) di Keaton; tali opere non godono certo della grazia secolare di altre commedie. Questo ci porta direttamente al cuore del comico: la risata. Nel pensiero di Stendhal, il comico è ciò che fa ridere la gente con una risata folle ed è il prodotto di una folle immaginazione. Casualmente, nel suo finale, Montaggio proibito passa dalla favola animale alla commedia con una menzione al lavoro di Chaplin. Nel momento critico, il comico si farà beffe del pericolo (insieme alla domanda su come filmarlo) che stare nella gabbia del leone comporta:

Alcune situazioni esistono cinematograficamente solo quando viene messa in luce la loro unità spaziale, in maniera particolare situazioni comiche basate sui rapporti dell'uomo con gli oggetti. In questi casi, come ne Il Palloncino rosso, sono quindi consentiti tutti i trucchi, ma non le comodità del montaggio. I burlesque primitivi (soprattutto Keaton) ed i film di Charlot sono, in questo senso, pieni di insegnamenti. Se il genere burlesque ha trionfato prima di Griffith e del montaggio, è perché la maggior parte delle gag mostrava una comicità dello spazio, del rapporto dell'uomo con gli oggetti e il mondo esterno. Chaplin in The Circus è infatti nella gabbia del leone e i due sono chiusi insieme nella cornice dello schermo. (Bazin, Montaggio proibito, in Che cos'è il cinema?)

Ovviamente queste riflessioni di Bazin devono più al Henri Bergson di Materia e Memoria che a quello de Il riso, poiché non si tratta più di teatro ma di cinema. In questo senso, il critico considererebbe la formidabile scena di Chaplin nella gabbia del leone come un momento propriamente cinematografico (irriproducibile in altre arti o rappresentabile solo attraverso il montaggio). In questo punto cruciale, il motivo dell'incontro tra la persona e la bestia è polarizzato dal comico: «Molte cose ci fanno ridere quando vengono raccontate per scherzo, anche se non ci farebbero ridere nella vita reale». (Stendhal, Sul riso). La scena in cui Charlot si chiude accidentalmente nella gabbia del leone si presenta chiaramente come una complessa gag cinematografica (che include anche una tigre e un cane).

A differenza dei film criticati da Bazin, le commedie di Hawks, Keaton o Chaplin considerate non sono basate semplicemente sull'interazione tra animale e persona o sull'antropomorfismo. Ogni fase della commedia è organicamente integrata in una racconto comico e contenuto e forma coincidono pienamente: «una situazione, alcuni personaggi, un'azione strutturata, un'ultima parola, una storia» (J.-C. Carrière, Il circolo dei bugiardi). Le storie divertenti (azioni esagerate, folli, ecc.), i personaggi comici affascinanti e permanentemente inappropriati sono l'altra faccia del genio dell'improvvisazione, dell'arte della messa in scena, insieme alla bellezza del gag, la pianificazione precisa dello spazio, il senso del ritmo, le formidabili performance (di Keaton, Chaplin o Katherine Hepburn e Cary Grant). Le straordinarie scene di animali, pur contribuendo in modo significativo e generale alla narrazione, costituiscono solo una parte della spettacolare esposizione comica e narrativa di questi film.

Il circo è una catena multipla di azioni comiche che coinvolgono Chaplin con diversi animali. Le sue piccole e grandi scene di burlesque utilizzano tutti gli elementi delle attrazioni circensi: dal cavallo che rincorre Charlot dappertutto; al branco di animali totalmente fuori controllo, coinvolti nell'atto di magia il cui trucco viene continuamente svelato; le scimmiette che all'improvviso escono da una valigia come fossero pagliacci scesi da un auto; e la grande scena comica in cui Charlot cammina senza rete sulla corda tesa e le scimmie si gettano sopra di lui - strisciandogli sul corpo e mordendogli la faccia, abbassandogli i pantaloni, ecc. -. Si tratta di una scena perfetta nel suo genere: il modo in cui viene girata l'interazione tra le scimmiette e il velocissimo comico è sospeso tra il credibile e l'incredibile, creando un momento cinematografico divertente che contribuisce alla mitologia del vagabondo. Chaplin aveva filmato altre formidabili scene di animali in A Dog’s Life, quando salva il cucciolo dal branco che lo rincorrerà per la strada creando caos al suo passaggio. Oppure quando un altro cane li insegue e morde il vestito di Charlot appendendosi alla stoffa, mentre il comico cerca di scappare. O l'immagine della coda del cane che spunta dai pantaloni del comico (con il dettaglio dell’animale che scodinzolando fa suonare lo strumento a percussione).

Da parte sua, Bringing Up Baby mette in scena una serie di situazioni assurde che includono non solo il leopardo addomesticato che dà il nome al film, ma anche un secondo leopardo (questa volta selvaggio), un cucciolo di cane e i personaggi di Katherine Hepburne e Cary Grant. Le azioni dei protagonisti sono sempre comiche secondo i codici della screwball comedy, con situazioni al limite dell'inverosimile: i felini sciolti, il grosso cane che ruba l'osso del dinosauro, fanno si che i personaggi corrano sempre dietro di loro. Ancora una volta, possiamo parlare di bazinismo per riferirci a diversi momenti, ad esempio quando il cagnolino e il leopardo giocano o quando Hepburn trascina il leopardo selvaggio con una corda fino all'edificio della polizia, dove scopre di tenere con sé il leopardo sbagliato. Sono tutte scene straordinarie. Anche l'antropomorfismo è portato alla perfezione in alcune delle situazioni di questi film: le azioni del piccolo cameraman in The Cameraman, per esempio; in questo senso, la forma più perfetta dello stesso fenomeno è l'incredibile scena nel laboratorio di Monkey Business in cui lo scimpanzé apre la sua gabbia, prepara l’elisir della giovinezza e poi lo versa nel bidone d'acqua che berranno gli scienziati.

Perfezione della messa in scena hawksiana, tanto citata dagli adepti della politique des auters, nella sincronia del movimento dell'animale e della macchina da presa, filmando sempre da un punto di vista privilegiato la metamorfosi che avviene davanti agli occhi degli spettatori nel momento in cui lo scimpanzé apre la gabbia, oscilla usando lo stipite della porta e si lancia sulla sedia, accomodandosi al tavolo da lavoro del farmacista. L'animale addestrato compie alcune azioni straordinarie che vengono filmate bazinianamente, senza tagli. Lo spettacolo è così perfetto che, in apparenza, tende a incorporare l'animale. E nello stesso tempo è così strano che alcuni istanti dell'azione dello scimpanzé fanno pensare allucinatamente alla figura dell'automa descritta da Walter Benjamin nelle sua Tesi sul concetto di storia: un nano, maestro di scacchi, si nasconde dentro la figura del turco con il narghilè, in modo tale da non venire mai scoperto. Succede che i magnifici animali che compaiono in questi film sembrano strani (come la pantera in Cat People di Jacques Tourneur) in termini di morfologia ed etologia: la loro fisionomia è l'opacità nella quale si leggono somiglianze e differenze con l'umano (soprattutto nel caso di alcuni primati).

I comici che ci interessano sono capaci di evocare e di congiurare il potere dell'animale nella loro stessa arte. Risolvono brillantemente un'impresa doppiamente difficile, poiché devono filmare le azioni dell'animale in maniera  tale che possa contribuire attivamente alla rappresentazione comica. Nello stesso modo in cui ogni traccia del comportamento dell'animale che evidenzia il dispositivo della rappresentazione cinematografica è stata abilmente cancellata secondo le convenzioni della trasparenza, la tensione tra improvvisazione e progettazione in questi film scompare nella perfezione della forma: «Cominciare come lui, all'improvviso, con la sua maschera da clown, con quell'arte di prevedere ogni dettaglio e nello stesso tempo farlo sembrare improvvisato» (Gilles Deleuze e Claire Parnet, Dialoghi). Infine, il motivo baziniano a cui si fa riferimento può essere considerato come una serie di temi letterari o come incidenti cinematografici (come scrive Serge Daney).

La parte degli incidenti di ripresa evoca risonanze baziniane in termini di ontologia cinematografica, ma questa non è più esclusivamente legata alle questioni del pericolo e della morte. I termini della proposizione sono invertiti: ora importa come è il comico nella realtà e non come appare la realtà nel comico. Gli animali esotici e pericolosi scompaiono lasciando il posto ad animali domestici (sulla scia del ricorrente gag con i cani, in Chaplin, Hitchcock, Jerry Lewis, la screwball comedy, ecc.) La forma più diffusa del motivo dell'animale polarizzato dal comico più diffusa è costituito dalle graziose fotografie di animali durante le riprese: come quelle dell'affollata audizione durante la quale centocinquantadue gatti neri (portati al guinzaglio, in borse, dai loro padroni) furono presentati per ottenere un ruolo nell'adattamento cinematografico di Poe Tales of Terror (Roger Corman, 1962): «Gli animali degli abissi diventano figure di carte da gioco senza spessore» (Deleuze, Lewis Carroll).

La tentazione e il rischio di incorporare tali materiali nella commedia sono evidenti. È il caso di Film (Alan Schneider, 1963). Il regista sapeva bene di non poter modificare o aggiungere nulla all’unica opera scritta per il cinema da Samuel Beckett, anche se pensava, ad esempio, che le smorfie che Buster Keaton, protagonista del film, faceva agli animali erano «più divertenti del materiale comico incluso nel film» (Schneider, Sulle riprese di Film). Keaton, cercò di apportare idee per nuove scene in un’opera che non solo trovava noiosa, ma che nemmeno capiva. All'inizio il grande regista e attore apprezzava, della sceneggiatura, solo il gag (squisitamente baziniano) che consisteva nello scacciare il gatto e il cucciolo dalla stanza, dove sarebbero rientrati successivamente: un passaggio comico che è di per sé una piccola trovata geniale e che era stata progettata con grande precisione dall'autore irlandese. Schneider ha scritto di sé che rideva e piangeva perché durante le riprese di questa gag, il comico lanció il chihuahua troppo presto con il risultato che il cane cominció a comportarsi in modo insicuro: il regista finí per lamentarsi del fatto di non avere comparse o “doppi” animali. In definitiva, si tratta di tutto ciò che funziona male e che nella commedia rivaleggia con «l'atmosfera comica e irreale» del film che Beckett segnala nelle note di lavoro.

Love Is a Strange Thing (Tracey Emin, 2000) incarna il motivo baziniano nella sua forma comica definitiva sia perché lo riduce alle sue componenti fondamentali, sia perché sembra un gag basato proprio su di esso (la sua brevità è simile a quella del formato del motto di spirito). La voce fuori campo del video (il testo) racconta un sogno fatto dall'artista britannica, dove incontra un cane con il quale inizia a interagire:

Mentre mi avvicinavo al ponte, lo vidi seduto lì.

All'improvviso mi disse: "Molto bene Trace", con voce assai profonda.

Che? Che strano, mi sta parlando un cane! E disse di nuovo: "Molto bene Trace. Che ne pensi se lo facciamo?

"Se facciamo cosa?"

"Ti piacerebbe scopare?"

"Ehm ... cosa?"

"Questo, se vuoi scopare".

"Mmm ... Scusa ma ...".

"Cosa c'è che non va? Non ti piaccio? Non mi trovi attraente? "

"No, non è quello, è solo che ... beh ... sei un cane".

Sembrava ferito. I suoi occhi grandi e tristi. Sembrava ferito. E quando ricominciai a camminare, mi guardò e mi disse: “Tracey, Tracey, proprio tu. Non avrei mai immaginato che fossi così prevenuta”.

L'ironia dell'autoritratto e la nitidezza della narrazione in prima persona sono raddoppiate dal pessimismo comico con cui l'artista fa riferimento alle condizioni di realizzazione del suo video e al fatto di filmare con l'animale:

Ho dovuto usare un bull mastiff, un cane che faceva paura. Sono andata a una scuola di teatro per cani, ma quello che mi piaceva, un pastore tedesco che era capace di sorridere, aveva subito una piccola operazione, si era rasato un po’ il pelo ed era assai timido davanti alla macchina da presa. Quindi l’unico cane disponibile era quel bull mastiff, che ha mantenuto una erezione per tutto il film. E si muoveva e sbavava, cosa che mi imbarazzava molto. Inoltre, ho paura dei cani. Ho pensato che sarebbe stato molto bello per me fare un film con un cane, come un modo per costringermi a superare quella paura. (Tracey Emin, How it Feels)

 A contropelo di Bazin, in Love Is a Strange Thing Emin immagina, scrive e (per qualsiasi motivo) non si mostra fino al finale; il pericolo non appare più sullo schermo (anche se il cane e l’artista condividono la stessa inquadratura) e il comico passa per la lingua che delira su alcune immagini. La letteratura rientra così nell'immagine comica, attraverso lo humor nero, con formidabile potere corrosivo e sebbene l'aneddoto ci riporta al regno baziniano del pre-filmico, nell'opera ci troviamo nell’ambito dell’artistico (l'audiovisivo), solo che nel mondo di Alice nel Paese delle Meraviglie.

«All’inizio i cambiamenti fisici erano lenti, poi hanno fatto balzi in avanti con sordi tonfi neri, ricadendo negli strati di tessuto molle, lavando via i tratti umani… Nel posto dove regna il buio assoluto la bocca e gli occhi sono un organo solo che balza in avanti per mordere con denti trasparenti» (William S. Burroghs, Pasto Nudo{1}{William S. Burroughs, Il Pasto Nudo,  Milano, Adelphi , 2007, p. 21})

327 Quaderni

Jean-Luc Godard suggeriva in un'intervista la maniera in cui un giovane aspirante cineasta potrebbe girare un film: dovrebbe limitarsi a raccontare un giorno della sua vita che, aggiunge ingannevolmente, è quello che James Joyce fece con l'Ulisse. Questa battuta dell'artista ammirato da Ricardo Piglia, fa luce anche sul pensiero dello scrittore e critico argentino.

In Abigail Child’s diverse and prodigious artistic career, Mayhem (1987) represents one, very specific type of exploration. Coming at the spectator like a violent cut-up, it mixes her filmed images from New York’s Lower Eastside in 1985 and 1986 with various old movie samples, plus a soundtrack comprised of audio fragments (also sampled) alternated with improvisations from a gang including Christian Marclay and Shelley Hirsch. It has the rawness and insider-vibe of an “art school confidential” exercise in mimickry and playful subversion – but taken all the way, an over-fifteen minute montage sequence that rarely eases off in its blistering intensity.

A person is transformed into an icon by a kind of violent, flattening rupture. Emma Goldman has been made into such an icon many times over. During her lifetime, it was as “the most dangerous woman in America,” posthumously as perhaps the most famous anarchist in Anglophone history — for most, however, as the name attached to a likely apocryphal quotation. Onscreen, she has been the subject of stodgy PBS documentary, and a bit player in a handful of others She was portrayed most famously in Warren Beatty’s Reds, as a kind of earthy (and fully Americanized) matron.

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alt[Clicca qui per la traduzione in italiano]

Lorsque Gemma Adesso m’a demandé de participer à ce numéro de la revue Uzak.it, elle avait en mémoire un texte publié en avril 2003, dans la revue Lo Straniero, en hommage à Carmelo Bene, intitulé: Carmelo Bene o lo splendore del vuoto1. Bien que je n’aie pas souhaité écrire à nouveau sur le théâtre ou sur le cinéma de Bene, le présent article, par son titre, ses thèmes et les figures qu’il évoque, y compris à travers ses références théoriques, est habité par l’esprit de Carmelo et fait écho à la fureur sublime et à cette splendeur  du vide qui étaient l’essence de son théâtre. En particulier, il aborde deux figures majeures de son univers poétique: la mystique, incarnation de «la jouissance de la femme», et don Juan. Figures qui s’opposent et se rejoignent en même temps, comme deux manières de répondre par la jouissance à une même crise historique: celle de l’époque baroque où l’éloignement de Dieu a creusé dans le monde un Vide dont, paradoxalement, il est possible de jouir sur le plan de l’esprit, du corps et du signifiant, mais aussi à la faveur d’une poétique et d’une esthétique du Vide.2

«Quando i nostri occhi si toccano, è giorno o notte?»
J.Derrida, Toucher, Jean-Luc Nancy


Ho deciso di iniziare questo articolo in una lunga notte passata nell’aeroporto di Philadelphia, non-luogo, non-tempo. In un incrocio di derive, una sospensione notturna, un interstizio, una dimensione psichica non solo spaziale.

Mi è sembrata l’atmosfera perfetta per parlare del lavoro di Rose Kallal, una delle due artiste della serata di live cinema – “Apparent Motion” – dell’ultimo Crossroads. Rose vi ha portato Rubix II, summa dei suoi lavori con proiezioni multiple in 16mm, accompagnandolo con colonna sonora eseguita con synth modulari. Ho colto l’occasione per farle un paio di domande dopo aver visto una versione montata delle tre proiezioni in 16mm che compongono Rubix II. Guardandolo e riguardandolo ho cominciato a veder apparire delle bombe H, Rose mi ha assicurato che non le ha editate di proposito, ma continuo a fare quest’associazione con il suo lavoro esplosivo.

Lei è Rose. Polistrumentista oltre che filmmaker, con una decisa propensione all’analogico. Tutti i suoi lavori sono accompagnati da una colonna sonora da lei eseguita, molto spesso improvvisazioni live di sintesi modulare, in una combinazione irripetibile di diversi 16mm in loop, sequenze diverse sia per lunghezza che per velocità e rates circolari. Le installazioni prevedono molteplici proiezioni in 16mm, in genere 3, in alcune installazioni 4 o 5.
La forma scultorea e la struttura ritmica delle sue videoinstallazioni richiama le giustapposizioni architettoniche brutaliste o stranianti di alcuni suoi lavori giovanili, scatti e 16mm, quali Analemma, girato nel campo universitario di Scarborough, Toronto.

I suoi lavori più maturi conservano tensioni e risoluzioni dei primi lavori, ma i confini si sfrangiano in una continuità circolare e si dissolvono in una maggiore plasticità. Visione e tattilità, distanza e prossimità si incrociano come un chiasmo. Le diverse proiezioni si compenetrano e allo stesso tempo si distanziano, in quella cornice del frame dove si incontrano tutte le aporie relative alla nozione di margine, limite, soglia; quella nozione di frame che in inglese è sia contenuto che cornice. Ogni singola proiezione accentra o disperde lo sguardo, in un overload sensorio ipnotico.
Qualche lettore, che ha avuto forse l’occasione di vederla in Italia nel 2013, al Live Arts Week, o allo scorso Atonal, si sarà trovato immerso in un flusso costante di pattern connettivi, senza confini tra micro e macrocosmo, un feedback con uno spostamento continuo del centro, in cupe atmosfere dove l’oscuro universo incontra la coscienza interiore, come nell’animazione frattale della lava avviluppata nel suo Rubix II.



Nei suoi lavori si ritrovano echi dei pionieri, Oskar Fishinger e Hans Richter, Harry Smith e John & James Whitney, dei mistici Jim Davis e Jordan Belson. Come nei film di Belson1, l’esperienza di visione è continua, orchestrata senza tagli ma piuttosto un sovrapporsi di dissolvenze, in un universo panteistico dove materia e forma confluiscono infinitamente l’una nell’altra (cfr. Apeiron). Del cinema cosmico di Belson manca forse quel senso di diffusa armonia, riflesso di una mente imperturbata, Rose è espressione di una mente più inquieta e le atmosfere ricordano più degli immaginari di fantascienza distopica anni Settanta (a volte espressamente citata come il Zardoz di Mobius Coil.

Una new age risucchiata nel vuoto contemporaneo, dove non c’è più nessun visibile definito, è rimasta la possibilità di vedere altrimenti, in altro modo. Ciechi gli occhi che scavano dentro, ma aperti agli occhi del mondo. Tra i due occhi c’è questo vuoto, che è sospensione, ritmo, durata. Un interstizio, una bordure che è sia interna che esterna allo spazio semantico e comunicativo da essa delimitato, quindi sia luogo di passaggio che confine invalicabile, sia condizione dell'aprirsi della manifestazione che gesto di chiusura, incontro o rifiuto dell’altro.



Come si può forse evincere dai suoi lavori, Rose è piuttosto laconica ma molto diretta, riservandosi il diritto di tenere avvolte nel mistero alcune questioni, ma anche svelandoci qualche segreto. Ecco di seguito uno stralcio della nostra conversazione.

Sei originaria del Canada, giusto? Quando ti sei trasferita a NYC?

Sì, sono originaria del Canada, ma ho vissuto a NYC negli ultimi 15 anni, sono residente permanente, e sto cercando di ottenere la cittadinanza. Ho vissuto a NYC a partire dalla fine degli anni ottanta, quindi ho una lunga storia con questa città. mi considero americana a questo punto. Ho trascorso la maggior parte degli anni Novanta a Toronto, lavorando soprattutto in ambito fotografico. Ho fatto un paio di cortometraggi mentre frequentavo la scuola d'arte a Toronto e poi a NYC alla fine degli anni Ottanta. Dopo essermi focalizzata sulla fotografia per alcuni anni, sono tornata a girare in pellicola 16mm alla fine degli anni Novanta. Ho iniziato a fare proiezioni dal vivo nel 2006. Sono legata alle gallerie e alla comunità musicale più che al mondo del cinema. [Rose è rappresentata dalla galleria Newyorkese Lyles and King]



Come ti è sembrato il Crossroads? Come era il tuo set up? Hai performato col modulare e per quanto tempo? Il titolo si riferisce a qualcosa in particolare?


Il festival si è svolto presso il teatro SFMOMA, con un grande schermo cinematografico e con un buon sistema audio. Sì ero sul palco col mio synth modulare per circa 25 minuti, con tre 16mm in loop; le mie performance di solito sono di 30-45 minuti. Di solito mi siedo davanti appena sotto le proiezioni. Ritengo che le parti visive e quelle sonore siano egualmente importanti e non performo molto i miei progetti. Crossroads probabilmente sarà l'unica di Rubix, ho fatto una sua variante al Lincoln Center, ma in versione video, digitale. La prossima performance coinciderà con un nuovo lavoro. Alcuni dei miei pezzi hanno nomi di stelle (ad esempio la stessa colonna sonora di Rubix, Murzim) e il mio lavoro Aldebaran si riferisce a una stella, una stella doppia rossa, gli occhi del toro nella costellazione del Toro. Rubix mi suonava come il nome di una stella, ma non credo esista... La parola mi suggeriva qualcosa di rosso e quadrato.

Ho visto delle corrispondenze con il materiale d'origine ma anche animazione computerizzata. Come elabori l'animazione? Viene poi convertita su 16mm? In particolare la mia attenzione si è soffermata sul quel magma rosso fluido che galleggia nella proiezione centrale di Rubix. Come è stato generato?

Catturo i miei esperimenti di sintesi video e poi li modifico a computer, poi riprendo il filmato dal mio monitor con un bolex 16 mm. La maggior parte di altri miei lavori in pellicola incorpora anche alcune grafiche che faccio su tavolo luminoso e utilizzo doppie esposizioni ecc. Ma Rubix è abbastanza semplice. L’animazione rossa centrale è una sorta di frattale che ho filmato da youtube... sto svelando dei miei segreti del mestiere…
Ma non uso molto foundfootage, la maggior parte lo trovo su Youtube, ma non lo archivio. Negli ultimi anni tendo ad usare solo i miei filmati.

È veramente intrigante come le tre proiezioni si intreccino, ancor più quando performate live ne sono sicura. Come le progetti? Si sovrappongono e interferiscono fra loro in qualche modo, come costruisci questa tripla espansione visiva?

Ho usato una varietà di configurazioni per le proiezioni, ma il trittico è sempre bello. Posiziono i proiettori in modo che le immagini si sovrappongano e i loop siano tutti di lunghezze diverse, in modo che le immagini ripetute talvolta si sincronizzino, ma come se stiano sempre riconfigurando se stesse. Lo vedo come un modo per mostrare dei processi elementari.



Componi la maggior parte delle tue colonne sonore. Spesso si tratta di composizioni ronzanti e  minimali, fatte con un synth modulare, o anche con la batteria. Il tuo background è anche quello di musicista?


Suono sin dai primi anni Novanta, ho iniziato a suonare la batteria e la chitarra, poi il synth. Le mie performance sonore sono semi improvvisate, di solito spendo un po' di tempo a lavorare sulle patch di sintesi modulare prima di eseguirle, quindi il tutto è comunque abbastanza elaborato prima di essere eseguito.

Sappiamo che hai collaborato con Mark Harris (Napalm Death, Svorn) e Karl O'Connor (Regis), Robert Aiki Aubrey Lowe / Lichens, Mark Beasley attualmente curatore della Performa, Mark Pilkington, con il quale hai pubblicato anche un'ep Implicate Explicate su We Can Elude Control, tutte figure eclettiche come te probabilmente, filmmaker, artista musicista: che altro?

Il lavoro Mobius Coil  è stato realizzato a Londra per una mostra chiamata “Narcissus Trance” curata da Paul Purgas e Shamma Khanna; Mick Harris e Karl O'Connor hanno collaborato insieme e entrambi abbiamo suonato all'apertura. Paul Purgas ha incluso lo split 7 pollici come parte della mostra. Non abbiamo collaborato, ma abbiamo condiviso questo momento coronato da un disco. Ho collaborato con Robert Aiki Lowe più volte, oltre a Mark Beasley e Mark Pilkington, tutti buoni amici...

Vuoi dirci qualche spoiler sul nuovo album che uscirà presto?

Sì, il mio album uscirà per l'etichetta britannica – We Can Elude Control – di Paul Purgas, membro degli Emptyset ma anche curatore. Ho da poco sentito Paul, per quanto riguarda l’album, sembra che la data di uscita sarà il primo settembre. Il titolo dell'album è Perseus. La traccia che ho usato in Rubix II, Murzim, è dal nuovo album, il video potrebbe essere usato come promo per l’uscita, ma non ne sono ancora sicura...



Le laconiche risposte di Rose sono ricche di punti di sospensione, parentesi che dischiudono infinite soglie, stati di trance iniziatici e allucinazioni ipnagogiche, aperture fluttuanti tra un buco nero e il cosmo in continua espansione (Solar Arc). Riflesso di arcobaleni di gravità e coscienze perdute (Lady of the Lake) eco di futuri anteriori in una dimensione extratemporale di perenne immanenza. Un caleidoscopio inesauribile, ma insaziabile.

Sono in volo verso il vecchio continente ora. Penso ai quei quattro pilastri dello scorso secolo, celluloide e nastro magnetico, taglio e montaggio. Mi sento oscillare tra vecchio e nuovo, sincrono e asincrono. Assorbita in un collasso eterno, riverberato nel bagliore di tecnologie al confine dell’obsolescenza. Un loop di passato al presente. E tutto ciò con il suo moto di inerzia non poteva che arrivare dal Nuovo Continente, da San Francisco; attraverso NYC e la sua frenetica entropia, l’apparente antidoto ad un horror vacui sempre più prossimo al punto di non ritorno della nostra umanità.


Note

1. Il seguace ideologico di questo tipo di cinema, come Youngblood, crede che la conseguente simultaneità dell'azione (non drammatica), procedendo all'interno di un continuum spazio-temporale, rifletta con maggior precisione, tra i vari stili cinematografici, l'era della relatività e che la sovrapposizione debba sostituire il montaggio (Gene Youngblood, Expanded Cinema, New York, Dutton & Co., 1970 pp. 86-7)


Filmografia dei lavori citati di Rose Kallal ordinati cronologicamente

Analemma 16mm film, 2002

The History of Magic 16mm film, 2004

Solar Arc – 16mm film loops, 2007

Mobius Coil – 16mm film loops & sound, 2010

Lady of the Lake – 16mm film loops & sound, 2011

Apeiron – 16mm film loops and sound, 2013

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Per certi sostenitori, il cosiddetto realismo francese non fu che la rappresentazione di un nuovo strato sociale e di una nuova natura rurale a circondarlo; un'idealizzazione paesistica, una simpatia fedele verso un immaginario che andava perdendosi. Vero è che fu certo un'evasione, un tentativo di inseguire nuovi paesaggi e, assieme, quelli che svanivano. Esempi potrebbero essere certe vedute industriali, quelle di Doré o Meunier, che pur evitando di rappresentare direttamente gli effetti rovinosi di una nuova urbanità, esprimono silenziosamente, con la sola raffigurazione di uno scorcio, tutta la miseria derivante; si dice tant’è: «È assai più difficile per un artista evadere dal proprio tempo che appartenere a esso» (cfr. Nochlin).


No longer the young upstart, the San Francisco Crossroads festival has established itself as one of North America’s major showcases for avant-garde and experimental film, video, and multimedia work. This means that higher profile filmmakers are screening their work at Crossroads, sometimes even offering the festival world premieres of new work. (By contrast, just a few years ago there were films that screened in New York and Toronto, despite having been shown at Crossroads four months earlier. The big fests didn’t even notice.)


altSecondo la vulgata liberal e democratica – in una parola, clintoniana – ormai divenuta mainstream, il movimento dei diritti civili negli Stati Uniti iniziò l’1 dicembre 1955 a Montgomery, Alabama quando una donna di colore di 42 anni di nome Rosa Parks decise di non rispettare la divisione “razziale” delle sedie allora in vigore sul sistema pubblico di trasporti locali. È lì che tutto iniziò e che portò il movimento fino alla marcia di Selma e quella su Washington, il Voting Rights Act e Martin Luther King. La Parks, stanca dopo una giornata di lavoro con i piedi che le facevano male, in un pullman traboccante di passeggeri di colore che tornavano a casa dal lavoro, decise di occupare uno dei posti vuoti in una delle prima quattro file che erano riservate unicamente ai passeggeri di “razza bianca”. Si trattò insomma di un gesto di rifiuto isolato, motivato unicamente dalla “resilienza” di una donna sola e coraggiosa, che funzionò da scintilla per uno dei più importanti movimenti di emancipazione del Novecento?

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The San Francisco Cinematheque, founded in 1961 by filmmaker Bruce Baillie, has long been a focal point for underground filmmaking in the Bay Area, retaining something of the vitality of San Francisco’s wooliest era. As experimental cinema has changed to accommodate the theory-heavy aspirations of contemporary art, the Cinematheque has embraced such work as well, keeping current with new forms that have emerged first out of intermedia and video art, and more recently by digital means.

Ai margini del cinema argentino contemporaneo più originale, spiccano i film di César González, audaci, inconfondibili, simili a un enigma. Cineasta plebeo, è autore di un'opera torrenziale difficile da concettualizzare. Anche per chi in Argentina ha seguito da vicino la proliferazione dell'opera e delle mostre dell'artista nell'ultimo decennio, resta difficile definire la sua carriera. Tanto più che c'è, in questo pensatore, poeta e cineasta un nucleo che rimane permanentemente inafferrabile e intraducibile: può essere contemporaneamente o alternativamente la sua esperienza di vita (così intensa e differente), il suo pensiero sofisticato (somma di una notevole varietà di registri e di posizioni eterogenee), la sua comunione con l'arte. Altre importanti questioni legate a questa filmografia contraddicono poi ogni idea illusoria sulla sua univocità: il numero, la frequenza di apparizioni e l'irregolarità dei film; la molteplicità degli intertesti (principalmente, ma non solo, scritti di vario genere) che compongono la vasta opera di César González e che dialogano con i suoi film, nonché le relazioni che si instaurano tra di essi; e, infine, il segno immanente della sua originalità, cioè la sua profonda estraneità. Nelle pagine che seguono si tenterà una deviazione dai problemi segnalati, evitando contemporaneamente l'esaustività cercando di discutere i film del regista attraverso interpretazioni frammentarie, elogiative e insufficienti, trascrivendo anche parti delle sue poesie e scritti.

«in passato uscivo a rubare / e il fumo della polvere da sparo / segnalava il mio destino / la poesia oggi / è il terreno che cammino / ieri ero uno scheletro dedito all'odio / una semplice ombra / riflessa nella grotta / e oggi proietto in un cinema / ombre e scheletri / che io stesso dirigo / ieri sprofondavo nel fango / e non per gioco / oggi dico che il fango era / la mia accademia di Platone / ieri dormivo / su duri e quadrati cuscini / oggi sono il fidanzato dei sogni realistici / ieri mi trascinavano / ammanettato tra ospedali / ieri agonizzavo / tra istituti e carceri / oggi la pioggia non arrugginisce più la mia anima» (C. González, 2015, p. 22).

Sebbene ogni nuovo film di César González sia legato ai precedenti attraverso una molteplicità di legami, non sono da poco gli scarti che ciascuno di essi lascia intravedere. Sembra difficile riconoscere nella forma dei suoi ultimi lavori la presenza delle prime opere che, tuttavia, sono incluse in essi. Un regista dialettico? È possibile, considerando il suo interesse per il marxismo e la sua devozione al cinema sovietico. Come regista materialista, parte dal mondo per sperimentare con le sue immagini. Buenos Aires è l'enclave e il teatro di operazione del suo peculiare universo. Come un occhio che demolisce ciò su cui si posa, alla maniera di quello con cui si apre Un perro andaluz (Luis Buñuel, 1928), osserva con il bisturi la vita nelle borgate, nella metropoli, ma anche negli spazi di contenzione come (false) monadi che conterrebbero tutte le immagini, dove l'insieme sociale si esprime come sistema disciplinare o incubo. All'inizio la realtà entrava con tutta la sua violenza, poi il cinema ha finito per contaminare la realtà con la sua anamorfosi. E così anche quei film che presentano i segnali più numerosi del mondo referenziale, interrompono permanentemente la loro presunta immediatezza con ogni sorta di visioni eccentriche, apparenze che apparterrebbero in linea di principio a ordini di cose diverse: «[…] una saturazione / di segni magnifici / immersi / nella luce / con la sua assenza / di spiegazione» (J.-L. Godard, 2007, p. 190).

«Anche se sembra crudele / c'erano corpi di bambini / appesi ai cavi / legati agli alluci / negli angoli c'erano montagne / di cadaveri di vecchi e donne / con gli occhi cotti / e il loro odore di morte tagliava il firmamento / Gli alberi erano fuggiti non so dove / Il mare era un eterno Riachuelo duro di stronzi giganti / Se l'erano data a gambe le strade, il cielo e i campi / Scomparve la notte / E le stelle sembravano essersi avvicinate / All'altezza delle nubi, / che erano fuggite anche loro / Quando cercai di scappare / mi accorsi che anche i miei piedi se n'erano andati./ E sono crollato su quel poco di terra che rimaneva, / che dopo un po' decise / di scappare anche lei» (C. González, 2019a, p. 65).

Senza nemmeno un decennio in attività, l'ancor giovane César González ha diretto sei lungometraggi, almeno quattro cortometraggi, una serie di documentari e diversi videoclip in forma indipendente. Lo ha fatto utilizzando risorse materiali esigue, ma anche esercitando da sé, durante la produzione, vari ruoli tecnici e artistici. Impegnato in una sorta di corpo a corpo con l'opera, incarna contemporaneamente tutto un team di lavoro, una fucina audiovisiva virtuosa e febbrile (come Godard o Fassbinder). Operazioni comuni alla prassi audiovisiva come il montaggio, la correzione del colore, il sound design, la musica, la direzione della fotografia, l’uso della macchina da presa, la sceneggiatura, la direzione degli attori e, naturalmente, la regia, eseguono nelle sue mani una sperimentazione imprescindibile. A questo si devono aggiungere la miriade di progetti a cui lavora contemporaneamente. César González è uno dei grandi sperimentatori del cinema argentino.

«[…] discorsi incapaci / discorsi che sono stati in guerra / e non si suicidarono / hanno una retroguardia / e sono le parole che gridano / hanno cecchini / e sono parole d'amore / tutti decisi a bruciare i dizionari / niente li ferma / perché sanno dire senza dire / qual è la cosa più importante / di qualsiasi lingua» (C. González, 2014, p. 59).

In alcuni dei suoi film, il regista appare davanti alla macchina da presa in ruoli dai tratti più o meno autobiografici la cui importanza varia in ogni storia. In Athens (2019) ci sono alcune scene in cui accompagna amichevole un bambino (interpretato da Alan Garvey). Il suo breve intervento in ¿Qué puede un cuerpo? (2014) consiste (secondo i titoli di credito) nel rappresentare un «lavoratore che consuma droga». È nel suo primo lungometraggio (Diagnostico Esperanza, 2013) – anche se il suo nome non è elencato tra gli attori – che recita un ruolo di primo piano: insieme a un amico del suo quartiere, ruba l'auto di un uomo che poi rapisce rapidamente, minaccia e colpisce brutalmente pur di prelevare i soldi dal suo conto in banca. Sebbene la frenesia di questa sequenza possa essere attribuita alla giovinezza del cineasta e a certe esperienze del suo passato, la verità è che si tratta di un cinema che distrugge programmaticamente ogni compiacimento, ogni possibile concessione al luogo da cui proviene (sebbene non rinunci al suo impegno quotidiano per la dignità degli ultimi) e al suo pubblico. Questa primo film è in fondo troppo filosofico per degenerare in spettacolo, demagogia o “pornografia”.

Lluvia de jaulas (2020) introduce per la prima volta la voce over del cineasta (notoriamente ispirato allo stile tardo e all'inconfondibile voce di Godard) che con tono poetico-critico pronuncia frasi epigrammatiche o necrologi della società.

«Ho memorizzato la mia armonia / dopo aver navigato / nelle lagune più miserabili / e nei fiumi del male / sono figlio di un seme ubriaco / e di pugni di maschio / sono un accidente del destino / una barzelletta mal raccontata / sono un figlio dell'azzardo / che può contemplarsi senza rancore / figlio dei padiglioni più oscuri / condannato dai tribunali più severi / e oggi imploro a tutte le ore / più disobbedienza / non possiamo essere così tanti / e con così poca ribellione / siamo così diversi / ma commercialmente così unificati / diciamo di essere laici e atei / però abbonda la fede nel capitalismo» (C. González, cit., p. 67).

Come quasi tutto in questo cinema, anche i titoli di coda hanno la loro parte di originalità. Da Diagnostico Esperanza – dedicato a «Tutti i miei cari fratelli [...] e tutte le persone / che muoiono senza senso / profumate di piombo / bagnate di ingiustizia» a Exomologesis (2017) − dedicato a Michel Foucault −. Questi ultimi due film includono anche riconoscimenti eccentrici e significativi: alla fine di Atenas sono registrati i nomi di Roberto Rossellini, Sergei Eisenstein, Kenji Mizoguchi, Robert Bresson, JLG, Fernando Birri, Raymundo Gleyzer, Glauber Rocha, Jean Rouch, Charles Burnett e Agnès Varda; In Lluvia de jaulas si ringraziano sia Lucrecia Martel e Luis Ortega – registi argentini che César González potrebbe conoscere di persona - sia Karl Marx, Angela Davis, Franz Fanon (sic), Gilles Deleuze, Felix Guattari, Fréderic Lordon, Dziga Vertov, Elizabeth Svilova (sic) e Chris Marker.

«me lo sussurrò all'orecchio il fantasma di un amico morto» (C. González, cit., p. 74).

Due film del cineasta ospitano finali formidabili che, nel loro tenore lacerante, esprimono la vena stilistica del suo lavoro. L'immagine che chiude il suo primo lungometraggio (prima dei titoli di coda) mostra in uno spazio separato dalle relazioni sature di violenza, la donna (spacciatrice da quattro soldi) sdraiata, che allatta il suo bambino mentre lo osserva e gli tocca i piedi e i capelli con affetto sincero. È un epilogo davvero cinematografico, preparato da almeno due situazioni precedenti: la scena in cui la stessa donna urla che avrebbe dovuto abortire alcuni dei suoi figli (sebbene possano sentirla); e, subito prima della fine, il momento in cui, vanificata la rapina alla cui pianificazione aveva partecipato, e mentre fuma una sigaretta con il figlio sul petto, esclama che sta per spaccare la testa ai bambini. Una situazione austera che però tocca il nervo scoperto del mondo delle contraddizioni continuamente svelato da questo cineasta. Alla fine di Atenas l'immagine, che si blocca letteralmente, produce una strana visione di una strada sterrata in un quartiere popolare la cui vita si interrompe; il finale pietrificato si chiude sul destino spezzato di Persefone, la giovane donna scomparsa che nel film viene rapita da un uomo che vuole prostituirla.

«Può la volontà schiacciare ogni sospetto antropologico? / Può il desiderio inventarsi solo una via? / È possibile fuggire dai sotterranei del mondo? / L'uomo lascia sognare la donna? / Non è un incubo se oltre che donna, sei nato povero e sei appena uscito di prigione?» (C. González, 2019b, s.p.).

Dopo Fernando Birri, che studiò cinema a Roma negli anni Cinquanta, lavorò saltuariamente come aiuto regista di Vittorio De Sica e assunse la linea del prodigioso cinema italiano del dopoguerra, estendendola alla Scuola Documentaria di Santa Fe, César González è senza dubbio il più (consapevolmente) neorealista dei registi argentini. Potrebbe essere il nipote dei bambini traballanti del villaggio in cui è stato girato Tie dié (Birri e Scuola Documentaria di Santa Fe, 1955-58) o, come uno di loro, potrebbe essere un altro tragico soggetto filmato, registrato appena in tempo per (forse) essere poi dimenticato nella vasta distesa del sottosviluppo latinoamericano; tuttavia, ha studiato la storia (delle forme) del cinema, e appropriandosi del mezzo si è dedicato a plasmare un mondo proprio. Ci sono le immagini furtive del carcere che si allontanano in Diagnostico Esperanza; la moltiplicazione dei punti di vista sulla Villa Carlos Gardel, la Villa 31, la 21 [si tratta di insediamenti irregolari composti da costruzioni di fabbricazione precaria, caratterizzati da privazioni, mancanza di infrastrutture e repressione poliziesca, parte della sterminata periferia urbana della capitale argentina, analoghi alle favelas brasiliane e ai ranchos di Caracas; traduciamo “villa” con il pasoliniano “borgata” n.d.t.]: la macchina da presa ricorsiva dietro le spalle dei personaggi che si muovono dentro spazi ripetitivi (il quartiere dove abita il regista) o si vedono per la prima volta; la casa del regista, piena di libri, immagini pittoriche e accentuazioni cromatiche. In tutte le belle, semplici testimonianze visive di persone che vivono in questi quartieri, inquadrate frontalmente, o inavvertitamente, lasciando trasparire lo splendore di una verità di origine neorealista (Corte rancho, 2013; Lluvia de jaulas). Anche questo è un cinema fatto in maniera “giusta”.

Ma César González eredita il neorealismo anche attraverso l'altra via regia che si affianca alla visione dei film decisivi di Visconti, De Sica, De Santis, Pasolini, Rossellini, ecc.: i libri che Deleuze dedicò al cinema. Forse ispirato da alcuni elementi del concetto di immagine-tempo del filosofo francese, come la famosa nozione di forma che pensa −identificata da Godard nei ritratti di Edouard Manet−, il regista giungerà ad un procedimento idiosincratico. Si tratta, ovviamente, di inventare (Fanon), di fare qualcosa di nuovo con ciò che si ammira. Nel suo caso, creerà disgiunzioni, momenti spaiati o straniamenti del tempo in cui vengono presi certi personaggi (di solito) quando sperimentano situazioni mortificanti. Momenti residui, contaminazioni dal punto di vista dell'enunciazione piuttosto che percezioni o pensieri di uno o più personaggi, a cui il cineasta consacra una forma determinata: un primo piano rallentato, a volte diviso in un altro piano successivo ancora più vicino al volto smarrito, privo di reazione; a volte in modo autonomo rispetto alla colonna sonora. Questa forma basata sui volti, con le sue variazioni (piani d'insieme, parti del viso, ecc.), è l'immagine che estrae energie singolari o scorge poteri in agguato.

«lei non viene / dalle cupole bionde / aristocratiche della cultura / non ha avuto altra eredità che nascere / e non conosce il godimento della comodità / lei non ha mai abbracciato il comfort per più di tre mesi di seguito / per tutta la vita lavorò come donna delle pulizie / strofinando la sporcizia / e il vetro degli altri / nascondendo da qualche parte / tutti i maltrattamenti / ogni mattina da secoli / beve un paio di mate / poi prende un autobus / e poi il treno / San Martín delle 7:20 / che va da El Palomar a Pilar / dov'è il posto / dove fa le pulizie da 23 anni / è venuta da Salta nel '68 / e non è mai potuta tornare / ha camminato di avanzo in avanzo / di lavoro in nero in lavoro in nero per la città / finché la fecero salire senza chiedere / su un camion da guerra / e arrivò stretta tra le tante famiglie / fondatrici della borgata / poi i soldatini verdi della dittatura / li bagnavano con un tubo professionale / per togliere presunta sporcizia / lei è bassina, bruna e di pelle scura» (C. González, cit., p. 25).

Questo è un cinema di corpi. Smilzi, bruni, neri, dorati, cinerei, corpi razzializzati, spericolati, iloti gettati ai margini della società, schiacciati sotto tutte le iniquità e ingiustizie, soffocati dal giogo inesorabile del capitalismo. Bambini e ragazzi torturati, assassinati da agenti delle forze di sicurezza dello Stato, immolati a norma di legge. Da una versione all'altra di Atenas, viene eliminata una scena terribile (forse per la sua crudezza). Si riferisce ad una situazione familiare per gli abitanti dei quartieri poveri: un poliziotto insegue alcuni ragazzini della borgata che lo avevano preso in giro: nella prima versione, dopo un'ellissi, vediamo nel freddo di un terreno incolto a due di questi bambini, che rimangono in piedi, immobili, seminudi, piedi e mani legati, gli occhi bendati; Nella versione definitiva, al posto della raccapricciante scena della tortura, si sentono gli spari degli agenti di polizia destinati a crivellare la schiena dei bambini che scappano fuori campo. Composti su un certo piano di realismo (una sorta di omaggio al reale), dall'epicentro di un quartiere popolare, i film di César González non hanno alcun rapporto con le rappresentazioni della marginalità, della povertà o della questione poliziesca del cinema borghese argentino eccessivamente inclinato alla “porno miseria”, né con le versioni abbiette dei reality show che assecondano il profondo razzismo del (sempre rinnovato) pubblico argentino come se fossero film snuff. In Lluvia de jaulas, sull'immagine apparentemente spensierata e persino felice di un bambino in bicicletta amico del regista, la voce over spiega che, prima di compiere tredici anni, era morto. In un altro momento, il film chiarisce: sebbene non emerga da questo una coscienza, i poliziotti hanno la stessa origine di classe, provengono anche loro dalle borgate e dai quartieri popolari. Alcune poesie di César González affermano che i prigionieri si uccidono a vicenda. «e mi propongono la morte / e mi propongono la morte / e mi propongono la morte» (C. González, cit., p. 77).

«Solo nel mio quartiere ci sono tanti amici che si son fermati per strada; la mia generazione fu annientata con piombo. Molti degli amici che mi feci lì dentro pure morivano uno dopo l'altro. Quello che ha raggiunto i trent'anni vivo o senza una pallottola è una rarità. Lo specchio mi disturba perché guardandolo vedo sempre uno di loro» (C. González, cit, pp. 9-10).

Ponendosi sempre nella differenza, César González spiazza ugualmente le ipotesi di un cinema esclusivamente formalista (dato che non nega la lotta di classe), come di un cinema sociale, didattico o di denuncia non interessato alla forma (basato su una cinefilia onnivora e, di conseguenza, in un gusto colto). Il lavoro di squadra che implica l'attività cinematografica consiste nel suo caso nel mobilitare ogni volta una batteria di impressioni, idee, esperienze, letture, melodie, ma anche amicizie e collaborazioni. L'incessante amalgama di elementi eterogenei del cinema a venire è anticipato dal montaggio ironico, contrappunto alla musica classica e alle immagini spensierate del consumismo o della povertà, del suo primo film di finzione. Alla base della sua trilogia dei bassifondi c'è una circolazione di opposti: il basso e l'alto, l'empatia e la solidarietà nella stessa misura di crudeltà e odio, le pulsioni di vita insieme alle pulsioni di morte hanno il loro posto nella trasfigurazione della finzione e dei materiali documentari. Questa duplicità di natura, costruzione di radice rosselliniana, sarà portata a un punto di indistinzione nel quarto film che ritorna nelle borgate, Lluvia de jaulas, che salterà le frontiere dei generi per sperimentare una splendida forma di critica della catastrofe (ricordiamo che Jacques Rivette ha scritto di Viaggio in Italia ricorrendo alla nozione di saggio). In questo film, entusiasmanti pensatori affollano la città in un esaltato corteo che inizia con Marx, passa per Angela Davis e Frantz Fanon per culminare (assoluta rarità) con Godard; Da parte sua, nello strano contesto di Exomologesis, Alan Garvey rappresenta i sobborghi. Poetica dell'alterità, dell'anomalo, della estraneità (cinema delle donne, dei disabili, dei musulmani, dei poveri, dei ragazzi di vita).

«Quartieri popolari che sono prigioni a cielo aperto. Dove la bellezza flirta con la violenza. Il regno dei bambini insubordinati, veterani del piombo. Un giardino di fiori amputati, che con le stampelle sulla schiena, crescono e danzano ancora» (C. González, 2020, s. p.).

Exomologesis e Castillo y sol (2020), film “di confinamento”, “minimalisti”, in linea di principio teorici (a tesi?), autentici costrutti formali, mostrano un potente teatro da camera filosofico che non smette di esprimere il fuori: una prigione dentro un'altra prigione (capitalismo, che praticamente coincide con il sistema-mondo). Il primo presenta un dispositivo (una sorta di laboratorio) per l'esercizio del potere secondo le dimensioni di un piccolo gruppo umano, il secondo una prova distopica di nuova vita (una cellula rivoluzionaria situata in uno scenario apocalittico); entrambi funzionano come macchine sociologiche demenziali all'interno delle quali le più arbitrarie regole di comportamento sono continuamente (ri)prodotte decomponendosi, portando a pericolosi estremi. Nonostante le loro apparenti differenze, attori e attrici della compagnia di César González sono diretti in modo esacerbato in entrambi i film, i corpi sono privilegiati e, allo stesso modo, sfruttati fino all'esaurimento. Eccessi orientati fino all'immobilità o al movimento, straripamenti fisici, emotivi, delle relazioni interpersonali.

Lo spazio limitato possiede a momenti una correlazione con la quantità massima di azioni che vengono introdotte nel tempo breve, che corrisponde alle scene, e al tempo lungo del film. Tuttavia, questi film differiscono: Exomologesis esplora lo stato di natura residuo (homo homini lupus) organizzato all'interno di un campione in miniatura di una società disciplinare, dove la gerarchia è arrampicata sugli uomini che esercitano la loro spietata brutalità sul corpo e sullo spirito del subalterno (fino allo stupro di un uomo da parte di un altro uomo). È anche un film critico dei un’epoca, che, nelle voci dei diversi personaggi, rigurgita acidamente i discorsi meritocratici, neoliberisti, in circolazione.

Castillo y sol, al di là della sua manifesta oscurità, della violenza e del caos, è un film vitalista, pieno di risa, colore e gioco. Forse lontanamente ispirato a La chinoise (Godard, 1967), e senza smettere di guardare Buñuel (El angel exterminador, 1962), inventa un mondo basato sull'anarchia dell'immaginazione. Rivoluzione degli animi, messa in pratica con tutte le difficoltà e le esaltazioni del caso. I suoi dialoghi poetici troveranno una replica nell'ultimo cortometraggio del regista, La nobleza del vidrio (2021), di perfetta fattura, che continua, come una forma raffinata, ancora più concentrata, la linea dei film realizzati in spazi di confinamento. In questo bellissimo lavoro, César González mostra chiaramente il suo dominio assoluto del medium.

«c'è in me una lacrima / è per le sue lacrime / c'è in me una speranza / che ieri era la sua / che hanno rapito e torturato / che hanno ucciso e gettato in mare / ma le onde lo riportarono di nuovo / nel mio sangue non c'è discendenza rivoluzionaria / non ho avuto un padre di tendenza / mio padre ha fatto le rivoluzioni con il vino / e picchiando mia madre / per questo la mia rivoluzione non vuole sangue / né nemici / mi rende felice / perché la portarono le onde / entrambi in passato abbiamo innescato pistole / voi per il socialismo / io per un paio di scarpe da ginnastica di marca / oggi dobbiamo cercare nuove armi / che non facciano male» (C. González, cit., p. 79).

L' arte e il pensiero diventano salvifici. L'immagine del cartonaro che nel suo secondo film trova tra i resti dell'immondizia il libro postumo di Deleuze e Guattari (Che cos'è la filosofia?) fissa a suo modo la rara maniera attraverso la quale il cineasta ha imparato a fuggire dalle forze distruttive attorno alle quali un tempo gravitava la sua vita. Anche se nel film il libro avrà un valore narrativo praticamente nullo, costituirà un'immagine molto potente nel suo rapporto con l'ambiente, incastonato tra gli scatoloni dell'auto che, a trazione di sangue umana, avanza al tramonto e di notte. Il luogo comune (lieto fine o favola morale) viene così evitato. Se accade qualcosa di simile a una conversione, all'inizio sembrerà quasi impercettibile, e in un certo senso accadrà dietro le quinte. Nello stesso momento in cui i personaggi interpretati da César González nella finzione incorrevano in atti di estrema violenza, nella realtà il cineasta lavorava per stabilire spazi comunitari di disponibilità, offrendo laboratori di letteratura e cinema ai giovani, convocando non attori, parenti, amici, vicini di casa del quartiere per fargli popolare ogni suo nuovo film a partire da Corte Rancho. Truco (2014), uno dei suoi primi cortometraggi, finisce quando due adolescenti, invece di andare a rapinare come avevano programmato, decidono di trascorrere il pomeriggio ascoltando la musica che fa un loro amico. Il poeta incendiario nella piazza di Atenas è Patricio Montesano, attraverso di lui César, in un momento cruciale della sua vita, troverà un catalizzatore benefico, una sorta di potenziale uscita dall'orizzonte mortale che lo teneva in ostaggio: letteratura, filosofia e pensiero politico sconvolgeranno tutto nella sua vita: il futuro regista si sarebbe presto convertito progressivamente in un artista sovrano. Questi, come il soggetto poetico di Paul Eluard, non ha smesso di scrivere il nome "libertà".

«sei ferite da arma da fuoco / mostrano la mia esistenza / e che cos'è che ha salvato il mio destino / da una morte poliziesca? / è stato un incontro / incontrarmi con la poesia / un incontro / un grande incontro / mi ha offerto un abbraccio / quando tutto erano pugni / fu il mio scudo in ogni confronto / per superare l'oblio e l'egoismo / non avevo altro sogno che un assalto / dove incrociavo la fortuna monetaria / e oggi i miei sogni sono migliaia / si moltiplicano per ogni grammo di cicatrice esistente / non ho smesso di rubare per motivi religiosi / è stata un'overdose di speranza / mi stancai di essere un delitto e un fascicolo giudiziario / mi decisi a contraddire il mio destino / mi stancai di vedermi negata la cultura / per essere moro e di borgata / Ho capito che il mondo ha bisogno di esclusi / per rimanere stabile / dopo questa rottura / ho rinnovato la mia visione / fino alle mie cellule più piccole». (C. González, cit., p. 90)

Sono rare nella storia del cinema le opere che registrano l'immagine di tanti bambini e ragazzi. Hanno un posto molto speciale nella filmografia di César González (come in quella di Buñuel, Vigo o Truffaut), e non sono, nel suo cinema, intoccabili dalla violenza. Il commento di Lluvia di jaulas, ad esempio, presenta un ragazzo di quindici anni il cui collo è stato sfiorato dai proiettili della polizia, che ha già due fratelli morti. Difficoltà economiche, condizioni sociali pressanti, eredità senza scelta, espongono i bambini della periferia a esperienze estreme: sebbene giochino, ballino o escano con gli amici (tra le altre attività che corrispondono al tempo dell'infanzia), lavorano o cercano lavoro, fanno uso di droga, quando non rubano o muoiono in una rapina (Guachines, 2014). I loro casi ricordano la fine del Diario di un pazzo di Lu Hsun, il cui narratore, prevedendo che nella società cannibale in cui vivono diventeranno tutti cannibali, grida «Salviamo i bambini!» (Lu Hsun, 2015, p. 48 ). È essenziale notare la centralità di Alan Garvey, l'Antoine Doinel di César González, l'artista (bambino e poi giovanissimo) di praticamente tutti i suoi film-, che compare anche in una delle opere che il regista non ha diffuso sotto il suo nome (le sue prime poesie e i suoi primi cortometraggi, realizzati collettivamente, apparivano firmati con lo pseudonimo di Camilo Blajaquis).

Apparentemente, César influenzò i primi gusti musicali di Alan (vedasi gli elementi rastafariani in Diagnostico esperanza), ha incoraggiato il suo amico a dedicarsi alla musica e ha incluso alcune delle sue canzoni nei suoi film. Questi ultimi fioriscono indubbiamente a contatto con la personalità accattivante del giovane, i suoi ruoli emanano sensibilità. Come nel caso dei film di Truffaut, la serie registra la crescita del personaggio, che purtroppo non sfugge alle smorfie della morte, lo sfortunato destino che la società riserva ai poveri: il giovane musicista chiederà un'arma per andare a rubare mentre si lamenta della mancanza di opportunità che hanno i ragazzi del quartiere (¿Qué puede un cuerpo?). Alan interpreta una sorta di Pierrot in godardiano Lluvia de jaulas: conserva un libro nei pantaloni come si tiene una pistola, punta una pistola contro le effigi di personaggi famosi (tra gli altri, Hegel, Descartes, i Beatles). Il film si conclude con una magnifica piccola scena: anche nel contesto più ostile, momenti di felicità: il giovane bacia i fiori e sembra entrare in comunione con il loro mistero.

«Vorrei essere la pianta che cresce nei cimiteri / Sentire cosa prova l'ombra di un'eclissi» (C. González, cit., p. 85).

Disprezzato, ignorato, César González osserva il palazzo d'inverno del cinema (argentino?), un giorno lo prenderà d'assalto o se ne allontanerà a tutta velocità, verso il futuro. I registi argentini dovrebbero rendergli omaggio, non viceversa. In modo diverso da quegli studenti universitari colpevoli che rinunciano alla loro formazione e cercano di connettersi con il popolo, finendo inevitabilmente per classificarlo, o dalla classe media affascinata dai bassifondi mai sperimentati, César González entra ed esce definitivamente dall'estasi della creazione. Senza negare la sua origine popolare, ha bisogno di uno spazio tutto suo per pensare. Intanto aspetta Alan Garvey per fare un altro film insieme, cospira con i vecchi maestri del cinema, saltando verso il nuovo, il non legiferato dell'arte, l'illegalità. Guarda i suoi film e ricorda: non valutare il basso in questo regista, ma l'alto.

«[…] il fiore sta ancora aspettando / che comprendiamo la sua bellezza» (C. González, cit., P. 66).

Testi citati

C. González, Crónica de una libertad condicional, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2014, p. 59; p. 25; p. 90.

C. González, La venganza del cordero atado, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2019, p. 65; p. 74; p. 77; pp. 9-10; p. 85.

C. González, Retórica del suspiro de queja, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2015, p. 22; p. 67; p. 79; p. 66.

C. González, Sinopsis de Lluvia de jaulas 2020.

C. González, Sinopsis de Atenas 2019b.

J. L. Godard, Historia(s) del cine, Buenos Aires, Caja Negra 2007, p. 190.

Lu Hsun, Diario de un loco, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Interzona Editora 2015, p. 48.

 

TESTO ORIGINALE

La violenta e inaprensible belleza de las flores de fuego

Rodrigo Sebastián

En el margen del cine argentino contemporáneo más original, se erigen las películas de César González, audaces, inconfundibles, semejantes a un enigma. Cineasta plebeyo, es autor de una obra torrencial difícil de conceptualizar. Pues aun para quienes en Argentina han seguido con atención la proliferación del trabajo y las exposiciones públicas del artista a lo largo de la última década resultaría complejo definir su trayectoria. Todavía más porque existe un núcleo permanentemente elusivo e intraducible, en este pensador, poeta y cineasta: puede ser simultanea o alternativamente su clase, su experiencia vital (tan intensa y diferente), su sofisticado pensamiento (suma de una variedad notable de registros, así como de posiciones heterogéneas), su comunión con el arte. Otras cuestiones de peso relativas a esta filmografía también contradicen toda idea ilusoria respecto de su univocidad: el número, la frecuencia de aparición y lo irregular de las películas; la multiplicidad de intertextos (principalmente, aunque no solo, escritos de diversa índole) que conforman la vasta obra de César González y que dialogan con sus películas, así como las relaciones que se establecen entre estas; y, por último, la marca inmanente de su originalidad, esto es, su profunda extrañeza. Se ensayará en las páginas que siguen un desvío de los problemas notados, evadiendo simultáneamente la exhaustividad; discurriendo sobre las películas del cineasta a través de interpretaciones fragmentarias, elogiosas e insuficientes, transcribiendo partes de sus poemas y escritos.

 

«en el pasado salí a robar/ y el humo de la pólvora/ señalaba mi destino/ hoy la poesía/ es el piso que camino/ ayer era un esqueleto adicto al odio/ una simple sombra/ reflectada en la caverna/ y hoy proyecto en un cine/ sombras y esqueletos/ que yo mismo dirijo/ ayer me hundía en el barro/ y no por diversión/ hoy digo que el barro fue/ mi academia de platón/ ayer dormía/ sobre duras y cuadradas almohadas/ hoy soy novio de sueños realistas/ ayer me arrastraban/ esposado entre hospitales/ ayer agonizaba/ entre institutos y penales/ hoy ya la lluvia no oxida mi alma» (C. González, 2015, p. 22).

Si bien cada nueva película de César González que aparece tiene relación con las anteriores a través de una multiplicidad de lazos, no es menor la novedad que cualquiera de ellas introduce. Parece difícil reconocer en la forma de sus últimos trabajos la presencia de sus primeras obras, no obstante, están comprendidas en aquella. ¿Un cineasta dialéctico? Es posible, considerados su interés en el marxismo y su devoción por el cine soviético. En tanto cineasta materialista, parte del mundo para experimentar con sus imágenes. Buenos Aires es enclave y teatro de operaciones de su peculiar universo. Como un ojo que derruye aquello sobre lo que se posa, a la manera de aquel con que se abre Un perro andaluz (Luis Buñel, 1928), observa con mirada de bisturí la vida en las villas, en la ciudad, pero también espacios de encierro, como (falsas) monadas que contuvieran todas las imágenes, en donde el todo social se expresa a modo de sistema disciplinario o pesadilla. Al principio, la realidad ingresó a este cine con toda su violencia, finalmente el cine ha terminado por contaminar la realidad con su anamorfosis. Es que aun aquellas de sus películas que presentan las más numerosas señales del mundo referencial, trastocan permanentemente su presunta inmediatez con toda clase de visiones excéntricas, apariciones que pertenecerían en principio a órdenes de cosas diferentes: «[…] una saturación/ de signos magníficos/ inmersos/ en la luz/ con su ausencia/ de explicación» (J.-L. Godard, 2007, p. 190).

«Aunque parezca cruel/ había cuerpos de niños/ colgados de los cables/ atados a sus dedos gordos del pie/ En las esquinas había montañas/ de cadáveres de ancianos y ancianas/ con los ojos cocidos/ y su olor a muerte cortaba el firmamento/ Los árboles habían huido no sé adónde/ El mar era un eterno Riachuelo duro de gigantes soretes/ Se habían fugado las calles, el cielo y los campos/ Desapareció la noche/ Y las estrellas parecían haberse acercado/ a la altura de las nubes,/ que también se habían fugado/ Cuando yo me quise fugar/ me di cuenta de que mis pies también se habían ido./ Y me desplomé sobre lo poco del suelo que quedaba,/ que al rato decidió/ también fugarse» (C. González, 2019a, p. 65).

Antes de cumplir una década en actividad, el aun joven César González dirigió seis largometrajes, al menos cuatro cortometrajes, una serie documental y varios videoclips de manera independiente. Lo hizo valiéndose de recursos materiales exiguos, pero también ejerciendo por su cuenta roles técnicos y artísticos diversos durante la producción. Entablando una suerte de cuerpo a cuerpo con la obra, encarna a la vez todo un equipo de trabajo, una usina audiovisual virtuosa y enfebrecida (como Godard o Fassbinder). Operaciones comunes a la praxis audiovisual tales como el montaje, la edición, la corrección de color, el diseño de sonido, la música, la dirección de fotografía, la cámara, el guión, la dirección de actores y, por supuesto, la dirección, obedecen en sus manos a una indeclinable experimentación. A esto hay que sumar la miríada de proyectos en los que trabaja simultáneamente. César González es uno de los grandes experimentadores del cine argentino.   

«[…] discursos discapacitados/ discursos que estuvieron en la guerra/ y no se suicidaron/ tienen retaguardia/ y son las palabras que gritan/ tienen francotiradores/ y son las palabras de amor/ todos decididos a quemar los diccionarios/ nada los detiene/ porque saben decir sin decir/ que es lo más importante/ de cualquier lenguaje» (C. González, 2014, p. 59).

En algunas de sus películas el cineasta comparece frente a cámara en papeles de rasgos más o menos autobiográficos cuya importancia varía en cada historia. Atenas (2019) cuenta con unas pocas escenas suyas en las que acompaña amigablemente al niño (interpretado por Alan Garvey). Su breve intervención en ¿Qué puede un cuerpo? (2014) consiste (según indican los títulos de crédito) en representar a un «laburante que toma merca». Es en su primera ficción larga (Diagnóstico esperanza, 2013) −aunque su nombre no aparece listado entre los actores− donde juega un papel mayor: junto a un amigo de su barrio, roba el auto de un hombre a quien secuestra momentáneamente, amenaza y golpea con brutalidad a fin de obtener el dinero de su cuenta bancaria. Si bien el frenesí de esta secuencia podría adjudicarse a la juventud del cineasta y a ciertas experiencias de su pasado, lo cierto es que se trata de un cine que aniquila por principio la complacencia, toda posible concesión al lugar de donde parte (aunque no renuncie a su compromiso cotidiano con la dignidad de los de abajo) tanto como a su público. Esta primera ficción es en el fondo demasiado filosófica como para degenerar en espectáculo, demagogia o “pornografía”. Lluvia de jaulas (2020) introduce como innovación la voz-over del cineasta (notoriamente inspirada en el estilo tardío de la queda e inconfundible voz de Godard) que con tono poético-crítico pronuncia frases epigramáticas o necrologías de la sociedad.

«memoricé mi armonía/ después de navegar/ en las lagunas más miserables/ y en los ríos del mal/ soy hijo de un semen borracho/ y de puños machistas/ soy un accidente del destino/ un chiste mal contado/ soy un hijo del azar/ que puede contemplarse sin rencor/ hijo de los pabellones más oscuros/ condenado por los tribunales más severos/ y hoy imploro a toda hora/ más desobediencia/ no podemos ser tantos/ y con tan poca rebeldía/ somos tan diferentes/ pero mercantilmente tan unificados/ decimos ser laicos y ateos/ pero nos sobra la fe en el capitalismo» (C. González, cit., p. 67).

Como casi todo en este cine, los títulos de crédito también tienen su parte de originalidad. Desde Diagnóstico esperanza −dedicada a «Todos mis hermanos queridos (…) y a toda la gente/ que muere sin sentido/ perfumada de plomo/ bañada de injusticia»− a Exomologesis (2017) −dedicada a Michel Foucault−. Las dos películas que siguen a esta asimismo incluyen unos agradecimientos tan excéntricos como significativos: al final de Atenas son registrados los nombres de Roberto Rossellini, Sergei Eisenstein, Kenji Mizoguchi, Robert Bresson, JLG, Fernando Birri, Raymundo Gleyzer, Glauber Rocha, Jean Rouch, Charles Burnett y Agnès Varda; en Lluvia de jaulas se agradece tanto a Lucrecia Martel y Luis Ortega −cineastas argentinos a quienes César González posiblemente conozca en persona− como a Karl Marx, Angela Davis, Franz Fanon (sic), Gilles Deleuze, Felix Guattari, Fréderic Lordon, Dziga Vertov, Elizabeth Svilova (sic) y Chris Marker.

«me lo susurró al oído/ el fantasma de un amigo muerto» (C. González, cit., p. 74).

Dos películas del cineasta alojan finales formidables, que, en su lacerante tenor, expresan la vena estilística de su obra. La imagen que cierra su primer largometraje (antes de los títulos de crédito) muestra en un espacio separado de sus relaciones saturadas de violencia a la mujer (narcotraficante de poca monta), recostada, amamantando a su bebé, mientras lo observa, toca sus pies y su cabello con genuino afecto. Es un desenlace auténticamente cinematográfico, preparado por al menos dos situaciones previas: la escena en la que la misma mujer grita que hubiera abortado a algunos de sus hijos (aunque estos puedan escucharla); e, inmediatamente antes del final, el momento en que el robo en cuya planificación participa se frustre, mientas fuma un cigarrillo con su hijo prendido a su pecho, exclama que va a romperle la cabeza a los chicos. Una situación austera que, no obstante, toca el nervio desnudo del mundo de contradicciones revelado continuamente por este cine. Al final de Atenas, la imagen, que literalmente se congela, produce una visión extraña de una calle de tierra en un barrio popular cuya vida se interrumpe, el final petrificado se cierra sobre el destino cortado de Perséfone, la joven desaparecida que en la ficción es secuestrada por un hombre cuya intención es prostituirla. 

«¿Puede la voluntad aplastar toda sospecha antropológica?/ ¿Puede el deseo solamente inventarse un camino?/ ¿Es posible fugarse del sótano del mundo?/ ¿Deja el hombre a la mujer soñar?/ ¿No es una pesadilla si además de mujer naciste pobre y recién salís de la cárcel?» (C. González, 2019b, s. p.).

Después de Fernando Birri, quien estudió cine en la Roma de los años 50, trabajó ocasionalmente como asistente de dirección de Vittorio De Sica y asumió la línea del prodigioso cine italiano de posguerra, extendiéndola a la Escuela Documental de Santa Fe, César González es sin duda el más (conscientemente) neorrealista de los cineastas argentinos. Podría haber sido nieto de los raquíticos niños de la villa en la que se filmó Tie dié (Birri y Escuela Documental de Santa Fe, 1955-58) o, como cualquiera de ellos, pudo ser un trágico sujeto filmado más, registrado en su momento para (tal vez) ser olvidado luego en la vasta extensión del subdesarrollo latinoamericano, sin embargo, estudió la historia (de las formas) del cine, y apropiándose de sus medios se dedicó a plasmar su propio mundo. He ahí las imágenes furtivas de la cárcel que se alejan en Diagnóstico esperanza; la multiplicación de los puntos de vista sobre la villa Carlos Gardel, la villa 31, la 21: la cámara recursiva tras la espalda de los personajes desplazándose por los espacios que se repiten (el barrio donde vive el director) o son vistos por primera vez; la casa misma del cineasta, abarrotada de libros, imágenes pictóricas y acentuaciones cromáticas. En todos los bellos, simples registros visuales de personas que viven en tales barriadas, encuadrados frontalmente, cuando no de manera inadvertida, resplandece una verdad de origen neorrealista (Corte rancho, 2013; Lluvia de jaulas). También este es un cine hecho con justeza. Pero César González hereda el neorrealismo aun por otra vía regia que complementa el visionado de films decisivos de Visconti, De Sica, De Santis, Pasolini, Rossellini etc.: los libros que Deleuze dedicó al cine. Acaso inspirado en componentes del concepto de imagen-tiempo del filósofo francés como en la célebre noción de forma que piensa −identificada por Godard en los retratos de Edouard Manet−, el cineasta arribará a un procedimiento idiosincrático. Se trata, por supuesto, de inventar (Fanon), de hacer algo nuevo con aquello que tanto se admira. En su caso, creará disyunciones, momentos desacoplados o extrañamientos del tiempo en que son tomados ciertos personajes (por lo general) cuando experimentan situaciones mortificantes. Momentos residuales, contaminaciones del punto de vista de la enunciación antes que percepciones o pensamientos de uno o varios personajes, a los que el cineasta consagra una forma determinada: un primer plano ralentizado, a veces dividido en otro plano subsiguiente, todavía más cercano del rostro desconcertado, desprovisto de reacción; autonomizándose en ocasiones de la banda sonora. Esta forma basada en los rostros, con sus variaciones (planos de conjunto, partes del rostro, etc.), es la imagen que extrae energías singulares o vislumbra potencias agazapadas.

«ella no proviene/ de las rubias cúpulas/ aristocráticas de la cultura/ ella no tuvo más herencia que nacer/ y no conoce el goce de la comodidad/ ella nunca abrazó el confort tres meses seguidos/ toda su vida trabajó de limpieza/ refregando la mugre/ y los vidrios de otros/ escondiendo en algún lado/ todo el maltrato/ ella cada mañana desde hace siglos/ toma unos mates/ después un colectivo/ y luego el ferrocarril/ San Martín de las 7.20 AM/ que va de El Palomar hasta Pilar/ donde queda el lugar/ que limpia hace 23 años/ ella vino de Salta en el 68/ y nunca más pudo volver/ anduvo de pieza en pieza/ de changa en changa por la ciudad/ hasta que la subieron sin preguntar/ a un camión militar de la guerra/ y llegó apretada entre las muchas familias/ fundadoras de la villa/ y luego los soldaditos verdes de la dictadura/ los bañaban con una manguera profesional/ para sacarles una supuesta suciedad/ ella es bajita, morocha y de piel marrón» (C. González, cit., p. 25).

Este es un cine de cuerpos. Enjutos, marrones, negros, dorados, cenicientos, cuerpos racializados, atrabiliarios, ilotas arrojados a los márgenes externos de la sociedad, aplastados bajo todas las inequidades e injusticias, asfixiados con el yugo inexorable del capitalismo. Niños y jóvenes torturados, asesinados por agentes de las fuerzas de seguridad del Estado, inmolados en función de la ley. De una versión a otra de Atenas, una escena terrible es eliminada (posiblemente a causa de su crudeza). La elección versa sobre situaciones familiares a los barrios pobres: un policía persigue a unos niños de la villa que se habían burlado de él: en la primera versión, tras una elipsis, vemos en la intemperie de un terreno baldío a dos de esos niños, permanecen de pie, inmóviles, semidesnudos, sus pies igual que sus manos están atados, sus ojos vendados; en la versión definitiva, en lugar de la espantosa escena de tortura, se escuchan los disparos del policía destinados a acribillar la espalda de los niños que corrieron fuera de campo. Compuestas sobre cierto plano de realismo (una especie de homenaje a lo real), desde el epicentro de un barrio popular, sus películas no tienen ninguna relación con las representaciones de la marginalidad, la pobreza o la cuestión policial del cine argentino de clase media, demasiado inclinado a la <<pornomiseria>>, tampoco con las versiones abyectas de los programas de televisión reality que complacen el profundo racismo de la (siempre renovada) audiencia argentina en tanto semejan snuff movies. En Lluvia de jaulas, sobre la imagen en apariencia despreocupada e incluso alegre de un niño en bicicleta −amigo del propio cineasta−, la voz explica en verdad que, antes de cumplir trece años, fue muerto. En otro momento, la película clarifica: aunque no se desprenda de esto una conciencia, la policía tiene el mismo origen de clase, también proviene de las villas y los barrios populares. Alguno de los poemas de César González manifiesta que los presos se matan entre sí. «y me proponen la muerte/ y me proponen la muerte/ y me proponen la muerte» (C. González, cit., p. 77).

«Solo en mi barrio son muchos los amigos que han quedado en el camino; mi generación fue aniquilada a puro plomo. Muchos de los amigos que hice allá adentro también fueron muriendo. El que llegó a los treinta vivo o sin un balazo es una rareza. El espejo me perturba porque al mirarlo siempre veo a alguno de ellos» (C. González, cit, pp. 9-10).

Situándose siempre en la diferencia, César González desplaza por igual las ideas de un cine exclusivamente formalista −puesto que no niega la lucha de clases−, como de un cine social, didáctico o de denuncia no interesado por la forma −basándose en una cinefilia omnívora y, consiguientemente, en un gusto cultivado−. El trabajo de equipo que implica la actividad cinematográfica consiste en su caso en movilizar cada vez una batería de impresiones, ideas experiencias, lecturas, melodías, tanto como amistades y colaboraciones. La incesante amalgama de elementos heterogéneos del cine venidero es anticipada por el montaje irónico −contrapunto de música clásica e imágenes desenfadadas de consumismo o de pobreza− de su primera película de ficción. En la base de su trilogía villera hay una circulación de contrarios: lo bajo como lo alto, empatía y solidaridad en igual medida que crueldad y odio, pulsiones de vida junto a pulsiones de muerte tienen su lugar en la transfiguración de la ficción y de los materiales documentales. Esta naturaleza dúplice, construcción <<roselliniana>>, será llevada a un punto de indistinción en la cuarta película que vuelve sobre la villa, Lluvia de jaulas, que se saltará las fronteras genéricas para ensayar una forma esplendorosa de crítica de la catástrofe (recuérdese que Jacques Rivette escribió sobre Viaggio in Italia recurriendo a la noción de ensayo). En esta película revulsivos pensadores afluyen a la villa en una excelsa procesión que comienza con Marx, pasa por Angela Davis y Frantz Fanon para culminar (absoluta rareza) en Godard; por su parte, en el extraño contexto de Exomologesis, Alan Garvey representa a la villa. Poética de la otredad, de lo anómalo, de la extranjería (cine de mujeres, discapacitados, musulmanes, pobres, villeros).

«Barrios populares que son cárceles a cielo abierto. Donde la belleza coquetea con la violencia. El reino de los niños insubordinados, veteranos del plomo. Un jardín de flores amputadas, que con muletas a cuestas, igual crecen y bailan» (C. González, 2020, s. p.).

Exomologesis y Castillo y sol (2020), películas “de encierro”, “minimalistas”, en principio teóricas (¿de tesis?), auténticos constructos formales, despliegan un poderoso teatro de cámara filosófico que no deja de expresar el afuera: una prisión dentro de otra prisión (el capitalismo, que prácticamente coincide con el sistema-mundo). La primera pone en escena un dispositivo (suerte de laboratorio) para el ejercicio del poder a escala de un pequeño grupo humano, la segunda un distópico ensayo de vida nueva (una célula revolucionaria situada en un escenario apocalíptico); una y otra funcionan como máquinas sociológicas demenciales en cuyo interior continuamente se (re)producen reglas de comportamiento de lo más arbitrarias, descomponiéndose, desembocando en peligrosos extremos. Al margen de sus diferencias ostensibles, actores y actrices de la −a estas alturas− compañía de César González son dirigidos de manera exacerbada en ambas piezas, los cuerpos son privilegiados y, asimismo, exigidos hasta su extenuación. Excesos orientados hacia la inmovilidad o el movimiento, desbordes físicos, emocionales, de las relaciones interpersonales. El espacio limitado tiene por momentos una correlación con la máxima cantidad de acciones que son introducidas en el tiempo breve, que corresponde a las escenas, y en el tiempo largo de la película. No obstante, estas películas difieren: Exomologesis explora el remanente estado de naturaleza (homo homini lupus) organizado al interior de una muestra en miniatura de la sociedad disciplinaria, donde la jerarquía se encarama en hombres que ejercen su brutalidad despiadada sobre el cuerpo y el espíritu del subalterno (hasta la violación de un hombre por otro hombre). Es además una película critica de su época, que, en la voz de distintos personajes, regurgita ácidamente discursos meritocráticos, neoliberales en circulación. Castillo y sol, más allá de su manifiesta oscuridad, de la violencia y el caos, es una película vitalista, pletórica de risa, color y juego. Quizás inspirada lejanamente en La chinoise (Godard, 1967), y ¿sin dejar de mirar a Buñuel? (El ángel exterminador, 1962), inventa un mundo basado en la anarquía de la imaginación. Revolución de las mentes, puesta en práctica con todas las dificultades y exaltaciones del caso. Sus diálogos poéticos encontraran una réplica en el último cortometraje del director, La nobleza del vidrio (2021), de factura perfecta, que continúa, como una forma refinada, aún más concentrada, la línea de películas hechas en espacios de confinamiento. En este bello trabajo, César González da claras muestras de su dominio absoluto del medio.

«hay en mí una lágrima/ es por sus lágrimas/ hay en mí una esperanza/ que ayer fue la suya/ que secuestraron y torturaron/ que mataron y arrojaron al mar/ pero las olas trajeron de nuevo/ en mi sangre no hay descendencia revolucionaria/ no tuve un padre de la tendencia/ mi padre hacía revoluciones con el vino/ y pegándole a mi madre/ por eso mi revolución no quiere sangre/ ni enemigos/ me hace feliz/ porque la trajeron las olas/ ambos en el pasado gatillamos pistolas/ usted por el socialismo/ yo por unas zapatillas de marca/ hoy hay que buscar nuevas armas/ pero que no lastimen» (C. González, cit., p. 79).

El arte y el pensamiento devienen salvíficos. La imagen del cartonero que en su segunda película halla entre restos de basura el libro postrero de Deleuze y Guattari (¿Qué es la filosofía?) cifra a su modo la rara manera en la que el cineasta aprendió a fugarse del centro de fuerzas terriblemente destructivas en torno al que alguna vez gravitó su vida. Si bien en la película el libro supondrá un valor prácticamente nulo en términos narrativos, constituirá una imagen poderosísima en cuanto a su relación con el entorno, acomodado entre los cartones del carro que con tracción de sangre humana avanza en el ocaso y en la noche. El lugar común (final feliz o fábula moral) es rehuido de esta manera. Si se da el caso de que ocurra algo semejante a una conversión, al principio quizás parecerá imperceptible, en cierto sentido sucederá detrás de escena. A la vez que los personajes interpretados por César González en la ficción incurrían en actos de extrema violencia, en la realidad el cineasta trabajaba para establecer espacios comunitarios de disponibilidad, impartiendo talleres de literatura y de cine a jóvenes, convocando a no actores, familiares, amigos, vecinos del barrio para que pueblen cada nueva película suya desde Corte rancho. Truco (2014), uno de sus primeros cortometrajes, termina cuando dos adolescentes, en lugar de salir a robar como habían planeado, deciden pasar la tarde escuchando la música que hace uno de sus amigos. El incendiario poeta en la plaza de Atenas es Patricio Montesano, a través suyo César, en un momento crucial de su vida encontraría un catalizador benéfico, una suerte de salida potencial del horizonte mortífero que lo captaba: la literatura, la filosofía y el pensamiento político lo trastocarían todo en su vida y el cineasta futuro se convertiría progresivamente en un artista soberano. Este, como el sujeto poético de Paul Eluard, no ha dejado de escribir el nombre “libertad”.  

 

«seis heridas de arma de fuego/ exhiben mi existencia/ ¿y qué fue lo que salvo mi destino/ de una muerte policial?/ fue un encuentro/ encontrarme con la poesía/ un encuentro/ un gran encuentro/ me ofreció un abrazo/ cuando todo eran piñas/ fue mi escudo en cada enfrentamiento/ para vencer el olvido y el egoísmo/ no tenía otro sueño que un asalto/ donde me crucé la fortuna monetaria/ y hoy mis sueños son miles/ se multiplican por cada gramo de cicatriz existente/ no dejé de robar por motivos religiosos/ fue una sobredosis de esperanza/ me cansé de ser un delito y un legajo judicial/ me propuse contradecir mi destino/ me cansé de que me nieguen la cultura/ por ser morocho y de una villa/ comprendí que el mundo necesita excluidos/ para mantenerse estable/ después de esa ruptura/ renové mi visión/ y hasta mis células más pequeñas» (C. González, cit., p. 90).

Son raras en la historia del cine las obras que registran la imagen de tantos niños y jóvenes. Estos tienen en la filmografía de César González −como en Buñuel, Vigo o Truffaut− un lugar muy especial, tampoco son, en su cine, intocados por la violencia. El comentario de Lluvia de jaulas, por ejemplo, presenta a un chico de quince años cuyo cuello fue rozado por las balas de la policía, que tiene ya dos hermanos muertos. Penurias económicas, condiciones sociales acuciantes, sin elección heredadas, exponen a los niños de la villa a experiencias extremas: si bien juegan, bailan o frecuentan a sus amigos (entre otras actividades que corresponden al tiempo de la infancia), también trabajan o buscan trabajar, usan drogas, cuando no roban o mueren en un robo (Guachines, 2014). Sus casos recuerdan el final de Diario de un loco de Lu Hsun, cuyo narrador, previendo que en la sociedad caníbal en que viven asimismo se volverán caníbales, grita <<¡Salvad a los niños!>> (Lu Hsun, 2015, p. 48). Es imprescindible notar la centralidad de Alan Garvey −el Antoine Doinel de César González, el (niño y luego joven) artista de prácticamente todas sus películas−, quien incluso figura en uno de los trabajos que el director no difundió con su nombre (su primer poemario y sus primeros cortometrajes −realizados colectivamente− aparecieron firmados con el seudónimo de Camilo Blajaquis). Aparentemente, César influyó en el gusto musical temprano de Alan (véanse los elementos rastafaris de Diagnóstico esperanza), de manera decisiva alentó a su amigo para que se dedicara a la música e incluyó alguna de sus canciones en sus películas. Estas sin duda florecen en contacto con la personalidad entrañable del joven, sus papeles emanan sensibilidad. Como en el caso de los films de Truffaut, la serie registra el crecimiento del personaje, quien lamentablemente no escapa a las muecas de muerte, al destino aciago que la sociedad ofrece a los pobres: el flamante músico pedirá un arma para ir a robar mientras se queja de la falta de oportunidades que tienen los chicos de la villa (¿Qué puede un cuerpo?). Alan interpreta una suerte de Pierrot godardiano en Lluvia de jaulas: guarda un libro en el pantalón a la manera en que se guarda una pistola, apunta con un arma a las efigies de célebres personalidades (entre otros, Hegel, Descartes, The Beatles). La película termina con una magnífica pequeña escena: aun en el contexto más hostil, momentos de felicidad: el joven besa las flores y parece comulgar con su misterio.

«Quisiera ser la planta que crece en los cementerios./ Sentir lo que siente la sombra de un eclipse» (C. González, cit., p. 85).

Despreciado, ignorado, César González observa el palacio de invierno del cine (¿argentino?), cualquier día lo tomará por asalto o se alejará de él a toda velocidad, hacia el futuro. Los cineastas argentinos deberían rendirle pleitesía, no a la inversa. De manera diferente a aquellos universitarios culposos que abjuran de su formación y buscan conectar con el pueblo, subsumiéndolo otras tantas veces, o de la clase media fascinada por los bajos fondos no experimentados, César González permanentemente entra y sale del éxtasis de la creación. Sin negar su origen popular, necesita un espacio propio para pensar. Entretanto espera a Alan Garvey para hacer otra película juntos, conspira con los viejos maestros del cine, saltando hacia lo nuevo, lo no legislado del arte, lo ilegal. Ver sus películas y recordar: no valorar lo bajo en este cineasta sino lo alto.

«(…) la flor aún espera/ que entendamos su belleza» (C. González, cit., p. 66).

 

Textos citados:

C. González, “Crónica de una libertad condicional”, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2014, p. 59; p. 25; p. 90.

C. González, “La venganza del cordero atado”, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2019, p. 65; p. 74; p. 77; pp. 9-10; p. 85.

C. González, “Retórica del suspiro de queja”, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2015, p. 22; p. 67; p. 79; p. 66.

C. González, “Sinopsis de Lluvia de jaulas” 2020.

C. González, “Sinopsis de Atenas” 2019b.

J.-L. Godard, “Historia(s) del cine”, Buenos Aires, Caja Negra 2007, p. 190.

Lu Hsun, “Diario de un loco”, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Interzona Editora 2015, p. 48.


The pending barrier as all our films are being rendered as we’re all here conjuring up apparitions to make sense or make new from found footage – to alter chemistry – to conceptually, – destroy and give birth to a new knowledge… everything already captured….the fire burning briefly, acting as the opening and closing lens flare... What are the fences thinking? The monitors are powering up on the daily and the first-hand accounts through live-stream appear as phantoms in once parchment motion & through every social media outlet’s “stories”... through our palms & thumbs guiding all informative and uselessness along, – the unreal contemporary.


altCrossroads 2017 – Program 1
sea to shining sea (we are stuck on this rock)

Nel vedere online i film di Crossroads 2017 – festival del film e del video d'artista di San Francisco, presentato al San Francisco Museum of Modern Art, 19-21 maggio – non ho potuto fare a meno di pormi le solite domande che devono giocoforza esserci oggi sulla questione della fruizione audiovisiva nella cosiddetta “mediasfera” contemporanea: cos'è che vedo, cos'è che si vede in una situazione tale? Quanto creato dagli autori dei singoli film è video oppure altro? E poi: è giusto vedere questi film e video fuori dall'ambito specifico per cui sono stati considerati e articolati in sequenza come serie di programmi e quindi mostrati al pubblico?

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Poet Diane Burns is showcased in Sky Hopinka’s I'll Remember You As You Were, Not As What You'll Become, an elegy or supernatural encounter bookended by colorful spiritual passages. A slow-shuttered neon cross glides across the frame as Burns taps a beat on a mic, reciting a poem: «I don’t care if you’re married, I still love you…» The text is laid over a nightscape; beams of light rotate across the screen. The text imposes. These echoes find their way across landscapes.

La Tavola di montaggio si articola in tre sequenze longitudinali, dall’alto verso il basso. La prima a sinistra è dedicata alla borghesia: dai primi dagherrotipi al ritratto di famiglia, dagli avi mostruosi di Bataille alla classe dei padroni nel giardino delle delizie di Metropolis di Lang, fino al fotografo che, sulla spiaggia di People on Sunday, fa un ritratto involontario, composto da immagini fisse, della società “paralizzata” dell’epoca (si tratta, in un certo senso, non di un album di famiglia, ma di un album di società, fatto non di foto, ma di fotogrammi).

La sequenza centrale è quella che ripensa e rimonta alcune immagini da Barthes, Sebald e Bressane, associandole fra loro. Quella di destra monta insieme foto che risalgono all’inizio del XX secolo (lo stesso periodo di quelle nell’album di Rua Aperana 52 di Bressane, scattate a partire dal 1909) che fanno parte dell’album di famiglia di un’amica argentina. Come sempre accade davanti ad una tavola di ispirazione warburghiana è possibile (o auspicabile), a partire (o nonostante) queste brevi indicazioni, creare montaggi e percorsi propri.

«When our eyes touch each others, is it day or night?»
J.Derrida (Toucher, Jean-Luc Nancy)

[Clicca qui per la traduzione italiana]

I decided to start this article on a long night spent at Philadelphia airport, a non-place in an extra-time dimension. In a drifting crossroad, a night-time interstitial suspension, a psychic dimension, not only spatial.


altJesse McLean is a media artist and educator whose research is motivated by a deep curiosity about human behaviour and relationships, especially as presented and observed through mediated images. Interested both in the power and the failure of the mediated experience to bring us together, McLean's work asks the viewer to walk the line between voyeur and participant.

Zachary Epcar (b. 1987, San Francisco) is a film and video maker currently based in Oakland, California, who makes moving image work dealing with the space and materiality of leisure, and the intersections between body and built environment. His work has been shown at Projections, New York Film Festival; Ann Arbor Film Festival; Crossroads, San Francisco Cinematheque; Images Festival, Toronto; and the Rotterdam, Edinburgh, and San Francisco International Film Festivals.



«Anche tu sei collina
e sentiero di sassi
e gioco nei canneti,
e conosci la vigna
che di notte tace.
Tu non dici parole.
C'è una terra che tace
e non e' terra tua.
C'è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui…»
(Cesare Pavese, Anche tu sei collina)

Festival

Medfilm

Speciale Medfilm 2013

Luigi Coluccio

halimaspath2Fine anni Settanta. Salko e Halima vivono da soli. La loro famiglia è composta dal fratello del primo, Mustafa, e dal fratello della seconda, Avdo, entrambi sposati e con figli, quello che i due non possono avere. Tra i nipoti della coppia c’è Safija, ripudiata dal padre perché innamorata e incinta di Slavo, serbo e cristiano mentre il resto della famiglia è croata e musulmana. Dopo che Slavo è costretto a scappare via per aver ferito Avdo che stava picchiando quasi a morte la figlia, Safija dà alla luce il bimbo, che tiene nascosto al ragazzo (dicendogli che è nato morto) per paura di ulteriori ritorsioni. Slavo, dopo qualche tempo, torna dalla Germania dove si era rifugiato e aveva trovato lavoro, e porta con sé Safija. Salko e Halima, gli unici ad aver aiutato la ragazza, adesso si occuperanno del piccolo.
25 anni dopo, le cose sono molto cambiate: nella guerra seguita alla dissoluzione della Jugoslavia, Salko e il ragazzo a cui era stato dato il nome di Mirza, hanno perso la vita. Il cognato Mustafa e il nipote Aron sono gli unici rimasti ad Halima, che è da anni che lotta per ritrovare i resti del marito e del figlio. Salko viene individuato in una fosse comune, ma per identificare Mirza serve un campione di sangue di un suo familiare. Halima, dunque, è costretta a mettersi alla ricerca di Safija e Slavo…

Luigi Coluccio

nesma1Youssef e Claire Slimane sono una coppia felice, felice del loro amore e della loro posizione, un passato da attivisti politici, un presente da agenti immobiliari di proprietà di lusso. Accanto a loro c’è Syrine, figlia della cameriera, che si appresta a scoprire l’estate tunisina, i primi amori. Un giorno Youssef riceve la visita di un poliziotto che lo informa che la sua identità è stata rubata e che qualcuno sta effettuando acquisti a suo nome. Pian piano gli eventi precipitano, collassando tutti verso la villa che i due non riescono a vendere, Nesma, che in arabo significa “brezza”…

Luigi Coluccio

yema2Ouardia, vedova, ha due figli: Tarik, primogenito, soldato; Ali, secondogenito, capo di una milizia islamica. Il primo è morto, forse ucciso dal secondo. La madre riporta il corpo del figlio nella loro casa natia, arroccata sulle montagne algerine e proprio al centro del territorio conteso tra militari e miliziani. Ali, per evitare che gli succeda qualcosa, manda a proteggerla e sorvegliarla uno suoi uomini, un ragazzo che era l’artificiere del gruppo e che in una fallita incursione ha perso una mano. La situazione si complica quando viene portato a casa anche il figlio appena nato di Malia, la donna amata dai due fratelli, morta di parto…

Luigi Coluccio

acab2Grecia, Atene, oggi. Elektra si divide tra l’attivismo, il lavoro, la famiglia, l’amore. L’attivismo: un collettivo anarchico che ha perso uno dei suoi membri, quel Manousos che aspetta il processo per rapina a mano armata e terrorismo; il lavoro: baby-sitter a tempo quasi pieno di Petros, bambino di otto anni lasciato troppo solo da una madre troppo presa dal lavoro; la famiglia: genitori che affondano le radici negli anni Sessanta, che hanno educato la figlia ai quei principi, a quella storia; l’amore: Manousos, in carcere.

Luigi Coluccio

rockthecasbah3Un gruppo di giovani soldati cammina sulla spiaggia di Gaza. È il 1989, è la Prima Intifada. Tomer, Ariel, Aki, Haim e Ilya sono lì per tenere a freno gli arabi in rivolta con i sassi e gli scioperi. Durante un pattugliamento, Ilya viene colpito a morte da una lavatrice lanciata da un tetto. In risposta al silenzio della famiglia proprietaria dell’abitazione, l’ufficiale al comando piazza i restanti quattro di guardia alla zona, per scoprire chi è stato ad uccidere Ilya.

Luigi Coluccio

rengaine2Dorcy è africano, cristiano, attore; Sabrina è algerina, araba, musicista. Insieme, vogliono sposarsi. La madre di lui e gli amici di lui sono contrari; la famiglia di lei anche. Soprattutto la famiglia di lei, con i suoi quaranta tra fratelli e sorelle, con a guidarli il maggiore tra loro, Slimane. Ma anche Slimane nasconde qualcosa nel suo cuore…


Luigi Coluccio

theattack1Il chirurgo Amir Jaafari ha appena ricevuto il più importante premio per un dottore israeliano. Ma l’assegnazione, stavolta, è maggiormente significativa: Amir Jaafari è un arabo che oramai da quasi venti anni vive e lavora a Tel Aviv, sposato con la conterranea Sihem, e con cui conduce una vita agiata e piena, piena di successi, riconoscimenti e passaporti. Il giorno dopo la premiazione, un attentato scuote il centro della città, e corpi su corpi si accalcano nelle sale operatorie dell’ospedale di Amir. La vita del dottore cambierà per sempre quando lo Shin Bet lo informa che sua moglie è l’autrice dell’attentato. Inizia così il suo viaggio alla ricerca delle ragioni della donna…

Luigi Coluccio

comingforthbyday2Suad è una giovane donna che passa tutto il suo tempo a casa, impegnata come è ad accudire il vecchio padre colpito da un ictus e oramai incapace di svolgere ogni minima funzione vitale. La madre si divide tra l’assistenza del marito e il suo lavoro all’ospedale. Un pomeriggio, Suad esce…



Speciale Roma 2013

Giampiero Raganelli

saatvin-sair-3Un uomo cammina. È un pittore che vaga nella foresta e vi si addentra attratto da una misteriosa e seducente melodia. Si riposa sotto un albero e vede se stesso camminare e dipingere. Un frinire di cicale quasi ininterrotto.



Giampiero Raganelli

der unfertigeKlaus è un commercialista sessantenne. Così si qualifica al pubblico, nella prima scena di questo documentario, apparendo subito nudo, dal corpo inevitabilmente sfatto per l'età, incatenato, con numerosi anelli metallici attorno al pene. Klaus si racconta durante il film e, con grande spontaneità, parla della passione su cui tutta la sua vita è incentrata, quella del ruolo di schiavo in incontri sessuali sadomaso gay. E il regista lo segue, nella parte finale, in un campo di schiavi, un resort turistico dove gli ospiti vengono sistematicamente frustati.


blue-planet-brothersUna panchina tra il verde urbano, in una Tokyo congestionata, diventa il ritrovo abituale di tre bizzarri personaggi. Un samurai proveniente di epoca Edo con una valigetta con lo stemma della sua casata feudale. Un alieno che arriva dal pianeta Cygnus. Una fata o folletto. I primi due si lamentano per i rigorosi divieti antifumo in vigore rispettivamente nel castello in cui è al servizio il primo e nell'astronave del secondo.


Tir Festival di RomaÈ un film da difendere Tir, altro titolo in concorso, tanto più quando c’è chi scrive che sarebbe “l’esempio perfetto dello stato comatoso in cui versa il cinema italiano”. E invece giunge il piacere dell’imprevisto.





another meÈ un territorio, quello del cinema-congegno, fra i più straordinari e insidiosi. C’è chi come Fincher vi si muove all’interno anche con potente, disperato parossismo, chi come Soderbergh ne è attualmente il più importante e lucido interprete e smontatore (cos’è Magic Mike fra i suoi film più recenti?) o, ancora, chi come Nolan ha forse frainteso.

Leonardo Gregorio

VolantinCortao11Nel cileno Volantin cortao ci sono dei momenti – sono momenti fugaci, attimi - in cui il volto di Paulina sembra farsi, o poter diventare, quasi pelle dello schermo, ruvida carezza, oggetto sfuggente nel disegno di Diego Ayala e Anibal Jofré. In un film, cioè, che fruga in modo irregolare fra i Dardenne, più che assorbirli, e al contempo tenta di inseguire nella sua fragilità, nella sua insicurezza, altre strade, altre immagini, altri corpi.


corpi estraneiL’inizio di Out of the Furnace di Scott Cooper (tra i produttori anche Ridley Scott) è una splendida pagina di cinema: scena violenta in un drive-in (con wurlstel infilato in gola a una donna, che fa il paio col pollo di Friedkin in Killer Joe) mentre sullo schermo scorre un film ad alta velocità, a cui contribuisce la dolcezza dell’arpeggio di Release di quei Pearl Jam che con Ten (1991) avevano dato inizio al grunge (poi non saranno mai più gli stessi) e il cui spirito qui è presente solo nelle camicie a quadri del protagonista; che poi, secondo me, per aprire una parentesi, raggiungerà il suo vertice (il grunge) con Dirt degli Alice in Chains (concentrato a mostrarne il lato oscuro, tragico, di sicuro più dissonante: e qui ci sarebbero cose da dire almeno sui Soundgarden - eh sì i Nirvana, certo -; ma poi mi pare che il cinema abbia usato poco la vasta temperie di questo genere, se non per puntellare le atmosfere del Corvo o di Giovani carini e disoccupati o Singles, ecc., tutta una congerie di problematiche e sentimentalità che non erano posticce e gratuite alla metà degli anni Novanta), quando manco diciottenni si suonavano i CCCP rinchiudendosi nei monolocali mucidi, senza bagni, senza finestre, senza termosifoni, e si pisciava nelle bottiglie di tè, che poi arrivava Vito all’improvviso, mentre gli altri frustavano le teste e facevano ballare le chiome, e senza chiedere nulla s’attaccava alla bottiglia assetato per poi sputare e vomitare.


MaeMarAlla ricerca di un mito reale e perduto sulla spiaggia di Vila Chã, cerchiamo le donne di mare chiamate “pescadeiras”, in uno dei pochi luoghi al mondo con donne timoniere. Ma dove sono? E dove sono le 120 barche da pesca artigianali? Rimangono 8 barche e una sola pescatrice. In una terra di coraggiosa gente di mare, filmiamo la passione della pesca, la passione del mare. [Dal catalogo del Festival Internazionale del Film di Roma]


las brujasÈ arrivato l’autunno nella sua faccia più ieratica e rigida, di quelli che si specchiano sulla lamina delle pozzanghere, per godere del proprio giallo celestiale mentre camminano per i viali affondando nei baveri; sparso sull’erba dei parchi e sulle strade di ghiaia dove razzolano i piccioni, si azzuffano per le croste, si beccano, si sferzano con le nere unghie e spesso sanguinano e si trascinano afflitti sul ciglio, divenendo, pestati sul terreno, pura opacità: folate di vento freddo sulla nuca (che ustionano la testa fino ai timpani) mentre si fa la fila anche solo per un kebab (disgustoso), ammasso di frattaglie di non so cosa, carne di cane in decomposizione sul ciglio della strada, con ketchup e merda gialla.

herAbbandonati alla domenica, dalla domenica, mattina romana, lastrico grigio, vischioso, cielo cinereo e sibilo, un chiosco floreale canta Moonlight Shadows come quando nell’83 camminavo per le stradine di un rione che non conoscevo, oltre il ponte (esotico per me come una giungla, intrico di fusti, cespi, ragni svelti), per vedere lei anche solo da lontano (godere del soffio al cuore che mi veniva quando appariva,  bianca e con gli occhi romantici, mandorlati; del senso di appartenenza dentro le invisibili corrispondenze che mi dicevano che ero vivo), cortili che s’aprivano all’improvviso al silenzio dei muschi, dei tufi corrosi che erano una porta, del pallone che sbatteva contro il muro, calciato forte (come atto virile) dai monelli già catarrosi (da invidiare per quello spurgo giallastro attagliato all’asfalto con rumore sordo, di cadavere), che pensavo avessero coltelli in tasca e parolacce da sguainare, pronti a derubare, anche dell’amore (soprattutto gli sconosciuti, i bambini ricci venuti da prima del confine, che i ricci erano discrimine sufficiente per ghignare e azzuffare, rubando palloni, quelli di cuoio avuti dallo zio di Milano, una chimera, di quelli che vedevi in televisione carezzati da Bruno Conti, mentre era già tanto se si giocava con il Tango, che se ce l’avevi ed eri pure grasso e ammutito,  ti chiamavano al citofono gridando e sputando sentenze sul pisciacchio di tua madre, squascianato, e ridevano e si tiravano i capelli, perché serviva il pallone, quello pesante, per una qualche sanguinosa disfida in un cortile, quando non erano alle prese, i monelli, con roghi di rane o con la fame che li faceva appostare fuori da una drogheria, prima del vecchio ponte, dove in vetrina campeggiavano le merendine al cioccolato, splendide imitazioni delle Fiesta) e una luce che non parlava che di lontananza, di desiderio e di assenza, quella che Hugo nella Vita invisibile di Vitor Goncalves si ferma ad osservare negli anditi e nelle stanze scricchiolanti di cui è pieno questo film splendido, anzi di cui è fatto, fantasmatico, svuotato, muto.


a vida invisivelDifficile non perdersi in quest’opera maestra che segna il ritorno alla regia di un grande cineasta qual è Vítor Gonçalves. Memoria, o forse sogno, di un tempo perduto, riattivato dalle immagini di un film in 8mm trovato in un appartamento abbandonato; immagini che nascondono uno sguardo, che sussurrano qualcosa, che conservano un enigma, nella grana che le compone.

Nicola Curzio

mantoManto acuífero, secondo lungometraggio di Michael Rowe (Caméra d’or a Cannes nel 2010 con Año Bisiesto), si apre con inquadratura che per altezza richiama alla mente Ozu: Caro, una bambina di otto anni, parla con un insetto, mentre alle sue spalle si muovono alcune mezze-figure; “mezze” perché eccedono i limiti del quadro, intervenendo nello spazio solo parzialmente, non essendo mai totalmente accettate all’interno di esso; “mezze” perché non diverranno mai veri personaggi, ma resteranno per tutta la durata della pellicola messicana solo tratti grossolani privi di concreto spessore.


diarioroma1Che poi alle cinco de la tarde è già tardi, è già sera, e «la piedra es una frente donde los sueños gimen/ sin tener agua curva ni cipreses helados./ La piedra es una espalda para llevar al tiempo / con árboles de lágrimas y cintas y planetas» (la pietra è una fronte dove i sogni gemono/ senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati./ La pietra è una spalla per portare il tempo/ Con alberi di lagrime e nastri e pianeti), ed è accaduto che a mano a mano… che si facesse tardi… (ma la sala stampa è un troiaio di telefonate, di donnine isteriche e occhialute che biascicano vontrier, di nerd urlanti; e allora inforco le cuffie e metto Stars are our home, traiettoria infantile tra i pianeti, ma se mi viene il mal di testa cazzo, devo starmi buono con l’oki e poi c’è la promessa di bersi una cosa, ma la sublimità, l’accorata [I don’t mean to] Wonder m’aiuta a ricordare); un presentimento, poi la constatazione, no, il timore di perdere ancora (non so cosa)…  è accaduto che il paesaggio campano curvasse vertiginosamente fino a Caserta dove a fianco alla ferrovia un arbusto si scrollava, pieno zeppo di una zazzera di foglie. Che poi la distanza tra due punti vivi si risolve in quel serraglio vegetale, o anche solo sulla superficie di una foglia morta, di un occhio di donna da rifuggire (col suo bagaglio di via vai nei tram, la sera), della cappa biancastra de la tarde o di una scarpa con tacco sonante, una patata, un bicchierino di tè. I got your love.

Speciale Torino 2013


belaUn elicottero che sovrasta il set, creando un fortissimo vento sottostante. Dei giganteschi ventilatori e degli inservienti che lanciano foglie secche, attingendo da una gran quantità di sacchi, in modo da farle volteggiare in aria sfruttando l'immensa forza eolica che viene così generata. In un paesaggio già di per sé desolato e marginale, colpisce il macchinoso e artificioso intervento sulla realtà per ricreare quel mondo aspro, estremo, quella finis terrae, la rarefazione primordiale, il caos degli elementi, di A torinói ló, l'ultimo immenso film di Bela Tarr, il cui backstage è ripreso in questo documentario di Jean-Marc Lamoure sul cineasta ungherese.

sao-karaoke-karaoke-girl-di-visra-vichit-vadakan

Mi limón, mi limonero
entero me gusta más
Un inglés dijo yeah, yeah
y un francés dijo oh lala
[…]

Me siento malo morena
cabeza hinchada morena
Que no me paro morena mmm, voy voy voy
[…]


torinoCi sono filmografie costituite di un solo film. O che potrebbero esserlo. Per l’originalità del punto di vista, l’approccio deambulante e irripetibile individuato per scavare solchi apolidi nell’immagine e nella narrazione. L’algerino Mohamed Zinet, attore di teatro e cinema e regista teatrale, realizzò un unico film, Tahya ya Dîdû (Viva Didu - Algeri insolita, 1971), che rimane una pietra miliare della cinematografia algerina. Il tunisino Mohamed Ben Smaïl esordì nel 2000 con il sorprendente Ghodoua Nahrek (Demain, je brûle…), presentato a Venezia, a tutt’oggi la sua unica regia. Si pensa a questi cineasti, per limitare il campo al Maghreb, e alla unicità delle loro opere, vedendo il primo lungometraggio della cineasta algerina Narimane Mari Loubia Hamra (Red Beans). Che potrebbe avviare una filmografia meravigliosa o rimanere un isolato gioiello prezioso.


histoire-de-ma-mort-historia-de-la-meva-mort-23-10-2013-2-gSe c’è un pregio di Carlo Mazzacurati è quello che ama i suoi personaggi, sempre carenti (per lo più di pecunia), lacunosi, bistrattati. Che poi sembra difficile non amare il Fabrizio Bentivoglio della Lingua del Santo (adesso ripreso in un cameo esilarante in cui, insieme a Silvio Orlando, interpreta la parte di un venditore di dipinti su un canale televisivo, inventandosi immantinente, movimenti pittorici, stili, motivazioni semiologiche di questa o quella tela) o il Mastandrea di questa Sedia della felicità (nella sezione “Festa mobile”) mentre va alla ricerca di un tesoro nascosto in una sedia, che poi si tramuterà nella conquista dell’amore.


Frances-HaTra l’altro Noah Baumbach implementa le potenzialità luminose di quella Greta Gerwin che già risplendeva ne Lo Stravagante mondo di Greenberg, nonostante una goffaggine che lì era marcata dal suo sovrappeso, una cacofonia che per Baumbach era essenziale a puntellare la cisposità, la faticosa noia della realtà in cui si muoveva lo stesso Greenberg, antieroe verso cui indirizzare più risentimento che partecipazione.

Festival Berlino

Speciale Berlino 2015

alt

Per un cinema di sincronie. Tra gesti e materia, tra figure e spazi, tra l’emozione del filmare e la struttura della messa in scena. Non sempre è facile, anzi non lo è quasi mai. Poi però ti imbatti in un lavoro come Counting di Jem Cohen (Forum) e ti sembra quasi una cosa naturale, un gioco da ragazzi impilare frammenti di vita filmata, come fosse inspirare ed espirare, automatismo del vivere con la stessa eleganza con cui, per esempio, i gatti attraversano i film di Chris Marker...

Massimo Causo

altLa fine del tempo, o qualcosa del genere. Dipende da come guardi le cose, se le prendi dal verso della durata, e allora lavori per lo spirito, sulla lunghezza d’onda della verità interiore, o da quello dell’intervallo, e quindi ti tieni in contatto con la statica delle emozioni, con l’attesa incombente dell’esistere. Pablo Larrain, Alexey German Jr., Wim Wenders, alla Berlinale 65, si muovono in questo arco: tre film, i loro, che slargano il rapporto con il tempo, lo rendono persistente nella sua drammaticità interiore, fluido nella staticità del dramma - di volta in volta morale, storico, esistenziale - che elaborano.

Massimo Causo

altLiquido. Si tratta di lasciar dissolvere le tensioni del filmare nello scorrere acquatico degli elementi, forse in cerca di una immaterialità del cinema che gli appartiene da sempre (emulsioni, pixel...). Un cinema liquido, dunque, in questo primo scorcio di Berlinale 65, a prescindere dalle siccità desertiche del magnifico Herzog...

Massimo Causo

Partiamo con un sogno dimenticato. Forgotten dream, naturalmente... L’avventura della grande scoperta disincarnata nel gioco di specchi tra il disposiitivo filmografico e iconico (la grande narrazione cinematografica della Storia) e la disarticolazione della verità nascosta, del segreto mondo, dell’altrove presentificato...



Speciale Berlino 2016

alt

Cinema fluviale, in galleggiamento tra acque, figure, battelli e fantasmi d’amore, come un Atalante alla deriva nel presente della Cina: Crosscurrent (Chang Jiang Tu) è l’opera seconda di Yang Chao, in Concorso alla Berlinale 66, film in sospensione lirica tra tempo e spazio, sospinto sul fiume Yangtze che taglia la Cina dal Tibet sino a Shanghai.

Massimo Causo

altIl corpo assente (e permanente) della rivoluzione

La cristologia rivoluzionaria fa tutta riferimento al corpo assente nella risurrezione, al continuo rimandare la verità della liberazione: Lav Diaz ne è ben consapevole e fa di A Lullaby to the Sorrowful Mystery una testimonianza sacrale del tempo tradito dell’attesa rivoluzionaria del popolo tagalog. Come fosse una sacra rappresentazione, facendosi carico con la consueta laica consapevolezza del portato cattolico dei vissuti popolari della sua gente, Lav Diaz si spinge in un fluviale racconto che disloca la storia nel mito e il mito nella verità astratta della natura.

Massimo Causo

altUna casa, anzi due, contigue e alternative, come è sempre un po’ tutto nel cinema di Kiyoshi Kurosawa. Il suo nuovo film, Creepy (a Berlino 66 in Berlinale Special), resta immancabilmente ancorato all’idea di un mondo in cui la specularità e lo sdoppiamento sono la chiave di accesso alla natura implicita dell’esistere. Lo avevamo lasciato in Kishibe no Tabi (Vers l’autre rive, lo scorso anno a Cannes) sospeso alla transitoria immaterialità della vita reale, in bilico tra la quotidianità di una vedova e l’altrove di un marito morto anni addietro, eppure ancora presente nel suo tempo.

Massimo Causo

altIl nocciolo della questione coloniale continua a percorrere il cinema portoghese, una sorta di eco che risuona nelle trame di un filmare fatto di distanze da coprire con un immaginario che prende forma dalle ombre della Storia. Basti pensare al recente John From di João Nicolau, visto al Torino Film Festival, o alle avventurose deviazioni narrative di Miguel Gomes in Tabu. E’ tutto un gioco di elaborazioni in trasparenza, tra testo lontano, contesto presente, allitterazioni immaginifiche che suscitano fantasmi rimossi della coscienza o anche flussi di memoria che appartengono ad altre generazioni e ritornano nel presente come una manciata di coriandoli che non riesci a toglierti di dosso.

Massimo Causo

altLa questione con il cinema di Gianfranco Rosi sta sempre nel livello di astrazione che cerca. Il discorso vale anche per Fuocoammare (Berlinale 66, Concorso), che si colloca a Lampedusa, in quello che è stato l’avamposto dell’emergenza umanitaria degli immigrati ora diffusa su altri fronti di avvistamento e ammassamento dei profughi. Il suo punto di contatto con la realtà si sposta sempre un gradino più in alto del suolo, assume una prospettiva simbolica che è, allo stesso, tempo, la ragione del suo fascino e il motivo del sospetto che può generare.

Massimo Causo

altIl contrasto, nel cinema di Jeff Nichols, è sempre tra la fuga e il ritorno: credi sempre che le sue siano storie in cui tutto ruota attorno alla necessità di fuggire, fisicamente o anche solo psicologicamente, moralmente, ma poi ti accorgi che la partita si gioca solo e soltanto sull’esigenza di tornare al punto di origine, di concentrarsi in un centro in cui tutto può trovare una sua collocazione. E’ così anche in Midnight Special (Berlinale 66, Consorso), che in tal senso spinge ancora più oltre questo criterio logico.

Speciale Berlino 2017


altLa scena – a volte, spesso... – è la crisi. E la guardi come un'esposizione placida e oscena del dissidio interiore, o anche esteriore, di luoghi e figure che mostrano e nascondono la loro sofferenza. I tempi sono quelli che sono, del resto, e il cinema da sempre se ne fa carico. La scena è la crisi e il filmare la trasforma in una drammaturgia che interferisce sul rapporto intimo tra luoghi e i corpi, eppure tra i drammi e la forma che assumono: transfert, lapsus, allucinazioni, semplici distrazioni negli spazi della memoria o del presente. La Berlinale 67 volge al termine (scrivo a poche ore dall’Orso d’Oro, hoping in Aki...) e si porta dentro questa scena, esposta in alcuni dei film più belli di un Concorso forse troppo discontinuo.


altPartenze dopo l’approdo. Derive fluviali visionarie nell’estrema libertà dell'ignoto mondo amazzonico, dopo l’arrivo portuale in una Ellis Island che diventava costrizione, prigione. The Lost City of Z dopo The Immigrant: James Gray affronta il suo sogno esotico, l’accensione di un film d’avventura (ancora un film “in costume”) seguendo la linea di una fuga prospettica verso l’ignoto, che incarna il solito dissidio grayano tra la realtà che si abita e il sogno che si sente a portata di mano. Il luogo dell’appartenenza (la famiglia, la città, il destino) è lo spazio di una coscienza che sta stretta e la materia del desiderare è sempre lì a portata di mano, intangibile nella sua vicinanza.


Berlinale 67, figure in campo in tre film del Concorso: Final Portrait di Stanley Tucci, The Dinner di Oren Moverman e The Party di Sally Potter. C’è prima di tutto lo spazio, che accoglie le mutazioni in corso, lasciando implodere la materia di cui sono fatti i personaggi nel loro ritrovarsi faccia a faccia con la scena, stretti in un’azione che si conclude in se stessa e si consegna al lavorio dei caratteri, all’evoluzione relazionale della drammaturgia. Il setting è teso a segmentare la teatralità dell’assunto in un impianto filmico che implode nella concretezza del set, non tanto il luogo dell’azione quanto l’azione nel luogo: un’implosione di psicologie che dissimulano la drammaturgia nella fatale convivenza scenica e nella implicita connivenza psicologica. L’esclusione del fuori concede alla concatenazione di eventi lo spazio di un faccia a faccia che gioca con la frontalità tra i personaggi che duellano, ma anche tra scena e spettatore. Il film resta in mezzo, quasi un happening, spesso prigioniero di se stesso, di una drammaturgia da sceneggiatura, di una potenza da (over) acting che si affida alla materia grezza e sublime della prestazione attoriale.


altBerlinale 67, primi giorni. Tracce al femminile da due registe europee dell’Est, Ildikó Enyedi e Agnieszka Holland, ungherese l’una polacca l’altra, entrambe in fuori quota generazionale, nel senso che non sono certo ultima leva (classe ’55 l’una, ’48 l’altra) come sembra necessario oggi per essere nell’attenzione critica, eppure entrambe capaci di un cinema che ha ancora dentro i segni del rinnovamento di cui, magari marginalmente, sono state portatrici. In Concorso, con On body and Soul la Enyedi e con Spoor la Holland, entrambe hanno segnato questo esordio della Berlinale con due film in cui una sorta di visione magica della realtà, le connessioni tra vita reale e vita spirituale, le transizioni tra relazioni umane e relazioni sociali si coniugano nella traccia di un cinema potentemente visivo, sensibilmente filmico per quanto distante dall’algida materializzazione per così dire realistica della contemporaneità, che preferisce osservare invece di maneggiare, elaborare. Entrambi sono film che hanno a che fare col mistero della natura, con la molteplicità della vita, e nel fare questo elaborano una visione dell’esistente che transita dall’uomo alla società e attraversa la trasparenza visiva del filmare.

Festival Venezia

Speciale Venezia 2010

Cold_Fish_Coldfish1-512x341Versione riveduta e ampliata dell’articolo Corporale, pubblicato su “Filmcritica”, n. 608, ottobre 2010.


Cold Fish

Una delle tracce meglio rinvenibili da sotto la concrezione di film accuratamente eteromorfa, dell’ultima mostra veneziana, rivela numerose declinazioni corporali (apodittiche, stupefacenti, spesso vischiose) e di conseguenza le differenti, o addirittura antagoniste, concezioni del corpo-cinema, da quello laconico e fibroso nella misura di morto carname di Larrain, fino a quello più patinato, delle scenografie sessuali e muscolari di De La Iglesia (che non va oltre lo spettacolo “epidermico”, a dispetto di un inizio straniante) e di Rodriguez (impegnato, pur nei consueti giochi corrivi, ad alludere a una qualche eversione degli ultimi, dei marginali), passando per l’autentico pastiche di Sion Sono, che in Cold Fish (sezione “Orizzonti”)  genera una dinamica schizofrenica in cui corpo (squartato e ridotto a manichino monco) e sesso (negato o istericamente profuso) sono i termini di un'alienazione raggelata.

the_nine_muses«Ha da passa’ ‘a nuttata»
(Eduardo De Filippo, Napoli milionaria!)

Che cos’è il cinema? È sempre utile partire da buone domande per poter elaborare delle risposte adeguate. Questo interrogativo, così carico di echi baziniani, torna a riproporsi con urgenza, perché il cinema, da “occhio del Novecento”, mezzo espressivo primario, serbatoio di tensioni storiche e mitologie popolari, di ossessioni morali e grovigli sociali, si trova oggi ad occupare una posizione marginale in un paesaggio che privilegia altri media. «Ciò che caratterizza il cinema dell’epoca postmoderna è il fatto di non essere più il medium trainante, ma il tassello di un sistema più vasto» (Buccheri 2010, p. 124). È quindi il contesto mediale che impone di porci il dubbio ontologico sul senso attuale del cinema: quale spazio rimane alla settima arte in un’epoca in cui «ogni immagine scivola nelle altre», per dirla con Deleuze? Che cos’è successo al cinema come fenomeno artistico, culturale, sociale?


road-to-nowhere-hellmanArticolo tratto da "Filmcritica", n. 608, ottobre 2010.


1.


Ci sono delle linee di forza che tramano le immagini, che le spostano e le disorientano, testandone la disponibilità e la resistenza a flussi incongrui, a iniezioni eclettiche, a energie anomale. Assomigliano a delle volumetrie, i cui setacci, in altro senso, tramano alle spalle delle immagini stesse, magari facendo appello a una esplosiva fisica erotica, oppure diluendo nella miscela una pura chimica spettrale: Machete di Robert Rodriguez e Ethan Maniquis e Jianyu (Reign of Assassins) di Su Chao-Pin e John Woo, rispettivamente e tanto per cominciare (il sistema delle coppie, col raddoppio dei nomi alla regia, benché poi sia inesorabilmente chiaro chi fa da spalla a chi, non spiega del tutto la trama né il complotto produttivo, ma fa parte della medesima geometria cubica. E chissà che, di tale laborioso duettante laboratorio, non stia passando qualcosa in certo cinema italiano, su cui torneremo prossimamente, che a Venezia quest’anno è parso radiografarsi nell’ombra: Maderna/Pozzoli, De Angelis/Di Trapani, Zamagni/Ranocchi e, ovviamente, Gaudino/Sandri).


cirkuscolumbia«Qualche volta sento che nel 1992, quando cadde il comunismo, ci siamo ritrovati sul bordo di un abisso. Il resto del mondo guardava in silenzio dall’altra parte. Siamo stati costretti a saltare, ma non siamo arrivati dall’altra parte. Stiamo ancora cadendo» (Denis Tanović).

«Mentre i mezzibusti non trovano accordo, versione di Caino,
la macchina della storia fa dei cadaveri il suo carburante» (Joseph Brodskij, Tema della Bosnia).

No Man’s Land, Triage, Cirkus Columbia. Durante, dopo, prima. La trilogia sul conflitto nei Balcani di Tanović è un viaggio di ricognizione nel “buco nero” della storia recente dell’Est Europa, che, a distanza di vent’anni dal suo tragico inizio, grava ancora sulla coscienza di chi non fece abbastanza per evitarlo (l’Onu, la Nato e l’intera comunità internazionale). La scelta temporale compiuta dall’autore non è cronologica. In quanto gli stadi della memoria, che sfuggono ad ogni criterio di ordine e razionalità, sono dettati invece dall’emozione e, a volte, dalla casualità.

silent_souls

Tanya è morta. Miron e Aist, rispettivamente marito e amante, decidono di congedarsi dalla donna celebrando il rituale d’addio come previsto dalla tradizione della cultura Merja, antica etnia ugro-finnica. Sanno che così facendo possono scongiurare la minaccia della distruzione del mondo da cui provengono e soddisfare, di conseguenza, il bisogno di salvezza ad essa congiunto.

forgottenspaceIl container come unità fisica di misura attorno a cui si organizza l’economia mondiale. I percorsi di transito lungo cui questo si sposta ridisegnano la mappatura terrestre. Tracciati aventi un’unica coordinata geografica, il profitto mosso da logiche di sfruttamento consumistico. Il mondo non è più pensato come «una casa per tutti, ma un mercato per ciascuno»1.

venus_noireÈ un percorso esistenziale in caduta libera quello di Saartjie Baartman, più conosciuta come Venere ottentotta. Quello che compie è un inarrestabile inabissamento che dai sobborghi londinesi, dove interpreta la parte dell’osceno fenomeno da baraccone, la porta prima ai salotti libertini parigini, a soddisfare le pruriginose voglie della buona società borghese, e poi giù, sino ai più squallidi gironi postribolari. Una progressiva distruzione che non si arresta neppure una volta morta. Il suo corpo, venduto all’Accademia reale della medicina di Parigi, è sezionato per dare legittimità scientifica alle più estreme teorie del “darwinismo sociale”.

Speciale Venezia 2011

DELBONO«Non ho altro modo di conoscere
il corpo umano che viverlo,
cioè assumere sul mio conto
il dramma che mi attraversa
e confondermi con esso».
(Maurice Marleau-Ponty)



È il dolore ad esigere che venga lasciata una traccia di sé. Solo salvandola dall’oblio del silenzio è possibile dare alla sofferenza un’occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza.


faust_4-4Già la barca sballa sulle onde nell'ultimo tramonto che, come sempre, tacita la marina vastità verso Murano: strisce di terra annerita e spoglia, su cui razzolano stormi di chissà cosa dal collo oblungo, e poi, la calma acquea dove galleggia una piccola barca a pesca e una darsena di travi e piattaforme. Mentre le banchine di Murano bisbigliano per non svegliare i fantasmi sprangati nelle case, ripenso alle ultime cose viste.


4.44-last-day-on-earth_low_1-300x168E' Dio che limita le cose del mondo, ma non conosciamo quali sono i limiti dell’inferno e
soprattutto: dov’è la frontiera dell’uomo?” (Sokurov)

L’11 settembre è il giorno ideale per le conclusioni...
Questa 68esima mostra è stata una collezione di capolavori, inevitabilmente qualche grande film (penso a quelli di Ferrara, Friedkin, Naderi…) è rimasto fuori dalla premiazione, riflettiamo sulla fine e consoliamoci.


Kotoko_2«Il cinema finisce con Kotoko. D’ora in avanti vedere film sarà come assistere a una retrospettiva» (Luca “Quasimodo”). Un giudizio estremo per il capolavoro di Tsukamoto: cinema portato allo stremo, un cinema della crudeltà che suscita violente reazioni emotive nello spettatore, i cui nervi angosciati vibrano a lungo usciti dalla sala.


andrea_arnold-wuthering_heightsSe proprio devo tenere in vita il diario - questa farragine in preda ai mutamenti atmosferici (oggi è scesa una cappa d’afa, una diarrea di luce attraverso i palazzi), agli spazi cosparsi di aghi di pino e di gambe cinesi, all’impressione, l’orrore del ritorno - quando magari mi piacerebbe riposarmi almeno un’ora, immergermi nella pace del nostro monolocale di via Zara, che odora di silenzio di là dai muri, nel giardino frusciante di natura morta, di rampicante, di cancello cigolante, e poi dimenticandomi nel sonno), allora devo iniziare dalla fine (o quasi), da Wuthering Heights di Andrea Arnold, non perché sia una storia di infanzia e di perdite (dell’infanzia, e dell’amore), ma perché ciò è espresso da blocchi di esperienza rigogliosa e ruvida, eterea e terragna.


THE_INVADER_STILL_01-thumb-600x337-25492Un biondo pettignone femminile, lasco in favore di camera, squarcia per cinque metri lo schermo: un cretto pantagruelico, pronto a fagocitare l'invasore, lo straniero alla conquista del Vecchiomondo, e il suo desiderio di dominazione e sottomissione.

 

 


darkhorse_300Per quanto si sia portati a pensare ai personaggi solondzani come a delle propaggini dello stesso autore, in realtà il regista, a differenza di Abe, protagonista del suo ultimo lavoro, con Dark Horse ha dimostrato di riuscire finalmente a lasciare andare personaggi, temi e situazioni così a lungo "coccolati" nel corso del suo percorso filmografico e cominciare un nuovo discorso.
Per Solondz era diventata quasi una sorta di cifra stilistica quella di far cortocircuitare tasselli della propria filmografia creando continui rimandi tra l’ultima regia e i lavori precedentemente realizzati.


HimizuUn film compresso fra due catastrofi, quella di Fukushima e una seconda ancora a venire, ma presagita, forse agognata, più temibile perché il suo rombo già incomincia a farsi sentire nella disgregazione delle coscienze. Himizu è la talpa che erode dall’interno i corpi, per svuotarli delle loro forze e rendere più soffocante l’oppressione del dover credere nella ricostruzione dopo lo tsunami, sperare nel futuro del proprio paese, sognare una nuova vita per i giovani.


terraferma“Venite adoremus. Dominum”

È così, avanti a destra c’è più cinema. Provate a vederlo Terraferma di Crialese da questa prospettiva, provate a fermarvi in questo lento annegare: dall’isola si vede tutto un mondo nuovo: la vertigine del viaggio che consuma le speranze, le aspettative alimentate dall’attesa di arrivare e vedere se quello che si dice è vero, se perdersi in questo frammento è possibile, se si può sopravvivere alla realtà invece che tuffarsi a occhi chiusi da una barchetta stipata di turisti sculettanti sulle note di Maracaibo.


2439109_height370_width560C'è sembrato che in quest'ultimo lavoro presti ancor più attenzione al dettaglio, a tutti quei brand, e  a quegli oggetti, diventati nell'immaginario collettivo dei veri e propri status symbol. Quella che prende forma è una società dominata  totalmente dalle merci, dalle etichette, quasi fossero rimasti gli unici contrassegni ancora capaci di funzionare come dispensatori di identità.


pelesjan

Siamo abituati a considerare il montaggio cinematografico come un esercizio di associazione fra le  diverse sequenze che compongono il film: il regista armeno Pelešjan invece ingaggia la sua lotta col tempo nella distanza che si viene a creare fra le inquadrature, nello spazio che le separa, per misurarne la durata nella linea di sutura che c’è fra loro o intrappolarlo nel fermo di un’immagine.


shame-gb-2011-di-steve-mcqueen-L-tKXIZVLa morte a Venezia è questo muto grondare delle cose, la loro assenza bagnata che ti pone in lontananza, ti dilaga, ti polverizza. Anche le immagini che ha filmato Saverio (operatore di Uzak, artefice di immagini, ecc.) al suo primo giorno al Lido, il montaggio che ne ha fatto, dice questo sbiadirsi dei passi, come un annuvolarsi, uno smarrimento letto in fondo a una pupilla.
Alle 9 entro nella Sala Darsena per Shame, di Steve McQueen che ho amato al tempo del suo Hunger, fenomenologia dell’autodistruzione nel presente per poter ritrovare l’infanzia. Ma qui non è la stessa cosa, perché a fronte di un inizio folgorante che lascerebbe presagire lo svolgersi di una variazione (video)artistica sul melò (del resto McQueen viene dalla videoarte), il film pur mantenendo un livello sufficiente di espressività sembra sfilacciarsi in alcuni punti del finale.


poulet-aux-prunes-2011-20190-858507840Cucinandogli il "pollo alle prugne" Faranguisse riesce a conquistarsi fuggevoli parole d'affetto da suo marito Nasser-Ali, il miglior violinista della sua generazione. Sa che ciò che ha permesso al proprio sposo di diventare un vero e proprio artista e non rimanere soltanto un virtuoso dello strumento è stato l'amore. Ma non verso di lei.


04-1589928_0x410“Che sarà di Dio se dovessi morire?” (Schreber)

Dicevo: un festival di nevrastenici, e aggiungo: compiaciuti cultori della patologia.
Dopo un considerevole numero di film, in questo quarto giorno di permanenza al Lido, mi sembra di poter dire con una certa sicurezza che il corpo è soggetto privilegiato della 68esima mostra del cinema.


louis-garrel-monica-bellucci-un-ete-brulant-00In questo cabotaggio circuitale, andirivieni di un chilometro a passo sostenuto, che sono le giornate alla Mostra, mentre le biciclette vanno a passo d'uomo su uno sfondo di capanne da spiaggia, non mi ero mai accorto che alla finestra della sala stampa (sempre lei: luogo di osservazione/riflessione) non si vede solo un qualche gabbiano puntuto, a volteggiare in mezzo ai filamenti delle nuvole e fino al bordo delle inferriate, come scrutando questi omini (inutilmente) formicolanti, chini sulle tastiere; ma anche le cime degli alberi, già un po' gialli, ondeggianti, che adornano e intristiscono le aiuole della cappella in cui si celebra il funerale di Frédéric (Louis Garrel) in Une été  brûlant.


louise_wimmerUn fantasma s’aggira per l’Occidente, lo spirito del capitalismo. Louise Wimmer potrebbe essere un eponimo contemporaneo, un revenant del modernismo decadente, la tipica parabola pseudoamericaneggiante dell’eroe che contando sulla sola sua virtù riesce nell’impresa.




poucetMangia o verrai mangiato: è la legge di natura che regola i rapporti di potere (che sono sempre rapporti di forza) fra gli uomini, bestie fra le bestie, a seconda dei casi prede o carnefici. Lo capisce bene Pollicino, protagonista  della fiaba in costume riadattata da Marina de Van, e a proprie spese: anche i legami familiari vengono meno dinanzi al dittato della natura, in base al quale i suoi genitori, morenti di fame, decidono di abbandonare lui e i suoi fratelli.


dangerousSi era certi che nessuno, meglio del Profeta della "nuova carne", si potesse confrontare con la dovuta dimestichezza e senza eccessivi timori reverenziali con la vicenda che ha per protagonisti  Gustav Jung, Sabina Spielrein (sua paziente, amante e collega) e Sigmund Freud.
Chi meglio di Cronenberg, sempre attento nell'osseravre l'uomo nei suoi tentativi di manipolazione dell'esistente, avrebbe potuto gestire il cortocircuito umano e professionale tra il padre della psicanalisi e il suo più brillante, ma allo stesso tempo "indisciplinato" discepolo?

Michele Sardone

alpisLa vertigine di Alpis si sente una volta fuori dalla sala, tornati al livello del Lido: si insinua surrettizio il dubbio che ciò cui assistiamo sia solo una recita, il mondo sia un teatro, il nostro apparire una posa sedimentatasi in anni di convenzioni,  i rapporti umani siano ascrivibili a un tacito canovaccio.



alpsMAIN11Nel sopravvenuto sentore del sonno, specie di apocatastasi della giornata, mi accorgo che quando sono qua, tendo a non guardare mai in alto, quando mi sveglio, per sapere se c’è o no quel sole appiccicoso, che ti scotta la schiena, mentre stai a scrivere di copertine celesti nella sala stampa e di cinema e scrittura che parlano di sé, parlano da sé nella demiurgia di ciò che sfugge miracolosamente all’egida del vuoto, poi uno sguardo dietro, mentre un cinese fantastica sullo schermo del suo computer (le luci elettriche della sua città dove la sua ragazza balla specchiandosi in una vetrina), e alla finestra, il mare.


cut_3Il terzo pezzo su Cut, il terzo uomo che entra in scena di sbieco (pensando più a Totò che a Carol Reed) come il terzo elemento che nell'inquadratura ha ragion d'essere solo in rapporto agli altri due, e che pure ha la sua funzione prospettica. Sebbene in Cut il terzo elemento nell'immagine abbia valore fortemente simbolico: il pacco regalo con i resti del fratello morto; il sacco da box, indolente e ipnotico come un impiccato, presagio del massacro di là da venire; la poltrona vuota, segno del potere impersonale e ancor più invincibile grazie alla sua assenza.


Birmingham-Ornament-still"In sostanza, l'idea è di fare in modo che le etnie, la politica, le razze e le nazioni si trasformino tutte in oggetti non esistenti... - simili a ovali, scatole, grumi, armadi!
- Potreste pensare che sia vero "qualcuno", un vero "rappresentante del popolo", ma in realtà è solo un rappresentante di battiscopa, di macchie di caffè e nient'altro.
- In sostanza invettive politiche che bisognerebbe percepire solo come invettive poetiche. - In sostanza, spalmare la geopolitica dalla geologia alla poetica.
- Potete farvi venire in mente qualsiasi altra cosa!"


5964652930_5453509f6fAll’improvviso il temporale scarica sul lido la sua congerie di pozzanghere, di foglie fredde, mentre compare a vista il nodo dei palazzi del cinema, ingessati tra i recinti e i cantieri. Un senso di provvisorietà - in attesa della stabilità che darebbe il nuovo palazzo del cinema - che è tutt’uno con la sorpresa di avere una proiezione in meno a disposizione della stampa. E allora le file sono assembramenti selvaggi di giornalisti (quelli col lasciapassare rosso interessati a quel tale tacco della diva o a quel tale pacco del divo) e critici vari a vedere Polanski e, a sera, Garrel, quando cominciano a venire fuori, come le zanzare, le femmine sui tacchi e i ragazzoni coi pacchi, per una movida stagionale che si pavoneggia qui, prima di tornare alla desolazione autunnale.


un-ete-brulant-2011-21245-1365208259Garrel sembra voler portare alle estreme conseguenze l'immagine-tempo, svincolando questa da qualsiasi subordinazione di tipo narrativo. Compone le inquadrature come se fossero delle nature morte, facendone un'unità a sé stante, letteralmente indipendenti, autosufficienti dal contesto. Muove la sua macchina da presa per una Roma volutamente fotografata al di fuori degli abituali tracciati turistici, dal luccichio ingessato delle immagini da cartolina.


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Un film giocato tutto sull’ostentazione di contrasti visivo-sonori e su un eccesso di semplificazione dei caratteri e dei ruoli dei protagonisti: la distanza dei genitori dai figli si riflette sulla incommensurabile differenza dei due mondi; la luce accecante del primo fa sempre da contrappunto con la claustrofobica oscurità del secondo; i grandi giocano a mascherare l’ipocrisia che si addice ai loro ruoli di sorveglianti, educatori, dottori mentre i bambini sono impossibilitati a uscire dall’interpretazione di una rigida violenta gerarchia che li vorrebbe adulti.


mcelwee20-20photographic20memory295Un regista non riesce a comunicare con il figlio adolescente. Per segnare un campo in comune, tenta allora di cercare nel ragazzo un riflesso del ricordo che aveva di sé da giovane: ciò che otterrà non sarà uno specchiarsi, ma una sovrimpressione straniante. Photographic memory prende come pretesto il naturale fraintendimento che intercorre fra le generazioni per riflettere su quel legame capriccioso fra tempo e immagine che è il ricordo.


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Cut (A. Naderi) – Orizzonti
«Maestro Kurosawa, il cinema sta morendo. Io voglio sopravvivere».

Incolonnati in una smilza fila per la Sala Grande con i nostri fieri accrediti legati al collo e le poche ore di sonno ad appesantirci le palpebre. L’aspettazione sconsolata che ci faceva affermare con una certa sicurezza che le due di pomeriggio “volgono già il giorno verso sera!” (QuasiModo) si declina in un’attesa di sogno (che fa stringere la mano di Ghezzi e lascia teorizzare tattiche sulla disposizione dei posti a sedere - in prima fila a destra c’è più cinema -; la corsa per i posti centrali, quelli dietro la nuca di Naderi; e Müller nel suo impeccabile abito che sa di mondi lontani…) prima della visione.

Carnage-Polanski-film-2011Il dio della carneficina non arma solo il braccio delle schiere degli eserciti. S'annida ovunque, pronto a scatenare il gioco al massacro appena l'occasione lo consente. Nessuno può credersi escluso, anche se appartiene alla schiera della cosidetta gente per bene, quella che i problemi li risolve dialogando. Persone boriose, che sotto la scorza dell'ostentata superiorità morale, covano, come tutti, meschini desideri di ripicca. E proprio questo sforzo di celare le loro reali pulsioni li rende il ventre molle della "civile" coscienza borghese.


berlinguertivogliobene1UZAK è in partenza. Direzione Venezia.
L’organizzazione della 68° Mostra del Cinema, ritenendo la nostra rivista «molto bella e congruente» (queste le parole dell’Ufficio Stampa), ci dà modo di essere presenti come testata durante la manifestazione lidense. Siamo pronti a ricambiare l’onore concessoci facendoci carico dell’onere della partecipazione. Stiamo tracciando traiettorie che non ci facciano inabissare nel mare magnum del programma festivaliero, mai stato, in questi ultimi anni, tanto ricco e succulento.


mostra-internazionale-cinematograficaIl premio della critica online torna alla
68^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia
Il riconoscimento verrà attribuito dai collaboratori di 49 tra le migliori webzine italiane

Venezia, 31 agosto 2010. Il Mouse d'Oro torna alla 68^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Il premio, istituito nell'agosto 2009 su iniziativa di Hideout.it, è assegnato da una speciale giuria formata dai collaboratori di 49 tra le migliori  webzine italiane di cinema, e viene assegnato ai due migliori film scelti dalla critica online: Mouse d’oro per il primo classificato del Concorso e Mouse d’argento al primo classificato tra le sezioni collaterali.

Speciale Venezia 2012

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È possibile girare un film davvero ribelle al fascismo estetico e formale del cosiddetto postmoderno, magari risalendo nel tempo a ciò che vi era prima del cinema, al teatro delle ombre. In O Gebo e a Sombra la finzione è subito palese: dal caos buio antecedente ad ogni creazione vengono fuori mani gigantesche, rapaci, pronte a muovere sulla scena i destini delle figurine, delle quali vediamo, come se al posto dello schermo fosse stato montato sulla quarta parete un telo proto-cinematografico, le loro silhouette, proiettate dalla luce irreale di una lampada ad olio.

Venezia-2012-The-Millennial-Rapture-video-della-conferenza-stampa-di-Sennen-no-Yuraku

«O amore che tutto crei
sublime eterna carità,
la tua fiamma è più forte d'ogni cosa,
più forte della morte.»

(Giovanni della Croce)

La sensazione di trovarsi di fronte a un’opera epica sull’esistenza è evidente già dall’inizio di Millennial Rapture; il mito entra prepotentemente nelle vicende individuali e le stravolge seguendo la magnifica prevedibilità del ritornello “si vive. Si muore.”: in una grotta arroccata nell’oltre mondo, Izanami brucia dando alla luce Ho-Masubi, il dio del fuoco, origine di ogni distruzione.

PHMzhB0uu8EBPT_1_mSpesso non si sente la stanchezza, una volta entrati in Darsena (dove ronza, rimugina all’improvviso, addirittura accenna un goffo passo di danza, la stampa, in coda a Korine), e si resta lo stesso a occhi spalancati (nonostante il poco sonno, il pasto frugale, la cappa di umidità che forma sul volto un sudario di occhiaie), di fronte allo schermo, come vivificati, nutriti, dalla farandola di immagini brulicanti, nostro malgrado.

imagesSu tutto, lo straodinario impiego del contrappunto musicale. E in particolare la sequenza, già conquistatasi uno spazio di diritto nelle future antologie di manualistica cinematografica, che fotografa con lucida spietatezza l'inabissarsi delle protagoniste oltre i limiti del decoro morale causticamente commentato da Everytime di Britney Spears.
L'opera di Harmony Korine mostra il lato ferino, orgiastico, brutale, che cova al di sotto del superficialmente innocuo e patinato immaginario pop-giovanilistico.

Venezia-2012-Linhas-de-Wellington-clip-poster-e-immagini-del-film-di-Valeria-Sarmiento-12La Storia avanza intruppata e trascina dietro di sé una carovana di straccioni, esuli, nobili decaduti, ognuno portatore di un frammento di vissuto, o dell’immagine di un volto (magari dell’amore perduto) su cui la camera indugia come a voler ricomporre un quadro cui manca sempre un dettaglio per essere compiuto. Dalla Storia si fugge andando oltre le Linee di Wellington, fortificazioni tanto imponenti da essere leggendarie, descritte come appartenenti a un mito, quasi irreali quindi insuperabili: dinanzi a loro la storiografia si ferma e lascia il posto al fantasmatico.

Dennis-Quaid-in-At-Any-Price-di-Ramin-BahraniChe senso ha realizzare un film che ripropone gli scricchiolii, i primi segnali di cedimento interno, di un sistema, quello neoliberista, di cui stiamo già assistendo al collasso? Che poi questo sistema, nonostante l'evidente sfacelo, stia attraversando la crisi, da lui stesso generata, senza perderne l'egemonia, è un altro discorso.
Ramin Bahrani con At any price firma un'opera anacronistica, fuori tempo massimo, sia per il discorso affrontato che per l'iconografia utilizzata.

intervallo

Sognare i termini della disgiunzione, e del soffocamento (si dovrebbe sognare solo a occhi spalancati, di fronte a una sinfonia tarkovskiana), equivale allo svegliarsi in una stanza ravviata dal temporale, oramai rappreso dentro uno scuro riverbero d’alba, da cui parte la striscia di sangue sull’asfalto. Kim Ki-duk fa ancora della poesia sangue, Pietà, sulla strada di quel rigore “digitale” che era già di Arirang e confermando lo spostamento della sua ricerca etica, dai rapporti amorosi (governati, come si sa, dalla coercizione, dalla violenza, da un senso di carcerazione e di perdita spesso irrevocabile) a quelli che si instaurano all’interno della società, in nome della profittazione e del sopruso.

pieLa straziante e lucida confessione di Arirang era il preludio al soffocamento di Pieta: Kim Ki-duk non smette di elaborare questo discorso disperante sulla lacerazione attraverso l’incisione dei corpi, il senso di colpa che si abbatte sulle generazioni e scarnifica l’umano.
La mancanza di pietà travestita da solidale partecipazione alla sofferenza degli altri è l’aspetto più efficace per descrivere l’attuale sistema sociale fondato sulla violenza del debito. Sopravvivere al bisogno significa rinunciare necessariamente a qualcosa; l’umanità subalterna nascosta in bui e metallici sotterranei cede ciò che le avanza, la parte di corpo ancora funzionante, utile al sistema.
La descrizione dell’uomo indebitato non può quindi che eccedere nella esibizione del dolore, nello spargimento del sangue che massacra gli affetti più cari e condanna a una sopravvivenza insostenibile.
È una visione che precipita progressivamente sottoterra, costringendo a spalancare gli occhi mentre il nodo stringe la gola, taglia il respiro, abbandona l’aria. Il denaro è il gancio che tiene insieme la solitudine e l’assenza degli affetti, la mancanza e la paura della perdita, il senso di colpa e la vendetta, la condanna e la morte.

outrage-beyond-894487_0x410Kitano non è morto, sebbene ci sia qualcuno che dica il contrario da cinque anni, da quando è uscito Kantoku banzai!, il film con il quale ha provato a suicidare la propria immagine gloriosa, già sezionata e frammentata (forse per sopportarne il peso un po’ alla volta) in Takeshis’.
Outrage beyond
è oltre il semplice vilipendio alla gloria del filmaker, è la contraddizione di non voler fare un film attraverso la sua messa in opera.


somethingintheair.top_Fuori, l’arco delle giornate, dello stanco via vai, ruminare, ritornare, l’odore di pioggia, è per lo più sentimento di privazione, mancanza delle immagini, del loro spessore diafano, danzato, ridondante, che gronda spazio, passaggi di luce tra foglie e una sinfonica, solitaria erranza; fuori si passa il tempo cercando di dare senso all’assenza (di immagini), a un’attesa come infantile che misura da sola il sé, e il se. L’erranza apre To The Wonder, capolavoro di Terence Malick, e già dall’inizio non se ne vorrebbe più uscire; lirico incedere d’esseri (tre api perse su un soffitto) nel freddo atmosferico, sempre minacciato dalla dispersione, disaffezione, da una sedimentazione di lontananze.

apres-mai-14-11-2012-1-gDopo il Maggio francese arriva un été brûlant, la stagione in cui vengono bruciati i sogni rivoluzionari di ogni giovane generazione. Come fosse uno scorcio impressionista, il sogno appare: una ragazza vestita di bianco passeggia in un bosco e fa entrare in quadro il suo giovane pittore. Egli prova a farla sua, ma la visione gli sfugge via. Il ragazzo tenta allora di inseguire la bellezza attraverso la lotta contro il potere che deturpa il volto di ciò che gli si oppone: fa di un quadro un manifesto politico mentre un graffito propagandistico lo compone come fosse un collage performativo.

to-the-wonderPrima di tutto e soprattutto è l’enorme talento. Un talento capace di coniugare la magniloquenza mainstream hollywoodiana con una complessità di scrittura propria del cinema d'autore più radicale. E il risultato più portentoso di questo difficilissimo equilibrio espressivo continua a rimanere The tree of life. Impresa prometeica, vera e propria cosmogonia universale, afflato di trascendenza che aveva scaturigine dall'immediata contingenza; film generoso, sovrabbondante. Manierista, ma di un maniersimo denso e dolente. To the wonder è la sterile ripetizione di questa maniera, affascinante ma pur sempre ripetitiva, in cui compaiono tutti gli elementi della poetica del regista, forse, ancor più elevati a potenza (su tutti il totale azzeramento della costruzione narrativa, della progressione drammaturgica, per lasciare completo spazio alla riflessione spirituale).

focaSfuggire i cliché e capovolgere il senso comune delle convenzioni. Questi i talenti della regista Solveig Anspach, islandese trapiantata in Francia che sa descrivere le piccole cose con lo sguardo incontaminato di chi sa osservare le linee del reale. Così, l’incrocio di due gru nel cielo di Montreuil ha posto le basi per Queen of Montreuil (presentato nel programma delle Giornate degli Autori), storia stralunata e imprevedibile di Agathe e della sua famiglia improvvisa e improvvisata, che le si stringe attorno al ritorno dal Vietnam, dove il marito è morto lasciandola sola. Ma la solitudine va cercata in questa casa piena di oggetti e di fiori, con le finestre che si aprono ad accogliere tutti e dove, pare, confluiscano strade verso luoghi immaginari di pura poesia.

e-stato-il-figlio.jpg_t1344276887823Il film di Ciprì è un’interrogazione intelligente sull’obbedienza arcaica che trascende in sacrificio della carne. La società italiana attuale si riflette in una famiglia siciliana preistorica attraverso la tragedia di un conflitto generazionale che non può trovare una soluzione differente dal martirio del giovane corpo inetto disadattato dislocato del figlio.Occupare lo spazio non basta a essere corpo, la materia deve trovare una giustificazione attraverso il dispendio di se stessa, l’esibizione di una dolorosa confessione indotta dallo spettatore della tragedia: che si tratti della bambina uccisa in un attentato mafioso, o del fratello - interpretato prima dal giovane Fabrizio Falco e poi del maturo Alfredo Castro -, la presenza del figlio scompare in funzione di una storia incombente che lo vuole strumento sottomesso a delle regole incomprensibili, inchiodato a delle sovrastrutture alienanti (Famiglia, Stato, Chiesa) rese attraverso rappresentazioni oniriche e ironiche che ricordano gli sketch stranianti di cinica memoria.

fill_the_voidCome in ogni film in cui viene descritta una comunità chiusa e integralista, il gioco combinatorio fra i personaggi segue l’avvilupparsi del reticolo dei codici e delle meccaniche intorno a una predestinata vittima sacrificale. Appare quindi una vergine 18enne, circonfusa di una luce aurorale che polverosa le accarezza il bianco del vestito, del collo e delle guance, come in un quadro di Monet.

Superstar_Recensione_film«La sfera pubblica si privatizza nella coscienza del pubblico che consuma; la sfera pubblica diventa la sfera di pubblicazione di biografie private, sia che essa porti alla luce le casuali vicende del cosiddetto “uomo della strada” o quelle di stars deliberatamente costruite, sia che si travestano con una maschera di privatezza e si rendano incomprensibili per eccesso di personalizzazione sviluppi e decisioni di pubblica rilevanza. Il sentimentalismo verso le persone e il corrispondente cinismo verso le istituzioni che ne derivano con socio-psicologica ineluttabilità, limitano poi naturalmente la capacità di un dibattito critico nei confronti del pubblico potere, quand’anche fosse ancora possibile.»
(J. Habermas)
 

the-master70 mm sono forse anche pochi per contenere, in una sola inquadratura, tutta la possanza epica del film di Anderson: eppure grazie a questo formato la nitidezza dell’immagine è tale che nessun particolare può sfuggire, tutto è sempre a fuoco, lampante, chiaro. È chiaro che non c’è uomo che non possa vivere senza padrone, che ognuno aspetti il proprio messia che gli dia un posto dove stare, un indirizzo al suo agire, in una parola, un senso, uno purché sia. 

loadgallery322049631.jpegw640Il furore iconoclasta di Ulrich Seidl tocca, in questo film, una durezza e una spietatezza adamantina. E, così come non concede attenuanti ai suoi personaggi, non permette fraintendimenti agli spettattori. L'esasperazione dei toni e delle situazioni è da leggersi in questa prospettiva; i sui film sondano i punti deboli di una comunità, il dramma sociale, l'endemica irrequietezza evolutiva che porta gli antagonismi a venire allo scoperto. Come una peste, il cinema di Seidl è un’alterazione, un’esagerazione, un’ipertrofia; crudele, tutt’altro che consolante, esorta a guardare con onestà e coraggio ciò che sta al di sotto della sovrastruttura civile, dentro il collasso morale. È un contraccolpo che annienta la falsità, rappresentata, in questo caso, da una fede completamente svuotata di senso, reificata a feticcio, ridotta a suppellettile.

monicelliSono passati quasi due anni da quando Mario Monicelli decise di porre fine alle sue sofferenze e farla finita con la vita. Oggi nel film documentario Monicelli. La versione di Mario – presentato a Venezia 69 nella sezione "Classici" – lo ricordano con affetto, ma senza alcuna retorica, cinque registi, Mario Canale, Annarosa Morri, Felice Farina, Wilma Labate e Mario Gianni. Il racconto è affidato alla voce inconfondibile dello stesso Monicelli, cui fanno pendant foto, immagini di repertorio e le testimonianze di quanti hanno avuto di frequentarlo, frutto di un lungo e accuratissimo lavoro di ricerca (del resto, a Canale e Morri si devono alcuni tra i più importanti documentari sul Cinema realizzati negli ultimi anni, tra cui ci piace ricordare almeno Marcello una vita dolce, Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro, Vittorio D.).

 



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Lido, rado via vai da primo giorno, e sole a picco sulle teste, alle due del pomeriggio, a rischio di insolazione. Squali a parte, iperbole di catastrofi, tutte insieme: una rapina (con morto), un maremoto, squali appunto, famelici, vaganti tra i reparti di un supermercato allagato; cavo ad alta tensione che sfrigola a pochi millimetri dal pelo dell’acqua; assassini appollaiati sugli scaffali, tra le merci in macerie, pronti ad accoltellare, sparare (con ghigno); e cavalcata improvvisa di ragni pazzi dai condotti di areazione; insomma, tutta una casistica e un bestiario (in cui non mancano serpenti d’acqua) nell’acquario di sagome animate, pupazzi straripanti, che è Bait 3D di Kimble Rendall; a parte questo (rozzo) baraccone di divertimento, la cosa migliore vista finora in questa Mostra è il capolavoro di Michael Cimino, I cancelli del cielo, nella versione integrale di quasi quattro ore, che ridà sostanza a quell’epica dell’America violenta e sentimentale, come inscatolata invece (ma in qualche modo affiorante ancora) nella versione passata nel 1980 nelle sale. Dissertazione straordinaria non già limitata al contesto storico di riferimento (il versante nord-orientale degli Stati Uniti, proiettato verso l’ovest, tra il 1875 e il 1903), bensì pienamente calzante con il contemporaneo, con l’appannaggio, come si sa, delle borghesie abbienti (senza meriti, se non quello dell’appropriazione indebita) a discapito di maggioranze affamate (senza demeriti, che non siano quelli relativi al biologico germinare, come sempre).

lcaterra-quattrini-impenetrable-295In sottotraccia scorre il tema misteriosissimo di tanto teatro tragico greco, quello della predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Un tema che investe tanto la dimensione intima, personale, quanto quella collettiva, generazionale. E «non importa», come scriveva Pasolini, «se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. È il coro che si dichiara depositario di tale verità». E la colpa è stata di credere che la storia neocolonialista, liberista fosse l'unica storia possibile; che la povertà fosse un male assoluto. È stato il trionfo dell'assolutismo consumista, dei meccanismi di mercificazione attraverso i quali il modello capitalista è diventato l'unico riferimento possibile.
Un dato di fatto; un dato perverso. Quello contro cui è costretto a scontrarsi Daniele Incalaterra, che ritrovatosi in eredità 5.000 ettari di foresta vergine in Paraguay, acquistati dal padre sotto la dittatura di Alfredo Stroessner, decide di restituirli al popolo originario, i Guarnì.

izmena_2.jpg-500-480x319Un uomo e una donna raccattano indizi, frammenti, situazioni per comporre un’immagine che per metà film è solo suggestionata, suggerita: l’immagine del tradimento, degli oggetti del desiderio che poi si compongono tra loro, s’incastrano e la cui visione è insostenibile, persino per il balcone che dovrebbe reggerli in scena. Una sodomia alla finestra, come quella in Crash, o (solo suggerita, suggestionata) in Tokyo decadence e immancabile qui a Venezia (l’anno scorso con Shame e The invader), con i corpi che si consumano, cercano l’annullamento del peso di sé fino a precipitare nel vuoto orgasmico.

 

Speciale Venezia 2013

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Vengono dai ruderi abbandonati. Girano come pazzi, come cani senza padrone. Guardano sul mondo, come i primi atti del Dopostoria, dall’orlo estremo di qualche età sepolta.

 

 

 

 

jalousie

La Jalousie è una carezza dataci da Philippe per mezzo delle lunghe mani di Louis, cesellate, intonse, preservate alle volgarità della fatica. Fuori dalla Storia, i personaggi si appartengono non essendo di nessun tempo. Ancora una volta deux Amants Réguliers, che ripercorrono puntualmente tutte le tappe del disinnamoramento in una vera e propria liturgia dei corpi, una cerimonia che li erge a centro e punto di partenza di ogni processo figurativo.


tsai1. Verso la fine. Me la prendo comoda, e me la prendo con me stesso, che sono rimasto steso stamattina, e offeso (anche solo dalla luce dalla tenda blu, nonostante Nicola ieri l’abbia chiusa con premura, prevedendo l’invasione di quello stesso stridulo grido di sempre che è la mattina), steso a penetrare il mistero del soffitto bianco, su cui appaiono fantasmi ferrigni, esoscheletri su cui si innestano pulsioni e proiezioni, che non si sa più cos’è reale cosa no, che si vorrebbe vivere sempre in questa dimensione falsa (il cinema, la poesia) liberata dalla verità, e invece si deve tornare, per ritrovarsi in una casa vuota, per strada mentre la polvere e stracci di foglie fanno il loro solito ballo autunnale, le ragazze parlano al telefono, nei negozi imperano le cineserie, e la fontana semplicemente scroscia.


Moebius 2E sono ancora silenzi, in quel coacervo di emozioni che il festival comporta; silenzi assordanti; e d'altronde, quando a (dis)perdersi è il significato (concettoso, narratologico), a che servono le parole? A che servono i discorsi quando  l’immagine impera, comunica?



feng-aiA Wang Bing riesce quello che i matematici hanno dimostrato essere impossibile, ovvero far quadrare un cerchio. La circolarità temporale della ripetizione, il loop della coazione alla quotidianità di giorni sempre uguali cui sono costretti i reclusi di un manicomio dello Yunnan (stessa regione cinese del suo precedente Three sisters) trova la sua perfetta spazializzazione, coincidente nel camminamento quadrato che viene percorso in continuazione, notte e giorno, dalle figure evanescenti dei condannati all’inferno.


tom at the farm poster-620x350«Each man kills the thing he loves». Ogni uomo uccide la cosa che ama.
Così cantava Lysiane in Querelle de Brest. Così potrebbe cantare Tom, deciso a salutare, un’ultima volta, il proprio compagno, pur sapendo di doversi calare in un ruolo che lo costringerà a mascherare la reale natura dei suoi affetti.
Perché non esiste democrazia nei sentimenti, ma solo un'applicazione più o meno drammatica del sadomasochismo.


Moebius 1Il taglio, voluto e subito, è il soggetto principale dell’ultimo film di Kim Ki Duk che, si vocifera, potrebbe uscire amputato nelle sale (sicuramente in Corea molte parti verranno censurate). Un’operazione non meno dolorosa della visione integrale e per molti insostenibile di una storia di perverse santificazioni.


Moebius 4Tsai Ming Liang lo vedrò tra poco in Sala Grande, ma ho già sentito di piani sequenza e randagi, e silenzi: è il film che più aspetto (almeno da maggio), quello da cui potrebbero arrivare le soluzioni (plastiche, coreografie, corrispondenze) più nuove ed emozionanti, ancora ricordando il materasso galleggiante alla fine di I don’t want to sleep alone,  che reinventava l’amore, e l’acqua, gli stomaci macerati dei palazzi.


NightMovesIl cinema di Kelly Reichardt riparte da una diga, un muro di cemento armato che separa le certezze del sogno americano dalla reale presa di coscienza dello stato delle cose, secondo l’idea dei giovani protagonisti del film.

 

 


Medeas 8I primi istanti del film di Pallaoro sembrano rubati al cinema degli spazi aperti contemplati da Malick, Cimino, Rafelson: simile atmosfera diafana, luce incantata, con una famiglia in riva a uno specchio d’acqua; e si potrebbe essere nell’Ottocento, se non fosse per l’apparizione di una macchinetta fotografica a molla: click, ed ecco il primo sussulto temporale.


Miss-ViolenceTorte, candeline; sorrisi, come quello che Angeliki ha ancora sul viso avvolto dal sangue, denso e purpureo, dopo essersi lasciata cadere nel vuoto: gesto estremo di fuga, evasione silente. E quindi, mentre scorrono i titoli di testa, silenzio.




andereNon è solamente l’Heimat - luogo fisico connotato senza incertezza -  ma soprattutto l’aggettivo indefinito “altra” ad aggiungere e segnare uno scarto concettuale nel tema del ritorno ribaltando la questione e invertendo l’ordine della ricerca.
Il movimento avviene da fermi ed è un viaggio che porta lontano. Colui che più di tutti sogna di partire, colui che informa il territorio natio di parola e utopia (quelle degli indiani, che l’immaginazione situa nella giungla amazzonica) non intraprenderà mai il viaggio, ma sarà l’unico a restare aggrappato alla visione, la cui cronaca è ciò che definisce l’immagine in gioco.

ruin

Dopo una settimana di festival, i film cominciano a definirsi come un unico grande film, con le storie e le immagini che scivolano l’una dentro l’altra, secondo una muta corrispondenza che sembra passare attraverso l’acqua e, in particolare, attraverso un fiume. Fiume che, in Ruin, Memphis e La belle vie, sembra assumere una valenza metafisica. A comporre altre magnifiche visioni ci sono il bianco e nero di Die andere Heimat e il fiammeggiare di Medeas.

Michele Sardone

miyazakiI sogni fanno male: non tanto al sognatore che persegue tenacemente il sogno, quanto ai suoi affetti, che si vedono logorare i legami e che, a loro volta, non possono che bilanciare tanta incuria nei loro confronti se non con superiore attaccamento, fino a distruggere se stessi. Le forme carnali e imperfette dei corpi infatti non possono sostenere l’eterea natura dei sogni se non diventando a loro volta evanescenti come fantasmi, ricordi o rimpianti, nebulosi come i respiri di una malata nel gelo di una montagna.

Gemma Adessso

andereNon è solamente l’Heimat1 - luogo fisico connotato senza incertezza -  ma soprattutto l’aggettivo indefinito “altra” ad aggiungere e segnare uno scarto concettuale nel tema del ritorno ribaltando la questione e invertendo l’ordine della ricerca: il movimento avviene da fermi ed è un viaggio che porta lontano.


avranasTutto si apre con una caduta, il film stesso è la caduta. Lei, l’undicenne sorridente, cade. Si sporge e va al di là della sua possibilità di corpo, subisce la gravità e affonda. Un po’ come andare al di là delle proprie possibilità, guardare fuori e credere di poter far qualcosa di simile al volare. Scavalca e subisce il peso del suo stesso corpo giovane e destinato alla morte.


Medeas 3Il vento si è alzato stamattina e ora spazza i capelli, le gonne a pieghe, le ramure lungo i viali e le ferrovie, e gli aerei di carta. “Il vento si è alzato. Bisogna tentare di vivere”: su un treno in corsa, inseguendo un cappello sbalzato da una folata, Jiro e Nahoko si scambiano (con voce tenue dissolta nel vento) i versi di Valery, che dicono la necessità di assecondare quell’accensione di tempo e di spazio che è il nascere e il crescere, il creare (animare), aprendosi al dolore, al tempo, alla morte, all’esorcizzazione della morte dentro la spianata cerulea dell’immaginazione. È il capolavoro (in concorso) di Miyazaki (The Wind Rises), rastremato, asciugato da quelle strabilianti invenzioni anamorfiche che erano già nel Castello nel cielo, pieno di immagini di una storia ancora più vera se è il sogno a superarne gli abomini (gli aerei da guerra), e la poesia, “Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!” vero centro pulsante e volatile di tutto il cinema di Miyazaki.

friedkinIl salario della paura è il film dell’ultra-amplificazione sensoriale, dove lo sguardo si trascina fuori da se stesso diventando altro, scoprendosi  orecchio che ascolta: ma di orecchio inverosimile si tratta, ingrandito fino a negare se stesso e divenire una specie di sonda, capace cioè di fare ciò che il microscopio fa con lo sguardo: estrarre una singolarità da un evento complesso ingrandendola fino alla grana setosa e nascosta.

Matteo Marelli

die-andere-heimat-04-Die aSi presenta Die Andere Heimat di Edgar Reitz. «Ne sono grandemente impressionato e turbato, poiché, sebbene nella mia visione tutto ‘corrisponda’ esattamente alle riproduzioni del quadro da me conosciute, essa ‘mi appare’ nondimeno assolutamente modificata e carica di una tale intenzionalità latente che […] diventa ‘d'improvviso’ per me l'opera […] più densa, più ricca di pensieri inconsci» di questa 70° Mostra del Cinema.

Michele Sardone

redemption--3Miguel Gomes  recupera immagini di repertorio delle epoche più svariate (dal cinegiornale al filmino familiare fino a una sequenza di Miracolo a Milano) e le fa entrare in collisione con i ricordi personali di quattro personaggi di altrettanti paesi europei: una lettera di un bambino portoghese all’epoca della caduta dell’impero coloniale, il primo amore di un vecchio milanese (bambina evocata come fosse una “Rosebud”), la confessione di un francese della propria inettitudine ad essere padre, lo sforzo di una sposa tedesca di togliersi dalla testa il motivo del Parsifal di Wagner.

Lorenzo Esposito

CanyonsPaul Schrader infrange la passeggiata newyorchese di Manhattan con uno slittamento letteralmente octopus, agitando braccia-microcamere che sfidano e in qualche modo desertificano la propria stessa ansia di controllo.



Nicola Curzio

curran tracksAnni prima che Christopher McCandless decidesse di intraprendere il suo cammino verso l’Alaska, un’altra adolescente, Robyn Davidson, in un’altra parte del mondo, affrontò un lungo viaggio nel deserto australiano. Se il paragone tra queste due persone è, perlomeno qui, di scarso interesse, non lo è invece quello tra i loro personaggi al centro, rispettivamente, del film di Sean Penn (Into the Wild, 2007) e di John Curran (Tracks, 2013).

Vincenzo Martino

gravityTrambusto. Poi silenzio, pace, sensazione di assenza, di gravità e quantità; spazio e spazi, blu tenebra e azzurro cielo a confronto: ė dipinto in questa cornice l'incipit di Gravity, presentato fuori concorso a Venezia, ultima fatica di Alfonso Cuarón che ancora una volta si (re)inventa, abbracciando nuovamente una produzione milionaria e scegliendo l'alta quota, quella siderale, come strada/mezzo per esorcizzare un lutto - quello della dottoressa Rayan Stone, nome e fisionomie mascoline che tanto sembrano rievocare la Ripley di Alien -  tramite una (ri)nascita che parrebbe (nella dovuta misura) anche riproposizione (genuflessa) del 2001 archetipo kubrickiano; e difatti proprio laddove si interrompevano (se così si può dire) le avventure del discovery one e del suo equipaggio - e dunque l'orbita terrestre - prende piede la breve odissea di Rayan e del pilota Matt, per poi concludersi tra le terre rosse di un'Africa deserta (evidentemente attraverso un percorso inverso ma disseminato di citazioni: e penso a penne sospese e corpi fluttuanti in posizione fetale).

Gianfranco Costantiello

gravity articleLa tecnica non fa altro che esporre l’uomo dinanzi alla sua fine. Fine imminente che pare dominare l’immaginario americano e, soprattutto, hollywoodiano, degli ultimi anni. Così in Gravity, primo film di Cuarón dal respiro mainstream, in un 3D quanto mai calzante, ci si trova a un passo dalla tanto sussurrata fine, quando detriti sfreccianti minacciano, d’improvviso, nella quiete sospesa del vasto nero spaziale, il viaggio dello Space Shuttle e la vita dell’astronauta Matt Kowalsky e quella della dottoressa Ryan Stone (rispettivamente George Clooney e Sandra Bullock in scafandro).

Matteo Marelli

danteIl percorso spettacolare di Emma Dante ha da sempre una forza centripeta, una chiusura, un ripiegamento ombelicale che ambisce a contenere in sé il mondo. Una costruzione sineddotica che attraverso iperboli grottesche della rappresentazione lascia trapelare significati metaforici. Senza rinunciare al racconto, sebbene asciugandolo, riducendolo all’essenziale, presentando e indagando situazioni già date più che svolgimenti di conflitti e azioni.

Luigi Abiusi

sono hell teaser-thumb-630xauto-38159Quest’anno s’è arrivati in motoscafo di radica e di poltroncine filigranate a leoni rossi e gialli: vento nei capelli, occhiali da sole a intorbidire screzi cirrosi; i canali di Murano, con uno o due artigiani che cianciavano di reti e di legni, e poi la cosa imprevista, da gelarti il sangue nelle bluastre incrinature del polso chiamate vene: lo scafista ci scarica all’attracco della Darsena, che più in là ci sarebbe un supplemento da pagare, che se volevate scendere a Santa Elisabetta… ma me lo dovevate dire prima; ora se volete vi porto all’attracco dell’Excelsior, ma sono venti euro in più. E allora scendiamo alla Darsena dove c’era un serraglio di fotografi e video-operatori (con alle spalle delle fantesche adorne con cura e classe, che si mettevano in punta di piedi per poter guardare i feticci arrivati dal mare e potersi bagnare così nelle mutande odorose di mughetto) i quali, visto lo scafo lustro, battente bandiera veneziana con polena leonina a prua, e sonante dai Boose della vociona di Michael Bolton, hanno cominciato tutta una farandola di scatti e di riprese, e lampi ed epifonemi tutt’intorno, credendoci attori famosi o chissà magnaccia e mignotte della televisione o del parlamento; e un eunuco in giacca rossa e guanti di raso bianco lì a stappare una bottiglia e a fare tinnire i bicchieri di Swarovski.

Luca Romano

movie-die-frau-des-polizsten-s2-mask9La fragilità è la capacità dell'uomo di salvarsi dai frantumi, ma non quella di rimanere intatto. La pelle mantiene gli organi vicini, intatti, li tiene uniti ed evita che il corpo si frantumi. Il film è frantumato in milioni di pezzi, forse meno, forse 59 capitoli, forse ogni fotogramma. Ogni capitolo inizia e non cede al secondo il suo spazio, ma finisce, si conclude. In ogni capitolo c'è il frammento di una storia inenarrabile in un insieme, incomprensibile insieme. La fragilità è in ogni spazio della narrazione, è nei canti con gli occhi negli occhi degli spettatori, nella memoria che non concede il ricordo di tutte le parole. La fragilità è nel passo degli animali, nella loro morte, negli incidenti che lui fotografa, nei corpi morti a bordo strada, negli steli d'erba dell'orto improvvisato, nei lombrichi che affondano nell'acqua nell'innaffiatoio; in tutto c'è una fragilità che frantuma e salva dai frantumi.

Michele Sardone

labruceLa gerontofilia del titolo sembra rivolta, più che ai corpi decadenti e azzimati, a un certo cinema vecchio, il cosiddetto “classico”: sceneggiatura ammiccante , inquadrature da incorniciare, montaggio al servizio della narrazione, fotografia patinata. Bruce LaBruce tenta di sovvertire il concetto di bellezza, ma si arrende comunque alla gerarchizzazione: non contesta la bellezza in sé, ma prova solo a invertire di posto quel che viene definito attraente con ciò che è disgustoso, lasciando invariato il sistema formale.

Serge Daney

daneySe il film è per me, io sono per lui: di fronte a lui e dentro di lui. Ripenso […] a proposito del “posto dello spettatore” davanti a un film, sul fatto che c’è una doppia scena, un doppio modo di esistere davanti al film: come corpo inerte tra gli altri, e come sguardo vivo tra le inquadrature. L’amore dell’inquadratura è quello degli interstizi in cui infilarsi, di nascosto o ben nascosti dallo svolgimento del film.

Speciale Venezia 2014

Matteo Marelli

altDa Nine Lives of a Wet Pussy Abel Ferrara ha sempre messo al centro del proprio cinema la narrazione della corporeità del personaggio. Gli uomini e le donne protagonisti della filmografia ferrariana sono materia tragica, un coagulo esperienziale e carnale per mezzo del quale l’autore ha potuto affrontare con furia profanatoria l’esperienza registica.
Una profanazione che deve essere intesa nel significato etimologico del termine, ovvero d’incursione, da profano, nello spazio sacro (quello cinematografico), aggredito sensibilmente, fino all’invasività, alla violenza, alla riflessività.

Luigi Abiusi

leopardi2Dice come si permette quello di toccare il più importante e amato (amato? paradosso scolastico, adolescenziale, o pura mistificazione) poeta italiano e di ridurlo a macchietta? E per giunta di rappresentarlo mentre va a puttane (e certo, sempre per quella mistificazione scolastica, Leopardi non potrebbe che essere corifeo di una sorta di platonismo romantico, privo di carnalità, desiderio, ecc.: appunto, ora sì macchietta; ma cos'è quel piacere su cui disquisisce con tanta veemenza se non piacere erotico?).

Gemma Adesso

altLa camera di Delaporte è lo strumento musicale che accompagna le rincorse di Victor in una fuga tragica verso la meraviglia sgomenta del suono. Più che da vicende particolari (l'allontanamento dalla madre malata, l'avvicinamento a un padre estraneo ma famoso direttore d'orchestra, il gioco del calcio, l'innamoramento) Victor è percorso da una dimensione periferica, ventosa, di spazi aperti ricomposti in passaggi di sguardi e gesti interrotti, in riprese e rincorse che hanno il privilegio della penombra.

Vanna Carlucci

altTsili accenna passi di danza dentro il buco della storia: qualcosa è stato cancellato, dimenticato, qualcosa le è stato strappato e lei resta così, senza sfondo, senza direzione. È tutto qui, racchiuso in quella "danza sul nero" dei  titoli di testa: non si tratta nemmeno di un ballo ma di un inquieto "tarantolare" alla ricerca dello spazio su un piano senza piano alcuno. È un movimento verticale come un eterno scivolare, che è metafora della eterna condizione del popolo giudeo assegnato a una perpetua diaspora.

Luca Romano, Michele Sardone

Alla domanda di Max Brod se ci fosse speranza nel mondo, Kafka rispose che “sì, c’è speranza, infinita speranza. Ma non per noi”. Per chi c’è speranza quindi?





Gianfranco Costantiello

altTra le cose più belle – col Pasolini di Ferrara, of course – viste a questa mostra di Venezia, brutta e noiosa, c’è senza dubbio Zerrumplet herz (The council of birds) di Timm Kroger. Ed è sorprendente scoprire che, dopo Dancing with Maria di Ivan Gorgelet – documentario sulla figura carismatica di Maria Fux, una danzaterapeuta argentina che ci parla del ritmo, del movimento, del suono, dell’energia, dell’invisibile, e dunque, indirettamente, del cinema – anche quest’altro debutto folgorante arrivi da La settimana della critica.

Matteo Marelli

altSi può pensare di rappresentare la crudeltà sfuggendo il dottrinale massacro visivo (per cui, volendo mostrarsi, si cancella riducendosi a esibizione predeterminata di immagini violente)?
Sì.



Gemma Adesso

Il cinema di Costanzo è connotato da un rigore raro a formare un’idea di spazio decomposto ed esatto nel quale i personaggi si muovono (o non si muovono) assorbendolo, diventando parte integrante di un sistema di forze che si diramano da un “quadro” centrale e invisibile.
Più che un punto di vista interno che incide e modifica il senso della composizione generale e ne orienta la morale, è nell’irruenza del contrasto tra interno ed esterno, nell’assenza cioè di un punto di vista specifico che possa dare un indirizzo alle opinioni; è nel disorientamento che segue al passaggio da una scena all’altra che progressivamente si (spro)fonda la visione.

Michele Sardone

Il cinema di Tsukamoto è stato sin dall’inizio un cinema di fusione: se in Tetsuo a fondersi erano uomo e macchina, in un grigiore metallico e umbratile, in Fires on the plain (remake dell’omonimo film in bianco e nero di Ichikawa) la fusione è tra la carne e giungla (resa non solo come opprimente groviglio di vegetazione pullulante, ma soprattutto sotto forma di intrico di forze, di pulsioni energetiche e decadimenti purulenti), nella fosforescenza del più spinto cromatismo.

Vanna Carlucci

«Così ho pensato di andare in fondo alla grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso» (Anna Maria Ortese, 2001.)
Le luci sono spente, gli occhi in attesa e, d'un tratto, la nebbia avvolge i corpi, qui, tra le sedute rosse della sala, li sullo schermo, dentro il viale che porta a Recanati. Una melodia da carillon segue i passi di un bambino, il sogno di un'infanzia trascorsa fatta di giochi di spade tra fratelli. La musica continua sospesa in un tempo dove gli occhi di un poeta aprivano lo sguardo, li, al di là del colle, al di là di ogni limite fisico a rimirar “l'eterno”, a “naufragar” col pensiero.

Nicola Curzio

altRicucire lo strappo, o meglio la ferita, il taglio, colmare, cioè, quella distanza che tiene lontani, che separa: ricongiungersi. È il sogno utopico di un popolo fantasma, disperso, quello armeno, vittima di uno dei più gravi massacri che la Storia ricordi, anzi che non ricordi, considerato che ancor oggi sono poche le nazioni che riconoscono ufficialmente questo terribile genocidio perpetrato tra il 1915 e il 1916 dal governo dei «Giovani Turchi».

Michele Sardone

Maresco ha girato probabilmente il suo F for fake: come nel film di Welles, ad essere messa in questione è la supposta distinzione fra verità e finzione, fino alla conseguente trasvalutazione di valore tra ciò che è originale e la sua copia. Un fake è sicuramente Belluscone, un suono emesso dalla voce del popolo che lo idolatra, che lo ha fatto divenire immagine e simbolo di un sogno, divenuto poi sogno berlusconiano, a sua volta copia italiana dell’originale americano; un simbolo che diviene autonomo dal suo calco originario, un suo doppio, tanto che del Berlusconi vero, originale, poco ci interessa e ancor meno resta da dire, dato che di lui ormai tutto è già dato sapere.


altNella sezione Orizzonti, Heaven Knows What, dei fratelli Safdie, all’inizio fluttua lattescente, in amenza d’eroina, o forse steso in mezzo a un nevaio; e l’amplesso è vibrare d’elettronica, ipnotica, come oboi sintetici a scandire spirali che inghiottano, e minimog lanciati ad alta velocità dagli altoparlanti della Darsena, che ti tengono attaccato allo schermo, con gli occhi spalancati, tanto che penso vuoi vedere che vediamo il primo capolavoro della mostra? continuasse così, come un enorme, inquietante videoclip, sarebbe una pacchia: una specie di film di fantascienza, straniato, proprio dalla musica e dal dominio del bianco, fatto di cose elementari, realistiche; povere cose di un futuro, o di una realtà alternativa in cui regnano solo le gote bianche di Harley e gli occhi blu di Ilya. Ma col passare del tempo il film svela la sua natura (più) realistica, perdendo molto di quella estraniazione che straziava ed esaltava (così come quella musica così provvidenzialmente invasiva), ma mantenendo comunque un livello di rappresentazione degno, mentre la mdp dei Safdie sta addosso ai personaggi e ai loro deliri, vaniloqui, consunzioni di randagi (che sembrano richiamare il Van Sant di My Own Private Idaho), con picchi emotivi improvvisi, coincidenti con smarrimenti, perdite, vuoto vagare dentro la ruvidità degli spazi metropolitani.

Nicola Curzio

altUna grande scatola nera, una bara, si muove tra le strade di un piccolo villaggio cinese ai piedi di una montagna, trasportata in lungo e in largo da un pugno di uomini che progressivamente, nel corso del film, dovranno ricredersi sull’identità del defunto. A chi appartiene il corpo carbonizzato all’interno dello scuro sarcofago? Si tratta della giovane Huan Huang, scomparsa ormai da quasi un giorno? O forse è di Chen Zili, che pure manca e il cui documento di riconoscimento è stato ritrovato a pochi passi dai resti del cadavere? Ma vi è davvero un cadavere in questa bara che a qualcuno sembra essere troppo leggera?

Gianfranco Costantiello

altAdam, figlio di immigrati irlandesi, si sarebbe dovuto stabilire, una volta cresciuto, nel mondo sicuro della fattoria di famiglia. Ma l’epidemia di afta epizootica del 2001 ha distrutto tutto. Dopo la catastrofe, la famiglia di Adam è implosa e il ragazzo è andato via di casa, trascorrendo gli anni successivi ai margini nomadi della società britannica, passando da un lavoro temporaneo all’altro e da un rapporto transitorio all’altro e andando alla deriva lontano dalla sua famiglia e dal suo passato. Quando il fratello minore Aiden lo contatta per annunciargli la nascita del suo primo figlio (Adam sta per diventare zio), oltre al messaggio gli dà un ultimatum: torna a casa ora o non tornare mai più. (dal sito della biennale)

Vanna Carlucci

altIl cortometraggio del 1961 L’amour existe di Maurice Pialat (presentato alla mostra del cinema in versione restaurata nella sezione "Venezia classici") scava nel paesaggio periferico francese, attracca sui margini delle ferrovie, dei borghi lontani, sui cappotti stanchi degli uomini che passano indistinti, come fiumi nella ruggine dei tram confondendosi nei giorni. Uno sguardo che si perde in un viaggio continuo, senza centro: dai palazzi alle villette fin dentro gli angoli del salotto.

Gemma Adesso

La ricerca di “un posto” nel mondo nuovo è solo nel titolo del film del regista iraniano Nima Javidi: un posto, non importa dove, nel quale si resta o dal quale si fugge, in assenza di spazi aperti in cui respirare.
L’assenza d’aria che compone le prime scene di abiti liquefatti in un sottovuoto definitivo, si riempie di una colonna sonora fatta di squilli suonerie assillanti di cellulari mai spenti fastidiose videochiamate allarmanti citofoni. L’appartamento (quasi speculare ai corridoi labirintici del teatro mentale di Iñárritu, dove la necessità della ricerca diventava però volo immaginifico), sempre troppo affollato e dal quale sembra impossibile riuscire ad allontanarsi, diventa il luogo di un inesorabile e progressivo svuotamento di aspettative e di speranze generazionali soffocate in un sonno neonato (forse mai-nato); è allora che la partenza diventa fuga, i sogni sensi di colpa, le parole dovute confessioni impossibili.

Matteo Marelli

Che Ulrich Seidl fosse pittore d’agonie lo si era capito da tempo. E non tanto per la scelta dei soggetti coinvolti nella messinscena (comunque non per questo ininfluente) quanto per la loro messa in quadro. La componente figurativa del suo percorso filmografico raggiunge in Im Keller uno splendido fulgore che ci porta a leggere quest’ultimo lavoro più in termini pittorici che cinematografici.

Michele Sardone

altSe ogni favola ha in sé una prova da superare, She’s funny that way di Bogdanovich la pone all’inizio chiedendo di fingere di credere in se stessa; superata questa condizione preliminare, ci si lascia prendere dal gioco di classici meccanismi cinematografici, che trovano nella coincidenza il dispositivo capace di far funzionare tutto il congegno filmico a meraviglia, sempre più freneticamente, fino a dare l'impressione di farlo girare a vuoto.

Luigi Abiusi

Nell’aria sonnolenta del primo giorno di mostra, in mostra già nella moquette rossa, a tratti ancora in allestimento sulle passerelle, gli scalini; nei tabernacoli che raccolgono la polvere del tempo, i fasti di vecchio velluto (drappi, saloni lucidi legati misteriosamente alla parola casinò e a uno scorcio di mare sciroccale, con anatre), anche le facezie di trina delle dive svolazzanti sugli attracchi, e, tra i cartelloni, le locandine, che raccolgono l’immagine di un festival che era ringiovanito grazie a Muller, tanto da diventare bambinesco, schizofrenico caleidoscopio di visioni, e ora sembra rattrappirsi, invecchiare nella carne purulenta della narrazione (ma neppure una bella narrazione, sfaccettata, inventiva: piuttosto una congerie di storie stanche, banali, come uno di quei ritornelli di Allievi in cui non si vede prospettiva, invenzione di spazi, se non quella di uno smottamento intestinale, improvviso); e in aria di deontologica detrazione di Iñárritu, artificioso, spesso tronfio si sa, Birdman delinea gli spazi tortuosi della mente (deteriore) di un attore di cinema passato a fare teatro dopo i successi del personaggio che interpretava, il supereroe Birdman, attraverso (l’illusione di) un unico piano-sequenza, niente affatto tendenzioso, e invece giustificato dalla conformazione stessa delle quinte di un teatro di Broadway, serraglio di cunicoli, camerini, depositi di vario teatrale ciarpame, con improvvise e fumide aperture sulle strade di New York. La cosa più interessante del film, oltre all’interpretazione di un beffardo (eppure tenero) Edward Norton, è il discorso metacinematografico (pure condotto icasticamente) e, come dire, di economia del cinema, perché a intellettualismi, elitarismi premessi da certa critica e certa cultura “alta”, Riggan Thomson risponde con la gioia, la libertà, la “volatile” follia del suo istinto (anche per plot carveriani) che celebrano film di puro, “ignorante” dinamismo, come Transformers e Godzilla.

Luca Romano

alt«Se le lacrime vengono agli occhi, se possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini... Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva sarebbe niente meno che la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo»

Michele Sardone

altIl quasi ininterrotto piano sequenza di Birdman sembra ricalcare la più classica delle tradizionali regole teatrali, l’unità di azione, tempo e spazio nella tragedia. Ma già Angelopoulos e Tarkovskij avevano mostrato come in un unico piano sequenza potessero confluire e convivere tempi ed epoche diverse, accomunati dall’aver avuto lo stesso luogo d’azione, in riva al mare o in una dacia: il cinema scandisce i tempi e declina gli spazi in base al movimento (dello sguardo, nel caso del piano sequenza, anche quando resta immobile, basta attendere una variazione di luce per percepire il trascorrere di una notte in pochi secondi di visione) non secondo l’ordinaria cronologia diegetica.

Matteo Marelli

altDa Pietà Kim Ki-duk cerca di emendare il proprio gesto registico dall’artificio cifratorio non privo di derive estetizzanti che ha segnato il secondo corso della sua parabola cinematografica, quella, per intenderci, dei grandi riconoscimenti internazionali, cominciata con Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, una lunga stagione non priva di un certo compiaciuto calligrafismo.

Speciale Venezia 2015


altMontanha (nella Settimana Internazionale della Critica) di João Salaviza dimostra ulteriormente quanto il cinema portoghese, senza tante storie, riesca a essere espressivo, manipolando, anzi lasciandosi manipolare dalla luce, che assume uno spessore cubico; e dal suono impregnante di bisbigli, sibili, stridori lontani, la superficie porosa dell’immagine.

altÈ nel continuo palesarsi di un’ombra, nel suo espandersi attraverso gli spazi vuoti eppure quasi claustrofobici delle stanze e dei locali, della notte riversa sul cemento dei palazzi, dei corridoi deserti di un ospedale, che David cerca, con tenera inconsapevolezza, di uscire dal bozzolo buio della sua adolescenza.


altCome in una incisione ulteriore delle Carceri d'invenzione di Piranesi, il film di Bellocchio si sviluppa attraverso moltiplicazioni e sdoppiamenti che sfuggono (e sfuggendo paradossalmente lo affermano) un tempo specifico, sfasano lo spazio del piccolissimo-vasto mondo bobbiese e scompaiono nell'inconcepibile che abbaglia.


altIl selfie soddisfa due esigenze attuali: da una parte, si presenta come tentativo di risposta alla domanda «chissà come mi vedono gli altri?», domanda da cui traspare una certa insicurezza del soggetto e del suo sguardo, travolti entrambi da un flusso di immagini dal quale cercano di emergere per affermare il proprio esserci; e quindi, in seconda istanza, il selfie ci dà l’illusione che ogni istante della nostra esistenza sia degno di essere vissuto e immortalato, sortendo però l’effetto contrario: se ciascun momento è importante nella stessa maniera in cui lo è il successivo o il precedente, allora non lo è davvero nessuno. Il selfie si pone allora sia come ipotetica soggettiva di un fantasmatico altro che ci osserva (e forse ci giudica), sia come contributo involontario alla proliferazione dell’indistinto immaginale dal quale tentiamo di sottrarci.

altNon essere cattivo è destinato ad essere l'ultimo film di Claudio Caligari. Malato da tempo, l'autore si è spento prima ancora di apporre il sigillo del final cut alla propria opera.
Forse, nella storia del cinema italiano, Caligari - a dispetto dell'esigua filmografia - si può ben designare come uno dei pochi eredi del magistero pasoliniano. Non solo nelle intenzioni o nelle dichiarazioni programmatiche: il suo cinema racconta storie di borgatari ed emarginati (i drogati, transessuali, barboni e papponi di Amore tossico, oppure i rapinatori "proletari" de L'odore della notte) con un'intensità che sfugge il rischio della serigrafia.
Anche Non essere cattivo assume a modello il cinema dell'autore di Accattone, raccontando la storia di due tossicomani e spacciatori del litorale romano.

Un al di là e un al di qua, due tempi e spazi che ininterrottamente si avvinghiano l’uno sull’altro, nel cinema di Bellocchio.  Le porte si aprono, i corridoi vengono attraversati e siamo dentro; non sappiamo cosa abbiamo visto, chi, un fantasma, un vampiro, un morto, un vivo ma la presenza di questi personaggi quasi si preannunciano nella loro assenza, nel fatto stesso di non esistere affatto. Bobbio è il quadro sognante, “è tutto qui” il mondo in cui si annida la polvere del tempo, tempo che si concretizza sempre in immagini ben definite, riviventi nel sogno.

alt

Un attimo prima di scomparire nel vuoto, il figlio sorride al padre. La vicenda della famiglia Puccio coinvolta nell’organizzazione di una serie di sequestri nell’Argentina degli anni ’80 è nel film di Trapero il pretesto per indagare la fallibilità dei rapporti, o meglio, i ripetuti tentativi di interrompere dei legami di asservimento. La Storia è la scena dalla quale si diramano altri sistemi di influenza che coinvolgono, in un processo di inarrestabile corruzione, il rapporto vittima-carnefice, padre-figlio, famiglia-Stato. Ogni specifico sistema è l’esempio di un servizio dovuto e reso ad un organismo panottico, in apparenza felicemente funzionante (i riferimenti al Kynodontas di Lanthimos sono evidenti) in cui il dettaglio imprevisto inceppa il piano, fa crollare l’organizzazione, affonda il contesto sicuro nel quale ricevere un ruolo.

Si rimane affascinati dal film di Guadagnino come lo si sarebbe dalla visione di una figura femminile che è stata per troppo tempo bella ma che si ostina a mantenere una sua aura da donna fatale, e a viverci dentro, a indossare abiti sgargianti e zirconi lucenti, incurante del tempo che passa e del sentore di morte, e che vede nella sua civetteria fintamente fatua un rifugio dall’evidenza della realtà delle cose.

Un toro fosforescente corre in un’arena oscura. Due ombre a cavallo lo fiancheggiano, e in un attimo lui è a terra. Il tonfo della caduta è coperto dagli applausi del pubblico.






altAmos Gitai, dopo The Arena of Murder, torna a fare i conti con l’assassinio di Rabin, episodio che segna la fine brutale dell’utopia, il progetto di pace tra Israele e Palestina. Del resto per lui l’atto di filmare ha sempre coinciso con l’essere al servizio di una memoria collettiva o col farsi eco di una catastrofe. La prospettiva adesso non è più quella dell’universo intimo e caotico, ma della coscienza collettiva.


«L'immagine filmica non è il mondo, né un'immagine specchio, ma il risultato di un lavoro di messa in scena che produce un simulacro (del) visibile.»

Partire da questa considerazione di Francesco Casetti per riflettere su un film di Frederick Wiseman, ovvero di uno tra i massimi documentaristi di ogni tempo, può sembrare un paradosso. Eppure, lo stesso autore ha sempre rifiutato la succitata qualifica, preferendo invece paragonarsi ad un romanziere dell'Ottocento. Addirittura, in un'intervista afferma: «mi considero semplicemente un regista che gira film drammatici basati su eventi reali.»

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«Un medium sa quando assopirsi.
Lasciamolo dormire.»

È questo potente, ineludibile senso “della fine” che pervade Francofonia di Alekandr Sokurov, che è soprattutto progetto, lavorazione: un film en train de se faire; “un film in corso di realizzazione”, di cui non si vedrà la versione definitiva, ma solo frammenti, apparizioni, lacerti sparsi. È più cinema che non film. Un’elegiaca opera di montaggio che celebra la scomparsa di un certo modo di vedere, pensare, e interpretare il cinema (e la modalità specifica in cui “quel” cinema aveva configurato il mondo), capace, allo stesso, di sorprenderne la forza rigenerativa che lo sta facendo rinascere, diverso eppure in continuità con sé stesso.

In occasione di un compleanno di Gropius, ognuno dei maestri del Bauhaus gli dedicò un disegno ispirato ad un’unica fotografia in bianco e nero, ritraente un grammofono appoggiato sul davanzale di una finestra e rivolto ad una piazza piena di gente in ascolto. Klee raffigurò una tromba di grammofono dalla quale veniva fuori una freccia rossa che puntava un solo grande orecchio posto in alto, unico referente in scena, sparite la piazza e la folla.

altApoteosi di donne incinte come alto feticcio filmico, sessuale; corpo femminile che si fonde senza inibizioni, in piena liberazione, all’estraneo (il padre è assente), a cui aggrapparsi nel caos o nella dimenticanza (di orizzonti). Una è quella di Banat di Adriano Valerio (nella Settimana della critica), Clara posta sotto la luce di una stamberga di Banat appunto, in Romania, mentre torce il ventre sopra Ivo (ma la scena più bella, tra le più gioiose viste finora, è quella in cui lei canta Se t’amo t’amo di Rossana Fratello: il resto è fragile, forse verboso, non so…); l’altra, Geise, nel film di Gabriel Mascaro (Orizzonti), che s’accoppia con Iremar su un tavolo di una fabbrica di vestiario, in una penombra che però svela la realtà tanto carnea, proprio atomica, dell’amplesso, quanto, ad esempio, è anodino e dimenticabile quello tra Nia e Silos in Equals (in concorso) di Drake Doremus.

altDue anime s'incontrano nella notte: Ivo è in partenza per la Romania, un posto da agronomo che lo attende; Clara si è appena trasferita, in una settimana ha perso lavoro, fidanzato e cagnolina della sua padrona di casa.



Il tempo è un nodo. Lega un’idea con un’immagine, un’immagine a un suono, un suono con un ricordo. Ma il tempo, annodandosi su se stesso, mette in contatto in modo inatteso spire a prima vista incongruenti, un’idea con un’immagine emersa per chissà quale associazione, un’immagine con un sonoro posticcio, un rumore con un ricordo che non ci appartiene. Capita quindi di trovarsi immersi in un flusso di visioni che si sottraggono a qualsiasi tentativo di decodificare, di connettere e di legare.

Speciale Venezia 2016

Valentina Dell'Aquila

alt«Uno dei più grandi misteri è il motivo che induce migliaia di persone a passare i loro fine settimana estivi in ex campi di concentramento guardando forni in un crematorio» (Loznitsa). Sintomo di un imperialismo che è guerra spirituale, il turista, privo di una reale consistenza corporea, è un fantasma ossessionato da rovine, in cerca di cultura, di spettacoli di una cultura: non è davvero lì, si muove attraverso astrazioni, defunte iconografie, raccogliendo immagini anziché esperienze, e la vacanza non è che una nuova miseria sulla miseria altrui (cfr. Bay).

Mariangela Sansone

Sprazzi di luce lacerano l’oscurità delle tenebre, una notte eterna, in cui il tempo è sospeso in un perenne presente, ferita da freddi bagliori, luminescenze si aprono come sguardi scrutanti su una realtà cupa e fredda in un non-luogo. Dai neri vinilici e compatti affiorano corpi ed oscure figure che si muovo lente, folate di vento ostacolano il loro incedere, tutto ristretto in un piano sequenza, profondo e obliquo, che riporta allo sguardo un’immagine inclinata strutturata come lo squarcio di una lama.

Gianfranco Costantiello

Dopo aver perso casa, lavoro e fidanzata in un solo giorno, un giovane tenta di ricominciare una nuova vita, ma i suoi piani vengono dirottati quando incontra una donna che condivide la sua abitudine più strana: mangiare i capelli. (dal sito della Settimana della critica)




Matteo Marelli

alt«Quando gli dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere». Avrebbe potuto sposare un uomo comune; fare la dattilografa; avere una vita modesta. È lei stessa a dirlo. Invece Jackie ha scelto di stare affianco a John F. Kennedy, colui che si impose nell’imaginario come un nuovo Re Artù che volle seduti alla sua Tavola Rotonda luminosi cavalieri e raffinati intellettuali capaci di “respingere i barbari oltre le mura del castello”.

Nicola Curzio

alt«Io sono una pietra. Lo ripeto: una pietra. So che non potete capirmi; dovrei spiegarvi queste quattro parole una per una e a gruppi di due e di tre e poi tutte insieme: cosa voglio dire quando dico io, e quando dico essere, e pietra, e cosa vuol dire essere pietra, e una, una pietra… Forse in questo mondo di pietra non c’è un prima né un poi: il tempo delle pietre è concentrato nel nostro interno dove si addensano le ere. Neanche lo spazio che ci circonda conosce il tempo, per cui possiamo restare sospese lasciando che la forza di gravità si eserciti tra le nostre masse che si fronteggiano immobili. Ma anche noi nella nostra superficie scavata e scheggiata e rotta ci portiamo addosso una storia, tracce di eventi irrevocabili che non si situano in un quando e in un dove.» (Italo Calvino, Essere pietra)

Sergio Grandolfo

altDall’illuminarsi del proiettore cinematografico, che volge il suo fascio di luce cigolante verso il centro dell’immagine, Spira Mirabilis appare un’opera di immagini che dialogano e scorrono libere, quanto una prominente emersione di suoni: è il deflagrare del tuono, nella grandezza del cielo, nella notte bruna; lo staccarsi rovinoso di un’enorme lastra di marmo, il fragoroso e frusciante cadere di lunghi alberi: un concerto dirompente che si leviga cavalcando lungo l’acqua immobile, immergendosi verticale nell’ascolto del suo respiro, nella profonda sonorità del silenzio.

Valentina Dell'Aquila

Scriveva Jay Ruby: sarebbe proprio la maniera marginale di praticare e interpretare un certo tipo di cinema per così dire storico-documentaristico a contribuire alla disfatta dello stesso; maniera, probabilmente poco interessata alla stessa istanza che lo muove, fors’anche carente di teorie, di  poetiche oltre il dato… Nello stesso volume si citava l’assunto di Heider & Hermer secondo cui all’immagine sarebbe necessario integrare il mezzo della scrittura affinché questa si possa definire efficace strumento d’apprendimento.

Gemma Adesso e Michele Sardone

223 frustate, 20 milioni di riyal, 1 anno di carcere: questa la pena inflitta dalla giustizia iraniana a Keywan Karimi per aver offeso la sacralità islamica con il suo documentario Writing on the City (2015), cha racconta trent’anni della storia dell’Iran attraverso i graffiti sui muri di Teheran, dalla rivoluzione islamica del 1979 alla rielezione di Ahmadinejad del 2009.


Dopo giornate di afa cisposa, e di escursioni termiche al limite della sopportazione, tra sale-frigo e l'esterno in totale balia del sole e della cappa vaporosa proveniente dal mare, e lì sul tardo pomeriggio, l'epifania dei bambini che spruzzano in una scena di cristallo, sospesa, per una strana inclinazione del sole, pestando le pozze salmastre a riva, e, per una volta, neppure l'ombra dei vecchi veneti, di quelli tutti azzimati che senti sbraitare sugli autobus, con il loro bieco fascio-dialetto, contro i giovani dalla pelle un po' più scura della loro, invece livida o di cartapecora, per il solo fatto di essersi seduti là dove loro sarebbero “padroni a casa loro”, un sedile, una panca, un semplice palo a cui aggrapparsi, ma in realtà per l'impossibilità, dopo tanti anni, di poterlo buttare al caapranzi1 non alla mummia consorte, ronfante in baldacchino di raso, ma alla badante in bella carne che sparecchia; ieri dopo il meraviglioso Monte di Naderi, fuori s'è scatenato la ridda di vento e piovasco.

Vanna Carlucci

«Muere lentamente / quien se transforma en esclavo del hábito, / repitiendo todos los días los mismos trayectos, / quien no cambia de marca, / no arriesga vestir un color nuevo / y no le habla a quien no conoce…»: versi che sono solo parte di una poesia letta da Manu, una dei cinque sopravvissuti di Los Nadie di Juan Sebastian Mesa, presentato all’interno della Settimana della Critica; lei sfoglia le pagine, recita parola per parola come un gesto di salvezza che le viene in soccorso, lei come gli altri, aspirante giocoliere - della vita e della morte - in bilico per le strade colombiane, quelle dove la speranza è da ricercarsi fuori dai propri confini e i giorni passano nel tentativo di  riempire il tempo che scorre senza pause, senza trovare pertugi, senza il lampo meravigliato degli occhi che si dilatano, vuoti nel consumo di alcool e fumo mentre ancora, lentamente si muore.

Nicola Curzio

altDi che colore sono gli occhi di Amy Adams? Chi è al Lido di Venezia dovrebbe avere la risposta in tasca visto che l’attrice statunitense è l’indiscussa, mirabile, protagonista di due pellicole americane in gara per il Leone d’Oro. Il suo sguardo s’incrocia innanzitutto in Arrival di Denis Villeneuve, dove interpreta la dottoressa Louise Banks, una linguista affermata a cui è affidato il difficile compito di comunicare con alcune entità aliene misteriosamente comparse sulla Terra, prima che scoppi un’altra guerra dei mondi.

Gemma Adesso


altI giorni sono quelli che si contano tra la fuga e l’inseguimento; la Francia è lo spazio atipico e notturno di un abbandono. 
Un uomo, prima di scomparire, illumina con la luce fioca di un cellulare il suo amante mentre dorme; al risveglio, il cellulare sarà lo strumento di una ricerca disperata attraverso una app di incontri al buio, tra sentieri sconosciuti.

Matteo Marelli

altFrançois s'en va-t-en guerre. Quella del 1914 – 18. Segue la strada tracciata da Lubitsch con L’uomo che ho ucciso, melodramma antimilitarista a sua volta ispirato all’omonimo lavoro teatrale di Maurice Rostand; Ozon coglie nel testo quelle insorgenze che gli permettono, pur nel rispetto della fonte, di far scorrere sottotraccia alcuni dei temi forti della sua poetica registica («In Frantz si ritrovano molte delle mie ossessioni. Ma il fatto di affrontarle in un’altra lingua, con attori differenti, in luoghi diversi dalla Francia, mi ha costretto a reinventarmi e spero che questo abbia dato nuova energia e una nuova dimensione a quei temi»).

Luigi Abiusi

altPersa l’apertura di Chazelle, è Cianfrance la prima visione di Venezia73, ma troppo melò e stucchi e crinoline di dama, troppa ridondanza melica delle musiche per essere almeno interessante; alcuni gorgogliano il giorno dopo, prima del capolavoro di Wenders, gonfiandosi il petto di colombo per via della frase-tipo “scritto male”: come se c’entrasse davvero qualcosa scrivere, il compitare, con cose come il cinema, di fronte al quale non si può fare altro che equivocare i significati.

Luigi Abiusi e Matteo Marelli

alt«Tutto sta per scomparire. Bisogna sbrigarsi se si vuole ancora vedere qualcosa». Su queste parole di Cézanne Wenders chiudeva nel 1983 il corto Letter from New York. Che il pittore francese sia amato termine di riferimento del regista tedesco è cosa nota, lo dimostrano, oltre all’interludio provenzale realizzato per Al di là delle nuvole di Antonioni, le parole dello stesso Wenders che a riguardo dichiarò: «Prima di lui c’era la pittura del Salon: illusione degli spazi profondi, prospettiva rinascimentale... Ogni cosa doveva avere un “aspetto reale”. Cézanne rompe con questo».

Speciale Venezia 2017


altCapita che alcun i film ritornino alla mente, in quello strano limbo tra memoria e sogno (e del resto, anche il sogno non si vive realmente, si ricorda soltanto) in cui le immagini persistono a prescindere dalla nostra volontà. Ad esempio, girando fra i padiglioni dell’Arsenale ci si imbatte in Grotta Profunda, Approfundita di Pauline Curnier Jardin, videoinstallazione (“a body for a film” recita la didascalia di presentazione di questo work in progress che dura da sei anni) che già nel suo allestimento è, con presuntuosa e tenera ingenuità, una reminiscenza della caverna platonica.


altNella New York Public Library come At Berkeley, nella National Gallery come nelle strade di Jackson Heights, tornando indietro e indietro, sino alla Northeast High School di Philadelphia o ai corridoi del Bridgewater State Hospital di Titicut follies… il filo rosso che unisce ogni singola inquadratura di Frederick Wiseman è quel raccordo (im)possibile da cercare tra lo schermo e la vita. I protagonisti dei film di Wiseman siamo noi: individui immersi nella collettività che creano l’istituzione di diritti e di doveri.


altNon ho resistito più di un’ora in Darsena per My Love di Kechiche (in concorso): è da un po’ che non sopporto più la stoppa, il ristagno cinematografico dentro i dialoghi serrati; forse è un mio problema, un desiderio di campi lunghi, silenzi, apnee d’opale. Resta il filmare ossessivo (splendido) dei culi, un inno alle natiche che tracimano dai pantaloncini; una certa sensibilità nello scegliere e filmare la bellezza femminile; poi una bellissima sequenza di ballo su musiche dell’Orchestre Nationale De Barbes, sempre fissa sui culi stipati in vestiti estivi.


alt«Il loro malessere cresceva al calar della sera…si sentivano distratti, sviati proprio al margine del sogno. In verità partivano per altri lidi: rotti all’esercizio che consiste nel proiettarsi fuori da sé»
(Jean Cocteau, I ragazzi terribili)




Una dossologia del vento che si trasforma in acqua, prima odore, poi sparizione. Drift non è un racconto e se lo è esso è solo l’inizio di una leggenda raccontata dentro i bordì di un cafè e di due donne - Josephine e Thereza - che ad un certo punto si separano e tutto ciò che accadrà dopo sarà solo l’inizio di un viaggio, attraversando l’oceano, annullando confini, limiti, parole. Drift è sguardo che conduce, ipnosi o movimento allucinato del mare che annienta, dissolve, si lascia attraversare.


La cura maniacale del dettaglio di alcuni registi è pari a quella per l’ordine tipica delle casalinghe: esse vedono la loro casa come un set in cui ogni cosa ha il suo posto, ogni collocazione ha un senso, e questo senso deve essere intellegibile attraverso la sua armonia. Una volta allestita la casa-set, tutto è pronto per la messa in scena dello spettacolo quotidiano (un drammone sentimentale, un massacro familiare, una commedia nera, poco importa), ma ecco che si palesa l’incubo del regista casalingo, ovvero che nulla vada secondo i piani: tanto lavoro, infinite cure e attenzioni, e poi magari qualcosa inizia a non andare per il verso giusto (piccole cose, come bruciare la colazione o fulminare una lampadina), dopo avvengono le prime liti, i dissapori, la tensione cresce e gli errori aumentano, immancabile arriva anche un incidente grave e, come accade secondo il classico effetto palla di neve, tutto va a rotoli nel peggiore dei deliri possibili e deflagra in un clamoroso disastro: non si salverà nulla, se non la voglia di tentare ancora.


«Sapere di essere, per quanto debolmente e in modo fallace, al di fuori di me, un tempo mi aveva commosso. Si diventa selvaggi, per forza. A volte c’è da chiedersi se siamo sul pianeta giusto. Anche le parole ci abbandonano, figuriamoci».
(Samuel Beckett, Lo sfrattato).


alt«Los versos del olvido parla della necessità etica di ricordare il passato e resistere alla violenza dell’oblio come forma di riscatto personale. Una riflessione sulla politica della memoria». È lo stesso regista, Alireza Khatami, a indicare la rotta di un film che procede come un percorso di stazioni lungo la linea delle celle mortuarie di un remoto obitorio disperso tra “il nulla e l'addio”.


First Reformed di Paul Schrader (in concorso) resta tutt’ora, anche dopo aver visto stamattina Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin Mcnonagh (che è un gran film), la cosa migliore di questo festival e comunque uno dei film più belli degli ultimi anni. Un lirismo essenziale, esatto, fatto di corpi dolenti, ruvidi, che si aggrappano l’uno all’altro, si mettono uno sopra l’altro stando attenti a non sfregarsi, per non farsi più male, sormontati all’improvviso da uno scroscio di capelli profumati, da cui inizia un viaggio tra nebulose e costellazioni, fino a degradare poi alla terra, fanghiglia, miasmi. Randagi della vita, il reverendo Toller e Mary, stagliati con gli occhi sgranati nel freddo, bianco ecclesiale, che subito diventa l’America al tempo di Trump, concussa, bellicosa, defecante scorie sulla crosta terrestre.


Difficile stabilire, senza essere accusati di dispotismo moralista, il limite fra quel che può e non può essere visto o rappresentato. Il limite ha però lo scopo di garantire una distanza tra colui che guarda e l’oggetto della visione. Paravel e Castaing-Taylor decidono, nel loro Caniba, di porre la telecamera vicinissimo al volto del cannibale protagonista, raggiungendo il limite (e a volte superandolo) della possibilità della visione, in una sorta di effetto “eyes wide closer”: più si avvicina lo sguardo al soggetto più questo, superato il limite di messa a fuoco, tenderà a sparire e a liquefarsi in macchia, alone, evanescenza sullo schermo.


altPiù una presenza olografica che una figura oleografica, un corpo che forza la sua bidimensionalità nella sagomatura sfuggente del suo essere assente a se stesso. Don Diego de Zama risuona nel film di Lucrecia Martel come uno spettro visivo che staziona fuori luogo nel Paraguay del XVIII Secolo, marionetta di un potere coloniale che lo ha dimenticato lì, disperso nell’attesa di un ritorno a Buenos Aires che non arriverà mai. Assenza perfettamente coerente col cinema della Martel, interamente costruito sulla distanza che separa il tempo vissuto e lo spazio abitato dai suoi personaggi in una divaricazione fluida, acquatica, dell’essere dall’esserci.


alt«Siamo in tempi d’emergenza» ci diceva tempo fa Gualtiero De Santi, «dunque serve anche dotarsi degli strumenti necessari, […] in senso intellettuale e culturale, ma anche di indispensabile militanza civile». La più incalzante delle urgenze è quella dei nuovi flussi migratori che le recenti scritture della catastrofe raccontano come se si trattasse di una cellula tumorale sull'orlo di metastizzare il cosiddetto primo mondo. È necessario dare voce allo scompenso, ma altrettanto indispensabile farlo riuscendo a smontare le strategie retoriche messe in atto dal terrorismo massmediatico.


altUna delle interpretazioni del termine “diavolo” (letteralmente “il calunniatore”) ne sottolinea la valenza divisiva: il diavolo (da dia-ballo) è colui che separa, che distingue. Nel paradiso terrestre, dove tutto si dava per vero, pone la possibilità del falso e insinua la sua calunnia: quel che vedi non è vero, se mangi del frutto dell’albero i tuoi occhi si apriranno per davvero (e ti vedrai per quell’essere fragile e nudo che sei).


altPrima scena: Lee Kang-sheng è seduto sul divano e presumibilmente – non si vede bene – si masturba, in presenza di una donna anziana; finito, aziona degli elettrodi che gli stimolano la schiena. Probabilmente non siamo altro che questo, noi spettatori di The Deserted, film in realtà virtuale di Tsai Ming-liang: siamo onanisti stimolati elettronicamente; oppure, aggiungendo una dimensione a specchio, ci riflettiamo nello sguardo assente della donna, che sembra vedere senza essere vista, come se Lee presentisse la presenza di lei, senza esserne pienamente cosciente.


C’è qualcosa di più difficile da filmare di due persone che parlano in una stanza? Forse no, soprattutto se il dialogo diventa un campo di battaglia, una continua tensione alla ricerca della parola non detta e non scritta perché impronunciabile e inesprimibile: è la parola ultima, oltre la quale non c’è neanche l’immagine, se non dissolta in una chiusura in nero.



Festival Cannes

Speciale Cannes 2012


ANTIVIRAL_DAY9_0323Per quanto ci riguarda, la vera riflessione sulla società dell’immagine è Antiviral di Brandon Cronenberg. Piuttosto che veloce sociologia, il rampollo Cronenberg, che si mostra degnissimo di cotanto padre, compone un saggio filosofico sulla natura virale dell’immagine.




paradise_loveAncora un film canicolare per Ulrich Seidl, un ritorno a quel caldo torrido e soffocante che intorbidava la vita e i comportamenti dei personaggi del film che ha fatto conoscere il regista austriaco nel 2001. Nel raccontare di quattro attempate “tardone” austriache e del loro viaggio in Kenya, il regista trasferisce così in Africa la sua poetica ed estetica. Già il prologo del film, in Austria prima della partenza, ripropone quella stessa luminosità estiva, afosa, che in quel paese si registra solo pochi giorni all’anno. E il clima torrido è palpabile per tutto il film, reso da tanti elementi visivi come i vestiti impregnati di sudore.


miikeÈ ancora giusto credere nella messa in quadro, diaframma espanso che non ti fa distinguere fra la fotografia e il cinema, fra l’angolo di un paesino francese e il deserto. Tutte le immagini diventano così un giornale intimo, dove il soggetto è a sua volta l’oggetto primario delle immagini. Una vita intera di cinema apolide, quella di Raymond Depardon, un altro Joris Ivens perduto nella luce dei suoi scatti, rivista attraverso out takes e scene smarrite o scartate: Journal de France


dolan1jpgNon è un cineasta molto amato Xavier Dolan. Ma Laurence Anyways potrebbe agevolmente cambiare le cose. Cosa racconta il nuovo film del ragazzo prodigio canadese? Nient’altro che un abissale amore per il cinema. Il cinema che ti divora la vita. Il cinema che diventa la vita stessa. Dolan crede al miracolo del cinema. E non spreca una sola inquadratura, un solo taglio di montaggio, un solo attacco musicale. Per raccontare un amore folle, Dolan compone un film infinito e folle, colorato, pieno di musica, che assomiglia a un’invocazione a tutti gli Dei del cinema, della vita e della morte.


Ral_RuizChe l’immagine sia un virus ce lo diceva di continuo William Burroughs (se poi del virus avviene il risveglio allora ci pensa Romero). La coltura, la diffusione e il sistema-virus in sé che resta dopo e oltre l’immagine. Difficile dire se per Brandon Cronenberg i film del padre abbiano lasciato l’immagine per farsi unicamente virus (forse il padre ha intuito qualcosa ed è di corsa tornato a Freud/Jung), ma certo in quel solco, come se fosse stato da sempre lì, si re-inietta, trovando una propria dimensione stupefacente, disincarnata, virusizzata appunto, mentre ancora fuori lecca il sangue che cola dal feticcio restante del corpo che fu. Si intitola Antiviral questo nuovo crime of the future.


cannes-65-quinzaine-the-we-and-the-i-michel-gondry-00Inaugurazione in grande stile per la “Quinzaine des Réalisateurs” che ha inaugurato il suo programma con il nuovo film di Michel Gondry, The We and the I, girato completamente a New York su un autobus di linea che riporta a casa gli studenti di un liceo del Bronx nel loro ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive. Riflessione in movimento sul mondo adolescenziale che, però, si rivela essere un caleidoscopio di sguardi sovrapposti e in sequenza ad analizzare non solo le relazioni che esistono, seppur anch’esse in movimento, dei protagonisti, ma anche il loro stesso gesto di osservazione della realtà.


laurenceCurioso che sia la ragazza-Tahrir di Nasrallah (Baad el mawkeaa), sia il protagonista anti-Pinochet di No del cileno Pablo Larraín siano due pubblicitari. L’arte rivoluzionaria dello spot? Non perfetto Pablo Larraín, che pure prova a inseguire il Ruiz antichissimo di Nessuno disse niente, ma intelligente per questa scelta di messa in costume (siamo nel 1988, l’anno del plebiscito con cui i cileni dissero qualcosa: NO a Pinochet) attraverso il supporto usato per le riprese che ricrea il mondo televisivo degli anni ottanta: la rivoluzione vista in vhs.



holy_motorsI cineasti veri dialogano sempre tra di loro. A Cannes quest'anno s'è prodotta la triangolazione Resnais-Carax-Bertolucci che dice moltissimo su ciò che resta di un'idea di cinema e di mondo e dunque di comunità. In Resnais un regista mette in scena la sua finta morte per richiamare alla vita gli interpreti che hanno lavorato un'intera vita per lui; in Carax un corpo palinsesto viaggia a bordo di una macchina-studio producendosi in un caleidoscopio di possibili miraggi di identità; in Bertolucci due ragazzi si separano dal mondo per crearne un altro.


resnaisImmaginiamo che un drammaturgo, prima di morire, decida di mettere in scena la sua ultima piéce utilizzando non solo gli attori, ma anche le parole, le situazioni, le storie raccontate in tutta la sua lunga carriera. Immaginiamo che il teatro dove verrà mostrata venga letteralmente trasfigurato in un luogo inclassificabile, inedito spazio della visione che è al contempo anche
rappresentazione. Il celebre scrittore Antoine d’Anthac, lascia agli attori che hanno nel tempo interpretato la sua “Eurydice” una lettera con le sue ultime volontà: riuniti in una casa dovranno vedere in video la messa in scena della stessa opera da parte di una compagnia di giovani attori. A loro il compito di giudicarne la nuova trasposizione, interamente ambientata in un vecchio capannone abbandonato.


dredo1C’è un hotel su un fiume dove una ragazza scopre che sua madre è un fantasma e a lungo si parla di confini e di acque pronte a inabissare un nuovo tsunami. Mekong Hotel, il nuovo Apitchapong Weerasethakul, lento disincanto, blandamente etereo, in attesa della fine.


kiarostami1Dopo Amir Naderi con Cut, anche Abbas Kiarostami trova in Giappone una nuova, sorprendente svolta e, come Naderi, lo fa lievemente, senza apparenti straordinarie trasformazioni. Like Someone in Love è di fatto un film giapponese per produzione e cast, ma anche per l’essenzialità di uno sguardo che si fa impalpabile, fluido non-racconto tutto riflesso sui vetri o semplicemente lasciato intravedere attraverso la trasparenza ingannevole dei finestrini  di un’auto.



bertolucciDimmi ragazzo solo dove vai/Perché tanto dolore?... Vorrei cantarvela, la versione Mogol di Space Oddity cantata in italiano dallo stesso Bowie, ma poi vi dovrei anche spiegare uno degli abbracci più belli della storia del cinema e raccontare come Bertolucci si libera e fa un film sulla liberazione, sulla svolta che tocca una volta tutte le vite (qui un fratello e una sorella), mettendosi e mettendoci per un attimo alle spalle tutto l’armamentario fiaccante del cinema italiano (soprattutto di quello che crede basti saper girare mirabolanti piani sequenza e dolly vertiginosi per fare un film), recuperando luce, amore, intensità, chiarezza di pensiero, incendiaria ambiguità, politica-poesia (smarrite entrambe), semplicemente dicendo: io per rivoluzionare la vita sono disposto a scendere sottoterra. Io e te di Bernardo Bertolucci, magnifico, picco di tutto il festival.


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Una giovane donna pensa a un cortometraggio ispirato a una regista francese conosciuta durante un festival. E il film di Hong vola subito alto, perso olimpicamente in uno stato di leggerezza soave, fatto di nulla. Inquadrature precise, qualche zoom in avanti volutamente sporco e netti stacchi di montaggio. Rohmer è solo un ricordo, perché Hong ormai vive e filma in un ecosistema tutto suo, dove il mondo è fatto di sentieri interrotti che si sdoppiano senza mai offrire, però, una soluzione. Le soluzioni non esistono.



cosmopolis-cronenberg_07La limousine bianca, che attraversa il corpo ribollente di New York, taglia un tragitto che è tutto mentale (la determinazione di un atto irrazionale – tagliarsi i capelli mentre tutto crolla), traccia un viaggio sino alla fine del mondo as we know it, ovvero alla fine del capitalismo, al termine del profitto e dell’ordine e all’inizio del conflitto e del disordine…

 

 



Vous-nevez-encore-gall4«Tu non hai visto niente a Hiroshima. Niente.» Una delle frasi più famose della storia del cinema, l’incipit durasiano di Hiroshima mon amour. Dopo 53 anni Alain Resnais se ne esce con un’opera dal titolo Vous n'avez encore rien vu, “Voi non avete visto ancora niente”.




Speciale Cannes 2013

jarmusch2Ipnotico lo è sempre stato, il cinema di Jim Jarmusch. Only Lovers Left Alive (titolo magnifico) ne è la conferma preziosa. Un film che dice tutto di sé fin dalle inquadrature iniziali, che esiste e si definisce, e da lì si espande, nel doppio movimento circolare e ripetuto del disco che gira sul giradischi e della macchina da presa che circonda, dall’alto e poi sempre più da vicino, i corpi addormentati/svegli, lontani/vicini, degli amanti senza tempo e senza età (Tilda Swinton/Eve e Tom Hiddleston/Adam). Perché Only Lovers Left Alive è inondato dell’umorismo minimale che contraddistingue il lavoro del cineasta americano, qui dichiarato, com sublime tatto, soprattutto nella scelta dei nomi dei personaggi. Solo gli amanti restano vivi, solo loro sopravvivono nei secoli di fronte a un’umanità che sa solo, anche in questo caso ciclicamente, perpetuando i disastri già commessi, auto-distruggersi.

Grazia Paganelli

marion-cotillard-joaquin-phoenix-the-immigrant-james-grayGuai a pensare a The Immigrant come un film sugli immigrati europei in America. L’approccio di James Gray ad un tema tanto ricorrente nel cinema, é nuovo e al tempo stesso antico, lontano da tutti gli stereotipi possibili e vicino alla sensibilitá e alla esperienza privata del regista, che trasforma questa storia di sradicamenti e tradimenti continui in un melodramma fiammeggiante eppure cupo e violento.

Grazia Paganelli

diazLa vita e la morte. O meglio, il vivere e la sua opposizione. Norte, the End of History, il settimo film del filippino Lav Diaz (in concorso nella sezione Un certain regard) è un racconto semplice e al tempo stesso densissimo di umanità, nella messa in scena di un tempo piano e ipnotico e nella descrizione di personaggi che proprio con il tempo si confrontano in ogni istante.

Giuseppe Gariazzo

Behind-the-Candelabra-tra-001Se la filmografia di Steven Soderbergh dovesse terminare, stando alle dichiarazioni del regista, con Behind the Candelabra, si chiuderebbe con un capolavoro, proprio a Cannes dove nel 1989 iniziò con un’altra opera sublime, Sesso, bugie e videotape. Con quell’esordio, Soderbergh a 26 anni vinse la Palma d’oro.

Giampiero Raganelli


a touchIn Platform dieci anni di storia cinese sono rievocati in un luogo chiuso, il teatro, attraverso gli spettacoli che vi vengono rappresentati, in The World nello stesso spazio del parco tematico coesistono tantissimi luoghi di tutto il mondo, in I Wish I Knew la città di Shangai è il risultato dell'accostamento di immagini, anche di cinema, del suo presente e del suo passato.

 

Lorenzo Esposito

inconu du lacFinalmente la messa in scena. Non la sceneggiatura, e non solo la buona ripresa. Ma lo spazio messo in scena alla ricerca dello spazio, e per mettere a nudo l’occhio. L’occhio, questo sconosciuto: L’inconnu du lac di Alain Guiraudie.


Grazia Paganelli

Bling RingUna storia vera che sembra un film a partire dai protagonisti e dall’ambiente in cui tutto si consuma: The Bling Ring, il film che Sofia Coppola ha portato al Festival di Cannes (aprendo la sezione Un certain regard) racconta la straordinaria avventura di un gruppo di adolescenti che in poco tempo ha messo a segno furti milionari nelle case dei divi di Hollywood. Arrestati grazie alla telecamere di sorveglianza, sono tornati alla ribalta della celebrità in seguito ad un’intervista pubblicata da Vanity Fair da cui anche il film prende il via.

Grazia Paganelli

Le-Passe-Past-Poster1Dopo quattro anni Ahmad torna a Parigi da Tehran per portare a termine le procedure formali del divorzio da sua moglie Marie. Una storia semplice e in qualche modo già nota per il primo film francese del regista iraniano Ashgar Farhadi Le passé, in competizione ufficiale al 66esimo Festival di Cannes e tra le opere più belle e inquiete viste fino ad ora. Come sempre accade nei suoi film, l’intreccio catalizza ogni attenzione e ogni sforzo: i personaggi e gli ambienti attorno a loro, il passato e il presente che li tiene uniti e li separa al tempo stesso. Ci si avvicina lentamente ad Ahmad e Marie, eppure si ha la sensazione di precipitare dentro le loro vite fin dall’inizio, sul volto della donna che aspetta dall’altra parte del vetro che l’uomo esca dall’aeroporto. Si parlano senza sentirsi e si ritrovano in auto, sotto la pioggia, nel travagliato viaggio di ritorno in città. Basta poco al regista iraniano di Una separazione per mettere in campo tutte le tensioni che saranno declinate via via, anche quelle non dette, ancora insospettabili, sepolte nelle scatole abbandonate in cantina o in messaggi mai letti o mai mandati.

Giampiero Raganelli

young-beautifulUna giovane ragazza prende il sole in topless, su una spiaggia. Si lascia accarezzare la pelle, liscia, dai raggi del sole. Un corpo conturbante, acerbo, catalizzatore di turbamenti e perversioni, come lo era Ludivine Sagnier in Swimming Pool. Ozon ce la mostra subito attraverso una soggettiva da cannocchiale, uno sguardo voyeuristico enunciativo di quello che sarà il film. E poco dopo si scopre che a spiare la ragazza, Isabelle, è il fratellino. Ancora il regista francese esplicita quel coacervo latente di istinti incestuosi, edipici, tensioni omosessuali che si annidano dietro il perbenismo della famiglia borghese.

Speciale Cannes 2014

Pietro Masciullo

altStrano oggetto filmico questo Sils Maria. Sfumato, sfuggente, informe, proprio come quelle nuvole impassibili in cui più volte scioglie il suo punto di vista. Olivier Assayas, cineasta tra i più consapevoli, ha bisogno periodicamente di tornare a riflettere su se stesso e sul cinema (Demonlover), sulle persone che lo animano (Irma Vep) o sulla scintilla nascosta che lo origina e può ancora giustificarlo (questo Sils Maria). L’attrice/star interpretata da Juliette Binoche è colta subito in viaggio, su un treno, nel più classico topos di movimento che il cinema ricordi. Ed è su quel treno che viene a sapere della morte del suo talent scout, un anziano regista svizzero che stava andando a trovare e che l’aveva fatta esordire diciottenne e inesperta. La morte del “regista” provoca un terremoto emotivo nella sua “musa”: un trauma, la messa in dubbio improvvisa del suo statuto d’attrice, artista, persona. Tutto molto “classico”, è vero.


xavier dolan mommy affiche 0Xavier Dolan o del piacere. Lo senti che a stare sul set lui gode. Un piacere così radicale non si trova facilmente. Dolan adora intossicarsi nelle materie vive del suo cinema. Lui, davvero, crea un altro mondo. Un universo pieno di correlati oggettivi. Robe da toccare, annusare, accarezzare nel corso della realizzazione del film. Perché si capisce che il suo piacere deriva dal fare, dal processo della realizzazione del film. Set: casa dell’altra vita. Ci piace immaginare Dolan come un visionario sarto che mette insieme la sua tela del mondo selezionando le stoffe più pregiate, permettendo di indossarle solo alle persone che ama o che soddisfino il suo sguardo. Il suo piacere degli occhi. Dice: Dolan ha solo il cinema alle sue spalle. Nient’altro.


altEloise Godet, una delle due donne misteriose di Adieu au langage 3D di Jean-Luc Godard, ha una cicatrice che parte dalla narice destra e arriva fino al labbro. Mia Wasikowska, la protagonista novella Carrie di Maps to the Stars di David Cronenberg, ha sul collo e sulle braccia segni di bruciature risalenti a un incendio da lei stessa appiccato. I due uomini (o uno solo?) di Godard defeca(no) davanti a tutte e due le donne. Julianne Moore in Cronenberg defeca davanti a Mia Wasikowska. Poi ci sono due vampiri innamoratissimi ma per una volta spaiati: Kirtsen Stewart stupefacente in Sils Maria di Olivier Assayas e Robert Pattinson nuovamente (dopo Cosmopolis) con Cronenberg…


altFilmare il lavoro. Un’utopia, l’unica cosa che conta davvero per Daney. A modo suo, Assayas prova a fare un film “comunista”, non alla maniera di Straub, né tanto meno di Godard. No. Lui s’installa al centro del cinema. Prende due corpi d’attrici, e come in uno specchio bergmaniano, mette in scena un serrato dialogo ibseniano, e scava una vertigine invisibile, che si potrebbe persino confondere per un cinema di retroguardia.


altTorna a casa molte volte Lu Yanshi, professore e intellettuale evidentemente scomodo al potere, la cui vita felice è stata completamente travolta dall’avvento della rivoluzione culturale. Torna a casa dopo essere evaso. O almeno ci prova, ma la figlia Dandan, che aspira a diventare prima ballerina non può permettersi scandali e denuncia il padre e ostacola l’accoglienza della madre. Ritorna dieci anni dopo, quando, finalmente liberato, cerca il volto della moglie alla stazione. Non ci sarà, perché Feng Wanyu si è da tempo rifugiata in un mondo tutto suo e aspetta un uomo che non sa riconoscere.


altE quando ti fai il conto dei film che ti porti dentro, ti ritrovi sempre con i soliti nomi. Nomi che ovviamente consideri anche amici tuoi, ormai. Amici che ovviamente ti tocca difendere, cosa che capita sempre, ma non è mai stata così frequente come in questi anni, quando il parlare cinema sembra essere diventato una lingua perduta o morta.


alt“Il western è il cinema americano per eccellenza” diceva anni fa qualcuno che ci sta tanto a cuore… un genere che continua miracolosamente a mutare pelle conservando gli stessi codici, continua ad adeguarsi alle epoche preservando i propri canoni estetici, continua il suo infinito e commovente racconto del Mito riflesso nel Cinema.


altInizia e finisce con due proposte di matrimonio e due impiccagioni il secondo lungometraggio da regista di Tommy Lee Jones The Homesman ed è ambientato nel Nebraska inospitale del 1854. Lo attraversano un uomo e una donna, mal assortiti compagni di un viaggio nato per portare in salvo, nell’Est della civiltà, tre donne. Sono impazzite improvvisamente, disorientate dalla durezza di un territorio selvaggio e rigido. In realtà Mary Bee Cuddy parte sola, ma incontra George Briggs con un cappio al collo e lo salva. Vagabondo solitario con bisogno di soldi, aveva occupato una casa di altri e per questo era stato punito.


altFanno pensare alla rivoluzione islamica in Iran le immagini di Eau argentée, Syrie auto-portrait di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan, alle descrizioni in ricostruzione della violenza che si è consumata sulle strade delle città e nel cuore profondo dei suoi abitanti. Così le abbiamo immaginate, così le abbiamo viste nei film, così le abbiamo lette nei romanzi. Gli spari, la paura, la gente, il sangue. E il buio. Solo che questa volta verrebbe da dire “è tutto vero”.


altL'infinita battaglia fra luce e oscurità e il dramma della parola che, mentre si affianca, resta muta. Il lavoro, proprio il restauro dell’immagine, che scopre quadri nel doppio fondo dei quadri, cornici fuori cornice. E i quadri vivono nonostante tutto (Straub neanche vorrebbe che li si vedesse), ci fissano anche guardando altrove, primi piani e punti di fuga che cercano umanità nelle lunghe file di turisti. Chi guarda chi? E cosa si trattiene dell’immagine? Cosa ci trattiene dal non rubarli! Ma poi loro si ammalano e altri di noi puliscono anno dopo anno alla ricerca della luce perduta. Tutto questo è il nuovo capolavoro di Frederick Wiseman National Gallery.


altLe atmosfere sono quelle di sempre, sospese, indefinibili, avvolte in una sorta di nebbia invisibile che, però, sembra trattenere il tempo. In Captives, il regista canadese Atom Egoyan riprende vecchie ossessioni e vecchi sguardi, ma li trasfigura in nuove dinamiche narrative, recupera il racconto come trama sfilacciata, e lo rende visibile nella frammentazione, o meglio, nella polverizzazione dei punti di vista e nei punti di osservazione. In questa storia di rapimenti, pedofilia, indagini, dolori e sensi di colpa, si segue un percorso tortuoso e virtuoso per arrivare al punto di partenza.


altUn’immagine porta sempre inscritta la traccia di un’emozione. Nascosta nei chiaroscuri, rivelata da un’imperfezione, celata da una falsa prospettiva che può rendere invisibile addirittura un elefante. Come in un paesaggio di J.M.W. Turner. È sempre oltre la fallace pretesa di “oggettività” che si nasconde il regno informe della vita, la tempesta emotiva, la voragine dei non detti: un’immagine, un quadro, cos’è in fondo se non uno specchio deformato di chi la produce/guarda? Ecco, il film che il vecchio Mike Leigh dedica agli ultimi anni del vecchio William Turner (il più celebrato pittore paesaggista inglese dell’Ottocento) è proprio il paziente e intimo svelamento di questa verità: la creazione di un’immagine oggettiva, la perfetta veduta, fa una terribile fatica a celare il mare in tempesta che si agita nelle sue pieghe. E allora la stessa immagine non può che tradire la sua ontologica natura impressionista e soggettiva, romantica e ambigua.


Una gazzella attraversa l’inquadratura, corre, è in fuga da uomini che le sparano, per spaventarla, non ucciderla. Si apre in questo modo, senza preamboli, Timbuktu di Abderrahmane Sissako (primo film di un concorso che meglio di così non sarebbe potuto cominciare). Una bambina, sopravvissuta alla/e guerra/e evocata/e mostrata/e nel corso del film, corre, frontale, senza fiato, nell’inquadratura finale, fino a dissolvere nel nero che chiude quest’opera politica ancor più tale perché il discorso tematico e di denuncia affiora da una scrittura filmica poetica, da uno stile rigoroso e al tempo stesso libero, da un umorismo minimalista ma sferzante (affine per tratti a quello di Elia Suleiman), da una sintesi visiva che fa di ogni immagine una pluralità di immagini che producono senso, memoria di cinema e di un cinema pan-africano come da tempo era raro vedere.

Speciale Cannes 2015

Giuseppe Gariazzo

altUn film di recinti nello spazio dell’immensa natura selvaggia islandese. Una contraddizione che esprime, espande restringendolo in una serie di micro-luoghi, l’isolamento, la fatica del vivere e del sopravvivere, la solitudine e l’incomunicabilità radicate nei corpi delle persone, le parole pronunciate con difficoltà, i silenzi e i gesti, i comportamenti che, ben più dei dialoghi e talvolta sconfinanti in un umorismo trattenuto, anch’esso recintato eppure folgorante, evidenziano antiche o recenti separazioni. Al tempo stesso, quell’isolamento è fonte di fierezza, di indelebile attaccamento a un ambiente respingente ma che non si ha la forza di abbandonare perché quei contadini, quei pastori anziani (a differenza dei giovani che, di fronte a un ennesimo ostacolo, decidono di trasferirsi), non potrebbero risiedere che lì, per loro impensabile adattarsi ai ritmi di una città. Reykjavík è lontana da quella valle dove uomini e animali condividono ogni istante di ogni giorno, fin dai tempi remoti.

Pietro Masciullo

Vita. Quando inizia (?) Mountains May Depart e vedi Zhao Tao ballare al ritmo di Go West, pensi subito a The World e alla sua travolgente voglia di “evadere” dal simulacro del mondo ricostruito in un parco divertimenti. Quando la vedi camminare poggiando lo sguardo sulle cose e portandosi dietro il cinema nella contingente “scoperta” (della memoria) dei luoghi, pensi subito ad I Wish I Knew e alle sue improvvise sopravvivenze di passato, oppure a Still Life e alla personale cartografia immaginaria dello spazio. Ancora, quando la scopri alle prese con due uomini innamorati nel paese di Fenyang, un operaio e un rampante uomo d’affari, pensi inevitabilmente a Platform e ai lenti moti interni della società cinese che oggi stanno cambiando il mondo.

Massimo Causo

altL’inversione di segno tra vita e morte incide ogni fotogramma di Kiyoshi Kurosawa, il suo è da sempre un cinema di transizioni a vista, mutazioni in atto che ormai travalicano la traccia horror degli inizi e si confondono in un filmare che discorre con la quotidianità drammatizzata della vita: un po’ romance un po’ Kammerspiel, sempre alle prese con figure in sottrazione di energia, con stati di esondazione esistenziale.

Giona A. Nazzaro

altUn viaggio nel tempo sotto mentite spoglie. S’inizia in macchina, nel traffico di Bucarest, città dall’altissimo tasso di traffico. Costi (Toma Cuzi) è ingoiato da un ingorgo, che resta fuori campo, assieme al figlio che è andato a prendere a scuola.




Grazia Paganelli

altLa storia di un amore impossibile ma inesauribile. Il nuovo film di Hou Hsiao-Hsien The Assassin ci porta nei territori enigmatici del sogno, dove la bellezza si confonde con la crudeltà, ma il silenzio è sempre sinonimo di riflessione e attesa.

 

 

alt(As mil e uma noites – Volume 2, O desolado di Miguel Gomes. Desolato è prima di tutto il regista che non vi potrà accontentare con un seguito pedissequo, e mentre il canto di Sheherazade prosegue e si affastella, è pur sempre un canto di lotta, una nenia incantatrice ripetuta per la propria sopravvivenza, e allora la struttura falsa vieppiù se stessa, dilatandosi e insieme convergendo sul nucleo di un affresco sfrigolante malviventi – che in realtà sono gli ultimi partigiani –, processi a una società intera, mosaici di fantasmi che abitano i sogni delle periferie, e dove anche i cani devono affrontare il proprio doppio.)

altUn ragazzo di Fenyang, recita il titolo dello straordinario documentario di Walter Salles dedicato a Jia Zhang-ke. E proprio come in Xiao Wu e Platform, si riparte sempre da lì, da Fenyang. Come se non si potesse che tornare sempre a casa, pur nella consapevolezza (come non evocare Nick Ray?) che a casa non si può tornare mai.

Grazia Paganelli

altUn film femminile su una società matriarcale governata dagli uomini. Suona come un paradosso il tema attorno al quale ruota il film di Ida Panahandeh (e con lei molto cinema iraniano). Inserito nella selezione Un certain regard, Nahid è il primo lungometraggio di una regista coraggiosa (fino ad ora ha diretto cortometraggi, documentari e film per la televisione) che riflette sui contrasti di un paese dal tessuto sociale contraddittorio e pieno di storie da raccontare.

Pietro Masciullo

altSuperfici. Todd Haynes torna ossessivamente a “immaginare” gli anni ’50, il laboratorio (post)moderno che ha cullato la nostra epoca, configurando luoghi e tempi talmente iconizzati dalla cultura popolare da risultare superflua qualsivoglia operazione filologica che ne rintracci un lontano referente. Qui adatta un romanzo di Patricia Highsmith, chiama in causa due donne e la passione non-dicibile che le divora e (im)pone i loro corpi nelle gabbie intime/culturali che le separano. Haynes depura il suo stile e decuplica il lavoro sulla “forma”, si allontana ancora di più dal Paradiso e ci riconsegna un on the road apparentemente cristallizzato nel suo set. Carol diventa così un’esperienza estetica tutta potenziale perché occultata nelle pieghe di un’immagine diventata ormai l’unica “verità” su cui ragionare. Oggi.

Giona A. Nazzaro

altCome parli di un paese soffocato da una crisi finanziaria senza precedenti? Come rimetti all’ordine del giorno il cinema senza cadere negli schematismi ideologici che impediscono il farsi di qualsiasi discorso? E ancora, come smarcarsi rispetto all’idiozia dominante (e del cinema e della politica) restituendo al gesto filmico la sua libertà insurrezionale che in questi giorni di festival si rivela clamorosamente assente se si prescinde da Garrel, Desplechin, Apichatpong Weerasethakul?

Giuseppe Gariazzo

altSu un’inquadratura sfocata, di un bosco dal quale avanza un uomo, raggiungendo il primo piano e la messa a fuoco della sua figura, si apre Saul Fia (“Il figlio di Saul”), lungometraggio d’esordio del trentottenne cineasta ungherese Nemes László. Un’inquadratura, come tutto il resto del film, collocata in un formato desueto, ristretto, con i bordi alonati che ricordano il 16 mm se non il Super 8, e il cinema muto. Non a caso quest’opera sorprendente di Nemes, assistente di Tarr Béla sui set di Prologue e L’uomo di Londra, è stata girata in pellicola: “era il solo mezzo per preservare un’instabilità nelle immagini”, afferma il regista. E l’instabilità fisica della pellicola – fino a ritrovarvi quello che il digitale ha bandito, ovvero la fragilità, la precarietà, e quei puntini luminosi che si insinuano tra un fotogramma e l’altro come germi che si nutrono di essa e che la nutrono – è, diventa un segno profondamente semantico, nel quale Nemes affonda il suo sguardo nel descrivere, come mai si era visto prima, la lunga morte, il suo lungo processo, in un campo di concentramento.

Massimo Causo

altNel controcampo della morte

Non c’è un’unica disposizione del filmare. Fare Cinema è declinare l’idea nella sostanza della materia, attraversare la fatica del dire: Gus Van Sant ne è consapevole da sempre, come ogni grande autore, e il cammino che intraprende in The Sea of Trees ne è la prova.


Lorenzo Esposito

alt(Una certa tendenza del cinema contemporaneo: la struttura come specchietto per le allodole. L’apparenza di una scrittura che finge di svilupparsi su strati, i quali, invece di accumularsi, saltano tutti nel vuoto, inseguendosi come onde infrante sugli scogli. Così il film è nel risucchio, non ti aspetta, danza all’indietro e di lato, e mentre ti affanni, ormai quasi cieco, ti assesta pugnalate, ti deride, scherno e schermo delle immagini. E fa bene. The Lobster di Yorgos Lanthimos, svuotato d’amore, disseccato, crudelissimo, cinico, fa di questa non-planimetria la geografia fantastica di un cinema futuro. E ora piantatevi un coltello negli occhi).

Festival Locarno

Speciale Locarno 2013

Giampiero Raganelli

SERRADopo aver realizzato il film definitivo su Don Chisciotte, con Honor de cavallería, il folle cineasta catalano Albert Serra arriva a stendere una pietra tombale, facendo tabula rasa di tutto il cinema precedente e non solo, anche sul mito di Casanova e su quello di Dracula. Fa incontrare i due leggendari personaggi nel Nordeuropa, dove l'ormai anziano libertino si è ritirato.

Giampiero Raganelli

sangueUn'agenzia viaggi dalla saracinesca serrata, rifiuti, macerie, muri sbrecciati, palazzi contraffortati, transenne. Pippo Delbono torna a L'Aquila, città fantasma, città martoriata dal terremoto, mai ricostruita nonostante le promesse dei politici. L'Aquila, metafora dell'Italia, in cui Delbono aveva ambientato alcune sequenze del suo precedente lavoro, Amore carne, che precedevano il sisma, serve a incorniciare le situazioni dell'ultimo film del regista, Sangue.

Cecilia Ermini

cartolina01Une autre vie (concorso)

Con romanticissimo sprezzo del pericolo, Emmanuel Mouret compone un falso melodramma teorico di scene madri abortite e di amplessi ellittici. Il mèlo rivisitato con gli occhi del fotoromanzo.




Giampiero Raganelli

rosso cenereUn ritorno a “Stromboli”, inteso sia come l'isola sia come l'omonimo film di Rossellini del 1950. Una terra estrema, un territorio roccioso, impervio, dalla vegetazione rada, dove la parte antropizzata è il risultato dell'operosità secolare dei suoi abitanti (che nel film era evidente nella scena della tonnara), che sono riusciti a ritagliarsi una porzione vivibile, lottando e imparando a convivere con la forza imperiosa della natura.

Speciale Locarno 2014

altSoia amara. Così potrebbe intitolarsi, parodiando il film di De Santis, l’opera seconda del regista sudcoreano Park Jungbum, anche attore nei suoi film. Protagonista di Alive è un lavoratore in un piccolo stabilimento, a conduzione famigliare, che produce pasta di soia. La sua ambizione è quella di raggiungere una quota di produzione minima pattuita in modo da affrancarsi da quella condizione e poter migrare nelle Filippine. Ma la fermentazione della soia va a male causa una muffa nera.

vecchiali

«Obscurité, tu seras dorénavant pour moi la lumière» (André Gide)

Una dolce melodia riecheggia in riva al mare, unendosi al suono delle onde che s’infrangono silenziose contro un molo. È l’alba e la luce del sole fatica ancora a riscaldare l’aria gelida lasciata dalla notte. Un uomo, colto di spalle, immobile ai piedi della banchina, con lo sguardo rivolto verso la tavola d’acqua salata, fissa un punto indefinito. La sua mente e il suo cuore, però, sono altrove.

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Per i pugili di Day of the Fight di Stanley Kubrick si trattava di una giornata di lavoro. Così è per cablatori, facchini, poliziotti, steward, giardinieri, tecnici, tifosi e calciatori nelle ore prima di una partita allo stadio di San Siro, come ritratti da Yuri Ancarani. Una routine stanca che si ripete a ogni incontro che assume la valenza di un rito. Una tipica giornata uggiosa milanese, sullo sfondo l’imponente sagoma dello stadio, con i suoi anelli. La nebbia si confonde con il grigio del cemento armato della grande costruzione. Il giallo degli impermeabili dei cablatori, le ombre sull’asfalto bagnato, e ancora il grigio delle transenne. E poi si passa al verde del prato e al giallo degli spalti.

Nella pancia di un mostro metallico, tra le cupe cavità addominali del suo organismo vivo, nel suo stomaco a ingranaggi, nel suo intestino vibrante, tra membrane molli che si dilatano e si contraggono ritmicamente, tra succhi gastrici ed enzimi digestivi: è in un luogo del genere che si muove, rigida, la telecamera di J.P. Sniadecki, entrata da chissà quale orifizio, come quegli apparecchi sottili e invasivi che la nuova chirurgia medica utilizza per raggiungere le zone più remote del corpo umano. E lentamente, superando lamine e tessuti pulsanti, fra gli stridori del ferro e i gemiti dei macchinari, lo sguardo contratto della mdp torna in superficie e permette di scoprire l’identità di questo essere abnorme e ansimante: si tratta semplicemente di un treno, che sfreccia a tutta velocità nel continente cinese.

altUna giungla incantata e pericolosa. Una donna con il marito. Un bambino e un’adolescente che sembrano fratello e sorella. Un’altra ragazza con due uomini provenienti da un’altra epoca. Colpi di fucile. Una fuga. Una cascata e una tempesta. Amore. Passione. Morte.



ora

Presentato in “Signs of Life”, la nuova sezione del Festival che si propone d’indagare i territori di frontiera del cinema, tra nuove forme narrative e innovazione del linguaggio, l’ultimo film di Hervé Pierre-Gustave, in arte HPG, è un’opera molto personale, quasi un autentico filmino di famiglia, che però ha la capacità di non chiudersi nel suo universo domestico, ma di dialogare con chi guarda, rivelandosi essere «per prima cosa e soprattutto una commedia, realizzata con lo stile di un documentario», per usare le parole dello stesso regista/attore (tratte dall’intervista presente nel pressbook).

Nicola Curzio

Presentato in “Signs of Life”, la nuova sezione del Festival che si propone d’indagare i territori di frontiera del cinema, tra nuove forme narrative e innovazione del linguaggio, l’ultimo film di Hervé Pierre-Gustave, in arte HPG, è un’opera molto personale, quasi un autentico filmino di famiglia, che però ha la capacità di non chiudersi nel suo universo domestico, ma di dialogare con chi guarda, rivelandosi essere «per prima cosa e soprattutto una commedia, realizzata con lo stile di un documentario», per usare le parole dello stesso regista/attore (tratte dall’intervista presente nel pressbook).

Ciò che rende particolare e provocatorio questo film è il fatto che HPG è un autore di film porno, con una pluriennale carriera alle spalle. Non è la prima volta, però, che il pornodivo francese si dedica a un’opera non streattamente pornografica, avendo già realizzato in passato film come Les Mouvements du bassin (2012), presentato proprio a Locarno nella sezione Concorso Cineasti del presente, o On ne devrait pas exister (2006), selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs e incentrato sul tentativo di un attore porno di lavorare nel cinema tradizionale. Senza dimenticare Il n’y a pas de rapport sexuel (2012), documentario di Raphaël Siboni che assemblava decine di registrazioni di making of dei film hard di HPG. Questi due ultimi lavori citati, in particolare, alimentavano quel desiderio di riscatto e quella vena irriverente che contraddistingue l’opera di HPG. Fils de si inserisce in quest’ambito, essendo un’operazione a cuore aperto che, da un lato, tenta di conferire dignità a un mestiere che generalmente viene considerato tra i più squallidi, dall’altro, (si) interroga su cosa significhi fare cinema oggi.

What’s Your Job Daddy? è il titolo scelto per il lancio internazionale della pellicola ed è forse ancora più esplicito nel indicare qual è il punto di partenza, la scintilla, da cui prende avvio la storia e la riflessione del film: Hervé è diventato padre e suo figlio ben presto potrà domandargli qual è il suo lavoro e scoprire la verità. Gwen, la sua compagna, lo mette alle strette per fargli cambiare vita e mestiere. Nasce così un lungometraggio girato a mano, che segue l’andatura scomposta e irrequieta del suo protagonista, tra set a luci rosse, discussioni in famiglia e preparazione di biberon. La cinepresa di HPG si muove ludicamente in un unico spazio che ingloba casa e luoghi di lavoro, di fatto annullandone il confine. La dimensione del gioco assume importanza, non interessando il solo rapporto padre/figlio, ma abbracciando l’intera pellicola e conferendo a quest’ultima un tocco di leggerezza che stride con la serietà del tema trattato. Partendo dalla sua esperienza personale, HPG dirige una commedia dissacrante carica di umanità, che non si esaurisce in un facile racconto morale sull’importanza di accettare se stessi e gli altri per quello che sono, ma che mette in discussione le stesse convinzioni alla base di un certo cinema d’oggi, tra reale e finzione, tra autenticità e mistificazione, tra documentario e film porno.

La pellicola del brasiliano Gabriel Mascaro, presentata nel Concorso internazionale, curiosamente, comincia con un’immagine simile a una vista in un altro film in corsa per il Pardo d’Oro, il bellissimo Mula sa Kung Ano ang Noon di Lav Diaz. La mdp è fissa e inquadra la prua di un’imbarcazione che scivola lungo un canale, immergendosi in un paesaggio naturale che ospiterà l’intera vicenda e che assumerà, proprio come in Diaz, un ruolo fondamentale. Perché il mare e la terra, in Ventos de Agosto, sono i due poli entro cui si dimena quella forza invisibile e selvaggia, che attraversa e consuma l’immagine, e che il regista sogna di catturare: la forza trainante del vento.

La narrazione nel cinema di Lav Diaz funziona secondo processi di condensazione lenta, raggrumandosi progressivamente attorno a quelli che via via si definiscono come i nodi narrativi principali, partendo da un caos indifferenziato di immagini, scene, tessere di un mosaico che piano piano prende forma. Cosa che comporta un ruolo attivo dello spettatore, chiamato a incasellare, mettere ordine, collegare, comprendere i fili narrativi.

Nicola Curzio

Dopo aver prestato il corpo a Jonathan Glazer (Under the Skin) e la voce a Spike Jonze (Her), Scarlett Johansson si immerge in un'altra produzione sci-fi, questa volta inquadrabile nel genere action, seppur vissuto alla maniera di Luc Besson, con una buona dose di umorismo da un lato, e di momenti esistenziali dall’altro. Lucy è l’ultima eroina del cineasta francese cui è affidato il compito di inaugurare la 67a edizione del Festival del Film di Locarno e di stregare il pubblico della Piazza Grande.

Eventi

Apparizioni

Se il tuo occhio non ti dà scandalo, bendalo (e fai del cinema)

altNon è una figura rara quella del cineasta con la benda sull’occhio, parallela a quella del soldato – regolare o di ventura – che l’occhio l’ha perso in battaglia. Più raro è un cinema che rappresenti la forza paurosa dell’unico occhio di Dio, l’occhio al cui interno non vi sono differenze se non tra gli oggetti ripresi, il cinema. Nell’horror la figura di Dio creatore o normalizzatore (e quindi creatore di mostri...) è frequente, ma sempre (vedi Fisher) in una dialettica tra natura e cultura, tra scienza e corpo, tra natura e sopra-natura. Nel Circo degli orrori (che pure in certo senso ripropone il tipo dello scienziato pazzo) ogni dialettica è abolita, è un unico occhio (quello del grande “chirurgo”) che vede con piacere il “male”, lo “sfigurato”, l’orribile, e che poi (tramite operazioni significativamente quasi del tutto fuoricampo, in un film eroticamente ben più “audace” rispetto ad altri film del periodo) reintegra il corpo, lo appiana, lo normalizza, lo possiede.

Dio si manifesta nel mondo per venire insieme a guardare sadicamente le ferite che vi sono aperte (così la bimba che verrà operata subito all’arrivo in Francia ha il volto devastato da un’esplosione di guerra), e a rimarginarle, a suturare tutto con il gesto risanatore che riproduce un corpo da vedere. I rapporti dei due aiutanti con il chirurgo indicano che non si tratta di un semplice superuomo nietzscheano o di un Unico stirneriano, ma di un Maestro cui restano legati loro malgrado, un Dio sempre oscillante tra il benevolo e il vendicativo e col quale ci deve essere stato un Patto millenario dopo esserne stati creati. E il patto è continuamente risuggellato dallo sguardo di Anton Diffring, che si distingue per occhi penetranti e “cattivi”, freddi e allucinatori.

Sguardo che risana e uccide (non sono i suoi occhi a imporre all’aiutante di eseguire materialmente i crimini all’interno del circo?). un Dio voyeur, che si ferma a veder dilaniare un uomo da un animale. Ma anche un Dio hitleriano che dall’Inghilterra (!) comincia a percorrere l’Europa per costruire col circo una società di bellezza e ardimenti, dalla quale nessuno deve né può uscire se non morto. Il circo inferno paradiso mondo, popolato dai volti più mostruosi, potenzialmente osceni proprio perché ora “risanati”, ritagliati ricuciti suturati. Si vede bene che la minaccia incombente su ciò è un nuovo smascheramento, un nuovo intervento sulla pelle, sulla carne, questa volta distruttore; le belve che sfregiano il Maestro e l’ultima bellezza forgiata da lui, lo obbligano a sottoporsi a un nuovo auto-intervento eseguito dagli aiutanti: ma essi, già rivoltatisi, gli strappano i bendaggi, lo sfigurano per sempre, guardano il volto orrendo del basilisco. E la Sua morte arriva puntuale per mano della sua stessa pecca originaria, il primo volto non suturato, l’errore che viene ad uccidere l’autore ora ridotto alle stesse condizioni: i due volti di medusa si incontrano alfine. La struttura del poliziesco si dimostra fallace, in quest’horror tutto “spiegato”. L’horror, già nel titolo, diventa oggetto di se stesso, nel film che più lucidamente lo separa dal “fantastique”

Il cinema non è innocente, lo spettacolo è sempre di mostri anche quando è spettacolo di bellezza e di armonia (perché il mostro è il cinema); un occhio si è chiuso per sempre, inghiottito dall’Altro che può darsi Scandalo e assorbire lo scandalo. Nel rifiuto rigoroso di trucchi eclatanti o di esplosioni visive, Il circo degli orrori ripete la sottintesa etica puritana dell’horror; c’è p. es. – dentro all’inquadratura – più sesso che in altri film del “genere” (e dell’epoca-primissimi anni Sessanta), ma nulla anima mai la secchezza della regia, neanche la disinvoltura diegetica un po’ folle del récit. Fuor d’ogni umanismo, si riguadagna la secchezza dei grandi Hollywood (Ford Hawks Mann Boetticher), per cui ogni follia può dipanarsi e avvenire entro i margini dell’occhio sovrano che – macchina – non corre neppure il rischio d’essere più strappato – o il suo volto dilaniato (anche se l’occhio di Walsh offeso dal puma..).

Il sangue del vampiro si allaccia invece al sottogenere indicato nel titolo, e ne ripete i colori e l’economia registica inglese del periodo. Ma si dice che Henry Cass (l’autore) sia poi impazzito di follia ultracattolica, tentando anche di bruciare i propri film. Non ci si stupirà, se si pensa che Il sangue del vampiro è l’unico film rigorosamente ateo tra i tanti dedicati al tema. Il quadro tipico e tradizionale anche sul piano figurativo aiuta a riconoscere i mutamenti. Il vampiro e signore del castello non è un vampiro, ha bisogno di sangue per una malattia provocatogli dal fatto che – creduto vampiro – era stato come tale giustiziato.

È quindi in realtà uno scienziato, e il suo contraltare – la scienza del giovane medico – è più impotente di lui, destinato a soccombere infatti se proprio il servo orrido e maligno ma innamorato non si ribellasse al Padrone (fatto inaudito!..). solo un insieme di “casi” permetterà la soluzione “positiva” dell’intrigo, non c’è conflitto se non tra situazioni e individui. Non c’è separazione assoluta tra il Castello e la Città civile; il castello è anzi la prigione della città, una sua appendice inestirpabile; tra la Legge (che sbaglia) e lo Scienziato che “trattato” come Vampiro diviene davvero “tecnicamente” tale nonostante la sua Scienza, e lo Scienziato buono, nessuno riesce a imporsi in virtù di un potere suo. Nulla se non la convenzione fa sì che dilaniato dai cani finisca ancora una volta lo scienziato folle invece del protagonista.

La più bella sceneggiatura di Jimmy Sangster, e un film su cui ritornare puntualmente. Da proteggere dall’ira del regista, che si è accorto di aver dato tutto il potere al Cinema, ben al di là delle convenzioni; senza mettere in scena alcun conflitto, senza sacrificare a nessun soggetto che non fosse il solito occhio impassibile e qui assolutamente esterno, senza a concedere a nessuno la sua parte di Dio.

Questo contributo, originariamente pubblicato su «Filmcritica» n° 238, è qui proposto per gentile concessione dalla casa editrice Bompiani (il testo fa parte della raccolta Paura e desiderio. Cose (mai) viste. 1974-2001) © 1995/2016 Rizzoli Libri S.p.A. / Bompiani.

 


Corpi deGeneri
enrico ghezzi a "Registi fuori dagli sche(r)mi"

[propedeutica al morso]

Prima di incontrare Ana Lily Amirpour e vedere A Girl Walks Home Alone at Night, una master class itinerante condotta da enrico ghezzi e Luigi Abiusi nei CINEPORTI di PUGLIA:

30 maggio, dalle 18,30, c/o Cineporto Foggia (Via San Severo, KM 2,00)

31 maggio, dalle 18,30, c/o Cineporto Bari (Lungomare Starita, 1)

1 giugno, dalle 18,30, c/o Cineporto Lecce (Via Vecchia Frigole, 36)

Programma

ore 18.30 / Proiezione del film
Il sangue del vampiro (1958)
di Henry Cass

ore 20.30 / Master class
"egh sui(no)generis - la vita (ri)succhiata: cannucce"
intervengono: enrico ghezzi, Luigi Abiusi

ore 21.30 / Proiezione del film
Burying The Ex (2014)
di Joe Dante

Ingresso libero fino ad esaurimento posti.

Rassegne

«[…] Come dalla vicenda infaticabile

De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale

Dentro il vico marino in alto sale, . . . . . . .

Dentro il vico chè rosse in alto sale

Marino l’ali rosse dei fanali

Rabescavano l’ombra illanguidita […]»

(D. Campana, Genova)

Le altre vite sulle quali nessuno veglia sono il via vai delle onde dentro la notte, nel suo «incanto», trascinando ferraglie nell’acqua: andando a ritroso, uomini in fila come il moto del mare, ombre di uomini, «invisibili», riversati nelle strade come fiele, amaro. Crolli, pietre cadute. Archi nella luce stanca di un altro mondo: che cammina, andando in quelle vie, a battere i pugni, digrignando i denti, aspro, ruvido desiderio di vivere.

I vicoli di Genova scenario incerto, sgranato, fanno da ancora ad un amore lontano, voluto, ritrovato; non importa che cosa sia questo amore, come. Importa documentare, tenere a mente, testimoniare che l’amore salva. Pietro Marcello mescola i generi, le tecniche, anticipando il linguaggio di quel Martin Eden che precipita, consapevole che niente può essere ancora desiderato perché se ci fosse qualcosa ancora da desiderare allora sarebbe lei; qui invece la vita prevarica, investe l’oscurità, perde senso senza l’altro accanto. «L’archeologia della memoria» è la ricostruzione di una storia qualunque, una storia che vale d’essere vissuta, nella sua incongruenza, nelle voci che graffiano, nelle parole che raccontano, che legano, che sopravvivono. La forza bruta del passato che resiste si trasforma. Il bisogno primario di non essere soli in questa fase della produzione del regista è ancorato alla salvezza della cura, del prendersi cura.

La bocca del lupo è un inno alla certezza del sole, dopo tanto buio. Così si torna al mare, prima che i titoli di coda sfumino questo giorno ritrovato nel dolore, ad aspettare che venga la sera al chiarore del fuoco, che trema, si torna: ai passi dei bambini, delle donne sulla riva.

«[…] Come dalla vicenda infaticabile

De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale

Dentro il vico marino in alto sale, . . . . . . .

Dentro il vico chè rosse in alto sale

Marino l’ali rosse dei fanali

Rabescavano l’ombra illanguidita […]»

(D. Campana, Genova)

Le altre vite sulle quali nessuno veglia sono il via vai delle onde dentro la notte, nel suo «incanto», trascinando ferraglie nell’acqua: andando a ritroso, uomini in fila come il moto del mare, ombre di uomini, «invisibili», riversati nelle strade come fiele, amaro. Crolli, pietre cadute. Archi nella luce stanca di un altro mondo: che cammina, andando in quelle vie, a battere i pugni, digrignando i denti, aspro, ruvido desiderio di vivere.

I vicoli di Genova scenario incerto, sgranato, fanno da ancora ad un amore lontano, voluto, ritrovato; non importa che cosa sia questo amore, come. Importa documentare, tenere a mente, testimoniare che l’amore salva. Pietro Marcello mescola i generi, le tecniche, anticipando il linguaggio di quel Martin Eden che precipita, consapevole che niente può essere ancora desiderato perché se ci fosse qualcosa ancora da desiderare allora sarebbe lei; qui invece la vita prevarica, investe l’oscurità, perde senso senza l’altro accanto. «L’archeologia della memoria» è la ricostruzione di una storia qualunque, una storia che vale d’essere vissuta, nella sua incongruenza, nelle voci che graffiano, nelle parole che raccontano, che legano, che sopravvivono. La forza bruta del passato che resiste si trasforma. Il bisogno primario di non essere soli in questa fase della produzione del regista è ancorato alla salvezza della cura, del prendersi cura.

La bocca del lupo è un inno alla certezza del sole, dopo tanto buio. Così si torna al mare, prima che i titoli di coda sfumino questo giorno ritrovato nel dolore, ad aspettare che venga la sera al chiarore del fuoco, che trema, si torna: ai passi dei bambini, delle donne sulla riva.

Registi fuori dagli ScheRmi III

Matteo Marelli

Piero Scaruffi è del parere che il gruppo musicale degli M83 ha saputo coniare «un linguaggio […] che è insieme etereo e minaccioso, barcollante ed abrasivo, celestiale e tenebroso, spirituale e violento, leggero come una piuma e pesante come un masso». Un definir per contrasto che ben si confà anche allo stile registico di Yann Gonzalez, caleidoscopico come una sonata barocca.
Al di là delle affinità formali bisogna aggiungere che il regista de Les rencontres d’après minuit, caso mediatico dopo la prima alla Semaine de la critique del Festival de Cannes 2013 e miglior film alla 18esima edizione del Milano Film Festival, è il fratello di Antony Gonzalez, fondatore, insieme a Nicolas Fromageau, del duo elettronico francese. Dunque si può dire di una consanguinea sensibilità stilistica declinata  in differenti universi espressivi.

Yann Gonzalez prima del suo esordio cinematografico, avvenuto con il corto By the Kiss,  selezionato in diversi festival internazionali inclusa la Quinzaine des Réalisateurs del 2006, è stato critico cinematografico per le riviste di Max, Têtu, e Vogue.
Autodidatta, formatosi ai corsi di Nicole Brenez alla Sorbona-Paris 1, Gonzalez affina e fa conoscere il suo stile attraverso una serie di cortometraggi, come Nous ne serons plus jamais seuls con cui partecipa al Festival di Locarno 2012. Già da questi lavori è evidente che si è di fronte a un cineasta di grande teatralità che concepisce lo spazio filmico come un involucro meraviglioso in cui far convergere e fondere gli ingredienti più disparati e gli artifici più vertiginosi. Particolarità che diventano vere e proprie qualità registiche in Les rencontres d’après minuit, suo primo lungometraggio segnalato da i Cahiers du cinéma tra i 10 miglior film del 2013.

Il film è un astratto Kammerspiel purificato da ogni scoria icastica, “cinema da camera” che si tramuta in wunderkammer, scrigno di fantasmagorici e stilizzati eccessi visivi.
Tutto gira attorno a un orgia mancata, che è pretesto necessario per vivificare un amore mannaro dall’epilogo triste, come tutti gli ammalati del demone meridiano sanno. È una danza silenica di creature diafane, fantomatiche che ululano le loro tragicomiche perversioni alla luna: deliri visionari che rendono manifesta la dimensione segretamente sacrificale dell’edonismo. A condurre il girotondo una domestica-travesta, mistagoga di iniziazioni erotiche, medium tra il mondo solare e quello notturno.
Non c'é proprio una storia; forse una metastoria, ad essere eufemici. Di certo c'è che in questo film non si incontrano mai materiali autentici, ma solo riprese, citazioni, rimandi. Un’iperrealtà in cui ogni residua naturalità del mondo è schiacciata da un accumulo di segni espropriati di referente certo.
Les rencontres ha un afflato epico, perché è la narrazione essenziale di una comunità, una polifonia di voci in cui i personaggi duplicano continuamente sé stessi perché protagonisti dei loro racconti onirico-allucinatori, cronache distorte poiché personali, legate al ricordo e quindi soggette a manipolazioni e apparenze.


Programma

Matteo Marelli

La macchina da presa come grimaldello per scardinare le imposture fabbricate da visioni cristallizzate che sfuggono le incandescenze ardenti sotto la cenere del quotidiano.
Jan Soldat s’incunea e acuisce il solco inferto nell’immaginario spettatoriale dal cinema di Romuald Karmakar. Come lui, anche il giovane filmmaker formatosi al Konrad Wolf College of Film and Television di Potsdam-Babelsberg, procede, (e di qui lo “scandalo”) senza intenti giudicanti, nell’osservazione minuziosa di comportamenti e stili di vita al di fuori di ciò che è socialmente accettabile e mostrabile, perché «nulla più del lato oscuro dell’esistenza umana reclama a viva voce la luce».
Ne è dimostrazione il suo percorso registico: nel 2010 Soldat vince, con Endilich Urlaub (3min. di languido sfogo onanistico) il Short Film Award al Pornfilmfestival di Berlino; lo stesso anno presenta, alla Berlinale, Geliebt, documentario che affronta il tema della zoofilia.

Nel 2013, con Ein Wochenende in Deutschland, è invitato al Festival Visions du Réel di Nyon. Il film, che si apre con una bandiera tedesca che colpisce più volte un fondoschiena già piuttosto provato dopo lunghi e intensi minuti di sonore sculacciate, è un quadro preciso di un tranquillo weekend in Germania che vede coinvolti due uomini sulla sessantina che, tra un caffè e una torta, giocano con il loro “slave”, declinando in chiave domestica le ritualità bondage e sadomaso.
Sempre nel 2013 Soldat porta al Festival Internazionale del Film di Roma il suo film di diploma, con il quale vince il Premio CinemaXXI film brevi, Der Unfertige (The Incomplete), nel quale Klaus Johannes Wolf, nudo, anelli metallici attorno al pene, incatenato al suo letto, così si presenta: «Omosessuale di Odenwald… o Gollum… o Klaus! 60 anni… schiavo!». Nonostante le premesse, Klaus è ordinato, composto, addirittura pudico, quasi candido nel dire della propria esistenza, nel confidare il desiderio di abbandonare tutto (cosa che farà), per perfezionarsi in un campo di schiavi e diventare un servo perfetto.

Soldat, consapevole del proprio ruolo e delle responsabilità ad esso connesse, pur senza alcuna censura, evita qualsivoglia morbosità e spettacolarizzazione, riuscendo, subito, ad andare oltre la retorica sensazionalistica a cui si presterebbe la materia. Klaus non è un “caso umano” ma una persona che, a differenza di molti ma non di tutti, declina la sessualità secondo dinamiche sadomasochiste.
L’autore non cerca intromissione ma nello stesso tempo sente il dovere di allestire un impianto filmico che possa permettere al soggetto coinvolto di esprimersi liberamente; è lui, infatti, a condurre il discorso. Soldat di fronte a Klaus sospende ogni giudizio adottando una messinscena neutra, antidrammatica, che non è esibizionistica dimostrazione di rigore stilistico ma atto di onestà intellettuale prima ancora che registico. Un atteggiamento che lo porta addirittura ad un rispecchiamento. Come dichiarato infatti nelle note di regia: «Essere uno schiavo nella società moderna è quasi come essere un documentarista. Si tratta di raggiungere il massimo della libertà entro limiti stabiliti».


Regista successivo

Programma

Nicola Curzio

altMirko Locatelli è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico milanese. Nel 2002 ha fondato con Giuditta Tarantelli la casa di produzione Officina Film, mediante la quale ha realizzato i suoi primi lavori: corti e documentari, che «nascono sempre da un’urgenza, dal desiderio di raccontare storie e temi di rilevanza sociale».
Nel 2008 ha presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia il suo lungometraggio d’esordio, Il primo giorno d’inverno. Il suo cinema colpisce per l’onestà e la rettitudine con cui affrontata temi difficili e delicati; avulso da vezzi estetici, esso si sostanzia in un’indagine antropologica, rivolta soprattutto al mondo dell’adolescenza e portata avanti con sincerità e speranza. Il suo sguardo sensibile non si trasforma mai in giudizio, né cede a facili compromessi; mantiene invece la giusta distanza, affidandosi alle immagini e alle parole, specie quelle non dette, che segnano indelebilmente lo schermo e restituiscono, pur nella finzione cinematografica, qualcosa di profondamente vero.

Presentato in concorso all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma, I corpi estranei è l’opera seconda di Mirko Locatelli, scritta ancora una volta con la moglie Giuditta Tarantelli. «Siamo voluti partire da due parole chiave: dignità e pudore»: la dignità di Antonio (Filippo Timi) e del giovane Jaber (l’esordiente Jaouher Brahim), due anime impaurite, due “corpi estranei” alle prese con il dolore; il pudore dello stesso Locatelli, che filma i personaggi «come fossero protagonisti di un documentario, per tutelare i loro corpi, i loro sentimenti, i loro rapporti, quando si scrutano, si odiano, si aiutano o stanno fermi ad aspettare nella speranza che qualcosa, attorno a loro, possa cambiare». Cinema che si apre all’altro, al diverso, che crede nell’uomo e che cerca ostinatamente, proprio nella sofferenza, quell’atto d’amore profondamente umano, che permette la salvezza. Di tutti.


Regista successivo

Programma

Gianfranco Costantiello

altSenza tempo l’immagine è solo un’impronta di luce. È pari al nulla: trova la sua posa, ma vi sparisce. L’inquadratura deve permettere all’immagine di essere abbastanza lunga affinché chi guarda vi si riconosca e si perda. Avvicinare premurosamente il fondo vago e indefinito del mondo a qualcosa che si direbbe chiaro e finito, se le cose non fossero mute, lontane, inaccessibili. Il cinema di Michelangelo Frammartino, avverte l’esigenza di questo avvicinamento nel lieve incastro di inquadrature statiche e lunghe a tal punto da sospendersi. Tale sospensione, però, vanifica in parte la chiarificazione delle cose: dopo un primo riconoscimento, esse sfuggono, cadendo talvolta nel puro ordine estatico dell’espressione

Seguendo la via segnata da un’ ideale mappa espressiva del cinema, le rughe sul volto dei suoi protagonisti finiscono per somigliare e confondersi alle ripide strade in pietra di Caulonia - paesino d’origine della famiglia del regista e paesaggio del suo cinema. Ma sarebbe un contatto inane quello che s’apprestasse a scovare dei protagonisti nelle sue pellicole, perché in fondo il cinema di Frammartino è tutto in uno sguardo primordiale che si apre sul mondo. Le quattro volte sposta questo sguardo in quattro movimenti - da un pastore a una capretta, da un abete al carbone vegetale - conducendolo al limite, se non oltre, quella soglia metafisica che è propria del cinema di De Seta, Piavoli, Flaherty, Bartas ecc.. Così nel silenzioso scorrere del tempo, il vecchio pastore sembrerà ricominciare la vita nel maggiare di una capretta appena nata, nell’imponenza di un tronco d’abete, nel grumo nero del carbone che, nell’ultima e magnifica inquadratura, fumerà da una canna fumaria nell’aria fredda e ferma di una mattina invernale.

Rivelatosi con Il dono (2003), affermatosi con Le quattro volte (2010) e consacratosi con Alberi (2013) - cortometraggio che sembra chiudere quella che potremmo definire una trilogia – Frammartino, s'impone tra i migliori registi del nostro tempo, per via di immagini potenti e limpide, dal ritmo lento e bucolico, lontano da qualsiasi forma di compiacimento, accostandosi a un’idea di cinema che rifugge la tendenziosa impostura della rappresentazione; perché è forte il desiderio di guardare dentro, di scoprire il segreto delle cose.



Regista successivo

Programma

Vanna Carlucci

altIl cinema di Andrea Pallaoro appare all’improvviso in mezzo al caos festivaliero del cinema di Venezia 2013. Appare in abito perfettamente ricamato, ecco, il cinema di Andrea Pallaoro, perfettamente ricamato. L’immagine non sfugge, resta dentro ogni inquadratura, resta vigile e fermo nel suo espandersi all’interno. Il controllo sull’immagine che non si vuole perdere ma che tenta di disperdersi invece all’interno della sua stessa cornice è il segno di un movimento che persiste e che è densità di piani. Come una cometa Pallaoro traccia una traiettoria lineare nel cielo e da lontano non si vede altro che una linea  che si chiude nel momento in cui scompare l’ultima luce ma se la si guarda da vicino è chiaro vederci milioni di pulviscoli luminescenti, movimenti brulicanti interni, residui di una stella, residui che continuano a cadere.

Così Medeas sembra il frutto di un disegno del cielo, una linea luminosa e perfetta dove non esiste rumore che da lontano guasti il belvedere di una caduta (di una stella), bella quanto basta a farla spegnere ad ogni cambio di inquadratura. Ma se guardiamo più da vicino ogni sua linea (ogni piano cioè dell’immagine) essa conterrà una scia, residui cioè di una stella più grande: non c’è dunque una mera costruzione formale ma c’è un lavoro interno sulla costruzione: il cinema di Andrea Pallaoro è strutturato seguendo quella stella più grande che riguarda il grado di sopravvivenza dei suoi personaggi. Sopravvivere alla mancanza, sopravvivere alla perdita, sopravvivere al legame: questo è quello che accomuna i suoi due lavori (Wunderkammer, Medeas): gestire il peso di qualcosa che cade e allora la casa, il paesaggio campestre, il gesto, la luce del sole s’immobilizzano, tutto s’immobilizza affinché le immagini diventino i residui di quel qualcosa che soffoca i personaggi sul punto (quasi) di morire e cioè di quella stella pronta a spegnersi.


Regista successivo

Programma

Luigi Abiusi

Tayfun Pirselimoglu è un autore poliedrico, considerato, insieme a Ceylan, il maggior regista turco contemporaneo, e comunque tra i registi più originali in circolazione; la cui  poetica è frutto di una lunga stratificazione di consapevolezze tecniche e teoriche, che vanno dalla pittura, all'incisione (insomma le arti applicate apprese all'accademia di Vienna) alla scrittura narrativa (è romanziere molto letto in Turchia e non solo, autore di quattro romanzi) alla sceneggiatura, appunto alla regia cinematografica. Un impegno nel cinema consacrato da subito da molti riconoscimenti nei festival internazionali, soprattutto per i film Hiçbiryerde (2002) e Saç (2010) passati a Berlino, Locarno, Toronto.

È con I am not him (premio per la miglior sceneggiatura al festival di Roma 2013) che Pirselimoglu giunge al suo capolavoro, compiendo un ulteriore scarto dialettico, aggiungendo al tema delle solitudinni (di personaggi teneri, svagati, spesso comici, attoniti di fronte a una vita che non comprendono affatto), fulcro dei suoi precedenti lavori, una struttura cinematografica di “ritorni”, di variazioni sul tema sull'individuo e del personaggio che delineano il motivo del destino (in eterno ritorno), in una straordinaria fusione tra Kaurismaki e Kieslowski.


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Programma

Luigi Abiusi

Continuando sulla strada della ricerca e dell'analisi critica di un cinema contemporaneo penetrante, luminoso, fortemente dialettico, per quanto trascurato dalla distribuzione italiana, la terza edizione della rassegna Registi fuori degli schermi, cercando perciò di recuperare (e mantenere saldo) un contatto con una dimensione europea ed extracontinentale della cultura (non solo cinematografica), si sofferma su alcuni dei migliori autori del panorama internazionale, passati di recente nei vari festival (tra Cannes, Venezia, Roma, Berlino, Locarno, Toronto), attraverso cui si affrontano stili e tematiche all'insegna della discontinuità.

Cioè - avendo la possibilità, come sempre, di dialogare direttamente con i registi, che saranno presenti, insieme a critici provenienti da varie testate (Marelli, Nazzaro, Sangiorgio, Pacilio, Rossini) al Cineporto di Bari - passando per quella zona ibrida tra finzione e documentario che è di Frammartino, autore di un meraviglioso Le quattro volte (che entusiasmò nel 2010 il pubblico del Festival di Cannes), arrivando poi al documentario, ma in un veste scabrosa (suo  malgrado), ispirato da un'entusiasta curiosità per il mondo e le persone (in chiave omo-sessuale), che è del Soldat di Der Unfertige, documentario vincitore al Festival di Roma nella sezione CinemaXXI.

Mentre il cinema più propriamente di finzione si delinea a partire dal regista turco Tayfun Pirselimoglu, autore di uno splendido I am not him (tra Kaurismaki e Kieslowski), vincitore al Festival di Roma del premio per la migliore sceneggiatura (dello stesso Pirselimoglu); e passa per il film dell'italo-americano Andrea Pallaoro, Medeas (grande sorpresa allo scorso Festival di Venezia), all'insegna di un rigoglioso e mitico panorama campestre americano. A chiudere, due film diversissimi tra loro: il delicato e commovente affresco della diversità (tra religioni ed etnie) disegnato da Mirko Locatelli (con un Filippo Timi molto intenso) in I corpi estranei (in concorso al Festival di Roma di quest'anno), e, proveniente dallo scorso Festival di Cannes (e vincitore al Festival di Milano), il capolavoro di Yann Gonzales, Les rencontres d'après minuit (tra gli interpreti un grande Eric Cantona), delicato e fantasioso incontro di anime perdute e sognanti nella notte, in attesa dell'alba: grande colonna sonora degli M83; considerato dai Cahiers du cinema uno dei migliori film del 2013.


PROGRAMMA

13 febbraio: Michelangelo Frammartino

20 febbraio: Jan Soldat

27 febbraio: Tayfun Pirselimoglu

6 marzo: Andrea Pallaoro

18 marzo: Mirko Locatelli

27 marzo: Yann Gonzalez

Registi fuori dagli scheRmi IV

Luigi Abiusi

Dentro il contesto estremamente sfaccettato, multicolore, anche contraddittorio, del cinema francese contemporaneo, ancora, fortunatamente legato a una nouvelle vague mai veramente sopita e invece viva e mutevole in autori come Carax, Dumont, Assayas; è emersa negli ultimi due anni una tendenza a un cinema fanciullescamente, schizofrenicamente sognante, immaginifico e musicale, proprio nel senso di uno spazio e di un tempo di emergenza della musica che scandisce (in una sincronia perfetta) il susseguirsi di sequenze, scene, finanche tutta la gestualità (di volta in volta ritmicamente gioiosa e disperata) di personaggi intrisi di suoni, di poesia, di sogno concepito in interni a intermittenza luminosa, o sui marciapiedi, alle fermate dei tram, nel buio di campi di passaggio.

 Uno dei film più importanti di questa tendenza (che peraltro unisce davvero pochi giovani registi) è L'âge atomique di Héléna Klotz uscito nel 2012 e vincitore a Berlino del premio FIPRESCI (Fédération Internationale de la Presse Cinématographique) nella sezione Panorama, quando il film incantò e sorprese proprio per la sua spinta connotazione musico-visiva, che metteva il materiale filmico su un piano di immediata fruizione, eppure, d'altro canto, disegnava nuovi territori di significazione, superfici sensoriali, vere e proprie vie di fuga rispetto alla mera narrazione. Del resto questa connotazione è il frutto di un contesto, quello in cui è cresciuta la trentacinquenne Héléna, di sedimentazione (e rielaborazione) dell'esperienza registica, appannaggio del padre Nicolas Klotz, e di sua madre, l'attrice, regista, sceneggiatrice Élisabeth Perceval; nonché della musica di suo fratello Ulysse, che in effetti firma la colonna sonora de L'âge atomique, una delle più belle ascoltate negli ultimi anni.

 Ovviamente l'apprendistato di Héléna si svolge attraverso la forma del cortometraggio: Le léopard ne se déplace jamais sans ses taches del 2003 e Le Festin des chiens del 2008; e in un mediometraggio del 2011, Val d'or, nei quali già emerge la sua particolare cognizione della realtà, che tende in ogni momento a trascolorare in una temperie favolosa, sonnambolica, come accade appunto, pienamente, nel suo primo e unico lungometraggio, interregno di luci elettriche, riflessi caleidoscopici sui finestrini; binari, interni da ballo elettronico; una Parigi notturna irriconoscibile, mentre la Tour Eiffel getta luce su una città che sembra a un tratto disurbanizzarsi dentro l'oscurità di un bosco, in cui gli alberi crepitano di fosfori verdi e i due giovani protagonisti, prendono le sembianze di fantasmi. La notte, l'arrivo nella città, l'atmosfera incantata e crudele del club, poi il ritorno attraverso i deserti allucinati urbani che lasciano spazio alla diversa modulazione vegetativa in cui perdersi; sono il contesto di un affioramento poetico rimbaudiano (con versi e versi recitati in lacrime, creati sul momento, rimuginati, ricordati dalla notte prima; e monologhi, confessioni sentimentali di un amore celato e ambiguo) intriso di musica elettronica che vira verso gli anni Ottanta: tutto a definire una condizione esistenziale di dolore (magnificamente anacronistico come i due bohémien Victor e Rainer) che trascende nell'immaginifico (nello scuro fiabesco), in un'immagine espressionistica e misteriosa della realtà che però non la elude nei suoi aspetti mimetici, ma la scopre, la mostra nuda, fatta d'ombra e di alba.

6 Marzo ore 20.30 presso il Cineporto di Bari c/o Fiera del Levante, Lungomare Starita, 1: INCONTRO CON HÉLÉNA KLOTZ.
Interviene, insieme alla regista, Luigi Abiusi (“Filmcritica”, Uzak.it).
A seguire proiezione di L’ÂGE ATOMIQUE (2012) (v.o. sott. ita.).


Programma

Vanna Carlucci

Alcuni film scoccano come un’epifania ed è il caso di Zerrumpelt Herz di Timm Kröger, giovane cineasta che a Venezia 71 porta in scena il suo primo lungometraggio e che è stato la sua prima prova di regia (il suo saggio di diploma). Un film che scioglie le invisibili leggi del mondo in musica o, forse, è un film che si addentra nel folto sciame sismico delle foglie, dei cinguettii, del baluginare di un lago, un film che vuole ritrovare le note altissime di una musica senza tempo e che è sempre esistito. Ogni nota coincide con un’immagine, meglio ancora, con la prima luce che quell’immagine rivela e dentro lo spazio infinito degli alberi, dentro l’emanazione luminosa che sfonda i rami si può scorgere il farsi di una scrittura o, in questo caso, di una partitura. In sottofondo Wagner e Malher esplorano, insieme con i tre personaggi del film (quattro se si considera Otto, lo scomparso), il bosco che rappresenta tutto un paesaggio interiore e quindi un cuore interno, organo che si frantuma perché si spoglia di ogni sua proprietà, di ogni tipo di sostegno per diventare centro di un cuore puro. Ed è in questa povertà, in questa concentrazione di mondi che i personaggi cercheranno quello spartito musicale che riflette l’intenzione dell’artista: creare un’opera che si denuda e si apre e si crea dal continuo dialogo col vivente, dentro spazi quasi tarkovskijani, dentro la nudità del mondo e del sentire.



6 Febbraio ore 20.30 presso il Cineporto di Bari c/o Fiera del Levante, Lungomare Starita, 1: INCONTRO CON TIMM KRÖGER.
Interviene, insieme al regista, Giuseppe Gariazzo (“Filmcritica”, Settimana Internazionale della Critica - Sezione indipendente della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia).
A seguire proiezione di ZERRUMPELT HERZ (2014) (v.o. sott. ita.).


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Programma

Luigi Abiusi

altQuattro grandi maestri, che vengono in continuazione «ai ferri corti con la vita» (Michaelstaedter), facendone cinema sempre in movimento, rivoluzionario: Julio Bressane, ancora sorprendente con il suo Educação Sentimental, presentato a Locarno lo scorso anno; Abel Ferrara che fa un film, anzi due, non su Pasolini ma di Pasolini: ed era necessario mostrare la versione originale del film, del tutto sconosciuta in Italia, a chi non fosse allo scorso Festival di Venezia. Franco Maresco, personalità straordinaria (per quanto appartata) non solo del cinema italiano ma internazionale: il suo Belluscone, nonostante sia uscito nelle sale, è fuori dagli schemi, e merita di essere rivisto e rivisto ancora. Paul Vecchiali, che come un giovane innamorato riesce ancora a commuovere con un film di tale splendore, Nuits blanche sur la jetée. E loro a confronto con due talenti: Timm Kröger, autore di un film “spaventoso”, Zerrumpelt Herz, sempre in bilico, misterioso come alcuni specchi e spazi di Tarkovskij; ed Héléna Klotz, regista de L'âge atomique, uno dei film più belli usciti negli ultimi anni, vincitrice del premio FIPRESCI nella sezione “Panorama” al Festival di Berlino 2012, da dove sono anni che escono le cose più sorprendenti del panorama internazionale. A dialogare con loro, alcuni dei critici che negli ultimi anni hanno fatto la storia (e continuano a farla) della cultura cinematografica e non solo in Italia: a cominciare da Enrico Ghezzi, per finire con Roberto Turigliatto, passando per Lorenzo Esposito, non a giudicare drenando la meravigliosa lucentezza delle immagini, ma ad arricchirle con lo scintillante plusvalore di parole, che reinventano, ogni volta, il cinema.


PROGRAMMA

23 gennaio: Julio Bressane

30 gennaio: Abel Ferrara

6 febbraio: Timm Kröger

20 febbraio: Franco Maresco

27 febbraio: Paul Vecchiali

6 marzo: Héléna Klotz


IL NOSTRO STAFF

Nicola Curzio

alt9 Lives of a Wet Pussy, lungometraggio d’esordio di Abel Ferrara, è un film hard a suo modo leggendario: in pochi l’hanno visto, qualcuno ne mette in discussione la paternità, Ferrara stesso ha fatto di tutto per tenerlo nascosto. Quel che è certo è che si tratta di un titolo, che di solito compare al primo posto nella filmografia del regista newyorkese e che forse, esagerando (come spesso capita proprio a Ferrara), potrebbe riassumere la sua intera esistenza (senza distinzione tra arte e vita, tra realtà e finzione).

«La razza degli Dei e degli uomini è una sola. Il Dio antico non crea, trasforma appena. Le dure pene. Il vago resta vago. Dio, il superuomo, non definisce quello che crea, da ciò la sua superiorità. L’uomo è buffone della propria immaginazione… Ombra cinese di un’ansia inutile, senza speranza, senza quiete, senza conforto. Ogni vera emozione è bugia dell’intelligenza. Ogni vera emozione ha un’espressione falsa. Esprimersi è dire ciò che non si sente. Stare è essere. Fingersi è conoscersi» (Cinema Inocente, 1980).

Innocente è lo sguardo che vede il cinema come fosse un’epifania, come un fenomeno inconsueto, un atto inconsulto, una fibrillazione. Innocente è quel cineasta che vede l'oggetto filmico come fosse la prima volta, con occhio e mano vergini, occhi tremanti e mani palpitanti.
L’innocenza è soggetto privilegiato del cinema di Julio Bressane, che pure ha dimostrato sin dagli esordi degli anni Sessanta un'innata consapevolezza del mezzo cinematografico. Nel paradosso tra innocenza e consapevolezza si situa la sua opera, deflagrata con il progetto (volutamente votato al fallimento) del “Cinema Marginal” brasiliano, nato e morto nel 1970, in netta critica al più decantato “Cinema Novo” che, rifacendosi alla Nouvelle Vague, già appariva al cineasta brasiliano una moda, un canone estetizzante. L'innocenza diveniva su pellicola l’assunzione nell’immagine del paradosso di essere “carne” e “fame di carne” ad un tempo; disfacimento come gioco e superamento del limite che inghiotte il presunto, lo reinventa dislocato e fuori dal confine delle discipline, al centro del movimento perpetuo delle contraddizioni.

Dis- è il suono dell’immagine-movimento, “traduzione” esatta della parola in invenzione di carne «che scompiglia il radicale!» (Julio Bressane, Dislimite, CaratteriMobili, Bari 2014) e crea il paradosso di essere nell’immagine. Gli occhi con Bressane si aprono dinanzi allo spettacolo di quello che è per sua natura innocente, inconsapevole di essere colpevole – l'abnorme, il patologico, l'orrorifico – e che trasfigura l'immagine oltre i limiti convenzionali della rappresentazione, fino a disorganizzare le percezioni, fino a vedere con le orecchie, udire con gli occhi, in una trasvalutazione del corpo che veniva vista con orrore dal biopotere (tant’è che Bressane fu addirittura sospettato di terrorismo dal regime dittatoriale brasiliano e costretto all'esilio a Parigi, dove si concluse l'esperienza del “Cinema Marginal”). Il canone della sincronizzazione viene messo in questione in A agonia (1976), vertice della sua ricerca, in modo tale che immagine e suono seguano ciascuno il proprio flusso, il proprio pensiero, apparentemente inconsapevoli l’una dell'altro, ma inaspettatamente coincidenti, come un lapsus. Bressane fa dell’immagine la sonda di un reale trasvalutato dalla parola poetica (O batuque dos astros, 2012), filosofica (Dias de Nietzsche em Turin, 2001), storica (Cleòpatra, 2007), letteraria (Educaҫão sentimental, 2013) e che culmina nella parola-immagine: incantamento, arte divinatoria anteriore al meccanismo di logica comprensione o tensione (vera) verso la rappresentazione (falsa) di sogno… che è vita (A erva do rato, 2008).

Innocente è la coscienza della finzione che trasforma appena il reale in vaghezza, la parola in immagine, la Storia in rappresentazione; come scrive Lorenzo Esposito, il suo cinema «vede la parola intraprendere un percorso inedito, che non si limita a mettere in circolo temi e poetiche, ma li trasvaluta in un gettito letterario che unisce allo studio certosino una prosa vertiginosa fatta di intensità, lampi e folgorazioni».



23 Gennaio ore 20.30 presso il Cineporto di Bari c/o Fiera del Levante, Lungomare Starita, 1: INCONTRO CON JULIO BRESSANE.
Intervengono, insieme al regista, Lorenzo Esposito (Fuori orario. Cose (mai) viste, Rai 3, “Filmcritica”) e Roberto Turigliatto (Fuori orario. Cose (mai) viste, Rai 3).
A seguire proiezione di EDUCAÇÃO SENTIMENTAL (2013) (v.o. sott. ita.)


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Programma

Matteo Marelli

Goffredo Fofi scrive che «i registi di cui si può dire che i loro film, nella storia del cinema italiano, non somigliavano a nessuno dei precedenti sono molto pochi. Forse solo Rossellini, Fellini, e Pasolini hanno avuto il dono dell’invenzione e della diversità – della novità». Franco Maresco, prima in coppia con Daniele Ciprì, è oggi, tra i pochissimi in Italia, capace di un gesto registico inconsulto, e probabilmente il solo in grado, nonostante le durezze ideologiche e la diversità rivendicata, di imprimerlo, in modo indiscusso, nell’immaginario spettatoriale.

In principio è stato il catastrofico abisso di anime in pena trovate e inventate da Cinico Tv: flatulenza tellurica eruttata dalle macerie di una realtà postuma, detritica; diffusasi prima localmente, da un’emittente televisiva palermitana, e in seguito su scala nazionale, con Fuori orario e poi Blob. Quei quadri di macerie e nuvole, violentemente e stupendamente figuartivizzati per mezzo d’una potenza fordiana e vertoviana dell'inquadratura, chiusi in cornici di rigore beckettiano, abitati da una malacarne derisoria e selvaggia, d’una comicità, allo stesso tempo, minima e iperbolica, sono quanto di più antitelevisivo la Tv italiana abbia mai prodotto. Come sostiene Enrico Ghezzi, quei quadri «sono “il” monumento del territorio-palermo, la rete che ne resta, la topografia folle lucida della città. Città automaticamente già “post”, rovina (di senso)».

Cinico Tv è diventato poi cinico-cinema. Cinema anarchico. La wilderness post-urbana degli esordi («Mi piacerebbe che un giorno fossimo ricordati come i cantori dell’Oreto, cioè di quella che oggi è poco meno di una discarica infestata dai topi, […]. Bacchelli è stato il poeta del Po, Ciprì e Maresco, nel loro piccolo, i poeti dell’Oreto. Ciascuno ha i fiumi che si merita…») è ancora sfondo dei primi lungometraggi cinematografici (Lo zio di Brooklyn; Totò che visse due volte).
Poi questa radicalità figurativa nel ritrarre il paesaggio si attenua; conta, forse, anche il confronto con il documentario (Enzo, domani a Palermo!; Noi e il Duca - Quando Duke Ellington suonò a Palermo; Miles Gloriosus). La deriva detritica non è più Dopostoria, o Nuova Preistoria, ma prossima, confusa con lo spazio urbano, come accade ne Il ritorno di Cagliostro, in Io sono Tony Scott, ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz fino a Belluscone. Una storia siciliana, presentato, nella sezione Orizzonti, alla 71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Tre opere che Maresco considera come una sorta di trilogia. Capitoli che celebrano la scomparsa dei mostri rabelesiani di Cinico Tv fatti fuori dalle schiere di accoliti di onnipotenti e inquietanti burattinai.

Si sta a Belluscone come di fronte agli enigmi wellesiani, anche qui la struttura a “inchiesta” è riflesso di un film in fieri e in continua evoluzione. Un allucinatorio gioco di specchi che apre una lacerazione tra le immagini duplicate. Il film, strutturandosi come una vertiginosa costruzione di rappresentazioni simulate, sistematicamente sconfessate, di eventi che restano sempre da immaginare, dichiara l’impossibilità di istituire un livello incontrovertibile di verità.
Ma la verità per Maresco, così come per Welles (stando a quanto scritto da Ferrero a riguardo di F for Fake), «è degli altri, che la tengono e vi si tengono stretti; ma la menzogna, al solito, ne rovescia l'arroganza in inesistenza, ne schernisce la pretesa di supremazia».



20 Febbraio ore 20.30 presso il Cineporto di Bari c/o Fiera del Levante, Lungomare Starita, 1: INCONTRO CON FRANCO MARESCO.
Interviene, insieme al regista, Bruno Roberti (“Fata Morgana”, “Filmcritica”, Università della Calabria).
A seguire proiezione di BELLUSCONE. UNA STORIA SICILIANA (2014).


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Programma

Leonardo Gregorio

Considera il suo universo di immagini, di personaggi, di parole, figlio un po’ dell’amato realismo poetico francese – quello di Jean Renoir, in particolare  –  e della Nouvelle Vague. Al contempo, però, definisce «irriproducibile» il suo cinema. E non sbaglia. È uno straordinario regista fuori dagli schermi, Paul Vecchiali. Certamente fuori da quelli italiani: da noi solo pochissimi titoli della sua produzione sono riusciti a trovare piccoli spazi di esistenza nei circuiti irrigiditi della distribuzione. Nato ad Ajaccio nel 1930, già insegnante e aiuto regista,  Vecchiali esordisce dietro la macchina da presa nel 61’ con Le petits drames. È, invece, il 1974 quando durante la Mostra del Cinema di Venezia, in sua presenza, Pasolini afferma: «Sono ancora commosso, sconvolto, faccio fatica a parlare perché, confesso, mi è successo raramente di vedere in questi ultimi anni un film così bello e così commovente». Si riferiva a Femmes, femmes, Pasolini, film che omaggerà anche in Salò o le 120 giornate di Sodoma.

C’erano già stati Les Ruses du diable e L’etrangleur, dopo sarebbero arrivati altri pezzi di un cinema radicale, potente, freddo e bruciante insieme: fra gli altri, La machine, Corps à coeur, Trous de mémoire, Rosa la rose, fille publique, Encore – Once more, Zone franche, À vot’ bon coeur, Les gens d’en-bas. Un cinema – osserva Edoardo Bruno – «come un’entrata in uno spazio chiuso, nella claustrofobia in un’esasperata frontiera del dentro e, al tempo stesso, nella intimità, aperta alle improvvise amicizie, agli incontri, ai contatti. Una filosofia dell’esperienza che costringe a rivisitare il privato». Un cinema che del melodramma, tra la finzione e la vita, ha fatto il suo mondo, e del tragico, del noir, del fantastico, del comico, del teatro, del sogno e dell’eros le sue declinazioni, le sue (im)possibilità.

Un cinema  che continua a sorprendere: come dimostrano i recenti La cérémonie, cortometraggio, e Faux accords,  titolo che – spiega il regista – «gioca con i falsi accordi e falsi raccordi», uno scivolare su più livelli: fra le parole, fra i corpi dei personaggi e gli spazi, fra l’assenza e la presenza, fra la verità e la bugia. Fra la vita e la morte. E l’immaginazione. Fino al suo ultimo Nuits blanches sur la jetée, per Uzak il film più bello visto al Festival di Locarno 2014, che è prima di tutto, racconta ancora Vecchiali, un ritratto di Dostoevskij, a partire dal nome del protagonista interpretato da Pascal Cervo: Fëdor. E, forse, il cinema, lo si può sognare, vivere, ancora.



27 Febbraio ore 20.30 presso il Cineporto di Bari c/o Fiera del Levante, Lungomare Starita, 1: INCONTRO CON PAUL VECCHIALI.
Interviene, insieme al regista, Andrea Pastor (“Filmcritica”).
A seguire proiezione di NUITS BLANCHES SUR LA JETÉE (2014) (v.o. sott. ita.).


Regista successivo

Programma

Speciale Registi fuori dagli scheRmi IV

Luigi Abiusi

altOgni anno, la rassegna di cinema “Registi fuori dagli sche(r)mi”, frutto innanzitutto di un progetto librario che speriamo di incrementare con altri volumi, è occasione per un approfondimento dialettico su registi che, in modo diverso uno dall'altro, tendono a immaginare, e non descrivere, una fenomenologia del mondo.


altLe affinità elettive tra il cinema di Júlio Bressane e «Uzak» sono già tutte in quella passione terminologica o vocazione a “tradurre” e dare forma alla distanza: uzak è un dis-limite, raccoglie e attraversa mondi “fuori dagli schermi” per metterli in circolo, ribaltando l’evidenza e lasciando spazio all’invisibile che sussiste. Il prefisso des-, come specifica lo stesso Bressane, «indica distanza, un passaggio di confine, ciò che resta fuori dal limite».
Con radicale coerenza, la quarta edizione della rassegna “Registi fuori dagli sche(r)mi”, a cura di Luigi Abiusi in collaborazione con l’Apulia Film Commission e «Uzak», non poteva che cominciare con la visione in prima nazionale di Educação Sentimental.
Abbiamo avuto il piacere di discutere con Bressane di immagini e di vita. A lui e a Rosa Diaz, preziosa compagna, va la nostra infinita riconoscenza.

Michele Sardone

altAbel Ferrara non s’incontra, si può solo tentare di intercettarlo. Ha la posa del gangster, circondato com’è da sodali, factotum, ragazze eteree. La hall dell’albergo, dove è fissata l’intervista in occasione di “Registi fuori dagli sche(r)mi”, è in loro possesso: gli uomini della gang sui canapè, a confabulare sul prossimo film come se stessero progettando un colpo, le donne sullo sfondo, una intenta ad estorcere note a un pianoforte (e lo farà per tutta la durata dell’intervista), l’altra alle sue spalle a mugolare un motivetto affine e fuori tempo. Quale a questo punto il ruolo dell’intervistatore? Detective, infiltrato, pollo da spennare? Forse è meglio non chiederselo. Non resta altro che accendere il registratore e poi si cercherà di ricostruire il flusso di parole, immagini, pensieri.

Gianfranco Costantiello, Vanna Carlucci

altIl tuo film è tutto giocato sull’opacità dell’immagine, sui riflessi della luce nella macchina da presa, sulla luce intermittente delle candele che restituisce l’ombra tremula dei personaggi, un’ombra prossima a mutare, a scomparire. Ci puoi dire qualcosa intorno alla costruzione di questo spazio filmico misterioso, vago ed evanescente?

Michele Sardone


altVedendo i suoi lavori, di Franco Maresco si conosce in prima istanza la voce, una voce che è immancabilmente fuori campo, proveniente cioè dal limitare della scena, da una posizione il cui confine è sempre difficile definire perché è essa stessa il confine di quel che si vede. Sfruttando questo suo essere al limite, al tempo stesso dentro e fuori da ciò che accade, si ha una visione privilegiata delle cose, che si mostrano per quello che sono. Abbiamo potuto incontrare Maresco e ascoltare la sua voce durante l’ultima edizione di Registi fuori dagli sche(r)mi, dove ha presentato il suo Belluscone, ricognizione con cui cerca di capire l’Italia attraverso la Sicilia (ed è Maresco stesso a citare prima il Goethe del Viaggio in Italia, «non si può capire l’Italia senza capire la Sicilia» e poi Sciascia, quando diceva che «la linea della palma stava avanzando, ovvero che l’Italia si stava sicilianizzando»). «Fare cinema è un atto di fede» ci dice, «ma durante la lavorazione di Belluscone ho avuto diverse occasioni per perdere quella fede».

Gianfranco Costantiello, Nicola Curzio

altLa scorsa settimana abbiamo visto nel corso di questa rassegna Nuits blanches sur la jetée di Paul Vecchiali. Il film si apre con una citazione di André Gide: «Obscurité, tu seras dorénavant pour moi la lumière». Questa frase potrebbe essere un’ottima chiave di lettura anche per il tuo film, tutto avvolto nel buio. Qual è il ruolo dell’oscurità ne L’âge atomique?

Registi fuori dagli scheRmi V


Are We Not Cats si estende in uno spazio cinematografico segnato dal freddo, l'inverno pieno di neve, di fango in cui si muove, è costretto a farlo, Eliezer (Michael Patrick Nicholson) mentre le cose intorno suonano il loro ruvido, romantico blues, tra True Love Don't Grow On Trees di Helene Smith, I Got a Thing, You Got a Thing, Everybody got a Thing dei Funkadelic, e l'Yvonne Air di Straighten Up. È un percorso figurale, a tratti addirittura pittorico, all'insegna della ruvidità appunto, la pesantezza; che si snoda dentro le pieghe di una crisi, che è poi quella di un'intera generazione, o di quel che ne resta, colta a brancolare, a danzare e a pogare in uno scantinato al ritmo di noise-rock; e va verso un cambiamento inatteso, una vera e propria mutazione, proprio dello scenario, che si ammorbiderà, smusserà e avrà colori fosforici. Allora in qualche modo post-cronenberghiano questo film scritto e diretto da Xander Robin, che a un tratto comincia a maturare pustole sul corpo e a perdere la sua pelle, il suo strato di ironia sogghignante (ad esempio la figura beffarda, lynchiana del padre che sillaba in faccia al figlio lo sfratto imminente mentre ghigna) nel momento in cui Eliezer si ritrova senza fidanzata, senza lavoro e senza casa e prende a strapparsi peli dalla barba, a mangiarli e a vedersi arrossare le pustole sulla schiena. L'occasione del film è allora di tipo psicologico, comportamentale, relazionale: la relazione nervosa con il proprio corpo, prima ancora che con un altro; con la coscienza, anzi l'istinto, della propria inconsunta materialità che ora reagisce all'atmosfera ispida, ostile.

Si tratta della somatizzazione della crisi, nata e poi mostrata in ambiente naturalistico, esistenziale, mentre intorno è come se l'inverno porti tutto allo sfascio e lo sguarnisca, lo guasti, lo ammacchi: una nevrosi che si svolge attraverso il piacere malsano dei tic, del gesto atto alla pulizia del proprio corpo, alla rimozione di pelli morte, la masticazione e ingestione di peli e capelli. Ed è da qui che la storia si evolve in horror, per congestione di capelli nello stomaco, estrazione di un corpo estraneo; e in film d'amore quando il vagare di Eliezer lo porta verso Anya (Chelsea LJ Lopez), altra randagia affetta dalla sua stessa nevrosi, dalla sua stessa solitudine, che li porta ad annusarsi, a scrutarsi con diffidenza eppure riconoscendosi, come gatti randagi ingordi di pelo.

Questo è l'ingresso in una zona ovattata, nido di gatta ingombro di oggetti stravaganti e coloratissimi come giocattoli a corda: un organo a lampadine colorate; un vecchio giradischi collegato a un aggeggio a catena; luci stroboscopiche nella loro versione infantile, fantastica, che iniziano a girare nella stanza colorando il film di blu, di viola accesi, mentre suona Why Can't We Love Together di Timmy Thomas; la tappezzeria lisa, di raso antico, arabescata su fondo oro di una poltrona; una moltitudine di immagini, fogli, fotografie alle pareti e per terra; tazze e oggetti d'arte, marchingegni a ingranaggio, dischi sulle mensole. Una confusione di cose trafugate da chissà dove dalla gatta randagia, sparse per tutto il loft, che sembra la stessa dello Jarmusch di Only Lovers Left Alive, e fa di Are We Not Cats uno di questi oggetti d'arte, caleidoscopici, il più ricco, adorno di una colonna sonora straripante che va dal blues al funky, allo shoegaze, fino al free jazz spirituale di Albert Ayler; pieno di tinte pastose, che alla fine sfavillano mentre i due giovani si ritrovano in questo paesaggio dell'accumulo, e ancora davanti alla tentazione, al desiderio dei peli, del groviglio, di cui uno, il più orrendo, incastonato di pietre smerigliate e appeso al soffitto, ora fa parte di un'installazione. E i due protagonisti a completare il quadro: esseri estremi ma inoffensivi, indifesi, corpi snelli, sinuosi, parrucche fucsia, teste spelacchiate, bocche blu, che si stagliano sullo sfondo del bazar multicolore, ricettacolo di gatto.

(Scheda tratta dal catalogo della Settimana Internazionale della Critica - Mostra di Venezia)



La proiezione del film Are We Not Cats si terrà giovedì 17 novembre alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1).

Saranno presenti in sala il regista Xander Robin e il critico cinematografico Beatrice Fiorentino. Introdurrà Luigi Abiusi.

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altDi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti colpisce subito la capacità di tener lontano i pregiudizi: pur consapevoli che un’inquadratura è il riflesso di quel che si vede dal proprio punto di vista, ovvero da una scelta di posizione autoriale a priori che è anche scelta etica, i due filmmaker riescono a resistere alla tentazione di fare dei loro documentari delle lezioni da impartire, di rivolgersi cioè a un immaginario pubblico passivo da guardare dall’alto in basso. Rovesciando i rapporti di forza (che, lo ribadiamo, sono rapporti di visione), D’Anolfi e Parenti sembrano idealmente mettersi a fianco del loro spettatore, per meglio mostrargli quel che hanno visto, e cercare di goderne insieme.

L’esperienza è centrale nel loro lavoro: ricercano, si documentano, girano, vedono: da tutto questo cercano di trarne appunto esperienza, per poi rimetterla in discussione con nuove ricerche, nuovi viaggi e nuove visioni e infine tramettere quel che hanno esperito. Spira Mirabilis (insieme al suo “pre-spin-off”, se così si potrebbe temerariamente definire, L’infinita fabbrica del Duomo) può essere vista come una ridiscussione e una ridefinizione del lavoro fatto con i documentari precedenti – e una messa in discussione, pure, del concetto stesso di documentario. Già in Materia Oscura si poteva avvertire una certa inquietudine, come se le difficoltà di D’Anolfi e Parenti fossero più che altro legate alla forma stessa da dare al film, all’imperscrutabilità delle immagini che rinvenivano, alla loro irriducibilità a farsi documento leggibile e interpretabile in maniera unica e definitiva, come se ad essere oscura fosse quindi proprio la materia di cui è fatto il cinema.

Assistiamo allora a una sorta di cinema discente, che impara a farsi, a distruggersi e a rifarsi indefinitamente, a imparare da se stesso e da quel che vede. Necessari sono occhi curiosi e orecchie attente, è imprescindibile liberarsi da qualsiasi pregiudizio, indispensabile cercare di accogliere quanto più possibile immagini e suoni. Come mappa per orientarci, le divisioni delle cose in elementi (acqua, fuoco, terra aria, etere); a disorientarci, le connessioni inattese di cosa in cosa che sottendono la struttura fluttuante del film. La linea retta della storia, con origine svolgimento e fine, la lasceremo a chi la storia la scrive e se ne crede il protagonista (l'archetipo dell'uomo occidentale "senza occhi e senza orecchie", colui che impone la sua visione e la sua parola presumendole universali); a noi, invece, qui si offre la possibilità di vedere e sentire la spira mirabile di un racconto che non vuole chiudersi, di un mito ancora presente, di una ricerca incessante e votata a fallire il raggiungimento immediato del suo scopo – eppure, l’unica cosa degna di essere tramandata.



La proiezione del film Spira Mirabilis si terrà giovedì 27 ottobre alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1).

Saranno presenti in sala i registi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti e il critico cinematografico Michele Sardone. Introdurrà Luigi Abiusi.

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Irene Dionisio, classe 1989, allieva di registi diversissimi fra loro come Daniele Segre, Alina Marazzi e Marco Bellocchio, vanta, nonostante la giovanissima età, un'intensa attività documentaristica. Parte integrante di quella nuova onda del cinema del reale che da quasi due decenni a questa parte ha riscritto una buona parte del cinema italiano, ha saputo e voluto e affrontare il passo verso la cosiddetta finzione con grande determinazione e precisione. Formatasi ascoltando e captando il vocìo di una realtà post-industriale come quella di Torino, Irene Dionisio ha saputo coglierne contraddizioni e complessità tentando contemporaneamente di trovare modulazioni di sguardo in grado di cogliere anche cinematograficamente il suo desiderio di raccontare il mondo che la circonda.
Il cinema della Dionisio, infatti, segna uno stacco netto rispetto al cosiddetto cinema dell'impegno delle generazioni precedenti.

Pur animato da una fortissima spinta etica, quello della Dionisio è un cinema non dogmatico. Priva degli automatismi ideologici di quanti approcciano il reale e il cinema con soluzioni preconcette, la Dionisio ha saputo accogliere nel suo cinema le ambiguità e le complessità di un mondo nel quale i rapporti fra forza-lavoro e trasformazioni sociali si sono manifestati con forza devastante, tentando di concentrare il suo sguardo sulle modalità con le quali i fenomeni si danno, piuttosto che tentare di ingabbiarli in sguardi e letture date.
Ed è proprio questo sguardo, teso fra stupore e precisione, racconto e  documentazione, a fare la novità del cinema di Irene Dionisio.
Un cinema che se da un lato dichiara fieramente la propria vocazione documentaria, dall’altro non teme di confrontarsi con la grande commedia umana della lezione del neorealismo.
Un cinema, ancora, che pur consapevole di tutto quanto lo precede, dichiara con grande coraggio il proprio desiderio di essere altro.
Ed è in questa discontinuità che il cinema di Irene Dionisio riesce a darsi contemporaneamente sia come prosecuzione del grande discorso del cinema italiano che come sua potente messa in crisi.

Le ultime cose, esordio nel lungometraggio di finzione della Dionisio, nel suo schema narrativo a mosaico, immagine speculare della frammentazione di qualsiasi ipotesi di unità della ricchezza del paese e di quella che una volta era la classe operaia, all’ombra di un banco dei pegni, monolite del neocapitalismo, mette in scena un mondo lontano dai racconti ufficiali.
E per farlo tenta anche, con notevole determinazione, di pensare i nuovi rapporti che inevitabilmente si producono fra immagine e corpi e racconto.
Nell’orizzonte di un racconto trasparente, la Dionisio tenta, con successo, di insertare elementi di discontinuità rispetto alla tradizionale linearità di sceneggiatura, rifiutandosi di allacciare tracce narrative, scegliendo la sospensione come segno di un conflitto duraturo e insolubile.
Le ultime cose, dunque, si offre come un’ipotesi credibile e accettabile di “nuovo” cinema italiano.
Un film in grado di porsi in paradossale continuità discontinua con la tradizione del racconto sociale italiano, accogliendo dal cinema del reale quelle aperture e frammentazioni inevitabili per ipotizzare la possibilità di uno sguardo più attento e credibile.



 

Le proiezioni del film Le ultime cose si terranno giovedì 20 ottobre alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1) e venerdì 21 ottobre alle ore 20:30 presso il Cineporto di Foggia (Via San Severo, km 2,0).

Saranno presenti ad entrambi gli incontri la regista Irene Dioniso e i critici cinematografici Giona A. Nazzaro e Anton Giulio Mancino. Introdurrà Luigi Abiusi.

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Luigi Abiusi, Vanna Carlucci

altQuando nel 1982 Il pianeta azzurro arrivò a Venezia, l'impressione fu di una festosa riesumazione di un piccolo mondo antico che così tornava ad azzurreggiare, luce negli occhi, cime dei monti, nel mezzo della società dello spettacolo. Che era stata anche la rabbiosa denuncia di Pasolini e il conseguente tentativo di recuperare frammenti della Casarsa incantata della sua giovinezza, i ragazzi da abbracciare, baciare maliziosamente nei prati. Ora con Piavoli questo mondo sfolgorava ingenuamente e nella sua fragilità (senza quell'alone di tragico che traspariva anche dal Pasolini più gioioso), come ripreso da un bambino in estasi per i campi assolati, l'ondata di grano e nuvole, i corpi, i sessi, che si scoprivano nei covi delle spighe. Tanto che il film è rimasto vivo nello sguardo e sullo schermo, proiettato di seguito a Roma per non si sa quanto, nel cinema “Azzurro Scipioni” di Silvano Agosti: questo narra la leggenda legata al primo Piavoli, la storia di un film di puro incanto, reiterato nella piena, nella calca urbana. Di lì poi il mito, il viaggio di Nostos - Il ritorno (1989), e ancora il capolavoro di Voci nel tempo nel 1996, che arrivava con un candore stupefacente ad accordare il “Canone e giga” di Pachelbel, uno degli enigmi e dei miracoli più grandi della storia della musica, con l'infinito come domestico (la malinconia legata al “nido”) di un inverno, un lago ghiacciato su cui i monelli ruzzolano, la passeggiata di un vecchio e del suo piccolo nipote che si fermano all'orizzonte a guardare il tramonto di Pachelbel, quell'arancio così flagrante che sembra uscito dal Ballo a Fontanigorda. Fino al Primo soffio di vento (2002), più onirico, interiore: quello spavento di concepire la solitudine e forse anche la morte negli interni delle immagini. Eppure dopo quattordici anni è ancora festa e la vita s'incarna nelle forme estatiche, piene nel vestito, della bellezza.

Il suono di una campana trema nel trascolorare del giorno, il suono come una nenia che si apre a un mondo sepolto e lo rievoca.Â È una voce nel tempo, una musica che si espande, Festa di Franco Piavoli: risveglia ombre che sfiorano le pareti e si toccano con un bacio nell’aria: è un tempo ritrovato, funambolo dentro il gioco della danza, di quel movimento libero tra le pieghe della pelle e degli sguardi lucidi, tutto concentrato tra l’immobilità della morte e la leggerezza della vita.
Festa è un nido pascoliano, probabilmente un ritorno a casa, un ritorno dentro immagini mancanti alla memoria che giostrano con i nostri ricordi, piccoli frammenti di un sentimento lontano, mitico e l’impossibilità di afferrarne tutto il senso. Il cinema di Piavoli è una continua invocazione, una corrispondenza tra ciò  che è sacro e ciò che è profano dirigendo col suo sguardo il filo rosso che congiunge l’uomo alla natura, a un sentimento che ci lega a tutte le cose: non una narrazione ma una composizione, un montaggio come una sinfonia che ridà vita al tempo, all’immagine, il montaggio come «la resurrezione di qualcosa che è passato» direbbe Godard.
Questo passato è Festa: una sagra che è un teatro, un circo di uomini ripresi nella loro antica posa animale; e poi c’è il ballo che unisce, la preghiera che mantiene viva un colloquio ancestrale con Dio, c’è il gioco di sguardi, di voli su una giostra con le mani tese ad acchiappare l’aria, e il senso di solitudine che è lo sguardo lunare e finale, voce di tenebra azzurra (Pascoli) con ciò che permane nei secoli e che non vediamo.




La proiezione del film Festa si terrà giovedì 13 ottobre alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1).

Saranno presenti in sala il regista Franco Piavoli e i critici cinematografici Cecilia Ermini e Simone Emiliani. Introdurrà Luigi Abiusi.

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Vanna Carlucci

«La lunga notte piena degli inganni delle varie immagini.»
(Canti Orfici, Dino Campana)

L’immagine è un’ombra, spettro che si muove, latente nella luce diafana, errante nel suo imporre una comparsa e, l’istante dopo, una scomparsa, sospesa nel formicolio incessante della sua apparizione ma, «quanto bisogna affondare nella notte per farne emergere, consorgere, l’auroralità?» (Roberti 2012, p. 53). È dentro questa dialettica del cinema come visione fantasmatica che brulicano – in A Girl Walks Home Alone at Night – figure tenebrose, sopravvissute oltre la vita; ed è la notte lo sfondo o lo schermo dentro la quale appare una donna vampiro, creatura estrema e volto lunare nei pelaghi del cielo nero. Sola e silenziosa vaga nel panorama scheletrito sfatto e apocalittico, nel movimento incessante di trivelle che suggono petrolio, suzione che fa il verso a quella vampiresca del morso. Come un angelo, come il giustiziere della notte lei vola sul ciglio della strada, sempre ai bordi, sempre al limite della vita e della morte e sempre al confine tra due mondi: quello iraniano (il suo mantello che è una hijab cita spettri del cinema passati e ancora riviventi) e quello americano (il film è stato girato in California).

È dentro questo mondo ricostruito e artefatto e quindi immaginato e immaginario che vivono uomini vaganti come spettri, zombie li chiamerebbe Jarmusch, divorati e affetti, cioè soggetti a una patologia senza rimedio. È nella mancanza che nasce la malattia, questo smottamento improvviso scandito da un continuo cambio di fuoco, presentimento della notte in cui gli uomini sembrano agitarsi e vivere avvinghiati nelle loro ossessioni, dentro la faglia di un’ombra che è quella vampiresca.

Ma cos’è l’ombra? Anima informe che vuole darsi a vedere facendosi corpo vivo nel sangue di qualcun altro ma il sangue è già malato, è affetto; e allora nell’affollamento e affondamento di questo mondo tutti diventano spettri, divorati e divoranti, perché in ogni caso «[…] niente è vero tutto è possibile [...] chiunque è un vampiro, chiunque è un sopravvissuto» (Esposito 2013, p. 254). Inevitabilmente ci tocca di pensare a quegli amanti sopravvissuti nel film di Jarmusch, sempre sospesi, liquidi nel paesaggio sonoro delle chitarre, dei vinili e dei libri, a definire una geografia di luoghi, tempi e comparse che provano a colmare con la loro presenza il deteriorarsi del contemporaneo così come qui gli amanti si riconoscono anime sensibili nel giro vorticoso di un vinile. Si tratta dello stesso vortice che investiva i corpi nella magnifica sequenza iniziale di Only Lovers Left Alive: in entrambi i casi la musica si espande e apre lo spazio, avvicina i corpi degli amanti, li spossessa tanto da invertire i ruoli annullando le distanze fisiche e temporali, e quello che si sente non è il morso ma solo il battito eterno, l’eco di una vicinanza che per un attimo rintocca il fantasma che si rimaterializza rendendosi vivo e possibile all’altro.

L’incarnazione dell’immagine è questo incontro febbrile e d’amore in cui il rincorrersi fa parte del gioco, tra luci e ombre che trovano la loro aderenza sempre perché la distanza non è vera, non è mai distanza anzi, piuttosto non esiste e si è fedeli a quell’attimo che sorvola il giorno e vive di notte, oltrepassa il tempo e strappa la vita e la morte, dentro quel paesaggio perduto e di sogno, lo stesso che avvolgeva Rainer e Victor in un altro illuminante film come L’Age Atomique dove la musica creava “una terza immagine” o dimensione (in)corporea, che è questo abisso o abbraccio pieno di riverberi in cui il corpo del fantasma – che è il cinema – finalmente riappare. È sempre la stessa storia (storie di vampiri, di ombre, storie di cinema) ma pur sempre diversa: la fine non esiste, dicono…


Bibliografia

Roberti B. (2012): Cinema Alchimia Uno, Caratteri Mobili, Bari.

Esposito L. (2014): Solo gli amanti sopravvivono, in “Filmcritica”, n. 635/636.




La proiezione del film A girl walks home alone at night si terrà martedì 7 giugno alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1). 

Saranno presenti in sala la regista Ana Lily Amirpour e i critici cinematografici enrico ghezzi e Gemma Bianca Adesso. Introdurrà Luigi Abiusi.

[enrico ghezzi introdurrà nei Cineporti di Puglia, nei giorni precedenti all'incontro, Corpi deGeneri, una retrospettiva sul genere (sui generis) horror, propedeutica al morso.]

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enrico ghezzi

altNon è una figura rara quella del cineasta con la benda sull’occhio, parallela a quella del soldato – regolare o di ventura – che l’occhio l’ha perso in battaglia. Più raro è un cinema che rappresenti la forza paurosa dell’unico occhio di Dio, l’occhio al cui interno non vi sono differenze se non tra gli oggetti ripresi, il cinema. Nell’horror la figura di Dio creatore o normalizzatore (e quindi creatore di mostri...) è frequente, ma sempre (vedi Fisher) in una dialettica tra natura e cultura, tra scienza e corpo, tra natura e sopra-natura. Nel Circo degli orrori (che pure in certo senso ripropone il tipo dello scienziato pazzo) ogni dialettica è abolita, è un unico occhio (quello del grande “chirurgo”) che vede con piacere il “male”, lo “sfigurato”, l’orribile, e che poi (tramite operazioni significativamente quasi del tutto fuoricampo, in un film eroticamente ben più “audace” rispetto ad altri film del periodo) reintegra il corpo, lo appiana, lo normalizza, lo possiede.

Dio si manifesta nel mondo per venire insieme a guardare sadicamente le ferite che vi sono aperte (così la bimba che verrà operata subito all’arrivo in Francia ha il volto devastato da un’esplosione di guerra), e a rimarginarle, a suturare tutto con il gesto risanatore che riproduce un corpo da vedere. I rapporti dei due aiutanti con il chirurgo indicano che non si tratta di un semplice superuomo nietzscheano o di un Unico stirneriano, ma di un Maestro cui restano legati loro malgrado, un Dio sempre oscillante tra il benevolo e il vendicativo e col quale ci deve essere stato un Patto millenario dopo esserne stati creati. E il patto è continuamente risuggellato dallo sguardo di Anton Diffring, che si distingue per occhi penetranti e “cattivi”, freddi e allucinatori.

Sguardo che risana e uccide (non sono i suoi occhi a imporre all’aiutante di eseguire materialmente i crimini all’interno del circo?). un Dio voyeur, che si ferma a veder dilaniare un uomo da un animale. Ma anche un Dio hitleriano che dall’Inghilterra (!) comincia a percorrere l’Europa per costruire col circo una società di bellezza e ardimenti, dalla quale nessuno deve né può uscire se non morto. Il circo inferno paradiso mondo, popolato dai volti più mostruosi, potenzialmente osceni proprio perché ora “risanati”, ritagliati ricuciti suturati. Si vede bene che la minaccia incombente su ciò è un nuovo smascheramento, un nuovo intervento sulla pelle, sulla carne, questa volta distruttore; le belve che sfregiano il Maestro e l’ultima bellezza forgiata da lui, lo obbligano a sottoporsi a un nuovo auto-intervento eseguito dagli aiutanti: ma essi, già rivoltatisi, gli strappano i bendaggi, lo sfigurano per sempre, guardano il volto orrendo del basilisco. E la Sua morte arriva puntuale per mano della sua stessa pecca originaria, il primo volto non suturato, l’errore che viene ad uccidere l’autore ora ridotto alle stesse condizioni: i due volti di medusa si incontrano alfine. La struttura del poliziesco si dimostra fallace, in quest’horror tutto “spiegato”. L’horror, già nel titolo, diventa oggetto di se stesso, nel film che più lucidamente lo separa dal “fantastique”.

Il cinema non è innocente, lo spettacolo è sempre di mostri anche quando è spettacolo di bellezza e di armonia (perché il mostro è il cinema); un occhio si è chiuso per sempre, inghiottito dall’Altro che può darsi Scandalo e assorbire lo scandalo. Nel rifiuto rigoroso di trucchi eclatanti o di esplosioni visive, Il circo degli orrori ripete la sottintesa etica puritana dell’horror; c’è p. es. – dentro all’inquadratura – più sesso che in altri film del “genere” (e dell’epoca-primissimi anni Sessanta), ma nulla anima mai la secchezza della regia, neanche la disinvoltura diegetica un po’ folle del récit. Fuor d’ogni umanismo, si riguadagna la secchezza dei grandi Hollywood (Ford Hawks Mann Boetticher), per cui ogni follia può dipanarsi e avvenire entro i margini dell’occhio sovrano che – macchina – non corre neppure il rischio d’essere più strappato – o il suo volto dilaniato (anche se l’occhio di Walsh offeso dal puma..).

Il sangue del vampiro si allaccia invece al sottogenere indicato nel titolo, e ne ripete i colori e l’economia registica inglese del periodo. Ma si dice che Henry Cass (l’autore) sia poi impazzito di follia ultracattolica, tentando anche di bruciare i propri film. Non ci si stupirà, se si pensa che Il sangue del vampiro è l’unico film rigorosamente ateo tra i tanti dedicati al tema. Il quadro tipico e tradizionale anche sul piano figurativo aiuta a riconoscere i mutamenti. Il vampiro e signore del castello non è un vampiro, ha bisogno di sangue per una malattia provocatogli dal fatto che – creduto vampiro – era stato come tale giustiziato.

È quindi in realtà uno scienziato, e il suo contraltare – la scienza del giovane medico – è più impotente di lui, destinato a soccombere infatti se proprio il servo orrido e maligno ma innamorato non si ribellasse al Padrone (fatto inaudito!..). solo un insieme di “casi” permetterà la soluzione “positiva” dell’intrigo, non c’è conflitto se non tra situazioni e individui. Non c’è separazione assoluta tra il Castello e la Città civile; il castello è anzi la prigione della città, una sua appendice inestirpabile; tra la Legge (che sbaglia) e lo Scienziato che “trattato” come Vampiro diviene davvero “tecnicamente” tale nonostante la sua Scienza, e lo Scienziato buono, nessuno riesce a imporsi in virtù di un potere suo. Nulla se non la convenzione fa sì che dilaniato dai cani finisca ancora una volta lo scienziato folle invece del protagonista.

La più bella sceneggiatura di Jimmy Sangster, e un film su cui ritornare puntualmente. Da proteggere dall’ira del regista, che si è accorto di aver dato tutto il potere al Cinema, ben al di là delle convenzioni; senza mettere in scena alcun conflitto, senza sacrificare a nessun soggetto che non fosse il solito occhio impassibile e qui assolutamente esterno, senza a concedere a nessuno la sua parte di Dio.

Questo contributo, originariamente pubblicato su «Filmcritica» n° 238, è qui proposto per gentile concessione dalla casa editrice Bompiani (il testo fa parte della raccolta Paura e desiderio. Cose (mai) viste. 1974-2001) © 1995/2016 Rizzoli Libri S.p.A. / Bompiani.

 


Corpi deGeneri
enrico ghezzi a "Registi fuori dagli sche(r)mi"

[propedeutica al morso]

Prima di incontrare Ana Lily Amirpour e vedere A Girl Walks Home Alone at Night, una master class itinerante condotta da enrico ghezzi e Luigi Abiusi nei CINEPORTI di PUGLIA:

30 maggio, dalle 18,30, c/o Cineporto Foggia (Via San Severo, KM 2,00)

31 maggio, dalle 18,30, c/o Cineporto Bari (Lungomare Starita, 1)

1 giugno, dalle 18,30, c/o Cineporto Lecce (Via Vecchia Frigole, 36)

Programma

ore 18.30 / Proiezione del film
Il sangue del vampiro (1958)
di Henry Cass

ore 20.30 / Master class
"egh sui(no)generis - la vita (ri)succhiata: cannucce"
intervengono: enrico ghezzi, Luigi Abiusi

ore 21.30 / Proiezione del film
Burying The Ex (2014)
di Joe Dante

Ingresso libero fino ad esaurimento posti.

Matteo Marelli


alt«Questa è la storia di una giovane vita,
di quelle a venire,
e di tutte quelle che seguiranno.»


Le parole di Miguel Gomes, da poco intervistato in occasione del suo passaggio in Italia per la presentazione di Le mille e una notte (2015), gettano una luce retroattiva sulla cinematografia portoghese, o almeno su quella con la quale ci siamo confrontati (oltre allo stesso Gomes, mi vengono in mente Joaquim Pinto, Rita Azevedo Gomes, João Pedro Rodrigues, e, ovviamente, Manoel de Oliveira). Secondo il regista di Tabu (2012) «il presente che ci avvolge, in realtà, è una temporalità cangiante: accanto ai fatti che stiamo vivendo, qui e ora, riverberano risonanze di memorie passate che il dispositivo filmico riesce a captare». È quindi possibile «filmare l'oggi, l'esistere contingente, cogliendo allo stesso tempo il transito di vite trascorse», così come l'epifania di prossime insorgenze. Diceva, a compimento del proprio discorso, che «del resto i fantasmi sono consustanziali al cinema».
Considerazioni, quelle di Gomes, che ci fanno riflettere su come, al di là delle diverse cifre stilistiche, il cinema portoghese stia esplorando questo spazio aporetico che è contrazione, o contaminazione, di opposte dimensioni temporali, un altrove sospeso tra passato e futuro... passato e presente... futuro anteriore.

E tutto questo ritorna in Cavalo Dinheiro (2014) di Pedro Costa, film che, come O Gebo e a Sombra (2012) di de Oliveira, comincia con l'ombra ed è in fondo un lungo itinerario nelle tenebre. Il lavoro sulle ombre, al centro della ricerca espressiva di Costa fin dal suo primo film (O Sangue, del 1989, girato in un impasto di bianco e nero molto laughtoniano) e radicalizzatosi in Ne change rien (2009) quasi ai limiti dell’astrazione (in una corsa verso la purezza più spinta che si traduce, innanzitutto, in saturazione dei colori), prosegue in quest'ultimo lavoro dove l'immagine prossima a obliarsi in nero, come già ebbe modo di constatare Lorenzo Esposito, si fa «barlume, [...] diffusa luminosità spettrale, ciò che resta del fuoco».
Cavalo Dinheiro è un film di corpi fatti di luce (è la luce che li fa essere nel visibile o li emargina nel buio dell’inesistente), dunque di spettri, condannati, per sempre, ad abitare il lato faticoso della vita («sarà sempre dura. Continueremo a cadere dal terzo piano. Saremo sempre trafitti dai macchinari. Avremo sempre la testa e i polmoni logorati... Continueremo a bruciare. Ad impazzire. A vedere la muffa nelle pareti delle nostre case. Vivremo e moriremo sempre così. Questa è la nostra malattia.»). Dei calchi di luce, delle tracce, delle impronte, che non sono mai simulacri, dei sostituti più o meno adeguati della presenza, ma la quintessenza dell’essere, e che, proprio per questo, conservano (riprendendo delle suggestioni di Alessandro Cappabianca a proposito de L'immagine estrema) «la flagranza del loro esserci, […] lo sconvolgimento del loro apparire».

Cavalo Dinheiro è un film politico, nell'accezione datagli da Jacques Rancière, «perché modifica nello stesso tempo la visibilità dei luoghi della povertà e la posizione della vittima, del lavoratore, dell’immigrato nel paesaggio costituito dal consenso. Il consenso - secondo il filosofo francese - […] definisce [...] degli stereotipi possibili di rappresentazione». E «la politica comincia quando si mette disordine in questo gioco, quando un cineasta va con la sua macchina da presa a trovare ovunque della bellezza nel mondo, anche in un mondo che apparentemente dovrebbe essere visto come un mondo di miseria, di dissoluzione; in modo da costituire una figura eroica, tragica, enigmatica al posto di una figura interamente definita dal suo essere lavoratore, lavoratore immigrato, lavoratore disoccupato, e così via».
E la figura eroica in Cavalo Dinheiro è Ventura, corpo inquieto e per questo minaccioso, scosso senza requie da tremiti nervosi (quell'impatto dirompente, di cui parla Cappapianca, che «un certo tipo di realtà riesce, nonostante tutto, a conservare sullo schermo anche dopo la sua trasformazione in ombra»), comparso per la prima volta, come padre di tutte le anime in pena, in Juventude Em Marcha (2006) e che da allora non ha più lasciato il cinema di Costa. Lui, immigrato capoverdiano, figlio tradito della Rivoluzione dei Garofani, è l'eterno sconfitto della Storia; la sua esistenza è stata fatta a pezzi, proprio come il suo bel cavallo Dinheiro, e ora, con più niente da perdere, rimane a conversare con fantasmi di vite trascorse, incombenze di luoghi ancestrali. Ventura è un monito terrorista, che con la sua sola presenza costringe a rompere il silenzio sulla questione irrisolta della colonizzazione (tema centrale, in tanta parte della nuova cinematografia portoghese, e attualissimo, proprio ora che gli effetti del nuovo colonialismo dei mercati si stanno facendo più evidenti e dolorosi).

Per ritornare al confronto da cui siamo partiti, Cavalo Dinheiro, come O Gebo e a Sombra, è un film fuori dallo spazio, dal tempo: tanto più attento alle dinamiche dell'oggi quanto più si mostra indifferente all’immediato contingente; capace di scavare dentro nodi e contrasti profondi che, intimamente, ci riguardano.



 

La proiezione del film Cavalo Dinheiro si terrà giovedì 28 aprile alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1). La proiezione sarà a ingresso gratuito fino a esaurimento posti e in streaming con i Cineporti di Lecce e Foggia.

Saranno presenti in sala il regista Pedro Costa e i critici Rinaldo Censi e Matteo Marelli. Introdurrà Luigi Abiusi.

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Roberto Silvestri

altZoommate su foto sbiadite e voce fuori campo. Esperti intervistati, cinegiornali di repertorio, raccordi sull’asse. La storia della Dc, lo scontro con De Gasperi. Il mistero dell’abbandono improvviso della politica nel 1958, la nascita della «piccola comunità monastica dell’Annunziata», il ritorno in campo, altrettanto sconvolgente, nella metà degli anni Ottanta, di un monaco-partigiano che difende, tra Craxi e Berlusconi, i principi della Costituzione italiana nata dalla Resistenza e dall’antifascismo popolare.

Un documentario ortodosso su Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione, in stile BBC sarebbe fatto così. Marco Santarelli invece, tra i migliori cineasti italiani della nuova generazione, anche perché frequenta luoghi vivi di cultura come il carcere e le navi container, ha presentato Dustur («Costituzione») al recente festival di Torino, tenendo il suo argomento, questo «contenuto», il dossettismo, piuttosto nascosto, obliquo, lontano da sguardi indiscreti. Lo fa lievitare attraverso procedimenti formali sofisticati (home movies, filone carcerario, commedia scolastica, road movie mistico, reportage poetico anti-nazista ecc.…) e catturando con la telecamera digitale l’ascolto e il rispetto, anche quando non c’è condivisione di idee. Fino a farlo diventare scandalosamente altro. Fino a toccare il nervo scoperto del nostro dibattere di oggi su spiritualità orientale e occidentale, sharia, legge islamica, e jihad, giustizia sociale. Su Islam e democrazia, stato e religione (perché tenerli separati), incontro-scontro tra culture. Sui nostri valori e stili di vita messi in discussione dagli apocalittici dell’ISIS e da altri fondamentalismi integrati. Dante Alighieri e Abu al Baqua al Rundi, stessa lotta. E dunque sul senso da dare, da questa e quella parte del Mediterraneo (non c’è libertà senza saper declinare alla maniera arabo-ebraico-laico-cristiana la parola amore) a Dustur – che significa, in arabo, Costituzione.

Neo-Dustur, «Nuovo partito libero della Costituzione», era la formazione politica che guidò la Tunisia all’indipendenza del 1956 e, con Bourguiba, al laicismo, alla parità di diritti uomo-donna e al socialismo del partito unico, poi degenerato in forme sempre più autoritarie. «Neo-Destur» anche nell’Italia del Partito Della Nazione: le «riforme costituzionali» funzionali alla crescita e alla globalizzazione «sono trent’anni che il paese le aspetta», ripetono come macchinette i renziani: rieditando quei movimenti non sempre limpidi, attorno alla Costituzione repubblicana, che senza «sguardo vasto e rinnovamento etico saranno lettera morta», ammoniva don Dossetti da Monte Veglio.

Nel frattempo il mondo arabo ha conquistato una nuova e più avanzata costituzione grazie alla lotta del «quartetto tunisino per il dialogo e per la pace», che ha vinto il premio Nobel per la Pace 2015: dando un contributo islamico alla democrazia pluralista, non confessionale e che tutela le minoranze, soprattutto «i poveri, gli umili, i piccoli, i senza storia». E fu grazie al populismo progressista, dei dossettiani La Pira e a Mattei, che il dialogo tra Italia e società civile araba ci fu e fu fecondo.

Ma c’è un legame spirituale più profondo e militante che Santarelli sottolinea, scegliendo come protagonista del suo film Ignazio De Francesco, un monaco dossettiano, ex giornalista, oggi studioso di diritto islamico. Già. La separazione dalla politica, l’addio alla politica di Dossetti insomma, non fu contemplativo, ascetico, ma pratica politica dal basso, maggiore pienezza d’impegno nella historia mundi, a cominciare dai carcerati, gli ultimi degli ultimi, come ci racconta Mario Tronti nel capitolo «Uno sguardo sempre vasto» di Dello spirito libero. Unire la doppia eresia, «andalusa, sufi» e dossettiana, contro il falso spiritualismo degli integralismi pseudoreligiosi e pseudo-modernisti. Ecco il punto. «La primavera naturale arriva sempre, ma la primavera storica, se non la vogliamo, non viene». Il terreno comune sul quale si fonda questo film combattente è il concetto di libertà, negativo (dalle insidie del potere) e positivo (per una umana, egualitaria liberazione).

Così, nella biblioteca del carcere Dozza di Bologna, Ignazio chiama insegnanti e volontari per un seminario sulla Costituzione italiana in rapporto a quelle, dopo le primavere «per la libertà e per la democrazia», di Marocco, Tunisia e Egitto. Intervengono gli islamologi Caterina Bori e Paolo Branca, il giurista Bernardino Cocchianella, l’intellettuale marocchino Yassine Lafram, portavoce delle comunità bolognese (lo vediamo spesso in tv a dibattere con i Belpietro di turno), Gianluca Parolin, che insegna diritto al Cairo e, soprattutto, alcuni detenuti musulmani, anche ipnotizzati dall’integralismo («non ce lo voglio un apostata nella mia cella»), ma soprattutto normali, come Samad, Abdessamad Bannaq, ex trafficante di droga che faceva la bella vita tra un viaggio e l’altro, senza dare valore più a niente, né ai soldi né ai sentimenti, ma oggi è più «felice e libero» perché si è riappropriato della sua testa, non ha più droghe di ogni tipo a dominarlo, anche se lavora duramente come operaio a 800 euro al mese, studia sodo giurisprudenza e aspetta da un momento all’altro la «fine pena» e la libertà piena.

Tutti insieme mettono a punto, da dietro le sbarre, la costituzione ideale, dibattendo di democrazia formale e sostanziale, di istruzione come base di tutto, di pace (salam e shalom). E poi di insulti al Profeta, diritto di parola, eguaglianza, tolleranza, colpa e dolo, takfir, cioè incitazione all’odio (che forse le nostre leggi dovrebbe decidersi a meglio prevenire) e di diritto alla scomunica (nell’immaginario musulmano l’apostata è esageratamente malvisto). E soprattutto di proibizione del lavoro minorile e di diritto al lavoro: «Se non c’è, lo stato dovrebbe garantire, secondo la carta, il diritto al reddito di cittadinanza», fa capire Ignazio. Sharia non vuol dire medievalmente tagliare la mano al ladro, secondo la semplificazione wahabita letteralista e ipocrita: un signorotto saudita poligamo che sbevazza e va a puttane a Bangkok, ma non a Ryad, non commette alcun peccato… Maometto è certamente sconvolto da come una minoranza di sedicenti islamici maltratta le donne in suo nome. Intanto i carcerati vanno avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, durante l’ora d’aria. Non basta la Gozzini. Quando le nostre carceri diventeranno almeno spazi liberi dentro le mura e non prigione dentro la prigione? Così sono trattati gli adepti dell’ISIS. Lavaggio di cervello. E si trasformano in bombe umane.

Dopo l’era del mockumentary, il documentario imbroglione che gioca a decostruire i meccanismi autoritari del documentario ortodosso, ecco un esempio riuscito di «cinema della realtà». Che vuol dire intensificare e far vibrare, come nella poesia, tutti i linguaggi che il cinema adopera, e non soltanto il procedimento basic dell’identificazione eroe-spettatore. Il problema è trasformare un film in «cuore sapiente». Esperienza erotica, non didattica.

Questo contributo è già apparso su «Alfabeta2»

 


 

La proiezione del film Dustur si terrà giovedì 4 maggio alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1).

Saranno presenti in sala il regista Marco Santarelli e Roberto Silvestri. Introdurrà Luigi Abiusi.

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Rinaldo Censi

orsoÈ bastata la prima inquadratura (un albero in campo lunghissimo) e poi quell'altra che mostra una collina desolata verde acido contro il cielo un po' grigio, un'inquadratura dai toni cromatici irreali, artificiali, com'è totalmente artificiale questo film bislacco, quasi autistico, per capire che questo “monaco” e quell'altro personaggio in calzamaglia rossa si rincorrono e interagiscono come se si trovassero all'interno di una comica lisergica, improvvisamente sbalzati fuori da una puntata dei Teletubbies. Sono due figure partorite da un sogno d'infanzia, due corpi che grazie a qualche strana manomissione ottica percepiamo bidimensionali, facendo cozzare lo sfondo con la loro sagoma, rendendo evidente all'occhio una semplice verità: la figura a volte si rifiuta di corrispondere a ciò che la avvolge (come se queste sagome arrivassero da chissà dove, planate al suolo grazie a qualche sonno ipnotico), tanto che ci viene da pensare che quel luogo non sia abitabile, che corrisponda solo ad un ambiguo calembour spaziale. Come se lo spazio filmato alla fine risultasse geometricamente instabile, squadernando in bella vista solo una serie di eventi irregolari, mal configurati. Cose oggetti e sagome poste in determinate posizioni: invisibili in campi lunghissimi o vicine, ma sfasate, in modo da creare un disturbo gestaltico. Forse esageriamo: lo sfondo c'è ed è quello dei paesi nordici. Dunque? Semplicemente, appare così appiattito e cromaticamente acceso, dal sapore di plastica profumata, che restiamo lì in attesa dell'interruzione pubblicitaria, pensando di trovarci sintonizzati su una Raiyoyo per adulti, in un programma televisivo quasi nonsense: una Flatlandia digitale ed illusoria, dove la terza dimensione resta quella dello straniero: cioè noi che guardiamo.

Il film si intitola I racconti dell'orso e l'hanno realizzato due ragazzi, Olmo Amato e Samuele Sestieri. Sono loro che indossano i panni delle due sagome, facendomi pensare che siano anche i primi a non prendersi troppo sul serio, e che – piuttosto che Beckett – volessero omaggiare Tinky Winky, Dipsy, Laa-Laa, e Po. In ogni caso, tra “degrado morale”, coppie borghesi in crisi, e film di denuncia, è bello sapere che una simile bizzaria esista.





La proiezione del film I racconti dell'orso si terrà giovedì 17 marzo alle ore 20:30 presso il Cineporto di Foggia. La proiezione sarà a ingresso gratuito fino a esaurimento posti e in streaming con i Cineporti di Lecce e Bari.

Saranno presenti in sala i registi Olmo Amato e Samuele Sestieri e il critico cinematografico Rinaldo Censi. Introdurrà Luigi Abiusi.

Cecilia Ermini

Nel segno di membra implose, di prigioni della carne, si apre lo schermo di Antonia su L'ombre di Rodin ed è subito specchio, epifania, dialogo impossibile fra due anime già rassegnate all'immobilità, alla tragedia. La statua e Antonia Pozzi, fanciulla in fiore colta nelle tormente adolescenziali, nell'apparente semplicità dei suoi sedici anni: famiglia, risate argentine con le compagne di scuola, studio “matto e disperatissimo”, bagliori d'amore, nelle segrete del suo animo dove accarezza desideri, afflati, sogni di culla e nell'austerità sconfinata della pagina bianca che affida una voce, con afflato quasi religioso, al suo pensiero.

Ferdinando Cito Filomarino scandaglia fin dalle prime inquadrature, con la sua rispettosa macchina da presa, l'invisibile, si avvicina al corpo poetico con circospezione, afferrando gli anni liceali della poetessa con mano sicura, per poi avvicinarsi sempre più, senza timore di trasformare il particolare (e il tormento) in linguaggio universale. Antonia è un film implosivo, che si ripiega all'interno, che non ha timore di confrontare la grammatica del cinema con quella poetica: la poesia della Pozzi, fieramente autobiografica e sinfonica, respira nei bordi di inquadrature capaci di cogliere sinestesie e metafore mentre lo sguardo filmico di Cito Filomarino fissa nel controluce manifestazioni animalesche, intorpidite, incapaci di svincolarsi dalle maglie dell'alienazione esistenziale e alza l'obiettivo verso essenzialità,  che perdono ogni residuo di facile impressione, per filtrare silenzi quando l'orizzonte è un limite lontano, precluso. 


Film quasi elegiaco, mai ermetico, Antonia è appagante visione prima emotiva e poi intellettuale, che assume subito cadenze e ritmi, colori e rumori di razionale, e insieme sommessa, trasfigurazione poetica, anche grazie al montaggio “musicale” di Walter Fasano che segue i tempi ritmici di un brano polifonico “ideale”. Antonia è limpido nei suoi illuminati scorci, e nella sua essenza, da poterlo ritenere specchio perfetto del tormento di una vera donna odierna, testimone a sua volta della crisi di un'epoca, oggi più attuale che mai.

Il cinema “neonato”di Ferdinando Cito Filomarino, al suo esordio nel lungo dopo il cortometraggio Diarchia, è già capace di fondere in sé la preparazione e la sensibilità di un giovane intellettuale della cultura, non tanto genericamente umanistica, quanto specificatamente letteraria, figurativa, storica e musicale senza dimenticare l'afflato e la passione per le traiettorie del piacere cinematografico. Un cinema però che non segue una linea narrativa tradizionale ma che crea il racconto attraverso la concentrazione di diverse voci, immagini, frammenti, per trarne un mosaico policromo, un concerto polifonico dove la bellezza è qualità essenziale del mondo e la vera sfida, completamente riuscita, per il regista giace nel coraggio di filmarne la naturale poesia.

Antonia è un film dove lo spettatore è chiamato a cogliere qualcosa di diverso, a evocare: nessun pertugio di speranza, nessun approdo rasserenante, dove si è addirittura indotti a pensare che in questa vicenda di vita e di morte non sia rintracciabile alcuna ragione ma, in Antonia Pozzi, la consapevolezza del proprio dramma esistenziale coesiste con la percezione della bellezza della vita e della natura e dunque, cessata la forza e la capacità di coglierla, non resta che scegliere l'oblio e affidarsi all'auspicio della luce fioca ma avvolgente della speranza di una rinascita.

Questo contributo è gia comparso, col titolo La parte per il tutto, nel pressbook del film.

 



 

La proiezione del film Antonia. si terrà giovedì 21 aprile alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1). La proiezione sarà a ingresso gratuito fino a esaurimento posti e in streaming con i Cineporti di Lecce e Foggia.

Saranno presenti in sala il regista Ferdinando Cito Filomarino e i critici Cecilia Ermini e Roberto Silvestri. Introdurrà Luigi Abiusi.

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Michele Sardone

Un ragazzo getta in una piscina una figura in cartonato, ad altezza naturale, di una bellissima ragazza nuda e la contempla per qualche istante, mentre lei galleggia a pelo d'acqua; il ragazzo, in piedi sul trampolino, si denuda e si tuffa pure lui, abbraccia e bacia l'immagine di lei e se la porta a fondo con sé: di colpo siamo sott'acqua insieme a loro, e scorgiamo le gambe della ragazza fluttuare sinuose, e i suoi capelli muoversi tentacolari...

È una delle sequenze più belle di Deep End (tradotto atrocemente qui da noi in La ragazza del bagno pubblico, 1970) capolavoro di Jerzy Skolimowski, e si potrebbe ritrovare ben descritta in essa l'ossessione cinematografica del grande regista polacco: cercare sempre il corpo a corpo con l'immagine (lui, tra l'altro, è stato pugile amatoriale), facendo risaltare la fisicità del vedere, il doloroso piacere (o il piacevole dolore, è lo stesso) della visione folgorante. Il pixel nero, bruciatura dell'immagine digitale nel suo ultimo 11 minut, ha così una valenza simile a quella dell'ustione su pellicola nel nouvelle-vague Le départ (Il vergine, 1967, secondo la pruriginosa traduzione italiana) e ritorna in ogni suo film: l'insostenibilità della visione che brucia il supporto che dovrebbe rifletterla, perché il desiderio solo immaginato che finalmente si fa carne, sotto forma di donna, è impossibile da rendere se non, appunto, trasmutando la materia sulla quale viene impresso.

In un buco nero simile sembrava essersi perso lo stesso Skolimowski, a nuoto in una piscina senz'acqua, incagliato come la nave di The Lightship (1985), per poi riemergere 17 anni dopo La chiave della trentesima porta (1991, da un romanzo di Gombrowicz) inanellando tre perle: Quattro notti con Anna (2008), Essential Killing (2010) e il già citato 11 minut (2015).

Il primo è un film notturno, labirintico e spiraliforme come i movimenti di macchina lungo i quali scorre, e al tempo stesso è un film centripeto, cioè tutto concentrato in un luogo, una stanza, dove non avviene nulla, se non appunto l'accadere della visione del desiderio (ancora una volta, con le sembianze di un corpo di donna) e il procrastinare del contatto fra due immagini e due forze che non possono toccarsi senza far esplodere tutto. Il secondo, Essential Killing, è pure un film claustrofobico, nonostante sia ambientato prevalentemente in esterni: è lo scenario selvaggio, infatti, a ricoprire il ruolo di ossessivo inseguitore di Vincent Gallo, non più con la funzione classica di sfondo indifferente delle vicende umane, ma come mondo incarnato e in lotta, corpo a corpo, con l'uomo, come lo abbiamo costruito e immaginato noi, a nostra somiglianza. E infine 11 minut, film che cerca di ridare corporeità all'eterea immagine digitale, alla sua pretesa di essere intangibile perché eterna e sempre identica a se stessa, non marcescente come la pellicola. L'occhio insegue spasmodico l'immagine, potenzialmente riproducibile e scomponibile all'infinito, attraverso il moltiplicarsi dei tempi e dei luoghi, sezionandola pixel per pixel, fino a trovare un'unica piccola imperfezione, e a far esplodere tutto, ancora, in un'accecante e bruciante visione.





La proiezione del film 11 minut si terrà giovedì 25 febbraio alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1). La proiezione sarà a ingresso gratuito fino a esaurimento posti e in streaming con i Cineporti di Lecce e Foggia.

Saranno presenti in sala il regista Jerzy Skolimoski e i critici Margherita Furdal, Roberto Turigliatto e Lorenzo Esposito. Introdurrà Luigi Abiusi.

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la Redazione

La necessità di indagare e mostrare un cinema sempre più vibrante, la scossa vertiginosa, dialettica che proviene sempre più da certe immagini del cinema contemporaneo (che si tratti di Straub o di Weerasethakul, di Alonso o di Skolimowski, magari Bellocchio), e che diviene dunque necessità politica, ha trasformato quest'anno “Registi fuori dagli sche(r)mi” in una rassegna permanente e maggiormente radicata nel territorio: certo la Puglia in prima battuta, ma la gittata è, come in passato, nazionale ed extranazionale. Da febbraio a novembre 2016, nei cineporti di Bari, Lecce, Foggia, si succederanno alcuni tra i maggiori registi del panorama cinematografico contemporaneo, riprendendo e rafforzando l'intento originario della rassegna: la ricerca sulle immagini nel nostro tempo, mettendole in relazione con i capisaldi del passato; l'approfondimento delle poetiche, appunto delle politiche; la narrazione delle storie legate ai film e ai registi, tra sperimentazioni, opere prime, visioni periferiche e d'altro canto la via delineata dai grandi maestri.

Ora però anche Lecce e Foggia potranno avere l'occasione di assistere ai seminari e di dialogare dal vivo con gli autori: in ogni caso negli altri due cineporti non direttamente interessati dalla presenza degli ospiti (regista e critici), è confermato il collegamento in streaming dell'incontro, con successiva proiezione del film.

La direzione artistica è sempre di Luigi Abiusi (scrittore, saggista, selezionatore per la “Settimana Internazionale della Critica” del Festival di Venezia; critico cinematografico per diverse riviste tra cui Filmcritica, Filmparlato, Duels e direttore del magazine Uzak.it). La sinergia ormai consolidata è tra Apulia Film Commission e Uzak, rivista di critica militante. Il programma è in itinere visto che si dilata nel tempo e si disloca in tre centri: segue l'idea di un'attualità che presenta di volta in volta casi cruciali, critici, tra i panorami dei festival, uscite di film sommersi, latenze di alcuni autori. Ma si inizia il 25 febbraio con Jerzy Skolimowski, presente al cineporto di Bari, e la proiezione del suo ultimo capolavoro 11 minut (in concorso alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia). L'occasione è buona per un vero e proprio tributo a uno dei più straordinari e longevi autori in circolazione: e infatti a dialogare con lui ci saranno oltre al direttore artistico, i critici cinematografici Lorenzo Esposito, Margherita Furdal e Roberto Turigliatto, gli ultimi due autori di Jerzy Skolimowski (per Lindau nel 1996), uno dei libri più importanti scritti sul regista polacco.


PROGRAMMA

25 febbraio: Jerzy Skolimowski (Cineporto di Bari)

17 marzo: Olmo Amato e Samuele Sestieri (Cineporto di Foggia)

21 aprile: Ferdinando Cito Filomarino (Cineporto di Bari)

28 aprile: Pedro Costa (Cineporto di Bari)

04 maggio: Marco Santarelli (Cineporto di Bari)

30-31 maggio e 01 giugno: Corpi deGeneri (Cineporti di Puglia)

07 giugno: Ana Lily Amirpour (Cineporto di Bari)

13 ottobre: Franco Piavoli (Cineporto di Bari)

20 e 21 ottobre: Irene Dionisio (Cineporti di Bari e Foggia)

27 ottobre: Massimo D'Anolfi e Martina Parenti (Cineporto Di Bari)

17 novembre: Xander Robin (Cineporto di Bari)

Speciale Registi fuori dagli scheRmi V

altElla aveva un senso acuto della festa. Cioè dell’aria di festa, la quale aria, tanto scuorante nella città, non manca invece, in paese, d’un certo lievito, se si riesce ad esserne avvolti. [...] in paese consiste più che altro in una disposizione dell’animo; se non si voglia dire in un suono di campane, in un cielo o venticello speciale. [...] Distinguere con metodo rigoroso i vari elementi di quest’aria di festa allo scopo di chiarirne l’origine sarebbe tempo perso; chi ad esempio tentasse la speciosa argomentazione che nei giorni cosiddetti di lavoro non si portano scarpe e che quindi il famoso batter di tacchi è un comune batter di tacchi strano solo perché inusitato, non caverebbe ugualmente, per il resto, un ragno dal buco. Di positivo resta solo il suono delle campane; quanto al venticello, ognuno se lo fa come vuole, al pari di molte altre cose.
(Landolfi, La pietra lunare)

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La mano è la macchina da presa più perfetta che esista in natura. Lo è non solo per la sua presa di precisione (che è stata la prima caratteristica che ha distinto l’uomo dal resto degli esseri viventi), ma anche perché il contatto della mano con l’oggetto preso proietta una sua immagine nel buio del cervello. Questa proiezione scatena connessioni con altre immagini: è la capacità dell’uomo di immaginare e di formulare progetti. L’uomo è quindi naturalmente portato a pensare cinematograficamente e a creare con il lavoro delle mani. Tutto questo processo viene ripreso nell’ultimo film di D’Anolfi e Parenti, Spira Mirabilis, presentato a Bari durante la quinta edizione di “Registi fuori dagli scheRmi”, con ospite Massimo D’Anolfi.


altIrene Dionisio, 30 anni, torinese. Nel suo curriculum, tra le altre cose, videoarte e documentari. A “Registi fuori dagli sche(R)mi” ha portato Le ultime cose, sua prima opera di finzione, che, dopo la Settimana Internazionale della Critica 2016 a Venezia, è riuscita a trovare anche piccoli sbocchi distributivi nelle sale. Un film di storie e vite che nel Banco dei pegni trovano il loro teatro; con gli oggetti impegnati, e la speranza di riscattarli, a comporre il sentimento dei personaggi. Un film che è provvisorio punto di arrivo di una ricerca che ha radici più lontane.

altUn cinema in divenire, quello di Xander Robin, tanto nel processo di creazione, quanto nelle immagini che si stampano sulla pellicola: i corpi dei personaggi come involucri fragili, portati alla continua metamorfosi dai loro stessi disturbi compulsivi.
Complice la costellata strada della mutazione e della corruzione del corpo (dalla scena cyberpunk alla New Wave newyorkese), vien da chiedersi se è lecito credere che il cinema sia anche questo: un ininterrotto movimento metamorfico dell’immagine che persiste.
Incontriamo il regista Xander Robin in occasione della rassegna barese “Registi fuori dagli sche(r)mi”.

Registi fuori dagli scheRmi VI


Nel 2015 la BBC ha lanciato una serie di documentari intitolata BBC Four Goes Nuclear e dedicata al settantesimo anniversario della tragedia nucleare di Hiroshima. Il tempo in cui le materie radioattive perdono progressivamente la loro radioattività, cioè il tempo necessario affinché il 50% degli atomi si sia disintegrato nel caso dell’uranio-235 è di 710 milioni di anni.

Non è possibile dimenticare la caduta della bomba nucleare su Hiroshima nel 1945, semplicemente perché il suo impatto durerà, per l’uomo, praticamente per sempre. Allora cosa fare?

I documentari a cura della BBC, sperimentati già in passato attraverso la sinergia tra musica e immagine, tornano con alla regia Mark Cousins, per dar vita a Storyville: Atomic – Living in Dread and Promise. In questo caso le musiche del film sono a cura dei Mogwai.

Atomic è anche il titolo del nono album in studio della band scozzese, tuttavia non tutta la musica realizzata per il film ha trovato spazio sul disco e, ovviamente, viceversa. Questo perché legare immagini e musica, in questo documentario, è qualcosa di estremamente complesso, il suono dal quale bisogna partire è un’esplosione, un movimento d’aria capace di distruggere e bruciare tutto.

Come può il suono opporsi al rumore?

Il silenzio è lo strumento da governare e in questo senso la capacità dei Mogwai di ritmare il silenzio si mostra in maniera decisamente più evidente rispetto alla ricerca dell’armonia, perché le immagini, d’archivio, sono state montate in strutture ripetitive, affinché dalla ripetizione stessa possa nascere il suono visivo dal quale lo spettatore è catturato.

Le persone che d’improvviso si gettano per terra dalle biciclette rappresentano uno degli strumenti di ripetizione, insieme alle persone che dipingono di bianco le finestre, alle foto degli scienziati che hanno reso possibile la creazione dell’atomica. La foto di Marie Curie, appare sotto una voce che ripete «science science science», quasi fosse un motto futurista.

Ma le scoperte non hanno portato solo alle due bombe lasciate cadere su Hiroshima e Nagasaki, ma anche, e viene mostrato nel documentario, nell’uso medico. La PET e le scintigrafie utilizzano la radioattività per diagnosticare malattie sui pazienti e sicuramente sono strumenti in grado di salvare molte vite.

Il nucleare in Storyville: Atomic – Living in Dread and Promise non si mette in mostra nello stile classico del documentario sulla bomba atomica, dalla minaccia vissuta durante la guerra fredda, all’esplosione dei reattori nel disastro di Černobyl' alla più recente tragedia legata alla centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi. Infatti, Mark Cousins, come detto, sembra abbia lavorato principalmente sulla ripetizione, che è anche la ripetizione dei messaggi di allerta, della costruzione della paura, ma è anche la ripetizione che non è bastata nelle lotte per il disarmo, per fare in modo che gli stati facciano a meno degli armamenti nucleari. In questo senso il ritmo deve esser ripreso, deve esser portato avanti, continuato e riproposto affinché il disarmo sia totale e in questo la musica dei Mogwai, a partire dalla colonna sonora e dal loro album Atomic, ci ricorda che gran parte della colpa di tutto questo è anche nostra.





La proiezione del film Atomic – Living in Dread and Promise si terrà giovedì 29 giugno alle ore 21:00 presso il Cineporto di Bari (Fiera del Levante, Lungomare Starita, 1). La proiezione è a ingresso gratuito fino a esaurimento posti.

Sarà presente in sala Stuart Braithwaite dei Mogwai, curatori della colonna sonora del film. Interverranno Michele Casella (Pool Mag e Loop Festival) e il critico Enzo Mansueto. Introdurrà Luigi Abiusi.

Incontro precedente: Alessandro Comodin (CineLab di Lecce, 23 maggio)


È un movimento embrionale che sta per darsi mentre qualcos’altro è in procinto di giungere, il film di Alessandro Comodin; occhi aperti e in attesa, il tempo di una rincorsa e i I tempi felici verranno presto. Il plurale preannuncia un salto temporale, un varcare soglie e confini per ritrovarsi in età differenti che scorrono sempre in avanti, in un utopico futuro proiettato per aria.
Il bosco diventa zona d’ombra in cui si (ac)cade, territorio anonimo che ridisegna storie, miti e leggende; il bosco come mondo (dicono gli indiani) ma anche origine remoto in cui potersi perdere e poi ritrovarsi. È da qui che per due ragazzi, Arturo e Tommaso, incomincia l’avventura: scavalcano e oltrepassano un muro e corrono, corrono a perdifiato, corrono sul selciato, inciampano - ciechi - superando la notte, dentro un silenzio che non pretende di caricarsi di significati, oltrevalicando le prime ore del giorno quando ancora non siamo che ombre in attesa di rinascita, dove ogni passo è un salto nel buio che diventa il vuoto, questa corsa sfrenata verso il nulla. Non sappiamo in quale tempo siamo (presente, passato?) perché questo probabilmente è solo la messa in forma di un desiderio: moto accelerato, stagione della vita in cui ancora si può prendere il tempo per la coda senza guardarsi indietro, a sfidare la morte: il sole investe i loro visi innocenti, il fango poi li ricopre.

Allo stesso tempo (ma è un altro), il film sembra uscire dal binario lineare della narrazione per catapultarci dentro altre storie: quelle narrate dagli abitanti di Cuneo (e qui il film assume le fattezze di un documentario), storie di cervi rincorsi dai lupi nel bosco, storie che mentre vengono raccontate si materializzano poi nella figura di una donna, Ariane (e si passa allora alla finzione). Anche lei trova riparo e conforto in quello stesso spazio vegetale attraversato dai due giovani fuggiaschi; Ariane è affetta da un dolore incurabile, tutto interno, un male che la rende inavvicinabile, fragile, estranea ad altri luoghi ma qui, nel bosco,  il selvatico che la sbrana  dentro si trasforma: diventa fiuto, zampa di cervo. Ma in questo film tutto ha il sapore di una rievocazione e allora insieme al suo fedele asino Ariane sembra riprendere in mano anche il destino di Marie e Balthazar di bressoniana memoria; ancora una volta cioè, ci troviamo di fronte a immagini che ritornano e storie che si tramandano: Ariane è un fantasma, vergine sacrificale, cervo regale inseguito dal lupo che la desidera. Ariane scava una buca nel terreno e la buca diventa un tunnel che diventa ponte di passaggio e, più tardi, approdo per un nuovo regno: qui la crudeltà dei linguaggi si incontreranno e nell’eternità dei silenzi si toccheranno, Ariane e il lupo, bestie in grado di amarsi.

A fare da filo conduttore tra questo e il suo primo film (L’estate di Giacomo che ha vinto il Pardo d’oro Cineasti del presente a Locarno nel 2011) c’è la presenza di un linguaggio ancora torbido, non completamente formato. Giacomo, ad esempio, pare avere un deficit che rende cacofoniche le sue parole, le rende inesprimibili perché, a volte, con le parole le cose svaniscono mentre qui l’azione rende salva ogni scena: l’estate è nei suoi arti, nel tramonto percorso in bici mentre l’amore è nella bocca di lei, nella semplicità dei gesti, nel bagno in riva al mare, nei passi impacciati di una danza estiva: Comodin vuole «filmare in modo più basico possibile senza gli artifici del cinema; semplicemente dei movimenti, in modo documentario [e] da questi piccoli blocchi di realtà messi uno dopo l’altro si può creare anche una storia fantastica».

Anche qui i personaggi si caricano di gesti immediati, forse incoscienti mentre la macchina da presa a volte trema e la lotta sul prato tra Arturo e Tommaso ha tutto il sapore di una libertà che non ha bisogno di dirsi. Ecco allora il Lupus in fabula ad interrompere ogni tipo di discorso razionale, a togliere la parola, quel  lupo che in molte culture ha rappresentato metaforicamente lo straniero, colui che vive fuori-confine e qui il fuori è il bosco, qui ogni personaggio è già un escluso, un fuggitivo.

Ma cosa è questa corsa sfrenata che lacera il presente? È questa giovinezza che sì fugge tuttavia e che guarda inevitabilmente sempre in avanti, la ricerca appunto di una felicità già prossima a morire.





La proiezione del film I tempi felici verranno presto si terrà martedì 23 maggio alle ore 20:30 presso il CineLab Giuseppe Bertolucci di Lecce (Via Vecchia Frigole, 36). La proiezione è a ingresso gratuito fino a esaurimento posti.

Saranno presenti in sala il regista Alessandro Comodin e il critico cinematografico Anton Giulio Mancino. Introdurrà Luigi Abiusi.

Incontro precedente: Samuel Alarcón (Cinelab di Lecce, 16 maggio)

 

«Le cinéma est un art d'une fantomachie, si vous voulez, et je crois que le cinéma quand on ne s'y ennuie pas c'est ça, c' est un art de laisser revenir les fantômes» (Jacques Derrida)

C’è nel fondamento magmatico dell’immagine cinematografica un baluginare di sagome, ombre, che si smuove, sin dai tempi della fioca proiezione d’immagini, della lanterna magica, che diviene fantasmagoria, proiezione di fantasmi, di paure. Una paura albeggiante come quella che attraversò i corpi in tumulto, difronte a una visione che si sommava allo sguardo, alla prima proiezione di L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat nel 1896. Una paura di ritorno, come quella di Roma città aperta, che nel 1945 ri-occupò le strade e gli occhi di una Roma strappata, con la musicalità atroce delle marce naziste, solo pochi mesi dopo la loro dissoluzione, come se la realtà nel dissolversi repentinamente avesse lasciato una traccia tra le strade, che tardava a svanire, e che resta latente.

E del ritornare, di luoghi, di immagini, di figure fantasmatiche, si occupa La Ciudad de los Signos, traslucendo a carboncino tra le rovine e le colonne pompeiane, dalla voce frammentata di Katherine Joyce di Viaggio in Italia (1954), un'eco spettrale quanto lo è la natura stessa del cinema, quanto lo è la natura di un ricordo. Per Derrida il fantasma cinematografico è incarnato già nel momento di ripresa, dall’enunciazione attoriale, dalla phoné; il corpo è dunque sin da subito infestato, parlato, ventriloquato, e così appare Katherine, quando rievocando una poesia dal suo passato sembra svelare la voce di Rossellini, la natura cinematografica, tra corporale e spirito, vita e immagini: «Tempio dello spirito, non più corpi, ma pure ascetiche immagini, al cui confronto persino il pensiero diventa grave, opaco, pesante».

Il cinema sembra dunque questo ritorno, che è un ricordo incessante, e non sembra casuale che sia lo stesso spettro cinematografico a ricordare il suo oltrepassare la fragilità della vita. Che sia il fantasma di Katherine, di passaggio tra le vestigia di una storia d’amore, lì per ricominciare, a ricordare che il corpo è un tempio transitorio, e che i fantasmi sono ritorno, come rende lampante il francese con revenants, ritornanti: i fantasmi sono coloro che ritornano. Ritorna allora ne La Ciudad de los Signos tutta la realtà del neorealismo rosselliniano sotto forma di fantasmi, poiché in questo senso il neorealismo sembra essere stato il momento in cui più si è rimessa in scena la vita sotto forma di ombre, in cui più dalla realtà si è dato vita a spettri.

Se il cinema di Rossellini era una ricomparsa della realtà sotto forma di fantasmi, di ombre, che diveniva un incessante ritorno negli occhi, quello di Alarcón è specularmente una ricomparsa del paesaggio traslucido del cinema, negli occhi, che diviene una riapparizione dei paesaggi, delle strade del cinema del neorealismo, poiché ne La Ciudad de los Signos tutti i luoghi hanno memoria, e tutte le storie sopravvivono, e dunque è possibile percepire quell'incessante, quel baluginare fantasmatico che non smette di smuoversi, traslucido a carboncino in una Roma città eterna, tempio eletto della città dei segni, del grande passato, sino ad arrivare al cristologico Ettore pasoliniano di Mamma Roma (1962). Ombre, sagome fantasmatiche, abitanti dell’immagine ritornante, che vagano in quell'atto di morte momentanea, miracolo di vita incessante che è l'immagine cinematografica.

 


 

La proiezione del film La Ciudad de los Signos si terrà martedì 16 maggio alle ore 20:30 presso il CineLab Giuseppe Bertolucci di Lecce (Via Vecchia Frigole, 36). La proiezione è a ingresso gratuito fino a esaurimento posti.

Saranno presenti in sala il regista Samuel Alarcón e il direttore del Festival del Cinema di Pesaro Pedro Armocida. Introdurrà Luigi Abiusi.

Incontro precedente: Amir Naderi (Cineporto di Bari, 23 marzo e Cinelab di Lecce, 24 marzo)


L'importanza del cinema di Naderi oggi, risiede nel suo portato progressista, impegnato, pur in una sua preordinata costituzione poetica, addirittura sinfonica; una musica per immagini che ha origine nell'ancestre, nella pragmatica terragna del dionisismo. Musica binaria, in cui pochi, nudi elementi linguistici scandiscono un'ossessione, un'apnea, cioè, citando Ghezzi in risposta ad Abel Ferrara, quella ripetizione di cui si è persa la misura. Ma è un progressismo che ha poco a che fare con la politicità tutta teorica (e retorica) di un impegno giurisprudenziale, partitico: si tratta di un atto veemente ed elementare, come una martellata, un grido, un protendersi nell'incandescenza del caos. È Il Corridore, il ragazzo iraniano privo di ogni mezzo di sussistenza, che non si arrende e procede verso le fiamme enormi, aspettando i suoi compagni, dividendo con loro il ghiaccio sporco, che è pane, è la gioia di essere comunque vivi. Questo il tipo di metafora naderiana: semplice, sporca di terra, di fumo, illividita, eppure così cristallina. Dice, anzi grida come i suoi personaggi la resistenza a ogni costo, sotto i colpi sferrati al protagonista di Cut in nome del cinema, anzi delle possibilità di vita presenti solo nel cinema.

Monte
è l'apoteosi di tutto questo: ulteriore atto di forza, di resistenza rabbiosa di un regista inesauribile, esuberante, apolide; in qualche modo secolarizzazione del martirio cristiano, alle cui icone peraltro il protagonista non si piega mentre vaga per i vicoli e le pietraie medievali. Qui è un Andrea Sartoretti al limite del sublime a caricarsi il peso del film e a scaricarlo rabbiosamente e angelicamente contro la roccia, sgranando una metrica martellante che sembra poi franare, sfumare in barlume. Capolavoro d’ipnotismo, stoicismo, cognizione leopardiana della Natura rivolta in gioia: concerto per spasimi e pietraia, nebbie e cornacchie, che a un tratto accelera verso il ritmo estenuante, monodico, di ferro contro il monte. È la poetica del colpo, del battito reiterato, che scandisce la metrica stoica, resistenziale di questo film e del cinema di Naderi: i tre personaggi superstiti vagano in una dimensione fatta di urlo, pena, di dolore accampato ai piedi di una parete rocciosa, che diviene dimensione metafisica e cinematografica, (non) estenuata dai colpi, fino al sorgere di un nuovo sole che perpetua la grazia del mondo.





Le proiezioni del film Monte si terranno giovedì 23 marzo alle ore 20:30 presso il CineLab Giuseppe Bertolucci di Lecce (Via Vecchie Frigole, 36) e venerdì 24 marzo alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Fiera del Levante, Lungomare Starita, 1). Le proiezioni saranno a ingresso gratuito fino a esaurimento posti e venerdì ci sarà la diretta in streaming con il Cineporto di Foggia.

Sarà presente in sala l’attore protagonista Andrea Sartoretti. A Lecce interverrà Luca Bandirali, a Bari sarà la volta di Massimo Causo. Introdurrà Luigi Abiusi.

Incontro precedente: Jérôme Reybaud (Cineporto di Bari, 02 marzo)


Abbiamo un protagonista di cui non sapremo mai molto, un giovane uomo che ha perso i nomi dei luoghi, le mappe e le bussole d’ordinanza. Che ha desideri ma non li sa nominare. È però anche un uomo del suo tempo, in contatto con le tecnologie del suo tempo, e attraverso queste intuisce la possibilità inebriante di una deriva, proprio come la intendeva Guy Debord: un viaggio non pianificato per liberarsi dalla routine quotidiana, lasciandosi trascinare dalle attrattive del paesaggio e dagli incontri che questo suggerisce. Ma colui che va alla deriva non è un flâneur che sa dove andare e cosa pensare; è piuttosto uno che si getta in pasto al proprio disorientamento emotivo per riscoprire uno spazio che non conosce e che non comprende. Così Pierre si lascia alle spalle compagno, appuntamenti e Parigi, e parte affidandosi ad un navigatore speciale – Grindr, applicazione per incontri omosessuali che mappa corpi e desideri geo-localizzando gli utenti.
Eppure lo spirito ludico della partenza è frustrato già al primo tentativo d’incontro: Pierre non comprende le indicazioni stradali offerte dal potenziale amante e così si perde. È da questo primo rendez-vous mancato che il disegno sottile di Jours de France si manifesta implacabile: la spinta erotica di Pierre deve necessariamente sovrapporsi ad un impulso di riscoperta del Territorio.

Nel suo penetrare sempre più profondo il corpo alieno della Francia, Pierre incontrerà un’umanità presa a sciorinare quasi ossessivamente nomi di luoghi e di strade, di svincoli e località ignote. In un’epoca di confini imposti e di confini incerti, Jours de France non si limita a mostrarci le forme esteriori del Territorio, ma tenta di riappropriarsene chiamando i luoghi uno ad uno. Perché la parola pronunciata coincide con un atto di definizione: ha un nome, lo posso pronunciare, quindi esiste. La ricerca sensuale del protagonista è una ricerca di identità concreta; il suo smarrimento fisico e sentimentale è uno smarrimento storico e politico.

Ad inseguire Pierre c’è Paul, l’innamorato che non si dà per vinto, che inizia la sua ricerca dal “centro della Francia” senza capire che lo smarrimento di Pierre è più inquieto e si sposta lungo i confini e le frontiere (come quella con l’Italia, che viene raggiunta, ma non travalicata). L’inseguimento sarà funzionale a un ritorno all’origine (il viaggio termina in Costa Azzurra, terra natale del regista), ma non c’è nulla di reazionario in questo. Lo dimostra lo splendido pianto di Pierre ad un passo dal finale. È un pianto liberatorio, assieme disperato e salvifico: il pianto di chi si sentiva perso, ha cercato i nomi e li ha sentiti pronunciare; il pianto di chi ora i nomi li conosce e li sa collocare sulla mappa fisica del Paese. Uno dei pianti più belli e sinceri del recente cinema francese.

Jours de France è un film di profonda intelligenza, intellettuale ma non intellettualistico, illuminato da una costante (auto-)ironia. Formalmente precisissimo, affonda le proprie radici nella tradizione gloriosa di un certo cinema francese (Paul Vecchiali, le tendenze melodrammatiche e anti-naturaliste post-nouvelle vague) che Jérôme Reybaud rivitalizza con uno spirito urgentemente contemporaneo, in linea con le angosce e gli strumenti che definiscono il nostro percorso esistenziale oggi. In questo senso è di fondamentale importanza la funzione assunta da Grindr: l’applicazione non serve tanto ad incontrare, quanto a perdersi sempre di più nella pancia del Paese. Bussola d’eccezione per ritrovare i luoghi (e le persone) e il loro nome, Grindr testimonia la possibilità sensuale di un rinnovato rapporto con lo spazio. Il compito che il film gli affida è sorprendente: ricreare un senso di comunità, di solidarietà, di mutuo soccorso emotivo. Collegando i punti fra le griglie geo-localizzate di un desiderio che è solo casualmente (e scompostamente) sessuale, testimonia una struggente volontà di compassione, di compartecipazione, di sforzo comune verso la ricerca: dei luoghi, di una persona, di un’identità individuale e collettiva.





La proiezione del film Jours de France si terrà giovedì 2 marzo alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Fiera del Levante, Lungomare Starita, 1). L'inocntro è a ingresso gratuito fino a esaurimento posti.

Saranno presenti in sala il regista Jérôme Reybaud e il critico cinematografico Eddie Bertozzi. Introdurrà Luigi Abiusi.

Registi Fuori dagli ScheRmi VII


Esiste il tempo del cinema e un cinema che si pone orgogliosamente fuori dal tempo. Bertrand Mandico non è solo l’autore di un film, ma l’artefice di un mondo.
Come uno stregone chiamato a custodire il segreto dell’ultima lanterna magica, compie un vertiginoso balzo all’indietro. Non verso il regime unico del verosimile fotorealistico digitale, ma tornando alle origini stesse del cinema evocando così un vero e proprio pantheon di divinità cinematografiche. Si badi, egli non è un pasticheur citazionista, ma un creatore di forme originali che se da un lato richiamano i segni del passato, dall’altro se ne appropriano con una tale forza, addirittura violenza, da infrangere con olimpica leggerezza la barriera che separa la citazione dalla creazione.

Nell’epoca del green screen e della motion capture, il regista riattualizza il fascino indiscreto del fondale, della retroproiezione, della dissolvenza incrociata e di tutti gli altri artifici che da Méliès in avanti hanno contribuito a dare corpo alla macchina del cinema. Il rito palingenetico officiato da Mandico evoca Jean Cocteau e Mario Bava, Kenneth Anger e Jacques Tourneur, Edgar G. Ulmer e Rainer W. Fassbinder, Walerian Borowczyk e Nathan Juran, Jean Vigo e Fritz Lang e chissà quanti ne dimentichiamo...

Il regista crea così un luogo di cinema assoluto, monumentale nel suo pulsare febbricitante, nel quale i bambini terribili di Cocteau si trasformano in riluttanti capitani coraggiosi in viaggio verso la Brest del marinaio Querelle sui quali aleggia il fantasma dei ragazzi selvaggi di William S. Burroughs.

Mandico si sposta dunque alle origini stesse del cinema, con una scelta spudoratamente inattuale, per interrompere, spezzare, il regime unico del visibile ammesso. Ossessionato dalle infinite possibilità di mutazione del cinema e delle sue epifanie, immagina, nel senso proprio di mettere in immagini, il cinema del domani come interruzione del monopolio maschile della verosimiglianza. Le magnifiche interpreti, chiamate a impersonare gli studenti che per essere rieducati dopo un feroce stupro consumato ai danni della loro insegnante di letteratura devono imbarcarsi sulla nave di un capitano che promette di “rieducarli”, sono i segni aurorali di un cinema a venire. La promessa di un’epifania. Naufragati su un’isola (che ricorda quella misteriosa di Jules Verne anche se è descritta come un’ostrica…), alle prese con una vegetazione lussureggiante e lussuriosa, fra liquidi bianchicci e ragnatele lattiginose, i ragazzi si troveranno di fronte a una scoperta sconcertante.

Utilizzando musiche di Offenbach e della Nina Hagen Band, dei Cluster e degli Stranglers, Bertrand Mandico crea una turbinosa ronde erotica dominata da pulsioni tattili e desideri inconfessabili. Il cinema torna a essere fucina di fantasmi e di corpi da riscrivere. I dialoghi del film, volutamente aulici e letterari, come residui di un romanzo d’appendice dimenticato fra le pieghe dell'Ottocento, contribuiscono ulteriormente al fascino arcaico e volutamente desueto di un film che affronta a testa bassa la mancanza di seduzione del cinema contemporaneo.

Un cinema orgogliosamente inattuale, dunque, che si posiziona volutamente al di fuori dei discorsi dominanti, rifiutandoli in nome della possibilità di reinventare il cinema come un lucernario del dottor Caligari popolato da celestiali (infernali?) macchine del desiderio. Contro la logica dello sfruttamento seriale dei corpi, umiliati dal primato cosmetico di una bellezza a termine, Les garçons sauvages rilancia la necessità (e il piacere…) dello scandalo come possibilità per rifondare l’orizzonte dello sguardo e del godimento.


 

La proiezione del film Les Garçons Sauvages si terrà martedì 12 dicembre 2017 alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Fiera Del Levante, Lungomare Starita, 1). La proiezione è a ingresso gratuito fino a esaurimento posti e disponibile in streaming presso i cineporti di Lecce e Foggia.

Saranno presenti in sala il regista Bertrand Mandico e il critico cinematografico Raffaele Meale. Introdurrà Luigi Abiusi.

«This movie should be played loud».

L’esergo che apre The Driller Killer di Abel Ferrara potrebbe tranquillamente stare in apertura di questo Damned Summer senza disattendere le aspettative implicite nel motto. Se però il film di Ferrara si presentava da subito in tutta la sua forza importante, quello di Pedro Cabereira si innesca con lentezza, secondo una studiata progressione.

Da che gli avventurosi pionieri del gruppo di Brighton e, una manciata di anni dopo, il giovane Griffith ebbero l'intuizione delle possibilità espressive della frammentazione; da che iniziarono a suddividere lo spazio unitario dell'immagine nelle sue molte inquadrature parziali, e il montaggio da mera pratica sommativa si è dischiuso nelle sue infinite possibilità di senso ed emozione, la questione fondamentale per cineasti e critici è diventata e sempre resterà quella della significazione cinematografica.

Veleno è la storia del sangue che circola. Linfa della terra impregnata dagli sversamenti di rifiuti tossici, sangue vivo di una classe contadina che si ammala per osmosi, tanto essa è legata da infinite generazioni alle zolle dei campi. I fluidi vitali malati scorrono impazziti, fino a uscire dai luoghi in cui dovrebbero normalmente riposare: così gli sbocchi di sangue di Cosimo Cardano sono simili ai liquami infetti che trasudano dalle buche riempite di scorie assassine.

Antefatto
Succede che durante le giornate della 22a edizione del Milano Film Festival venga organizzata una performance-incontro dal titolo Falsiritorni (dall’oltrecinema). A fare da relatori ci sono Emiliano Montanari ed enrico ghezzi che partendo dalle suggestioni de L'avventura (il cui set diventerà per ghezzi una delle tante magnifiche ossessioni1) si abbandonano a un flusso di coscienza sul cinema, l’archeologia delle immagini e i ritorni. In questa discussione dissennata, dove a imporsi è la monologia ghezziana, a un certo punto colgo (tra indistinto brusio) parole chiare: «al cinema non esiste la prima visione. Solo seconde, terze, quarte... visioni». E quella che lì per lì mi sembra poco più di una frase ad effetto, due giorni dopo si carica di senso.

La prima sequenza-manifesto de Il Cratere è una esplicita dichiarazione d’intenti.
Abbiamo una ragazzina di tredici anni, Sharon Caroccia, intenta a ripassare ad alta voce una lezione sul “verismo”, mentre contemporaneamente esegue, con fare svogliato e meccanico, i movimenti di una coreografia. Uso emozionale della macchina a mano, messa a fuoco stretta sulla protagonista, parole e gesti che tradiscono aspirazioni e desideri in conflitto.

«Sei un uomo? Io credo di sì». Jauja di Lisandro Alonso è la ricerca che parte da questa domanda, come ritaglio di forme che cercando, si perdono nel paesaggio «Dove stai andando? È lontano?» la risposta non può che essere non lo so, per la natura stessa della ricerca, così come il credo di sì non può che essere dubitante, sfumato nel paesaggio stesso, materia priva di sostanza, eterea, onirica.

Sembra darsi nel senso della perdita, il primo lungometraggio del regista libanese Nadim Tabet, nel sole che si accascia mentre i muri si scrostano e si riardono, in un tempo perduto: lo dicono gli occhi affossati dei protagonisti, le loro voci fuori campo che arrivano a slargare le inquadrature sulla città o a rinvenire da un grumo di memoria attimi trattenuti in fotografie analogiche; non solo simulacri di ricordi, ma ricordi esse stesse, corpi di pellicola, di pelle, che su di sé conservano il segno della luce, del tempo.

La persuasione dell’attesa, della possibilità che filtra dalle finestre chiuse, dello sguardo che si spalanca al mondo, al desiderio del mondo, si staglia dall’orizzonte del visibile, al passo col tempo, della musica delle parole e della vita fuori campo: «Per ogni estatico istante dobbiamo pagare un’angoscia, in pungente e tremante rapporto con l’estasi. Per ogni ora d’amore, aguzze elemosine d’anni, amari spiccioli contesi e scrigni colmi di lacrime». Dopo la prigione dei moniti, l’autoritarismo dei precetti, dell’accademia puritana del terrore che si compie, amputando nell’intimo l’aspirazione all’esistenza: si sfanno file di ragazze ordinatamente, ferma al centro la macchina da presa sulle figure silenti, fino al volto di Emily, rimasta nel mezzo dell’inquadratura in una ribellione coraggiosa, che arde quieta.

Registi fuori dagli Sche[r]mi VIII

Nuestro Tiempo è un film a rilascio lento, ritardato, congegno a riverbero, perchè teso tra la dimensione istintuale, animale - tori che si scornano, scorazzano nella prateria, sventrano asini, tra il ronzio delle mosche calate immancabilmente sulle interiora: una rude poesia, una ruvidità dell'immagine evocativa, che è di Reygadas sin da principio del suo cinema - e quella cerebrale, mentre dispiega le dinamiche di una coppia emancipata del nostro tempo.

È per questo che anche volendolo istintivamente "estrommettere dai confini dell'io" (perchè magari non ti dà emozioni subitanee), poi ritorna, si sedimenta sulla scorta di un repertorio di immagini che prevedono l'estroflettersi del corpo, dell'amplesso, e d'altra parte di una fitta rete di dialoghi intorno al proprio essere nel mondo, tra poesia e praterie, e al proprio essere con l'altro nel mondo, nel tentativo di esorcizzarne la solitudine.

È un discorso sul sesso, sull'amore (sfere distinte che però possono toccarsi), sul desiderio intrinsecamente legato per Reygadas alla pratica del guardare le cose, evocarle, da parte del poeta, e prima di tutto il corpo dell'amata, desiderata, metterlo in una posizione tale che attraverso gli occhi, attraverso il controllo cupido e incantato degli occhi, se ne possa godere, cioè quel tentativo prometeico di mettere tutto a fuoco, sotto la luce disvelante della macchina da presa, dello sguardo che si nutre di forme, di coreografie, di luce: Post Tenebras Lux.

Ha ragione Beatrice Fiorentino quando parla di tensione verso il fuori-campo, verso tutto ciò che sfugge alla vigilanza (indice della brama di possesso) da parte di Juan-Reygadas. È quell'ossessione di vedere ciò che costitutivamente è fuori dal campo visivo, è nascosto dalle tenebre; che si tratti degli interstizi di un'automobile in corsa su uno sterrato (e allora la macchina da presa ne riprende da sotto le ruote il percorso nel fango, i sobbalzi, il protendersi verso il tripudio di ciottoli, o, posta sotto il cofano, le vibrazioni del motore, di pistoni e ingranaggi) o di sua moglie, della sua psicologia, che del resto aveva provato a sottrarsi a questa sorveglianza, nascondendo i messaggi ricevuti sul suo telefono da parte dell'amante.

Il poeta Juan ha l'ossessione, la bramosia di portare tutto alla luce, di appropriarsi del visibile, quel potenziale di forme che sibila al di là del visto e che sa, suona, odora di desiderio; e allora si affida al sorvolo della macchina da presa, vede, immerso nella luce silenziosa, l'eterna schermaglia tra maschi e femmine (chiudendo su tori in lotta): prima tra i bambini asserragliati in un gommone, mentre giocano a spingersi in acqua, poi tra gli adolescenti sdraiati a riva che scoprono lo scarto provocato dal desiderio, tra sessualità e affettività, quando suo figlio mentre fornica con la fidanzata di un suo amico dichiarandosene innamorato, si sente rispondere "facciamolo" e poi impaziente "mettimelo dentro", sullo sfondo arioso, sibilante di una luce livida.

«À quoi bon un cinéaste en temps de manque? À faire parler la Terre! Entrer dans le secret d'un Soleil, d'une brume et du magnétisme tellurique - via les indigènes du secteur...»
(F. J. Ossang, Mercure insolent)


La sovversione dell’anima è declinata nelle più variegate sfumature, dal bianco conducono al nero, e dalle tenebre scivolano nuovamente verso chiarori luminosi, la rifrazione della luce accende i grigi, illuminandoli di scintille che accendono la notte; barlumi lattescenti scivolano liquidi tra le pieghe più nascoste della mente umana.

Rileggendo le trame del noir, F. J. Ossang libera la materia filmica plasmandola in un ibrido di contaminazioni fra generi e forme con un’esplosione anarchica, creando un corpo unico, un organismo libero fagocitante esperienze e derive narrative.
La storia narra di un cargo in viaggio alla volta di una “virtual zone”, l’isola di Nowhereland, una nave fantasma in rotta verso l’isola che non c’è, un non luogo dove sono diretti Magloire (Paul Hamy) e strambi personaggi, a bordo una cassa di polonio, materiale esplosivo pronto a detonare. «La nave volava, si schiantava contro le mantelline, stellava i muri. Qua e là, negli intervalli di notte, fra i lampioni, si vedeva il dettaglio di un volto rosso dalla bocca spalancata, di una mano che indica il bersaglio.» (J. Cocteau 2015, pag. 17)


Un percorso, seguendo il flusso della follia, in un luogo fantastico, come il cinema di Ossang, così insurrezionale e terrorista, come un congegno pronto a tuonare in qualsiasi momento. Antonin Artaud sovente dipingeva come «velenosa» ed «eccitante» la settima arte, la rivelazione di un «imponderabile», di una «liberazione delle forze oscure del pensiero»: l’immagine, nell’accezione artaudiana, è un insieme di forze esoteriche e misteriose che sono pura emanazione «della vibrazione stessa e della stessa origine incosciente, profonda, del pensiero» (A. Artaud 2001, pag. 147).


Ossang dà vita a una struttura anarchica, dotata di uno sconquassante potere tellurico, con un bianco e nero espressionista e dalle nebulose atmosfere oniriche. 9 Doigts, presentato in concorso a Locarno70, dove ha vinto il Pardo per la migliore regia, è un’opera squisitamente punk, una composizione visionaria, vicina per fragore alla musicalità dei New York Dolls o dei britannici Sex Pistols; un’astrazione che dal classicismo del noir anni Quaranta scivola in una rapsodia metafisica dai toni allucinati.

Il regista francese infrange gli schematismi narrativi e si affida a coordinate surreali, la materia visiva sembra essere costituita da enigmi simbolici à la Bosch, tra relitti, acque malmostose e la follia umana che conduce in un labirinto oscuro, un corridoio senza possibilità di evasione dove la mente si smarrisce nella circolarità del tempo per non ritrovarsi mai più. Nelle notti eterne, tra la nebbia, Ossang tratteggia le ombre fosche di uomini persi, coscienze smarrite e menti che vacillano in preda alla malattia, il contagio si diffonde a bordo del cargo e nessuno è immune, tutti sono rapiti dal male, un delirio che confonde il reale e l’immaginifico.

La linea dell’orizzonte che divide il mare dal cielo è sempre più vaga, tutto è confuso nella tenebra, tra paesaggi emersi dalle tele popolate di spettri di Léon Spilliaert e gli scenari cupi di Constant Permeke. Intossicazioni visive e linguistiche conducono i dialoghi a impregnarsi di un organismo poetico la cui carne e (de)composizione meravigliosa è mutuata ora da Lautréamont ora da Burroughs, anche se i riferimenti letterari, inevitabilmente, non possono che spingersi oltre, affondando le radici in Verne, o in Conrad, ma anche nelle parole imbevute di assenzio e oppio di un rimbaudiano Le bateau ivre. Un’Odissea tra i flutti della pazzia di un manipolo di uomini in balia di un delirio, alla ricerca di un oggetto oscuro, metafora della bramosia di possesso, del viaggio verso il piacere delle delizie malevole promesse dall’ignoto. 
Da una stazione inizia la corsa sfrenata di un uomo in una notte senza stelle, una fuga che si conclude in un porto dalle acque torve in superficie e agitate nelle profondità da mille correnti contrarie e da maelstrom vertiginosi, come Poe descriveva «un mare d’inchiostro […] dalla vorticosa rabbia del fiotto, che saliva sino sopra la bianca e lugubre sua cresta, urlando e muggendo eternamente» (E. A. Poe 1869, pag. 237). 

Dalla corposità materica di un bianco e nero stratificato e cupo, che negli scenari di apertura è vicino a L’uomo di Londra, di Béla Tarr, luoghi di partenze ma non di arrivi, dove, come in 9 Doigts è possibile acquistare un “biglietto per l’inferno”, si passa a una messa in scena chimerica  acutizzante la visionarietà dell’opera e le derive mentali di Magloire e del resto della ciurma, avvolti da tempeste marine turneriane e da deliranti proiezioni allucinate, in bilico tra realtà e sogno/incubo.

L’immagine è baconiana, si apre allo sguardo come un urlo lacerante, una deformazione espressiva dei muscoli facciali, in una tensione che è mutamento delle forme, proprio come il cinema di F.J. Ossang, sovversivo e anarchico, un unicum nel panorama attuale cinematografico, che affonda le sue unghie nei primi Lang, ma anche in Ejzenštejn, e poi nel surrealismo di Cocteau, fino a Godard, creando un corpo filmico vibrante, muscolare ed eversivo. Regista, poeta, scrittore e musicista, il francese crea immagini di una potenza incandescente, come Bacon per Deleuze (Logica della Sensazione): «dipinge il grido, in quanto mette la visibilità del grido, la bocca aperta come voragine d’ombra, in rapporto con forze invisibili, che non sono poi altro che le forze dell’avvenire».

Lo sguardo è aperto e deflagrato, si muove su geometrie proprie, una morsa selvaggia che, come il cinema muto di inizio secolo, ha una sua linguistica che può debordare avvalendosi di un immaginifico blasfemo. In 9 Doigts i dialoghi stratificano parole tracimanti e si è sempre sull’orlo del baratro di una catastrofe imminente, in una visionarietà perturbante.
La furia della tempesta scuote l’occhio in un avvilupparsi di vertigini rock, la musica stessa, parte fondamentale nelle opere di Ossang, fa riferimento a presenze fantasmiche presenti sullo schermo, Loi de fantômes, richiamo a un ritorno del passato che contamina il presente ed è la matrice di una mappatura del futuro, del cinema ossanghiano, la dedica sui titoli di coda, meravigliosa dichiarazione d’amore verso un cinema sempre presente e follemente amato: «All my fucking friends are fucking dead!»

Esiste un cinema di “ottiche” la cui sua ossessione per il controllo e l’impaginazione rigorosa si serve di una messa in inquadratura che costituisce l’ultimo esito di quella scatola magica, o dispositivo simbolico, che è la prospettiva. Strumento capace di riordinare il reale, la sua autosufficiente autorevolezza non ammette dubbi ma solo confini stabili, e, inoltre, offre all’occhio una postazione certa, installandolo nel centro di un universo in espansione, ma, alla fine, enumerabile e finito (anche se la sua enumerabilità è assai estesa, e la sua finitezza include tutto un gioco di botole, sotterranei e bassofondi babelici), il tutto interpretabile semioticamente, cioè come universo concluso di segni.

Lucia (Alba Rohrwacher) è geometra. Durante un rilevamento catastale alza l’occhio dal distanziometro e vede una donna con un velo sul capo che le si rivolge in una lingua incomprensibile. Pensa sia una rifugiata e non le fa troppo caso, ma la stranezza della situazione è chiara anche a chi non riconosce l’ebraico antico con cui la signora si è espressa.

Già al tempo dei Rencontres d'après minuit (2013) di Yann Gonzalez ipotizzavo l'inizio, così incerto, forse del tutto sognato, di una sorta di poetica - evanescente, appannata, sfumante nel prorpio originario niente - del sogno, nei primi anni Dieci di questo nuovo secolo, quando del resto già Héléna Klotz aveva presentato a Berlino L'Âge atomique (2012) ed evocato il notturno, traslucido palpaitare della giovinezza in corpi così senzienti, dolenti, anelanti alla propria pienezza, alla propria estasi, da non reggere a questo peso e trascolorare in fosforescenza, veglia, lacrima brillante, cioè in musica, nell'ondeggiare dei synth, del dream pop, dell'elettronica eterea, malinconicamente retro.

Vérité c’est faux 

Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
Moi je n'ai pas d'étoile
Le ciel est immobile dans la mer
Moi je n'ai pas de mer.
Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
Pour voiler mon apparence de corps
Je cherche un voile imperméable
Aux regards de la vérité
Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
Elle m'apprenne que je souffre
Car alors je n'aurai pas le mensonge
Pour me dire que c'est faux

(Jean-Pierre Duprey, settembre 1946)

Oltre la mezzanotte del corpo, nel luogo fisico del cuore che pulsa, torna a manifestarsi l’allegoria della forza istintuale, possente: che appare in squarci di rossi e di blu fuori dalla retorica della forma, tanto che la scritta «OUT» nell’asfissia delle oscure ambientazioni al chiuso si fa paradigma di questa modalità estrema di fare cinema. E dentro la macchina infernale dell’occhio-movimento che torna, ripete, riprende, ri-vede, il regista francese costruisce, mimando il reale, o quel che ne resta, la struttura del farsi della visione, e del racconto nella visione.

Registi fuori dagli sche[r]mi IX

Nessuno immagina un mondo, o un modo, in cui la passione ardente, il desiderio, il bisogno di farsi uno con l'altro e sentirlo, prima di tutto nella carne, possano smettere di turbarci, infiammarci, di esercitare una forza e un controllo tirannici, magnetizzando così lo sguardo, orientandolo a un unico punto di fuga, verso cui tutto, affetti, pulsioni, violenze, sembrano convergere. E questo punto è la verità (e nudità) del corpo, magro, spento, quasi trasparente, dei carcerati di El Principe; corpi logori, consunti dall'incedere di un tempo sempre uguale, le risse, le lotte interne per il potere, le giornate vuote, il nichilismo della dimensione carceraria arginato dal sentimento gradualmente riacquisito.

Una dossologia del vento che si trasforma in acqua, prima odore, poi sparizione. Drift non è un racconto e se lo è esso è solo l’inizio di una leggenda raccontata dentro i bordì di un cafè e di due donne - Josephine e Thereza - che ad un certo punto si separano e tutto ciò che accadrà dopo sarà solo l’inizio di un viaggio, attraversando l’oceano, annullando confini, limiti, parole. Drift è sguardo che conduce, ipnosi o movimento allucinato del mare che annienta, dissolve, si lascia attraversare.

Dei molti discorsi possibili a proposito di, e a partire da, La Mafia Non È Più Quella D’una Volta scriverei qui solamente di un significato di seconda battuta, una riflessione emergente a posteriori e angolata secondo una prospettiva prettamente comunicazionale. La mafia è uno straordinario capolavoro dell'evoluzione di specie, se pensiamo che ben più di ratti e blatte, ha saputo sviluppare un'incredibile capacità di adattamento e sopravvivenza ai mutamenti di contesto e d’ambiente.

Se c’è un regista da cui aspettarsi qualsiasi cosa ogni volta esce un suo film, che sia la manipolazione del genere, l’esorbitazione degenere, la mistione tra filosofema e civismo, corporeità e spettralità, oppure la febbrile interrogazione dell’io in disfacimento, riedificazione, alterazione; quello è Bertrand Bonello, già dai tempi di Quelque chose d’organique in cui peraltro mostrava una fede incrollabile nell’immagine, e un rispetto per la sua volumetria, per una trasparenza sempre trepida, sibilante, musicale dell’inquadratura, che resistono e anzi si sono rafforzati nell’ultimo Zombi Child, reduce dalla Quinzaine e ancora in giro per festival, rassegne, retrospettive – sarà anche a Bari, al Cineporto, domani alle 20.30 presentato dal regista.

 E' proprio questione di struttura dell’opera di Bonello, di scrittura, anzi di partitura, vista la sua formazione musicale: un contrappunto, un’ambiguità della messa in scena che fa emergere screzi, tonalità elusive, impressive, di accordi sospesi; insomma altre possibilità di senso dalla sedimentazione aerea delle immagini e dalla loro concatenazione, dalle ellissi silenziose o al ritmo di techno-alberi, techno-radure danzanti nella boscaglia (De la guerre); salti di senso, di coscienza, attraversando lunghi passaggi in penombra, abissi tra una scena e l’altra che sono quelli dei raccordi o degli stacchi siderali. Non è il significato che affiora dal prototipo del film bonelliano (anche se questo è sempre ravvisabile), quanto la congerie libera, volatile, disarticolata dei significanti, dei corpi, volti, e di alcuni luoghi topici: ad esempio il rarefatto eremo campestre in De la guerre, o il collegio e, al suo interno, il salone d’arte, il reliquiario in cui le ragazze di Zombi Child si incontrano di notte, oppure, ovviamente, il centro commerciale di Nocturama; e ancora, il set cinematografico di Le pornographe, dov’è in gioco il destino, l’identità del cineasta (del cineasta Bonello innanzitutto) teso tra l’insidia dell’alienazione e l’appiglio di una qualche dialettica, di una qualche poetica da perseverare nonostante la deriva utilitaristica del contemporaneo. Sono queste le polarità intorno a cui si dispone il cinema di Bonello, e tanto più in Zombi Child, modulate nel personaggio di Fanny, adolescente in qualche modo ottusa, collusa con il presente pecuniario, abumano, eppure in balia di un amore incontrollabile, ancestrale, che la sottrae all’alienazione e la riumanizza, in modo così insostenibile da farle cercare la morte o la dimenticanza, la subumana incoscienza dello zombie, preferibile all’assedio del dolore, allo scandalo dell’umano, del senso d’abbandono.

 I personaggi di Bonello sono tutti alla ricerca di una possibilità di vita o di mera sopravvivenza superando o sublimando quello che hanno perso, ciò di cui sono orfani, in un mondo che, con infrastrutture, omologazioni, stereotipi, eleva a potenza il dolore, un senso insoffribile di solitudine in mezzo al sordo via vai della civiltà. Ecco allora il legame stretto, quasi l’identità tra poetica e politica in questo cinema; il trasporto estetico, impulsionale, ai limiti del trascendente, che coincide con l’impegno, la denuncia, lo sdegno, come quello del regista Jacques Laurent (Jean-Pierre Léaud) nei confronti del cinema pornografico contemporaneo votato esclusivamente alla propria commerciabilità, al di là di ogni soluzione poetica, estetica (Le pornographe). Cioè al di là di ogni spreco, quello di un’eiaculazione (lo spreco spermatico invocato da Faucault contro il regime di produzione, di riproduzione), che secondo gli schemi del genere deve essere mostrata, spicciata sulle pareti di un qualche orifizio, sul volto, contro le labbra, e invece Laurent vuole sia schizzata in bocca, poi ingoiata, occultata allo sguardo e così riverbalizzata, immaginata.

È, sarebbe stata – se il produttore del film non avesse strappato la regia a Laurent nel mezzo della scena madre, riportando tutto ai canoni del film porno di consumo – la scoperta di una narrazione diversa, instaurando tra gli attori un’intimità fuori dalla compenetrazione meccanica dei corpi, viatico a un’estetica colta in flagranza amorosa: un corpo levigato, allo stesso tempo attrice e personaggio, che porta in sé il succo dell’altro e così se ne va. Come avrebbe fatto due anni dopo il fantasma di Daisy in The Brown Bunny, il capolavoro di Vincent Gallo, lasciando Bud alle prese con l’assedio dell’assenza.

 Sono storie d’amore, cioè storie di fantasmi (che magari anelano a divenire zombie, incoscienti, segnati da estrema ellissi), sono storie di cinema, che tengono insieme, in un iperuranio sospeso sopra le nostre teste, gli infiniti ectoplasmi pronti a incarnarsi ogni volta in una vicenda in carne e ossa, quella umana (scandalosamente umana) evocata ogni volta da Bonello, fatta di evanescenze, sparizioni, e del tentativo di sopravvivervi, di sopravvivere a questa guerra.

Ci sono film d’esordio che lasciano intuire un futuro, uno stile, un progetto che andrà via via perfezionandosi. La terra dell’abbastanza di Damiano e Fabio D’Innocenzo non rientra in questa categoria. Non è un film che richiede ulteriori prove di là da venire per comprendere che tutto si è immdiatamente compiuto. Il futuro è già presente, lo stile e il progetto già maturi. Insomma, i due – oggi giovani – autori, fratelli e gemelli anche nella completa simbiosi artistica, alla loro opera prima si dimostrano cresciuti.

 «-Perché continui a filmare?
- Per la memoria»

Carlo Emilio Gadda non si sarebbe affatto scomposto di fronte alla situazione di contenzione che si sta verificando in questo periodo, dedito com’era all’evasione mentale piuttosto che fisica: il titolo di un suo libro divenuto eponimo per me quando da ragazzo assistevo alla folle corsa del mondo, scandiva, lapidario e tragico come ogni volta, I viaggi, la morte, e si accordava a una certa avversione per il viaggio a sé stante, dichiarata in alcune lettere a Goffredo Parise, amico di una vita, compagno di scrittura, di versioni del mondo.

L’erranza, la smania nomade, ebete, come fuga dalle inferenze del pensiero e approdo all’aperitivo uno e trino; sono queste le pratiche – ataviche, sacralizzate – ora al vaglio di una nuova idea di contemporaneo (se è vero che bisognerà starsene un po’ più fermi, silenti, pensanti), e suonano, in contrappunto, come occasione di immersione nella vastità dell’immaginazione, punto fermo da cui si potrà ripartire guardando magari con occhi nuovi anche al momento della bibita, smeriglio rossastro in apoteosi di ghiacci o dolci, chiari e freschi sangui prefiguranti lì nel vetro le vertigini del tramonto oltre i tetti, entro cui fissare malinconie, prospettive, possibilità d’esserci.

Accade allora che per istinto di sopravvivenza, sopravvivenza di questa indispensabile immaginazione, che non è altro che immaginare il mondo cioè verificarlo, si trovi la via per perpetuarlo, perpetrarlo nella miriade di visioni che incarnano il nostro desiderio, il nostro desiderio di esserci, constatarci. Concerti, letture, dibattiti in videoconferenza, e il cinema ovviamente, su piattaforme, testimoniano di un adattarsi quasi evoluzionistico della cultura: un ampio catalogo dei film di «Fuori Orario» compare su Raiplay; qualcosa anche su Prime (inaspettato il Matinee di Joe Dante), su Netflix (tutto Miyazaki); festival e rassegne migrano on-line in attesa di poter tornare nei teatri, nelle sale, anche nei foyer a rimirarsi nei bicchieri rubicondi.

Insomma, tecniche di sopravvivenza, a cui aderisce anche la rassegna «Registi fuori dagli schermi»: e l’occasione è buona per tornare su cose scomparse o mostrarne di inedite, non rinunciando al confronto con i registi, primo dei quali sarà Mario Martone il 30 aprile, autore dell’Odore del sangue (visibile in streaming nei giorni precedenti), che sarà ospite del canale Facebook dell’Apulia Film Commission.

Uscito nel 2004 e presentato alla Quinzaine des realisateurs del Festival di Cannes di quell’anno, il film andava a coincidere con la riflessione corporale e l’esposizione senza censure della sessualità che si stavano svolgendo in quegli anni, condotte da Vincent Gallo l’anno prima in concorso a Cannes con The Brown Bunny e proseguita da Bruno Dumont qualche mese dopo, a Venezia, in Twentynine Palms, mentre nel 2005 uscirà Il gusto dell’anguria di Tsai Ming-liang, sfogo vitalista della fisicità, del pornografico. È il corpo, la nudità, l’erta sessualità mostrata agli albori del nuovo millennio, con esiti straordinari soprattutto nei casi di Gallo e Martone, i quali ne rivendicano il portato ancestrale, morboso, ontologico – che spasima proprio nella carne dell’immagine (del significante) – e la rinsaldano al Novecento di Bataille, Genet, e di Parise appunto, di cui Martone riprende un’inquietudine perpetua, l’urlo imploso, il dolore innominabile ma serpeggiante in ogni gesto dei protagonisti e dal contesto chiaroscurale tra città, interni borghesi e la campagna così trepida.

C'è un legame indissolubile nel film, una simbiosi condotta in virtù dei gradi di luce, di trasparenza, tra questo dolore e i luoghi in cui esso si manifesta o cerca di esorcizzarsi: luce mattutina, ferma, sopita, bianca di lenzuola e di brezza fuori; l’urlo lontano, sempre presente, delle rondini o il brusio della pioggia, sono il correlativo oggettivo di una sofferenza lancinante e senza rimedio, senza ragione, legata a qualcosa di oscuro, ctonio, a una malattia inscritta nel sorgere della vita, nell’insorgere del corpo, del sesso; sono l’odore del dolore di cui è intrisa ogni immagine, ogni sequenza del film, anche quella iniziale, nello scorcio marino, scoglioso, assolato, scorticato da De Andrè.

 Quei corpi nudi, così bianchi e liberi portano addosso lo stigma tumido della morte, vapore sangueo sul corpo di Lù così vivida nella rapsodia di luce e acqua marina, prefigurazione di quello di Silvia segnato da stigmate sotto i neon: c’è anche nell’aria più sospesa ed estatica una traccia conturbante, morbosa (come i sogni di Carlo), come di un mortifero sonante, in sintonia con Schumann e Chopin, come a Venezia, nella stanza d’albergo mentre i due litigano e Carlo quasi uccide Silvia ed entrano schegge di luce biada da fuori a innervare la danza disperata tra eros e thanatos, e Silvia dice «Facciamo l’amore: adesso sarebbe tanto più bello» a cui Carlo risponde sgomento «Tanto più bello cosa? Stavo per strangolarti» e lei: «Appunto».

«[…] Come dalla vicenda infaticabile

De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale

Dentro il vico marino in alto sale, . . . . . . .

Dentro il vico chè rosse in alto sale

Marino l’ali rosse dei fanali

Rabescavano l’ombra illanguidita […]»

(D. Campana, Genova)

Esiste una superficie da non sottovalutare nella filmografia e teatro grafia di Marco Bellocchio. La superficie che copre il letto di un fiume quasi prosciugato da una diga ma che continua a scorrere tra le ans(i)e del corso principale e dei film maggiori. Sotto un ponte, il Ponte Gobbo, come Rigoletto. Detto anche Ponte del Diavolo. Dal quale si scorge il fitto intreccio di visioni trasgressive e demoniache, allusive ed eretiche. Compresa, va da sé, quella de La visione del sabba. Tale superficie, cinematografica e biografica, coincide con una circostanziata porzione di territorio piacentino, immediatamente identificabile. È Bobbio, il centro del mondo.

Più di una volta, credo per rivendicare la normalità, naturalità del proprio sguardo, Piavoli ha rifiutato la definizione di “cinema di poesia” usata spesso per cercare di penetrare la sostanza sonante e lucente del suo cinema; per tentare un orientamento entro un'estetica della ripresa, dello scorcio gocciante, della messa in scena spontanea, arborescente, che sfugge a una prassi cinematografica, come dire, narratologica, d’altronde egemonica, e si pone in una zona altra, periferica, quella del crepuscolo estroflesso nella propria quiddità, diveniente forma cinematografica in forza di un lavoro di inquadramento degli elementi; una zona di silenzio annidatosi tra i covoni, le stoppie, le navate ecclesiali; di solitudini disperse nel deliquio dei campi o dei corsi d'acqua che crepitano ancora di riflessi. 

Ma a ben guardare questo procedimento peraltro ossimorico, cioè questa selezione dei quadri all'insegna della spontaneità (tentativo messo in atto innanzitutto nella pittura, come un Antonio Lopez ericiano); e la cristallizzazione, entro questa cornice, degli elementi espansi, brulicanti secondo una metrica, è proprio ciò che identifica la poesia: un'ellissi del concetto, una fuga dal discorso, direbbe Derrida, in nome della concentrazione semantica e del fluire dello scorcio composto, previsto (che appunto vede prima, e le trasceglie, le possibilità di ordinarsi in un quadro), che è il presupposto piavoliano, ma già nelle sue Poesie in 8mm degli anni Cinquanta e Sessanta.

Ma si potrebbe anche dire “presupposto pascoliano” se si considera la comune tensione verso le cose, emergenti nella loro fremente sostanza; quella nominalità di cui scriveva Gianfranco Contini a proposito dello stile di Pascoli ‒ e definendo la funzione dell’onomatopea, del post-grammaticale, del pre-grammaticale, insomma di quel fonosimbolismo divenuto poi eponimo nel Novecento ‒, cioè il ricorso ai nomi e agli oggetti, agli squarci che essi veicolano, anche al di là (cioè in un’oltranza che torna sempre su una fervida immobilità dello scorcio) dei verbi e delle azioni. Tutta una poesia rivolta alla persistenza delle cose che mentre si mostrano, diventano: quasi si trasfigurano in un’impressione di se stesse, in sogno evanescente, proprio in virtù della durata di questo persistere e del seme, del sema dell’occhio che vi si posa, la contemplazione atta a dilatare i suoni, i colori, le forme in un’eco di campo, di scorribanda, tornando poi alla fissità diveniente, misteriosa del convento e delle strade, le piazze, che restano mentre passa il tempo.

Si tratta di una delle sequenze più belle di tutto il cinema di Piavoli, forse la più rappresentativa del suo approccio alle immagini, quando in Voci nel tempo i bambini si avventurano nei boschi limitrofi al borgo, nell’incanto dei sentieri, dell’intrico vegetativo, poi slarghi improvvisi e ancora l’acqua grondante di raggi, dove sperimentare un momento di solitudine e di malinconia inspiegabile; fino a ritrovarsi nella risonanza del convento, da cui affiorano i canti di un tempo mistico, come se questa melodia essudasse dai muri antichi, dalle plaghe di marmo, divenendo il sentimento del tempo, il senso profondo di una «chiesa antica,/ romita,/ nell’ora in cui l’aria s’arancia/ e si scheggia ogni voce/ sotto l’arcata del cielo». La voce del tempo dunque, echeggiante in ambiente ecclesiale, laddove lo spessore, la propagazione dell’eco ‒ che è qui, ora, ma allo stesso tempo è già avanti, e riflette il proprio retroterra, nel rutilare dei toni ‒ dà conto della mole diacronica, lo scorrere delle stagioni già lampante nelle Stagioni del 1961, girato in 8mm con uno stupefacente effetto pittorico, del resto connaturato al mezzo. Ecco allora questa coincidenza (il convergere in una gnoseologia coerente), tra il rifiuto piavoliano del concetto di cinema di poesia (che è più uno schermirsi di fronte all’elogio degli esegeti) e lo spiccato procedimento poetico: il porsi naturalmente, come un fanciullino, dietro la macchina da presa e assumerne l’intrinseco, segreto, portato trasfigurante; perchè sembrerebbe essere nella trasfigurazione del segno (con esiti pittorici, cinematici, musicali ecc.), nel muoversi verso un altro-da-sé, la prerogativa della poesia. Lo stesso movimento, radicato alla durata, alle modificazioni del suono, che il Pasolini casarsese poteva osservare nella chiesa cattolica, luogo sincretistico di un paese in scomparizione, in cui l’eco testimonia del corso del tempo, della perdita delle illusioni di gioventù, e che è della stessa sostanza dell’onomatopea pascoliana così come della “voce scheggiante” di Caproni. Il suono del tempo, colto nel panorama del mondo (questo rapporto spazio-tempo, basculante sul perno del suono, a definire il fonosimbolismo), che da Pascoli si è sedimentato, anche mutandosi profondamente, nel Novecento, tanto da divenire immagine in Piavoli, e avendo coinvolto poetiche anche contrastanti tra loro: da Montale (soprattutto quello delle Occasioni), al Caproni di Ballo a Fontanigorda, a Pasolini, Bertolucci, fino alle soluzioni ermetiche di Alfonso Gatto, Sinisgalli, Luzi (che d’altronde non potevano non portare inscritto il segno fondante del Sentimento del tempo), non dimenticando la versione più visionaria di Campana.

Tutto un modo di vedere il mondo (scoprendone ed evocandone l’enigma) dispiegatosi nel Novecento, e che ha trovato in Piavoli un punto di snodo essenziale per la maturazione di certo cinema, tanto da essere il modello per molti registi delle nuove generazioni, tra cui Fabio Bobbio, autore dello splendido I cormorani (2016), che sembra proprio ripartire da quei bambini ‒ dialoganti così ingenuamente tra il brusio del mondo ‒ che all’inizio della primavera si erano addentrati nei boschi, tra alberi rosati, archivolti monastici e il muretto su cui si sono posizionati alla fine del giorno, anzi sono stati posti dal regista in modo da comporre l’ingenuità, la flagranza della scena, da cui assistere ancora una volta al miracolo del trascolorare delle cose. 

È un inquadrare incantati gli oggetti, la materia, i nomi: correlativo filmico del desiderio dei nomi, anche propri di persona, quando in estate lo sguardo di Piavoli si adagia sulla flagranza delle fanciulle in fiore che frusciano di gonna, di gambe tornite; e ne tocca i fianchi, la schiena, le natiche scoperte in una ridda gioiosa e sfrenata, nel momento in cui una musica latino-americana detta il ritmo. Un toccare, sfiorare del linguaggio cinematografico, che via via pare tornare allo stato di lingua primordiale, che è quel “toccare amoroso” di Barthes, poi quello ancora più carneo di Nancy, nelle punte di festante, ebbro erotismo, mentre le movenze della ragazza traboccano fuori dal vestito a fiori, definendo i termini di una delle scene più erotiche, più candidamente erotiche, del cinema degli anni Novanta. E questo “desiderio nominale”, finita l’estate, torna a riempire di senso e sostanza le cose e i luoghi che prima erano stati lo scenario del corteggiamento dei giovani, ronzanti in moto, delle passeggiate, dei balli: strade macerate di fogliame sparso; le note di piano che scuotono gli alberi adorni di ruggine; i vecchi a scongiurare la mestizia della pioggia, dei canterani, degli orologi che rimestano il silenzio. Appaiono nella stessa luminosità e flagranza della finzione, dell’ordinazione del quadro, in cui erano comparse e di cui si erano nutrite tutte le cose del film: i volti, i corpi rappresi nei cappotti, gli occhi liquidi dei vecchi, ansiosi di fronte allo specchio della macchina da presa, sono disposti nello spazio delimitato come trepide nature morte, e in alternanza a scene evidentemente tratte dal repertorio, carpite nell’incoscienza dei soggetti, che mostrano una volta di più il vibrare, la vitalità dell’immagine. Che è ciò che accade nell’inverno finale, il ruzzare dei bambini, gli scivoli sui nevai, sul ghiaccio aranciato; le grida sulla superficie trasparente, andante del Canone di Pachelbel che parrebbe non essere più extradiegetico, ma nascere da lì, da quel tramestio, da quel big bang di materia algida che va incendiandosi di tramonto, e compiersi, scomparsi tutti gli altri, nell’attraversamento ‒ della vita ‒ da parte del vecchio e del bambino ora immobili, quasi consegnati al proprio destino di disperata scomparizione, a comporre l’ultimo germinante quadro di un desiderio.  

Totò Che Visse Due Volte, favolaccia delle favolacce, me lo concedano i D’Innocenzo, in tre favolette cupe, i tre capitoli del film, in cui muovono le gesta picaresche dei figli ultimi della Ricotta pasoliniana, i figli ancor più degradati e vilipesi, ed anche favolaccia di novella inquisizione, la storia delle vicissitudini del film e della sua distribuzione, in una Italia da processi alle streghe che danna alla gogna questa pellicola invereconda a partire dal lontano1998, l’anno del suo passaggio veneziano.

La concitata forza del momento della visione del dipinto di Michelangelo Merisi, il movimento interno che inquadra le sette opere di misericordia a partire da quella schiena scoperta, dalla bocca a suggere il seno della donna, dai piedi lividi, diventa nel film di Gianluca e Massimiliano De Serio l’istantanea di una marginalità umana, resistente alle scosse violente del quotidiano: tutta una voragine esistenziale, laddove l’istinto di sopravvivenza si mescola alla brutalità del vivere ma si unisce, nel medesimo istante, alla grazia, che è compresenza di luce e buio: così Luminita a fluttuare in primo piano nel campo nero, il volto appena visibile su un bambino che piange, al chiarore di una palla cangiante, sole che si sposta nel vuoto e incanta, le lacrime s’asciugano, il pianto si ferma, ed è lì, in questo galleggiare azzurro nell’aria che s’apre la danza, s’allarga lo sguardo, lunghissimo piano sequenza a scavare gli occhi.

A chiudere l’anno, aspettando Tarkovskij, il primo affresco del “Dittico dei lirici” è di Carlo Hintermann, codiretto con Luciano Barcaroli, Gerardo Panichi e Daniele Villa: Rosy- Fingered Dawn

Torniamo all’epiteto omerico, soglia fra luce e buio, dì e notte, che è «Aurora dalle dita di rosa», quell’intrico di strade, asfalto contrapposto al cielo, auto sparse nella pioggia, battente sui vetri che sibilano al graffio dei tergicristalli, mentre cadono i titoli di testa sul campo mosso; interferenze, intermittenze, fari sfatti dalle sirene, dalle voci rotte dalla radio sui profili scuri. Terence Malick, la luce del riversarsi rosso aurorale da un traliccio ad un altro, comparso tratto a tratto mentre l’occhio della macchina da presa viaggia, si dilata nelle distese a perdersi – e voci sempre, fuori campo, didascalie documentano la visione, la poesia della visione– diventa racconto di un inseguire di nuvole, di dettagli d’erba, di pezzi di cielo: cosmogonia cinematografica, ragionare sulla vita e sulla morte prima che una o l’altra arrivino tra gli elmetti nei campi, a colorare fasci di vento nel moto ondoso della natura, nel silenzio intorno. Quel suo modo autentico, intuitivo ed estremamente preciso, di fare cinema, è espresso anaforicamente dalle scene del sole sulle pianure sterminate a inondare «tutta quella violenza» «di tenerezza e amore»: lo stesso Carlo Hintermann ha insistito con noi su questo, sull’idea cioè di Cinema come «acceleratore di particelle», che unisce, mette insieme, espandendo il creato. Ed è questo irrompere dell’inaspettato, forza ellittica, mancante, enigmatica del farsi luce a lasciare qualcosa, sempre, nell’ombra, compresa «la perdita dell’innocenza»: 

«Se andrò avanti io, ti aspetterò lì, dall’altra parte delle acque scure».

Presentata nel corso della 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Andrej Tarkovskij - Il cinema come preghiera è un’opera molto intima diretta da Andrey Tarkovskij, figlio omonimo del regista russo, che si sofferma sulla figura del padre, raccontandolo come uomo, come persona ma soprattutto come artista. Il film va oltre la definizione di documentario; è un omaggio, un ricordo personale che il regista ha del padre dopo trent’anni dalla sua morte, pone direttamente lo spettatore davanti a Tarkovskij, senza filtri, il suo pensiero raccontato dalle parole, dalla stessa voce del regista russo, lavorando con registrazioni audio, più di 800 ore, raccolte negli anni, insieme a immagini dai set e a personalissimi frammenti di vita. Il film è diviso in capitoli, ogni capitolo è dedicato a un film e ogni film cristallizza un determinato momento della vita del regista. La sua vita è nelle sue opere, ci sono i luoghi in cui sono stati girati i suoi film, contenitori di memoria, che anche a distanza di tempo continuano a conservare la magia emozionale dei set, poesia e mistero si incontrano per raccontare la sospensione del tempo. Viene ricordata la continuità poetica e culturale, tramandata di padre in figlio, dal poeta Arsenij al regista Andrej. Andrej Tarkovskij, come riportato in questo racconto filmico del figlio, attribuiva all’arte un senso di sacralità che avvicinava l’uomo al divino, l’arte intesa come una sublimazione della religione, e viceversa, il gesto artistico rende più prossima l’umanità a Dio, fare cinema è la preghiera del titolo del film, il leit motiv di questa opera, fare arte è l’offerta che il regista russo dona al suo pubblico, «i miei film sono la mia preghiera».

Tarkovskij affermava che i film non vanno capiti, ma vanno sentiti e si devono guardare con gli occhi di un bambino, perché i bambini sono spogli di qualsiasi costruzione mentale, bisogna lasciarsi stupire, così questo documentario è un incontro emotivo tra lo sguardo di Tarkovskij e quello dello spettatore perché come affermava Rilke, in Lettere a un giovane poeta, «Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato».

L’immagine è una lirica che abbraccia l’assoluto, racchiude l’essenza di luoghi distanti e presenti, traslando l’anima sul corpo filmico, impregnato dalla poesia di un altrove di cui si avverte l’esigenza e la necessità della sua presenza. Il murmŭr del vento accompagna l’occhio nell’infinita bellezza della natura, tra gli argentei alberi di ulivo, nelle campagne, tra le zolle brulle della terra scura lavorata dagli uomini, si insinua sottile nei silenzi assoluti avvolti dalla nebbia, dalla brina che imbianca i paesaggi umidi di lacrime e di memoria.

Il linguaggio si affida così alla visione, alla sua purezza, a quell’immagine che, tarkovskijanamente, «non può essere interpretata […] che possiede una quantità illimitata di legami con il mondo, con l’assoluto, con l’infinito» (Tarkovskij 2012, p. 1). Una narrazione sensoriale, epidermica, che scorre sulla pelle e attraverso i ricettori più sensibili, una trasposizione immaginifica e reale del tempo, dilatato e sospeso, in una realtà in bilico tra l’onirico e l’esperito, tanto tangibile quanto intangibile, in maniera equanime, in cui l’arte e la vita si fondono in un connubio unico, alimentato dalla santificazione dell’immagine. «Tutto quello che non esprime speranza, che non si basa su un livello spirituale, non ha relazione con l’arte», sottolinea nel film il regista.

Prima di definirsi regista Tarkovskij si raccontava attraverso le sue opere come poeta; la forma del tempo è un racconto lirico di anime in una danza mossa dal vento, tra il presente e il passato, in un futuro in cui l’uomo è un granello di assoluto. Tarkovskij sosteneva che «Il tempo è uno stato. È la fiamma nella quale vive la salamandra dell’anima dell’uomo. Il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra, sono le due facce di una stessa medaglia»

Andrej Tarkovskij - Il cinema come preghiera nasce da una necessità spirituale del figlio di raccontare il padre, di confrontarsi con l’artista, di ritrovare le sue parole, un viaggio emozionale e lirico attraverso i sentimenti famigliari, un omaggio accorato all’uomo. Il corpo filmico è il corpo umano, in una coincidenza fisica, in una compenetrazione totale, la vita si fa opera cinematografica e il cinema si muta in vita. L’immagine deraglia sulla vita, sua sovrapposizione, l’una interseca l’altra in una vicendevole narrazione, offrendo nello scorrere delle sequenze filmiche la ricerca della bellezza intesa come flusso magmatico dell’esistere, tarkovskijanamente, «contenitore di bellezza perché contenitore e contenuto di verità».

Più di una volta, credo per rivendicare la normalità, naturalità del proprio sguardo, Piavoli ha rifiutato la definizione di “cinema di poesia” usata spesso per cercare di penetrare la sostanza sonante e lucente del suo cinema; per tentare un orientamento entro un'estetica della ripresa, dello scorcio gocciante, della messa in scena spontanea, arborescente, che sfugge a una prassi cinematografica, come dire, narratologica, d’altronde egemonica, e si pone in una zona altra, periferica, quella del crepuscolo estroflesso nella propria quiddità, diveniente forma cinematografica in forza di un lavoro di inquadramento degli elementi; una zona di silenzio annidatosi tra i covoni, le stoppie, le navate ecclesiali; di solitudini disperse nel deliquio dei campi o dei corsi d'acqua che crepitano ancora di riflessi. 

Ma a ben guardare questo procedimento peraltro ossimorico, cioè questa selezione dei quadri all'insegna della spontaneità (tentativo messo in atto innanzitutto nella pittura, come un Antonio Lopez ericiano); e la cristallizzazione, entro questa cornice, degli elementi espansi, brulicanti secondo una metrica, è proprio ciò che identifica la poesia: un'ellissi del concetto, una fuga dal discorso, direbbe Derrida, in nome della concentrazione semantica e del fluire dello scorcio composto, previsto (che appunto vede prima, e le trasceglie, le possibilità di ordinarsi in un quadro), che è il presupposto piavoliano, ma già nelle sue Poesie in 8mm degli anni Cinquanta e Sessanta.

Ma si potrebbe anche dire “presupposto pascoliano” se si considera la comune tensione verso le cose, emergenti nella loro fremente sostanza; quella nominalità di cui scriveva Gianfranco Contini a proposito dello stile di Pascoli ‒ e definendo la funzione dell’onomatopea, del post-grammaticale, del pre-grammaticale, insomma di quel fonosimbolismo divenuto poi eponimo nel Novecento ‒, cioè il ricorso ai nomi e agli oggetti, agli squarci che essi veicolano, anche al di là (cioè in un’oltranza che torna sempre su una fervida immobilità dello scorcio) dei verbi e delle azioni. Tutta una poesia rivolta alla persistenza delle cose che mentre si mostrano, diventano: quasi si trasfigurano in un’impressione di se stesse, in sogno evanescente, proprio in virtù della durata di questo persistere e del seme, del sema dell’occhio che vi si posa, la contemplazione atta a dilatare i suoni, i colori, le forme in un’eco di campo, di scorribanda, tornando poi alla fissità diveniente, misteriosa del convento e delle strade, le piazze, che restano mentre passa il tempo.

Si tratta di una delle sequenze più belle di tutto il cinema di Piavoli, forse la più rappresentativa del suo approccio alle immagini, quando in Voci nel tempo i bambini si avventurano nei boschi limitrofi al borgo, nell’incanto dei sentieri, dell’intrico vegetativo, poi slarghi improvvisi e ancora l’acqua grondante di raggi, dove sperimentare un momento di solitudine e di malinconia inspiegabile; fino a ritrovarsi nella risonanza del convento, da cui affiorano i canti di un tempo mistico, come se questa melodia essudasse dai muri antichi, dalle plaghe di marmo, divenendo il sentimento del tempo, il senso profondo di una «chiesa antica,/ romita,/ nell’ora in cui l’aria s’arancia/ e si scheggia ogni voce/ sotto l’arcata del cielo». La voce del tempo dunque, echeggiante in ambiente ecclesiale, laddove lo spessore, la propagazione dell’eco ‒ che è qui, ora, ma allo stesso tempo è già avanti, e riflette il proprio retroterra, nel rutilare dei toni ‒ dà conto della mole diacronica, lo scorrere delle stagioni già lampante nelle Stagioni del 1961, girato in 8mm con uno stupefacente effetto pittorico, del resto connaturato al mezzo. Ecco allora questa coincidenza (il convergere in una gnoseologia coerente), tra il rifiuto piavoliano del concetto di cinema di poesia (che è più uno schermirsi di fronte all’elogio degli esegeti) e lo spiccato procedimento poetico: il porsi naturalmente, come un fanciullino, dietro la macchina da presa e assumerne l’intrinseco, segreto, portato trasfigurante; perchè sembrerebbe essere nella trasfigurazione del segno (con esiti pittorici, cinematici, musicali ecc.), nel muoversi verso un altro-da-sé, la prerogativa della poesia. Lo stesso movimento, radicato alla durata, alle modificazioni del suono, che il Pasolini casarsese poteva osservare nella chiesa cattolica, luogo sincretistico di un paese in scomparizione, in cui l’eco testimonia del corso del tempo, della perdita delle illusioni di gioventù, e che è della stessa sostanza dell’onomatopea pascoliana così come della “voce scheggiante” di Caproni. Il suono del tempo, colto nel panorama del mondo (questo rapporto spazio-tempo, basculante sul perno del suono, a definire il fonosimbolismo), che da Pascoli si è sedimentato, anche mutandosi profondamente, nel Novecento, tanto da divenire immagine in Piavoli, e avendo coinvolto poetiche anche contrastanti tra loro: da Montale (soprattutto quello delle Occasioni), al Caproni di Ballo a Fontanigorda, a Pasolini, Bertolucci, fino alle soluzioni ermetiche di Alfonso Gatto, Sinisgalli, Luzi (che d’altronde non potevano non portare inscritto il segno fondante del Sentimento del tempo), non dimenticando la versione più visionaria di Campana.

Tutto un modo di vedere il mondo (scoprendone ed evocandone l’enigma) dispiegatosi nel Novecento, e che ha trovato in Piavoli un punto di snodo essenziale per la maturazione di certo cinema, tanto da essere il modello per molti registi delle nuove generazioni, tra cui Fabio Bobbio, autore dello splendido I cormorani (2016), che sembra proprio ripartire da quei bambini ‒ dialoganti così ingenuamente tra il brusio del mondo ‒ che all’inizio della primavera si erano addentrati nei boschi, tra alberi rosati, archivolti monastici e il muretto su cui si sono posizionati alla fine del giorno, anzi sono stati posti dal regista in modo da comporre l’ingenuità, la flagranza della scena, da cui assistere ancora una volta al miracolo del trascolorare delle cose. 

È un inquadrare incantati gli oggetti, la materia, i nomi: correlativo filmico del desiderio dei nomi, anche propri di persona, quando in estate lo sguardo di Piavoli si adagia sulla flagranza delle fanciulle in fiore che frusciano di gonna, di gambe tornite; e ne tocca i fianchi, la schiena, le natiche scoperte in una ridda gioiosa e sfrenata, nel momento in cui una musica latino-americana detta il ritmo. Un toccare, sfiorare del linguaggio cinematografico, che via via pare tornare allo stato di lingua primordiale, che è quel “toccare amoroso” di Barthes, poi quello ancora più carneo di Nancy, nelle punte di festante, ebbro erotismo, mentre le movenze della ragazza traboccano fuori dal vestito a fiori, definendo i termini di una delle scene più erotiche, più candidamente erotiche, del cinema degli anni Novanta. E questo “desiderio nominale”, finita l’estate, torna a riempire di senso e sostanza le cose e i luoghi che prima erano stati lo scenario del corteggiamento dei giovani, ronzanti in moto, delle passeggiate, dei balli: strade macerate di fogliame sparso; le note di piano che scuotono gli alberi adorni di ruggine; i vecchi a scongiurare la mestizia della pioggia, dei canterani, degli orologi che rimestano il silenzio. Appaiono nella stessa luminosità e flagranza della finzione, dell’ordinazione del quadro, in cui erano comparse e di cui si erano nutrite tutte le cose del film: i volti, i corpi rappresi nei cappotti, gli occhi liquidi dei vecchi, ansiosi di fronte allo specchio della macchina da presa, sono disposti nello spazio delimitato come trepide nature morte, e in alternanza a scene evidentemente tratte dal repertorio, carpite nell’incoscienza dei soggetti, che mostrano una volta di più il vibrare, la vitalità dell’immagine. Che è ciò che accade nell’inverno finale, il ruzzare dei bambini, gli scivoli sui nevai, sul ghiaccio aranciato; le grida sulla superficie trasparente, andante del Canone di Pachelbel che parrebbe non essere più extradiegetico, ma nascere da lì, da quel tramestio, da quel big bang di materia algida che va incendiandosi di tramonto, e compiersi, scomparsi tutti gli altri, nell’attraversamento ‒ della vita ‒ da parte del vecchio e del bambino ora immobili, quasi consegnati al proprio destino di disperata scomparizione, a comporre l’ultimo germinante quadro di un desiderio.  

Più di una volta, credo per rivendicare la normalità, naturalità del proprio sguardo, Piavoli ha rifiutato la definizione di “cinema di poesia” usata spesso per cercare di penetrare la sostanza sonante e lucente del suo cinema; per tentare un orientamento entro un'estetica della ripresa, dello scorcio gocciante, della messa in scena spontanea, arborescente, che sfugge a una prassi cinematografica, come dire, narratologica, d’altronde egemonica, e si pone in una zona altra, periferica, quella del crepuscolo estroflesso nella propria quiddità, diveniente forma cinematografica in forza di un lavoro di inquadramento degli elementi; una zona di silenzio annidatosi tra i covoni, le stoppie, le navate ecclesiali; di solitudini disperse nel deliquio dei campi o dei corsi d'acqua che crepitano ancora di riflessi. 

Ma a ben guardare questo procedimento peraltro ossimorico, cioè questa selezione dei quadri all'insegna della spontaneità (tentativo messo in atto innanzitutto nella pittura, come un Antonio Lopez ericiano); e la cristallizzazione, entro questa cornice, degli elementi espansi, brulicanti secondo una metrica, è proprio ciò che identifica la poesia: un'ellissi del concetto, una fuga dal discorso, direbbe Derrida, in nome della concentrazione semantica e del fluire dello scorcio composto, previsto (che appunto vede prima, e le trasceglie, le possibilità di ordinarsi in un quadro), che è il presupposto piavoliano, ma già nelle sue Poesie in 8mm degli anni Cinquanta e Sessanta.

Ma si potrebbe anche dire “presupposto pascoliano” se si considera la comune tensione verso le cose, emergenti nella loro fremente sostanza; quella nominalità di cui scriveva Gianfranco Contini a proposito dello stile di Pascoli ‒ e definendo la funzione dell’onomatopea, del post-grammaticale, del pre-grammaticale, insomma di quel fonosimbolismo divenuto poi eponimo nel Novecento ‒, cioè il ricorso ai nomi e agli oggetti, agli squarci che essi veicolano, anche al di là (cioè in un’oltranza che torna sempre su una fervida immobilità dello scorcio) dei verbi e delle azioni. Tutta una poesia rivolta alla persistenza delle cose che mentre si mostrano, diventano: quasi si trasfigurano in un’impressione di se stesse, in sogno evanescente, proprio in virtù della durata di questo persistere e del seme, del sema dell’occhio che vi si posa, la contemplazione atta a dilatare i suoni, i colori, le forme in un’eco di campo, di scorribanda, tornando poi alla fissità diveniente, misteriosa del convento e delle strade, le piazze, che restano mentre passa il tempo.

Si tratta di una delle sequenze più belle di tutto il cinema di Piavoli, forse la più rappresentativa del suo approccio alle immagini, quando in Voci nel tempo i bambini si avventurano nei boschi limitrofi al borgo, nell’incanto dei sentieri, dell’intrico vegetativo, poi slarghi improvvisi e ancora l’acqua grondante di raggi, dove sperimentare un momento di solitudine e di malinconia inspiegabile; fino a ritrovarsi nella risonanza del convento, da cui affiorano i canti di un tempo mistico, come se questa melodia essudasse dai muri antichi, dalle plaghe di marmo, divenendo il sentimento del tempo, il senso profondo di una «chiesa antica,/ romita,/ nell’ora in cui l’aria s’arancia/ e si scheggia ogni voce/ sotto l’arcata del cielo». La voce del tempo dunque, echeggiante in ambiente ecclesiale, laddove lo spessore, la propagazione dell’eco ‒ che è qui, ora, ma allo stesso tempo è già avanti, e riflette il proprio retroterra, nel rutilare dei toni ‒ dà conto della mole diacronica, lo scorrere delle stagioni già lampante nelle Stagioni del 1961, girato in 8mm con uno stupefacente effetto pittorico, del resto connaturato al mezzo. Ecco allora questa coincidenza (il convergere in una gnoseologia coerente), tra il rifiuto piavoliano del concetto di cinema di poesia (che è più uno schermirsi di fronte all’elogio degli esegeti) e lo spiccato procedimento poetico: il porsi naturalmente, come un fanciullino, dietro la macchina da presa e assumerne l’intrinseco, segreto, portato trasfigurante; perchè sembrerebbe essere nella trasfigurazione del segno (con esiti pittorici, cinematici, musicali ecc.), nel muoversi verso un altro-da-sé, la prerogativa della poesia. Lo stesso movimento, radicato alla durata, alle modificazioni del suono, che il Pasolini casarsese poteva osservare nella chiesa cattolica, luogo sincretistico di un paese in scomparizione, in cui l’eco testimonia del corso del tempo, della perdita delle illusioni di gioventù, e che è della stessa sostanza dell’onomatopea pascoliana così come della “voce scheggiante” di Caproni. Il suono del tempo, colto nel panorama del mondo (questo rapporto spazio-tempo, basculante sul perno del suono, a definire il fonosimbolismo), che da Pascoli si è sedimentato, anche mutandosi profondamente, nel Novecento, tanto da divenire immagine in Piavoli, e avendo coinvolto poetiche anche contrastanti tra loro: da Montale (soprattutto quello delle Occasioni), al Caproni di Ballo a Fontanigorda, a Pasolini, Bertolucci, fino alle soluzioni ermetiche di Alfonso Gatto, Sinisgalli, Luzi (che d’altronde non potevano non portare inscritto il segno fondante del Sentimento del tempo), non dimenticando la versione più visionaria di Campana.

Tutto un modo di vedere il mondo (scoprendone ed evocandone l’enigma) dispiegatosi nel Novecento, e che ha trovato in Piavoli un punto di snodo essenziale per la maturazione di certo cinema, tanto da essere il modello per molti registi delle nuove generazioni, tra cui Fabio Bobbio, autore dello splendido I cormorani (2016), che sembra proprio ripartire da quei bambini ‒ dialoganti così ingenuamente tra il brusio del mondo ‒ che all’inizio della primavera si erano addentrati nei boschi, tra alberi rosati, archivolti monastici e il muretto su cui si sono posizionati alla fine del giorno, anzi sono stati posti dal regista in modo da comporre l’ingenuità, la flagranza della scena, da cui assistere ancora una volta al miracolo del trascolorare delle cose. 

È un inquadrare incantati gli oggetti, la materia, i nomi: correlativo filmico del desiderio dei nomi, anche propri di persona, quando in estate lo sguardo di Piavoli si adagia sulla flagranza delle fanciulle in fiore che frusciano di gonna, di gambe tornite; e ne tocca i fianchi, la schiena, le natiche scoperte in una ridda gioiosa e sfrenata, nel momento in cui una musica latino-americana detta il ritmo. Un toccare, sfiorare del linguaggio cinematografico, che via via pare tornare allo stato di lingua primordiale, che è quel “toccare amoroso” di Barthes, poi quello ancora più carneo di Nancy, nelle punte di festante, ebbro erotismo, mentre le movenze della ragazza traboccano fuori dal vestito a fiori, definendo i termini di una delle scene più erotiche, più candidamente erotiche, del cinema degli anni Novanta. E questo “desiderio nominale”, finita l’estate, torna a riempire di senso e sostanza le cose e i luoghi che prima erano stati lo scenario del corteggiamento dei giovani, ronzanti in moto, delle passeggiate, dei balli: strade macerate di fogliame sparso; le note di piano che scuotono gli alberi adorni di ruggine; i vecchi a scongiurare la mestizia della pioggia, dei canterani, degli orologi che rimestano il silenzio. Appaiono nella stessa luminosità e flagranza della finzione, dell’ordinazione del quadro, in cui erano comparse e di cui si erano nutrite tutte le cose del film: i volti, i corpi rappresi nei cappotti, gli occhi liquidi dei vecchi, ansiosi di fronte allo specchio della macchina da presa, sono disposti nello spazio delimitato come trepide nature morte, e in alternanza a scene evidentemente tratte dal repertorio, carpite nell’incoscienza dei soggetti, che mostrano una volta di più il vibrare, la vitalità dell’immagine. Che è ciò che accade nell’inverno finale, il ruzzare dei bambini, gli scivoli sui nevai, sul ghiaccio aranciato; le grida sulla superficie trasparente, andante del Canone di Pachelbel che parrebbe non essere più extradiegetico, ma nascere da lì, da quel tramestio, da quel big bang di materia algida che va incendiandosi di tramonto, e compiersi, scomparsi tutti gli altri, nell’attraversamento ‒ della vita ‒ da parte del vecchio e del bambino ora immobili, quasi consegnati al proprio destino di disperata scomparizione, a comporre l’ultimo germinante quadro di un desiderio.  

Totò Che Visse Due Volte, favolaccia delle favolacce, me lo concedano i D’Innocenzo, in tre favolette cupe, i tre capitoli del film, in cui muovono le gesta picaresche dei figli ultimi della Ricotta pasoliniana, i figli ancor più degradati e vilipesi, ed anche favolaccia di novella inquisizione, la storia delle vicissitudini del film e della sua distribuzione, in una Italia da processi alle streghe che danna alla gogna questa pellicola invereconda a partire dal lontano1998, l’anno del suo passaggio veneziano.

 Dei molti discorsi possibili a proposito di e a partire da La Mafia Non È Più Quella D’una Volta scriverei qui solamente di un significato di seconda battuta, una riflessione emergente a posteriori e angolata secondo una prospettiva prettamente comunicazionale. La mafia è uno straordinario capolavoro dell'evoluzione di specie, che ben più di ratti e blatte ha sviluppato un'incredibile capacità di adattamento e sopravvivenza ai mutamenti di contesto ambientale, economico e sociale, riuscendo a mantenere sempre la propria posizione di vertice tra le specie predatorie. Qui si cercherà di riflettere su come questo processo abbia investito di pari passo anche gli aspetti mediatici di comunicazione dell'immagine, il campo entro cui si muovono tanto Ciccio Mira che Maresco, e che quindi anche "L'immagine Della Mafia Non E' Più L'immagine Di Una Volta".

Registi fuori dagli sche[r]mi X

L'attenzione, lo sguardo sempre aperto, vibrante, verso personaggi conturbanti, eccessivi nel senso dello straripamento delle facoltà dell'essere, eccedenza che, a ben guardare, scandisce, realizza appieno l'essere secondo ingiunzione nietzschiana: ecce homo; è uno dei fuochi, delle messe a fuoco, del cinema di Michele Placido, dando ormai per pronto il suo Caravaggio che idealmente si ricongiunge al Dino Campana di Un viaggio chiamato amore. È in ragione di questi eccessi o straripamenti d'io, di queste necessitate enfasi nelle movenze dei personaggi, accesi dagli spasmi dei nervi, dei desideri sormontanti; di certi squilibri nella messa in scena che questo cinema resta uno dei più connotati e interessanti del panorama italiano contemporaneo. Un cinema che non ha paura di mostrare la carne – o d'altra parte “la carta”, la letterarietà a cui la carne arriva per via degli eccessi appunto, dei tormenti, dei deliri –, la contraddizione, l'irruenza del desiderio inscritto nell'atto stesso del filmare. Per questo motivo la rassegna barese “Registi fuori dagli scheRmi” che nell'ultimo anno, costretta a migrare sul web a causa della pandemia, si è dedicata ad autori italiani e a film dimenticati o discussi tra cui Martone e il suo Odore del sangue, Maresco, Bellocchio, ecc., torna in presenza il 24 giugno dedicando una serata a Placido (che sarà presente a Bari insieme a Cristina Piccino presso l'arena della Film House di Apulia Film Commission) e al film che più di tutti ha ispirato negli ultimi anni una sorta di mitologia del dibattito critico, proprio della critica in quanto messa in scena del dissenso, nel 2004, alla Mostra di Venezia, quando fu presentato in concorso Ovunque sei. Ma c'era qualcosa che non andava in quel dissenso, ed era il piglio con cui lo si esercitava, il cipiglio del cinefilo disdegnoso; era certa ilarità di scherno sciorinata da una parte della critica che il più delle volte tradiva la superficialità dello sguardo, forse la pigrizia con cui si approcciava a un palinsesto di immagini anomalo, asimmetrico, cioè, in questo caso, aperto alle intrusioni, alle prospezioni dello sguardo. Mi verrebbe da dire, se non corressi il rischio di risultare pedante, che la critica – in quanto reinvenzione, declinazione proteiforme dell'opera – è cosa seria e richiede analisi, argomentazione, tanto più oggi che impera l'estetica della cagnara, della freddura a tutti i costi sui social network. Anche la cosiddetta stroncatura – forma di discorso verso cui sono poco incline e che in Italia vanta una certa tradizione: si pensi a Berardinelli – necessita di serietà, approfondimento, perché non sia semplice invettiva, o epifonema di mentecatto, peto che però sbotta dalla bocca.

Quell'anno a Venezia c'erano Hou Hsiao Hsien e Jia Zhangke che mi diedero un gran appagamento estetico, Desplechin che me ne diede in termini di strutture narrative in azione, ma le emozioni vennero da Kim Ki Duk e da Placido appunto, dal dimenarsi disperato, carneo, dei suoi personaggi, anime destinate a sperimentare la vita nella naturale appendice del ricordo, e nella lacerazione, nella distanza tra gli esseri, nel rimorso fattosi spazio, e tempo. «L'anima, quello che diciamo l'anima e non è/ che una fitta di rimorso» scrive Sereni nell'Intervista a un suicida; non è che il piano, in Ovunque sei, piano cinematografico evidentemente, e piano basculante da una dimensione all'altra (tra la vita e la morte e un dopo limbico e chissà quanti altri stadi di coscienza), terreno su cui si sperimenta, nei termini, nella carne dell'immagine, la distanza dall'altro non più colmabile (questo è il rimorso), la distanza tra le figure (che pure continuano a toccarsi, a sfiorarsi in un'eco eterna, in un riverbero acqueo) avviate a scontare la propria solitudine nel transito da un piano all'altro, come se non ci fosse realtà più urgente (unica possibilità di sussistenza) che quella cinematografica, come se la vita e la morte apparente che ci prende alla fine della vita non fossero che stati connaturati alla realtà dell'opera, ai gangli del montaggio, alle immagini trascoloranti una nell'altra (da una dimensione all'altra, da un metabolismo all'altro, come Elena s'incarna, anzi di disincarna in Emma) sulla base del loro riflesso che allora è ciò che le collega, è ponte di passaggio, come quello da cui precipita l'ambulanza avviando la ridda del ricordo, o del sogno, o semplicemente del film. Specchi d'acqua, apnee in fondo al fiume, volti che si specchiano e si perdono nei finestrini, tra le vetrate, nell'eco dei lampioni e delle nubi notturne: tutto trama in favore della compenetrazione tra le immagini e i corpi e le anime via via apparenti nella sostanza transeunte, sfumante del riflesso; e così in favore del transito verso altre ipotesi di messa in scena. Quella che può apparire un'affettazione nella rappresentazione – recitazione sopra le righe; dialoghi enfatici, artificiosi, incastonati a forza nella supposta fluidità della mimesi a 24 fotogrammi al secondo; musiche autunnali, fluviali di Ludovico Einaudi – è in realtà il passaggio progressivo a forme di teatralizzazione dei personaggi, perché – in pose e battute artate o decantate, disarmate rimuginazioni: «perché la vita nell'atto stesso in cui la viviamo è sempre, sempre così ingorda di se stessa, che non si lascia mai assaporare: il sapore è nel passato, sì il passato che ci rimane vivo, dentro; il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati» – tradiscano ed esibiscano, tragici e ridicoli come ogni volta, la loro origine e il loro destino letterari, poetici (non a caso tra gli sceneggiatori ci sono due scrittori come Francesco Piccolo e Domenico Starnone) e così i loro eccessi umani troppo umani, ché non c'è possibilità di vita fuori dall'opera, fuori dalla poetizzazione del mondo.  

Il cinema di Giuseppe Gaudino si muove – al limite nello scarto, nello scatto tra fotogramma e fotogramma, nel tratto umbratile, chiaroscurale che separa la sagoma dalla sagoma – su un versante non-mimetico, anzi si direbbe consapevolmente anti-mimetico, nonostante lo spunto sia antropologico. Si muove in un ecosistema espressionista in cui lo sguardo dell'autore piuttosto che assorbire passivamente l'immagine proveniente dalla realtà, la scava, la penetra facendone emergere le essenze ctonie, profonde, viscose, con le quali poi allestisce una messa in scena che si fa, si sfa di simboli, miti (è uno sfarinarsi delle figure mentre ritornano dal passato, una perdita di contorni, uno smemorarsi del movimento), quindi di ellissi narrative in cui le figure vagano come fantasmi carnei, spasmodici alla ricerca del proprio spazio, del proprio tempo che, alla fine non possono che essere lo spazio e il tempo del cinema, questo piano d'esistenza arcano in cui si gioca nietzschianamente il giro di lune, il ritornare a essere delle cose. Ecco allora il continuo inquieto rispecchiarsi del contemporaneo con le proprie origini arcaiche, mitiche. L'affiorare di un che di animato (di disegno animato) nel suo cinema, è il rivenire delle immagini dalle profondità del tempo che non può che essere fisiologicamente onirico, fantasmatico: un meccanismo, la nudità della meccanica semovenza delle sagome, frutto di un salto di frames, di una perdita di fotogrammi avvenuta nel corso di questa reminiscenza. Per questo, per essere forse il maggior esponente di un'estetica minoritaria quanto esaltante, Gaudino è una figura centrale nel cinema italiano, ammantata essa stessa di mito, se si pensa che devono passare diciott'anni prima che all'esordio di Giro di lune tra terra e mare (1997) succeda il suo secondo lungometraggio di finzione, Per Amor Vostro presentato nel 2015 alla Mostra di Venezia nell'attesa fremente di tutti quelli che ancora portavano negli occhi i bagliori, i riflessi di un giro di lune.

Paolo Benvenuti è uno storiografo che parla la lingua del cinema. Da questa premessa deriva anche la convinzione, ferma, della possibilità di leggere, o rileggere, l’intera storia del cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri su base rigorosamente documentale, sgombrando anche il campo da strade maestre ideologiche che hanno pesato e pesano da oltre mezzo secolo e solo per inerzia si sono protratte decennio dopo decennio. E soprattutto alla luce di un malessere diffuso, una stizza, una forte delusione, un’inquietudine senza sbocchi, un costante bisogno di beffarsi dei padri o dei fratelli maggiori, unito ad un sottile vena di frustrazione, amarezza o malinconia. Seppure dentro parametri discorsivi cinematografici e soluzioni stilistiche divergenti, sono sintomi riferibili a una svolta tradita, un appuntamento con la storia auspicato, mistificato e mancato, una possibilità incompiuta di realtà aperta e di trasparenza socio-politica che risale agli anni del neorealismo e assume caratteri di lunga durata, comunque si manifestino. Caratteri che hanno generato un sottosistema testuale – e inevitabilmente, per dirla con Bellour, un «sistema inconscio» - in cui si avvicendano forme sparse di continuità e di contrapposizione generazionale, ossessioni ricorrenti, scelte di consenso e atti di negazione dichiarata, gesti liberatori e disperati, fughe, ripetizioni doverose e drastici rifiuti. Ma che partecipano, tutti questi sintomi, nel loro complesso e nella loro complessità, di tale storia. La storia del cinema, certo. Una storia non a circuito chiuso, e in molti punti da riscrivere, che riflette spesso in modo speculare, con le ampie zone di indicibilità, di sentieri smarriti, false piste, analisi puntuali, puntigliose e nel contempo fuorvianti, la storia tout court: la storia segreta italiana o la storia dei segreti italiani, delle ombre, dei misteri, della verità in fieri.

A questo scopo va compreso con effetto attivo e retroattivo il lavoro – e le peculiarità - del fondamentale Segreti di Stato (2003) di Benvenuti, occorre innanzitutto partire da un’analisi comparata con Salvatore Giuliano (1962), il capolavoro di Francesco Rosi che per primo si è occupato della strage del primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra. Diversamente, si corre il rischio di contrapporre un film all’altro. O un autore all’altro, sulla base. Innanzitutto, per dirimere la questione sul piano linguistico, va detto che sia il film di Rosi che quello di Benvenuti agiscono sul piano iconico, del distacco critico e dell’astrazione, non su quello immediatamente riproduttivo. Ciò risulta più chiaro in Segreti di Stato, in cui l’autore evita accuratamente di ricostruire in maniera “realistica” gli eventi. O i cinegiornali. Egli sceglie ogni sorta di rielaborazione iconica che dia l’idea dell’artificio e dell’interpretazione: i disegni monocolore e contornati su carta o sulla lavagna, i plastici, lo specchio, le fotografie-carte, oggetti come gli accendini o le sigarette disposti su un tavolo del carcere o sulla scrivania del professore in modo da restituire le posizioni di chi sparò a Portella. E sin dall’incipit del suo film su Portella esibisce, come Welles nella sequenza del cinegiornale News on the March di Quarto potere (Citizen Kane 1941), l’«enunciazione simulata». Benvenuti insomma marca le distanze dalla realtà ostentando la ricostruzione cinematografica dei fatti compiuta dai cinegiornali come pratica discorsiva menzognera. Le differenze tra Salvatore Giuliano e Segreti di Stato riguardano il particolare approccio iconologico ai fatti rievocati. Il grado, questo sì: diverso, di astrazione. Si può dire che Rosi scelga icone di tipo realistico, dinamiche, quelle che Eco definisce icone «temporate». E provvede, anche con interventi antifrastici, come si è visto, a contraddire lo stesso effetto di realtà che tali icone dotate di movimento evocano nello spettatore. Benvenuti invece predilige icone fisse, in grado di ingenerare un effetto maggiore, o alternativo, di straniamento. Alla base dei differenti procedimenti adottati in Salvatore Giuliano e in Segreti di Stato, ci sembra essere il rapporto istituito sempre da Eco già richiamato nel capitolo precedente tra «ratio facilis» (Rosi, il quale ha comunque alle spalle il neorealismo e il magistero viscontiano) e «ratio difficilis» (Benvenuti, che appartiene a una generazione successiva e prende le mosse da altri modelli di rappresentazione cinematografica, dal Rossellini televisivo a Straub-Huillet). Un perfetto esempio di rapporto tra queste due «ratio» lo si trova all’interno dello stesso Segreti di Stato, quando il perito fa notare all’avvocato che i bossoli ritrovati a Portella, a causa delle loro dimensioni, generano “confusione”: il calibro 9 è più piccolo del 6,5. Il calibro e il rapporto sono inversamente proporzionali («ratio difficilis»), contrariamente alle impressioni («ratio facilis»). Sui contadini in festa erano stati sparati e ritrovati proiettili calibro 9 (dalla squadra di Salvatore Ferreri, infiltrato nella banda Giuliano dall’ispettore Messana), scambiati “facilmente” per 6,5 (effettivamente quelli impiegati dalla squadra di Giuliano). Ragion per cui, conclude il perito: «Il proiettile calibro 6,5 è stato collocato in mezzo agli altri solo per confondere le idee».

Questi diversi indirizzi di stile dimostrano più che mai come il metodo politico-indiziario prescinda da soluzioni formali preordinate, oltre che da premesse di “genere”, adattandosi alle esigenze, pur contrastanti, di messa in scena e in inquadratura orientate, comunque, alla acquisizione progressiva di una verità occultata. Sempre a proposito di Salvatore Giuliano e Segreti di Stato, su cui giova insistere, il problema della conoscenza si riflette a livello di costruzione del racconto. Se si tiene ben presente quanto appena osservato sulle corrispondenti soluzioni, si capisce la necessità nel film di Rosi, rispetto alla linearità di quello di Benvenuti, di una struttura organizzata secondo la logica non didascalica dei flashback, onde arginare l’impatto realistico delle immagini. 

Segreti di Stato, compiendo un percorso inaugurato da Salvatore Giuliano, ci aiuta oggi, con il senno di poi a ripensare al binomio cinema e politica in Italia, dove l’aggettivo “politico”, accostato al sostantivo “cinema”, desta ancora non poco imbarazzo. Quando si discute di cinema e politica è difficile trovare un comune denominatore, salvo arrendersi all’evidenza, cioè alla disparità dei punti di vista e all’idea consolatoria che ogni film, a suo modo, è politico. Eppure proprio in Italia la connotazione politica dei film ha trovato un sostrato storico insostituibile. Leonardo Sciascia ha scritto: «La prefigurazione (e premonizione) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta, nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere»

L’assenza di verità politica tutta italiana ha determinato un rapporto intrinseco tra politica e cinema basato sulla possibilità che i film, alcuni film, e gli autori, alcuni autori, possano aver scelto lo schermo, il grande schermo, per cercare una verità attraverso una attenta ricerca e analisi di quegli indizi in grado di restituire anche solo parzialmente e ipoteticamente la verità su una serie di misteri e di segreti. Segreti di Stato. Di fronte a uno Stato che “non può processare se stesso”, ci sono stati film, dai primi anni Cinquanta a oggi, che hanno adottato il metodo indiziario per spingersi oltre la verità istituzionale, oltre gli omissis, oltre le reticenze o gli insabbiamenti. Film «politico-indiziari» che si sono un po’ costituiti parte civile in un processo contro il «deficit di verità». La strage di Portella della Ginestra del 1947, la prima strage di Stato, che come ricordava Sciascia ha creato una sorta di tragico e duraturo indotto, ha anche determinato nel cinema italiano in sessant’anni un interesse senza precedenti, con conseguenze attive sul piano della conoscenza collettiva, storica e politica. Se Salvatore Giuliano ha costituito per decenni un punto di non ritorno sull’argomento, si contano altri otto film, solo italiani, realizzati o rimasti nel limbo della progettualità. Il primo? La terra trema (1948) di Luchino Visconti, che doveva in origine essere un film sulla strage, a ridosso degli avvenimenti. L’ultimo? Per l’appunto, Segreti di Stato, che ha dimostrato didatticamente come la partita sia ancora aperta, sulla scorta di un auspicio di Danilo Dolci: «Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage».  

Ha avanzato nuove e allarmanti ipotesi che hanno ribadito quella “sovranità limitata” italiana nello scenario internazionale siglato – per sempre? – dalla spartizione di Yalta del 1943. Nella penultima sequenza del film fatti e personaggi eccellenti vengono accostati come carte da gioco in un inquietante ma realistico solitario. Che il vento (la scomparsa dei fatti istituzionalizzata o l’illusione di essere informati in abbondanza, equivalente simmetrico dell’ignoranza?) provvede a spazzare via.

Paolo Benvenuti è uno storiografo che parla la lingua del cinema. Da questa premessa deriva anche la convinzione, ferma, della possibilità di leggere, o rileggere, l’intera storia del cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri su base rigorosamente documentale, sgombrando anche il campo da strade maestre ideologiche che hanno pesato e pesano da oltre mezzo secolo e solo per inerzia si sono protratte decennio dopo decennio. E soprattutto alla luce di un malessere diffuso, una stizza, una forte delusione, un’inquietudine senza sbocchi, un costante bisogno di beffarsi dei padri o dei fratelli maggiori, unito ad un sottile vena di frustrazione, amarezza o malinconia. Seppure dentro parametri discorsivi cinematografici e soluzioni stilistiche divergenti, sono sintomi riferibili a una svolta tradita, un appuntamento con la storia auspicato, mistificato e mancato, una possibilità incompiuta di realtà aperta e di trasparenza socio-politica che risale agli anni del neorealismo e assume caratteri di lunga durata, comunque si manifestino. Caratteri che hanno generato un sottosistema testuale – e inevitabilmente, per dirla con Bellour, un «sistema inconscio» - in cui si avvicendano forme sparse di continuità e di contrapposizione generazionale, ossessioni ricorrenti, scelte di consenso e atti di negazione dichiarata, gesti liberatori e disperati, fughe, ripetizioni doverose e drastici rifiuti. Ma che partecipano, tutti questi sintomi, nel loro complesso e nella loro complessità, di tale storia. La storia del cinema, certo. Una storia non a circuito chiuso, e in molti punti da riscrivere, che riflette spesso in modo speculare, con le ampie zone di indicibilità, di sentieri smarriti, false piste, analisi puntuali, puntigliose e nel contempo fuorvianti, la storia tout court: la storia segreta italiana o la storia dei segreti italiani, delle ombre, dei misteri, della verità in fieri.

A questo scopo va compreso con effetto attivo e retroattivo il lavoro – e le peculiarità - del fondamentale Segreti di Stato (2003) di Benvenuti, occorre innanzitutto partire da un’analisi comparata con Salvatore Giuliano (1962), il capolavoro di Francesco Rosi che per primo si è occupato della strage del primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra. Diversamente, si corre il rischio di contrapporre un film all’altro. O un autore all’altro, sulla base. Innanzitutto, per dirimere la questione sul piano linguistico, va detto che sia il film di Rosi che quello di Benvenuti agiscono sul piano iconico, del distacco critico e dell’astrazione, non su quello immediatamente riproduttivo. Ciò risulta più chiaro in Segreti di Stato, in cui l’autore evita accuratamente di ricostruire in maniera “realistica” gli eventi. O i cinegiornali. Egli sceglie ogni sorta di rielaborazione iconica che dia l’idea dell’artificio e dell’interpretazione: i disegni monocolore e contornati su carta o sulla lavagna, i plastici, lo specchio, le fotografie-carte, oggetti come gli accendini o le sigarette disposti su un tavolo del carcere o sulla scrivania del professore in modo da restituire le posizioni di chi sparò a Portella. E sin dall’incipit del suo film su Portella esibisce, come Welles nella sequenza del cinegiornale News on the March di Quarto potere (Citizen Kane 1941), l’«enunciazione simulata». Benvenuti insomma marca le distanze dalla realtà ostentando la ricostruzione cinematografica dei fatti compiuta dai cinegiornali come pratica discorsiva menzognera. Le differenze tra Salvatore Giuliano e Segreti di Stato riguardano il particolare approccio iconologico ai fatti rievocati. Il grado, questo sì: diverso, di astrazione. Si può dire che Rosi scelga icone di tipo realistico, dinamiche, quelle che Eco definisce icone «temporate». E provvede, anche con interventi antifrastici, come si è visto, a contraddire lo stesso effetto di realtà che tali icone dotate di movimento evocano nello spettatore. Benvenuti invece predilige icone fisse, in grado di ingenerare un effetto maggiore, o alternativo, di straniamento. Alla base dei differenti procedimenti adottati in Salvatore Giuliano e in Segreti di Stato, ci sembra essere il rapporto istituito sempre da Eco già richiamato nel capitolo precedente tra «ratio facilis» (Rosi, il quale ha comunque alle spalle il neorealismo e il magistero viscontiano) e «ratio difficilis» (Benvenuti, che appartiene a una generazione successiva e prende le mosse da altri modelli di rappresentazione cinematografica, dal Rossellini televisivo a Straub-Huillet). Un perfetto esempio di rapporto tra queste due «ratio» lo si trova all’interno dello stesso Segreti di Stato, quando il perito fa notare all’avvocato che i bossoli ritrovati a Portella, a causa delle loro dimensioni, generano “confusione”: il calibro 9 è più piccolo del 6,5. Il calibro e il rapporto sono inversamente proporzionali («ratio difficilis»), contrariamente alle impressioni («ratio facilis»). Sui contadini in festa erano stati sparati e ritrovati proiettili calibro 9 (dalla squadra di Salvatore Ferreri, infiltrato nella banda Giuliano dall’ispettore Messana), scambiati “facilmente” per 6,5 (effettivamente quelli impiegati dalla squadra di Giuliano). Ragion per cui, conclude il perito: «Il proiettile calibro 6,5 è stato collocato in mezzo agli altri solo per confondere le idee».

Questi diversi indirizzi di stile dimostrano più che mai come il metodo politico-indiziario prescinda da soluzioni formali preordinate, oltre che da premesse di “genere”, adattandosi alle esigenze, pur contrastanti, di messa in scena e in inquadratura orientate, comunque, alla acquisizione progressiva di una verità occultata. Sempre a proposito di Salvatore Giuliano e Segreti di Stato, su cui giova insistere, il problema della conoscenza si riflette a livello di costruzione del racconto. Se si tiene ben presente quanto appena osservato sulle corrispondenti soluzioni, si capisce la necessità nel film di Rosi, rispetto alla linearità di quello di Benvenuti, di una struttura organizzata secondo la logica non didascalica dei flashback, onde arginare l’impatto realistico delle immagini. 

Segreti di Stato, compiendo un percorso inaugurato da Salvatore Giuliano, ci aiuta oggi, con il senno di poi a ripensare al binomio cinema e politica in Italia, dove l’aggettivo “politico”, accostato al sostantivo “cinema”, desta ancora non poco imbarazzo. Quando si discute di cinema e politica è difficile trovare un comune denominatore, salvo arrendersi all’evidenza, cioè alla disparità dei punti di vista e all’idea consolatoria che ogni film, a suo modo, è politico. Eppure proprio in Italia la connotazione politica dei film ha trovato un sostrato storico insostituibile. Leonardo Sciascia ha scritto: «La prefigurazione (e premonizione) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta, nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere»

L’assenza di verità politica tutta italiana ha determinato un rapporto intrinseco tra politica e cinema basato sulla possibilità che i film, alcuni film, e gli autori, alcuni autori, possano aver scelto lo schermo, il grande schermo, per cercare una verità attraverso una attenta ricerca e analisi di quegli indizi in grado di restituire anche solo parzialmente e ipoteticamente la verità su una serie di misteri e di segreti. Segreti di Stato. Di fronte a uno Stato che “non può processare se stesso”, ci sono stati film, dai primi anni Cinquanta a oggi, che hanno adottato il metodo indiziario per spingersi oltre la verità istituzionale, oltre gli omissis, oltre le reticenze o gli insabbiamenti. Film «politico-indiziari» che si sono un po’ costituiti parte civile in un processo contro il «deficit di verità». La strage di Portella della Ginestra del 1947, la prima strage di Stato, che come ricordava Sciascia ha creato una sorta di tragico e duraturo indotto, ha anche determinato nel cinema italiano in sessant’anni un interesse senza precedenti, con conseguenze attive sul piano della conoscenza collettiva, storica e politica. Se Salvatore Giuliano ha costituito per decenni un punto di non ritorno sull’argomento, si contano altri otto film, solo italiani, realizzati o rimasti nel limbo della progettualità. Il primo? La terra trema (1948) di Luchino Visconti, che doveva in origine essere un film sulla strage, a ridosso degli avvenimenti. L’ultimo? Per l’appunto, Segreti di Stato, che ha dimostrato didatticamente come la partita sia ancora aperta, sulla scorta di un auspicio di Danilo Dolci: «Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage».  

Ha avanzato nuove e allarmanti ipotesi che hanno ribadito quella “sovranità limitata” italiana nello scenario internazionale siglato – per sempre? – dalla spartizione di Yalta del 1943. Nella penultima sequenza del film fatti e personaggi eccellenti vengono accostati come carte da gioco in un inquietante ma realistico solitario. Che il vento (la scomparsa dei fatti istituzionalizzata o l’illusione di essere informati in abbondanza, equivalente simmetrico dell’ignoranza?) provvede a spazzare via.

Paolo Benvenuti è uno storiografo che parla la lingua del cinema. Da questa premessa deriva anche la convinzione, ferma, della possibilità di leggere, o rileggere, l’intera storia del cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri su base rigorosamente documentale, sgombrando anche il campo da strade maestre ideologiche che hanno pesato e pesano da oltre mezzo secolo e solo per inerzia si sono protratte decennio dopo decennio. E soprattutto alla luce di un malessere diffuso, una stizza, una forte delusione, un’inquietudine senza sbocchi, un costante bisogno di beffarsi dei padri o dei fratelli maggiori, unito ad un sottile vena di frustrazione, amarezza o malinconia. Seppure dentro parametri discorsivi cinematografici e soluzioni stilistiche divergenti, sono sintomi riferibili a una svolta tradita, un appuntamento con la storia auspicato, mistificato e mancato, una possibilità incompiuta di realtà aperta e di trasparenza socio-politica che risale agli anni del neorealismo e assume caratteri di lunga durata, comunque si manifestino. Caratteri che hanno generato un sottosistema testuale – e inevitabilmente, per dirla con Bellour, un «sistema inconscio» - in cui si avvicendano forme sparse di continuità e di contrapposizione generazionale, ossessioni ricorrenti, scelte di consenso e atti di negazione dichiarata, gesti liberatori e disperati, fughe, ripetizioni doverose e drastici rifiuti. Ma che partecipano, tutti questi sintomi, nel loro complesso e nella loro complessità, di tale storia. La storia del cinema, certo. Una storia non a circuito chiuso, e in molti punti da riscrivere, che riflette spesso in modo speculare, con le ampie zone di indicibilità, di sentieri smarriti, false piste, analisi puntuali, puntigliose e nel contempo fuorvianti, la storia tout court: la storia segreta italiana o la storia dei segreti italiani, delle ombre, dei misteri, della verità in fieri.

Di quell’ammasso informe che ci ostiniamo a chiamare realtà, quel poco che gli occhi vedono e le orecchie captano, Antonio Capuano ha sempre cercato l’arcano. Tutto ciò che sta, etimologicamente, dentro l’arca e non fuori; che rimane quindi nascosto, imperscrutato, insondato, almeno finché qualche ape dell’invisibile – per dirla con Rilke – non arriva a bottinare il miele del visibile (che va estratto dai fiori, come da un’arca, appunto) per ricondurlo al favo d’oro dell’invisibile, e cioè il (non) luogo delle storie, delle preghiere, di Dio, di una realtà finalmente completa, perché comprensiva di tutto ciò che sfugge ai sensi.

Il cinema di Susanna Nicchiarelli è il palinsesto, così evidente, icastico, dell'evoluzione di una poetica: all'inizio magari ancora incerta, invischiata nei processi di una narrazione corriva; poi, da Nico in poi, sorprendentemente inspessita di contrappunti, chiaroscuri, assunti. Processo che giunge alla definitiva maturazione con Miss Marx in cui la sostanza, la dimensione dell'immagine acquista una preminenza sulla narrazione, mostrando le ombre delle cose e degli esseri, che si fanno anche ombre psicologiche: come intercapedini d'aria adombrata che si frappongono tra le figure contrastando la comunicazione.

Il cinema di Giuseppe Gaudino si muove – al limite nello scarto, nello scatto tra fotogramma e fotogramma, nel tratto umbratile, chiaroscurale che separa la sagoma dalla sagoma – su un versante non-mimetico, anzi si direbbe consapevolmente anti-mimetico, nonostante lo spunto sia antropologico.

Chiudere e aprire gli occhi sembra essere il tratto distintivo di Pietro (2010), film durissimo, di una violenza intollerabile e necessaria, perfettamente congruente con l’intento programmatico di porre dinanzi allo sguardo dello spettatore il lato oscuro della luna: la parte tenuta in ombra di un Paese che viene fotografato per com’era in quegli anni e che purtroppo resta ostinatamente e inconsapevolmente – ma l’incoscienza è colpevole, ugualmente, si percepisce tra le righe di questo film scritto per finire con la parola detta, finalmente, liberata, arrivata al destinatario disattento, dopo tanto silenzio – invischiato nei propri storici, ontologici presupposti individualistici, discriminanti. Le verità di cui Daniele Gaglianone si fa coraggiosamente portavoce scompaiono compaiono in un chiudere spalancare le pupille; che, nel gioco dissacrante della mano che s’abbassa dalla fronte fino al naso, scrosci di risa, buffoneria tragica ad unire due solitudini lancinanti poiché non si sa, ad un certo punto, se quella del protagonista o quella di suo fratello sia più sopportabile, diventa lama che scivola sul campo visivo di Pietro, la stessa che affonda nello strazio della carne lacerata in una rivendicazione d’esser-ci, scavando, allo stesso tempo, nella produzione di senso e nella coscienza di chi guarda.

L'attenzione, lo sguardo sempre aperto, vibrante, verso personaggi conturbanti, eccessivi nel senso dello straripamento delle facoltà dell'essere, eccedenza che, a ben guardare, scandisce, realizza appieno l'essere secondo ingiunzione nietzschiana: ecce homo; è uno dei fuochi, delle messe a fuoco, del cinema di Michele Placido, dando ormai per pronto il suo Caravaggio che idealmente si ricongiunge al Dino Campana di Un viaggio chiamato amore. È in ragione di questi eccessi o straripamenti d'io, di queste necessitate enfasi nelle movenze dei personaggi, accesi dagli spasmi dei nervi, dei desideri sormontanti; di certi squilibri nella messa in scena che questo cinema resta uno dei più connotati e interessanti del panorama italiano contemporaneo.

Registi fuori dagli scheRmi XI

Abbarbicato agli schermi, alle sale, al terreno accidentato dell'offerta cinematografica di questi ultimi tempi, proprio come una capra che s'aggrappi a un costone o stia in piedi, ritta, fiera, su un tavolo Il buco, vincitore del Premio speciale della Giuria all'ultima Mostra di Venezia, non manca di far sentire ancora la propria presenza sulla scena cinematografica italiana oltre che su quella internazionale, essendo stato atteso peraltro per undici anni da chi nel 2010 restò folgorato dalle Quattro volte.

Certo, dentro questo autunno napoletano, mentre ancora fermentano le fibre dei film di Di Costanzo e Martone, è arrivato Sorrentino con il suo È stata la mano di Dio e la scena in cui lui da giovane si reca su un set cinematografico – è sempre stupefacente, qualcosa come un mesmerismo, quando in un film irrompe altro cinema: perché l'immagine non può che parlare, mostrare di sé, cioè del palinsesto linguistico, a trazione luminosa, ialina attraverso cui si celebra la vita, cioè tutto l'agglomerato di simboli che la significa, la edifica – a sottolineare implicitamente l'importanza di Antonio Capuano nella cultura di questo paese, a investirlo tra l'altro della responsabilità di iniziazione alla regia per il ragazzo che era, Fabietto, trepido, infatuato del visibilio connaturato alla visione; di avergli inculcato il concetto di conflitto, di concitazione che è l'essenza di ogni vera, pura immagine, per cui, secondo la dizione di Breton, «la bellezza sarà convulsa o non sarà».

I film come Ariaferma, densi, spessi, stratificati come murature, tutti in preda a una dialettica interna che sfuma, anzi trascende verso il riverbero, il bisbiglio, il sibilo segreto, terreo, tufoso delle cose, tra le cose, tra i volumi, metri cubi di spazio (cinematografico); si sedimentano nel tempo, detriti di materia immaginativa – già all'inizio, il costone, la nebbia, il canto corale che s'espande vaporoso, cioè gli elementi costitutivi dell'immagine –, caduti dai muri scalcinati e depositati nel tempo, e non smettono di dire, di risuonare anche dopo le prime visioni in sala.

Lo scorso settembre apparve in concorso alla Mostra di Venezia uno dei film più problematici degli ultimi tempi, proprio dal punto di vista teorico, di teoria del cinema, dell'immagine: Reflection del regista ucraino Valentyn Vasyanovych, già vincitore nel 2019 della sezione “Orizzonti” con Atlantis in cui figurava una delle sequenze più stupefacenti del cinema recente, quando tra scrosci violenti di pioggia la macchina da presa riparava in un furgone entrando attraverso le gocce del parabrezza e scoprendo lì il “fenomeno”, la flagranza del fenomeno cinematografico, tutta la ruvida vitalità e l'attrito terso di un amplesso consumato nella penombra, la fibrillazione dei corpi toccati dallo sguardo, per poi andare oltre, aperte le porte del furgone dalla parte opposta a quella da cui era entrato, a scrutare la porzione di mondo che da lì appariva improvvisamente, miracolosa, piovosa, sorprendente nella sua luce acquea ritrovata.

Straniante, per certi versi kafkiano, immerso in uno spazio-tempo torrido, teso tra torpore e reazione; stasi, necessità domestica e un istinto animalesco a muoversi, Giulia – una selvaggia voglia di libertà, è un film sfuggente come la sua protagonista, difficile da classificare, se si pensa alla prima parte, quasi documentale, con una macchina da presa inquieta, nervosa, che fa pensare ai Dardenne (eppure c'è nello sguardo di De Caro qualcosa di gioioso, di entusiasta, di rado riscontrabile nei Dardenne), e una seconda parte che s'accosta alla commedia, a quello spirito autoironico, grottesco e intimamente drammatico di Ecce Bombo. Ma è sempre un percorso di approssimazione, mai di adesione: si tratta di un film che è né una cosa né l'altra; che si nega, si divincola dalla definizione e fugge verso un panorama cinematografico tutto suo, balzano, sbilenco, in cui non c'è sempre corrispondenza tra significanti (le immagini) e significati.

*Una prima versione di questo testo è uscito su "Sentieri selvaggi" il 13 agosto 2021.

Edoardo Bruno fu il primo a cogliere l’anima nascosta da profezia di quel discusso documentario di Ferrara (Quanto al futuro, ascolti: i suoi figli fascisti veleggeranno verso i mondi della Nuova Preistoria), e chissà cosa direbbe oggi guardando Zeros and Ones, un film che è forse il vero punto d’arrivo di una parabola che nasce proprio tra le maglie delle riprese di Piazza Vittorio (qualcuno dirà anche da molto prima, dal New Rose Hotel almeno)… la stazione Termini che in quel film era costeggiata dalle interviste di fronte alla Caritas e tra le palazzine di via Giolitti (si trattava già di un ritorno sui luoghi del set di Pasolini), pochi anni dopo sarebbe diventata il palco della crocifissione finale di Tommaso – come in quella tradizione tutta italiana di “appunti per un film su”, se l’opera con Dafoe “abita” le immagini del doc precedente, Zeros and Ones riparte dalle peregrinazioni per la Roma notturna sotto lockdown che facevano capolino nell’incredibile Sportin’ Life, e di quel progetto riprende la giovane squadra a supporto, il d.o.p. Sean Price Williams e il montatore Leonardo Daniel Bianchi.

Juan Pablo Richterd, boliviano, sembra accogliere l'immaginario sudamericano compreso tra le forme del realismo magico e una distorsione di queste forme, queste figure; il loro deterioramento realistico, dilatato, fino ad avvicinarsi a una poetica espressionistica.

Repertorio di psicologie, di emotività a confronto, tra tenerezze e ruvidità improvvise in un mondo che non smette di sibilare la propria refratterietà, lo strazio, la bellezza: questo è il cinema di Chiara Bellosi, tra le registe più sensibili del panorama italiano contemporaneo. Già nel suo primo film, Palazzo di giustizia, tra i corridoi e le aule di marmo freddo, reticente di un tribunale, si muovevano franti metabolismi, anime in pena, in piena balia di un'esistenza franante, frastornante, che però all'improvviso ti pone nella penombra di un vecchio archivio in cui, insieme ad altre anime perse, potersi ritrovare alla ricerca di un passero, tutti: bambina, adolescente antagonista e il giovane, sensibile inserviente. Insomma, il tribunale – dal sapore vagamente kieslowskiano – a un certo punto diveniva dimensione astratta, quasi metafisica, com'era il carcere di Ariaferma di Di Costanzo e com'è ora in Calcinculo, l'ultimo film di Bellosi, il luna park itinerante e poi la roulotte di Amanda – l'alcova in cui si sedimenta il piacere – che procede lenta e stanca per le vie del mondo.

Piccolo corpo è la rivendicazione di un respiro. È la lotta dell’esistenza per affermare se stessa, per quanto poco sia durata, è l’affermazione del diritto di avere un corpo, reale, tangibile, «piccolo» nel corpo immenso della madre terra, che dà e toglie, aggiunge e sottrae, nasconde, inghiotte, ridà: quel corpo-mare che ha attraversato lo specchio dell’acqua, scissione di un altro corpo, del corpo-ma(d)re che lo ha partorito senza potergli dare un nome e che quindi lo conduce verso le montagne, al di là del corpo-ventre della pietra scavata, cava, muta, nera, lucente a tratti di un bagliore fioco, che si spegne, muore, atterrisce e mette in fuga con gli occhi stralunati.

immaginesomiglianza

«La figura di Cristo […]. Nulla mi pare più contrario al mondo moderno di quella figura: […] – che – dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando [...] odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione» (Pasolini).

L’inattualità di Cristo è la stessa inattualità di Pasolini: il concetto è da leggersi «nietzcheanamente, come sfasatura anticipatrice» (Marramao).
Una consonanza, a lungo suggerita, che ne Il Vangelo secondo Matteo è addirittura dichiarata con impudenza: «Sono come Cristo – affermerà Pasolini – […] mi identifico con lui perché come lui soffro, come lui pago questa mia “violenza” nei confronti della società, come lui pago questo mio rifiutare totalmente il mondo nel quale vivo» (Pasolini).

Ma in Cristo raccontato da Matteo, Pasolini, oltre alla consanguinea “diversità” morale, ritrova, al culmine del mitico e dell’epico, qualcosa che egli ha sempre febbrilmente avvertito dentro di sé, «quel tanto di misterioso e di irrazionale che ogni vita ha in abbondanza, e che è la “poeticità naturale” della vita» (Pasolini).

Bisogna esporsi (questo insegna
il povero Cristo inchiodato?)

(questo vuol dire il Crocifisso?
Sacrificare ogni giorno il dono
Rinunciare ogni giorno al perdono
Sporgersi ingenui sull’abisso).



Programma

18 giugno, ore 18.00 / Presentazione della mostra fotografica
Il Vangelo secondo Matera
di Domenico Notarangelo

Intervengono: Domenico Notarangelo (giornalista e scrittore), Angela Felice (Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia), Francesco Dongiovanni (Regista), Ferdinando Mirizzi (Docente Università degli Studi della Basilicata)
La mostra sarà visitabile gratuitamente dal 18 al 30 giugno dalle ore 8.30 alle ore 19.15

25 giugno, ore 18.00 / Spettacolo di danza
La Danza
di ResExtensa

Interventi itineranti di Elisa Barucchieri (coreografa) sul Vangelo di Pasolini

27 giugno, ore 18.00 / Tavola rotonda
Sopralluoghi sul Vangelo

Intervengono: Luigi Abiusi (Filmcritica, Uzak), Stefano Casi (giornalista e saggista), Roberto Chiesi (Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Bologna), Enrico Ghezzi (Fuori Orario, Filmcritica), Matteo Marelli (Cineforum, Uzak)

27 giugno, ore 21.00 / Proiezione del film
Il Vangelo secondo Matteo
di Pier Paolo Pasolini

Presenta Enrico Ghezzi


Tutti gli appuntamenti si terranno presso il Castello Normanno-Svevo di Gioia del Colle Museo Nazionale Archeologico di Gioia del Colle - BA

Ingresso libero fino ad esaurimento posti.
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Registi fuori dagli scheRmi XII

Cinema di spazi, rarefatti, sfuggenti a certa prerogativa definitoria del logos (direbbe Cortázar: non casualmente mi viene in mente lui e quel libro combinatorio, cangiante che è Rayuela), e invece aperti allo sguardo errante, sonnambolico – pronto a equivocare le coordinate di stazio e di tempo, proprio come quando ci si sveglia e per un po' non si sa dove ci si trovi – Disco Boy di Giacomo Abbruzzese appare come un oggetto eteroclito, occhiuto; organismo affetto da eterocromia (occhi di due colori diversi) e così vede le cose doppie, come illuminate di vuoti, sibili; di ammutolimenti e ammutinamenti; tinte sature e sfumature acquoree, sonanti dei corpi e dei luoghi, colti da Hélène Louvard, premio al Festival di Berlino per la miglior fotografia.Ora il film si appresta a uscire nelle sale a partire dal 9 marzo, con due anteprime pugliesi, questa sera a Bari al Cinema Splendor, e domani all'Orfeo di Taranto, alle quali participerà il regista tarantino introdotto da Massimo Causo. Di ritorno da Parigi, qui il resoconto di ciò che mi ha detto.

L'energia della bugia, della finzione – le verità più recondite emanate dal falso, dall'artefatto; Nietzsche, poi Heidegger la chiamavano «poesia»: il finto, foss'anche barocco, l'evocazione di mondi, infraregni di fantasia – è il motore di Mediterranean Fever di Maha Haj, film palestinese in sala da oggi (premiato a Cannes) che però ha poco di palestinese, di quello che uno si aspetterebbe da un film palestinese, cioè storie di terre e libertà, di popoli invasi e resistenti di fronte al prepotente.

Il simbolo di una generazione (ma anche a prescindere dalle generazioni), di iniziati che s'addentravano nei cunicoli infiniti, nelle gallerie illuminate dal tubo catodico nei primi anni Novanta, proprio come un Videodrome: una resa, una pianificata, pacificata resa nel ventre dell'immagine, che fosse cinematografica o televisiva (quella particolare, sublime forma di televisione scoccante a mezzanotte), poco importava.

Questo era – ed è ancora – il cinema di Béla Tarr. Erano le notti di «Fuori orario» officiate dal simulacro asincrono scapigliato di Ghezzi il quale, sacerdotale nella sua tenuta di calicò bianco, invocava metaplasmi, fantasmi fluttuanti nelle apnee – notti nebbiose fuori, accartocciate, stramazzate: gli inverni serali già alle cinque del pomeriggio prevaricavano sulla luce, e facevano sentire il loro brusio catramoso, la loro intima adiacenza al Nulla – in cui apparivano sullo schermo film come Perdizione o Satantango, più di sette ore, un cammino lungo, lento, dentro piani-sequenza pieni di materia galvanizzata, polvere e vento; il lento avventurarvisi; tenere gli occhi spalancati, estenuati, sperando di potervisi perdere.

Come nelle cinque ore di Fino alla fine del mondo (nella versione di Wenders), era nello stesso periodo, ma in una forma completamente diversa: la questione della «durata», della dilatazione del sintagma cinematografico, del racconto, era cosa essenziale in quegli anni, una sorta di reazione all'immagine pubblicitaria, breve, frugale, sottoposta al consumo immediato, tipica degli anni Ottanta. Il cinema di Béla Tarr era un universo alternativo a questo scenario; era fatto di forma, come autogena, come se il dispositivo macchina-da-presa avesse preso coscienza di sé e si legittimasse improntando sullo schermo la sua danza, la sua coreografia protratta, articolata, suadente; era fatto di certe marcate modalità di visione, di un'espressività sonante delle cose, nelle cose, a rivelarne le verità, cioè la durata, il tempo che le iscriveva, ne faceva scrittura, immagine. Ecco, era la durata la verità dell'evento, una durata avvolgente, magnetica – all'insegna di un bianco e nero livido: rassegna di sugne, scialbori, scrostature – tanto che ti tirava dentro, ti fagocitava; e la peristalsi di questo evento duraturo, di questa parvenza di eternità, ti restituiva personaggio, non più stanca persona in balia del mondo e del carcame diuturno: ti faceva fatto estetico.

Il primo dei racconti contenuti in Seiobo è discesa quaggiù di László Krasznahorkai (dai cui libri o soggetti Tarr ha tratto tre film), evoca il fluire universale di Eraclito («tutto scorre, fluisce e gorgoglia l'acqua, ondeggia l'alito setoso del vento»); e non solo lo nomina, lo dice, ma lo mima attraverso la scrittura ipotattica, la forma che endogena affiora, fiorisce – lunghi periodi senza stacchi: fluire di coordinate e subordinate, apposizioni, tubercoli frasali a rilanciare ogni volta il dettato – che è il corrispettivo letterario del cinema di piano-sequenza, di quello di Béla Tarr che sembra tradurre in immagini l'ipotassi del mondo, il suo scorrere continuo. Fluire al servizio del romanzesco: le storie di Krasznahorkai, spesso distopiche, prive di speranza (in epigrafe all'ultimo suo romanzo Herscht 07769 si legge «la speranza è un errore») trovano nel cinema di Tarr l'incarnazione perfetta: se c'è possibilità per il romanzo di trasporsi in film, allora il cinema di Tarr ne è l'esemplificazione, la rappresentazione in chiaroscuro delle contraddizioni e della violenza, della cupidigia e dell'innocenza violata, che scandiscono il romanzo novecentesco, qualcosa che risale a Musil, Céline, Faulkner, fino a Simenon da cui nel 2007 Tarr ricava L'uomo di Londra, sceneggiato insieme a Krasznahorkai.

Béla Tarr sarà a Bari martedì 28 febbraio all'Anche Cinema per la rassegna «Registi fuori dagli scheRmi», occasione per proiettare la versione restaurata delle Armonie di Werckmeister che ventitré anni fa inaugurava il nuovo millennio trasponendo lo spirito apocalittico del romanzo di Krasznahorkai Melanconia della resistenza. Simboli, allegorie di una favola nera, personaggi eponimi dell'umano, scorci cinerei, scalcinati, ischeletriti: tutti gli elementi fondanti del cinema di Tarr si ritrovano in questo capolavoro come fosse un presagio per il millennio che stava iniziando. Sarebbero passati undici anni prima che Tarr tornasse a dirigere il suo ultimo stupefacente film, Il cavallo di Torino, ennesima messa a fuoco di un'umanità alla deriva. Eppure resta la possibilità – sia pure un lacerto, un'eco – di armonia: se la macchina da presa fa luce sull'inanità, resta la coscienza, l'autodeterminazione di questo sguardo artificiale, e resta la luce che usa per mostrare e per sgranare inesorabilmente i passi, le mosse di un incedere, di un durare, un fluire stupefacente.

Un mondo riemerso, ancora fradicio, grondante – rivoli, gore, ampie pozzanghere nella plaga sabbiosa, tra i ruderi vegetativi –; mondo sonante d’archi – pieni di umori, di un che di ventoso, di febbrile, tutt’uno con l’aria igroscopica –, evocato, tratto non solo dagli spazi sommersi, ma anche dai baratri temporali, quelli del passato, ossessione per «l’uomo di immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo» direbbe Leopardi.

Film ontologico, Notte fantasma di Fulvio Risuleo, se non fosse che si è portati a considerare il cinema, tutto il cinema, già di per sé come ontologia, dimensione veritativa, o come direbbe Pasolini «lingua scritta della realtà». Insomma è l'origine cinematografica del mondo: la realtà che sorge dal cinema e non il contrario. Allora ontologia al quadrato il film di Risuleo, quando le parvenze che compaiono sullo schermo, che sono per loro stessa natura fantasmi (lo sono in un film di Loach così come in uno di Von Trier, in un'opera di Spielberg allo stesso modo di un film di Kechiche e così via), qualcosa che ogni volta s'incarna, disincarna nel limbo cinematografico; nel momento in cui interpretano spettri. Spettri di spettri le sagome che si muovono sullo schermo, nella notte dello schermo: fantasmi, fantasime, fantasie (l'etimologia è chiara, trasparente) che mettono in scena la loro stessa natura, che discutono implicitamente, animatamente, sulla loro stessa essenza, origine, sulla loro stessa anima. E quando capita un film così non si resta insensibili, a prescindere dalla profondità, dalla vertigine semantica delle immagini. Non siamo dalla parte di Erice, Hellman, o Weerasethakul – cioè in un'eterna concentricità del segno cinematografico, del metaplasma che rimanda continuamente, infinitamente a sé: spettro elevato a potenza – bensì in una versione fanciullesca di questo discorso sulla natura delle fantasime, un incanto immediato, immediatamente consumabile (a tratti stereotipo come può esserlo un disegno di un bambino di sei anni o schematico, di finestra in finestra, come in un fumetto) che mi sembra la cifra distintiva del cinema di Risuleo, autore anche di fumetti.

Passato in concorso in «Orizzonti» all'ultima Mostra di Venezia, Notte fantasma è da oggi in sala, a rappresentare un esempio inusuale di cinema italiano, che ha dentro qualcosa dello Scorsese di Fuori Orario, o di Tarantino, magari quello di Pulp Fiction, con sempre meno referenti di Gondry rispetto ai film precedenti (qui magari la scena nella stanza della figlia del poliziotto su cui campeggia l'animazione legnosa di un gabbiano): insomma un gusto per il racconto, per l'avventura che traspare già dai titoli di testa, un allestimento di font viola-verde su sfondo di luci a forma di cerchio, che sono lumi, fuochi fatui di questo racconto di fantasmi. Quanto sono “reali” i personaggi di questo film e quanto invece sono spettri, magari usciti dal cimitero in cui giacciono le spoglie dei Proietti? 

La notte fantasma si snoda tra strade periferiche di una Roma accidentale, incidentata, sospirando, mormorando dagli angoli deserti, da un grumo d'ombre giacente in anfratti, intercapedini, cunicoli che sfociano nell'alba improvvisa, sfiatando in sax, in brandelli di requiem, in note larghe di musica ambientale. Sono esalazioni, rantoli, scricchiolii di metaplasma (cioè musiche originali, bellissime, di Francesco Rita), lamentazioni di lemuri vaganti nella penombra, tra i fuochi fatui della città. Primo fra tutti il sovrintendente Proietti – un eccezionale Edoardo Pesce che folleggia tra risse, fughe velocissime, disquisizioni sulla religione che prevedono l'avvento di una cripto-religione che veneri il signore Gesù Cripto: resterà, ne sono certo, questa prova d'attore sublime, come una delle più straordinarie degli ultimi tempi –: anima in pena che si imbatte in Tarek, ragazzo corpulento, di padre egiziano (Yothin Clavenzani). Il film sarà l'assestamento – certo balzano, straniante – dei rapporti di forza tra i due e il capovolgimento di questo assetto. Film di formazione, di lacerazioni sottese; film di solitudini svelate, appena smorzate da abbracci e strette di mano che si diluiscono nel Tevere. Proietti supplica sua figlia di non dimenticarlo. Ecco, non ci si dimenticherà di questi fragili, feriti a morte, spiriti vaganti nella notte.

 

 

Una pittura in 4:3 o in ancora meno spazio, la ratio, qualcosa che oblungo richiama la tela, proprio la pasta vischiosa dei colori spicciata dalla spatola sulla superficie ruvida, un che di pelle graffiata, al limite esulcerata; e nelle zone d'ombra, nelle sequenze silenziate dalla penombra, il senso caravaggesco del buio, dell'abisso da cui emerga un corpo, le carni lubriche eppure inermi: Monica di Andrea Pallaoro, in sala in questi giorni dopo essere stato in concorso allo scorso festival di Venezia, ha questa struttura austera, laconica, e un senso del colore incline a suggerire l'entità e le sfumature del dolore della protagonista – sulla sua pelle, tela, segnata –, quella che un tempo era stata un ragazzo e ora invece è una donna avvenente. Il cinema di Pallaoro, già dall'esordio, Medeas, folgorazione di qualche anno fa ancora a Venezia, è un cinema che vuole ricongiungersi al classico, all'essenzialità espressiva del cinema classico – magari Dreyer, Murnau, fino a Ozu, Bresson – pur spingendo più in là, forzando i limiti del classico verso avanguardie, verso una forma fremente, sibilante al di là del quadro. Monica, al di là dell'angustia apparente della ratio, del formato (non un vezzo, ma elemento fondamentale nell'economia semiologica, nella teoria del film), si forma come contrappunto rispetto a ciò che brulica oltre i limiti (stretti) dell'immagine, il fuori-campo, fuori-tempo, qualcosa di remoto e implicito nelle cose – feticci e fastigi della giovinezza –, tutto un coacervo di possibilità che risuona nei silenzi e negli smorti suoni penetranti distrattamente dalle finestre, mentre Monica (Trace Lysette) riprende confidenza con la dimensione domestica. Il formato è la base, la rigida codifica che istruisce, esalta una forma cinematografica allusiva, reminiscente, nei cui blocchi di materia, nelle intercapedini di sequenze materiali – è la sostanza degli olii, dei pigmenti sulla rasposità della tela-mondo – non si può che entrare e partecipare dei silenzi umbratili, dei sibili essudati da sprazzi di luce dalle tende, dei ricordi che aleggiano in quella che fu la casa dell'infanzia. Ci si trova allora in quel versante del cinema contemporaneo in cui converge certo rigore della messa in scena e l'avanguardia del cristallo: prisma entro cui traguardare albori, riflessi, sagome indefinite, sfatte, ammutolite; un cinema che è di Reygadas, Dumont, Lisandro Alonso, se penso ad esempio al formato «cosmico», «stellare», immaginifico, di quel capolavoro che è Jauja.

Certo la prima impressione di fronte al film di Pallaoro è di claustrofobia, un'oppressione senza rimedio, un senso del mondo che pesantemente si stringe intorno a Monica schiacciandola, soffocandola, ma è proprio da questa chiusura che – per via estetica, cinematografica, cioè su base formale, a partire dal formato rigido per sciogliersi in forma – si schiude un mondo latente di possibilità. La riconquista degli affetti, di un luogo topico, la casa, forse anche il riconoscimento da parte della madre, passano per questa modalità, per questo cinema: il rapporto con la madre, con le origini, passa per il cinema. Ed è una scena-madre, magnifica, quella in cui Monica la lava: lei, Eugenia (Patricia Clarckson), la madre, si lascia lavare da quello che era stato suo figlio e ora forse riconosce in fattezze femminili; le accarezza, ne segue le curve sulle guance, la bocca, sembra riconoscerle. È come se il pudore derivante dalla nudità, tanto più in presenza di un figlio, fosse vinto dalla riconosciuta femminilità di quello che era stato un bambino sensibile e alacre molti anni prima, e poi una ragazza rifiutata, scacciata. La madre sembra accettare senza vergogna il bagno da parte di Monica – nel silenzio fattosi intenso, fattosi spesso, materia, sequenza esso stesso, specie di silenzio-sequenza allora – e ciò sembra corrispondere a qualcosa di simile a un' abluzione rituale, all'accettazione di lei sancita dall'acqua, della sua subentrata eppure connaturata femminilità. Sembra che la figlia ora possa uscire dalla fitta coltre di tende, vetri, mogani, la cortina di specchi sulla cui superficie si riflettevano gli involucri pesanti e renitenti del mondo, sotto cui Pallaoro nascondeva (forse cercava di proteggere) Monica, e ora possa guardare alla realtà (all'America, patria, madre) con occhi più distesi, mentre suo nipote annaspa fieramente (aggrappandosi ai tasti di una pianola con dita raggricciate) dietro a un mai così sincopato, zoppicante – eppure così politicamente significativo – inno nazionale americano. 

Un inizio così, tra lattine e bottiglie vuote, vetri tra resti di tosse sulle spighe scialbe, arriva piano: prende forma da quella testa che rimugina l’Idea, ingrana, avanza nello spazio dei piani, tant’è che solo “dopo” – dopo quegli occhi un momento chiusi a immaginare, a progettare, dopo quelle labbra bisbiglianti nello spazio urbano da disegnare, da pensare, da proporre ancora; e ancora più tardi, mentre i movimenti orizzontali della macchina da presa assecondano il fluire dei pensieri, della bocca, dello sguardo, appunto – “comincia” questo film allungato, spostato sui tempi lunghissimi di un’immagine che delibera di raggiungere il suo punto focale, centrale, solo nello smottamento di quell’Idea dinanzi alla quale l’evidenza del fallimento (l’ennesimo) si innesta su una dissolvenza in nero che fa da sfondo al titolo.

Tant que le soleil frappe compare soltanto adesso, mentre incalza la concitazione degli archi, nel rincorrersi indefinito di quella musica che scava in fasci abbaglianti il sole che si sgretola, battendo sul parabrezza, sulla pelle; e «frappe» sull’amarezza di un progetto «trop ambitieux» per rompere la stasi della precarietà, lo stillicidio di vite che ne deriva, senza fine.

«Jardin ouvert»: «lieu pour ne rien faire». È la notte il tempo per pensare, mentre di giorno Max (Swann Arlaud) raccoglie plastica, corre nel traffico per accompagnare la figlia, le ascolta la lezione di speranza per il futuro, nonostante la fatica di resistere. Per “non fare niente”, questo niente che è l’«Otium», l’Idea cioè che identifica, mirante a concretizzarlo, uno spazio urbano da riqualificare, dedicato allo svago, allo spreco del tempo nel recupero di una comune identità, si è costretti a stare al gioco: a trascorrere la propria vita a dirigere l’altrui sguardo verso la realtà che il lavoro intellettuale è esso stesso «un jardin utopique, génereux, visible, tangible, concret, misurable». Ma come si può misurare l’immaginazione, l’utopia? Sembra urlare Philippe Petit, come se le idee che prendono forma fossero il niente che si fa, la necessità del perpetuarsi di un ritorno: a sottoporre il progetto, questo disegno moderno, radicale, come un'allucinazione – simile al fiore della datura che non si deve toccare, pena l'avvelenamento, la morte – a chi decreta il limite tra la vita e la sua assenza (un probabile aborto è nell’aria).

«Tant que…»: il giorno precipita sul volante, sugli occhi a dare il verso nelle sonorità delle cicale, degli insetti – e volo di gabbiani, urla – ma una ragazza muore, caduta dove non batte la luce, giù, in fondo, nelle ferite della terra. Clacson, bracci meccanici.
Di nuovo alla guida, qualcosa ancora una volta muove Max, indica la direzione: sole colpisce gli occhi. Le musiche originali di Andy Cartwright convergono, con una dinamica del suono filtrante, intensiva, verso l'attualizzazione, nel finale, del proposito di Petit di stabilire ancora un reiterato "inizio": il gesto «utopico, generoso, visibile, tangibile, concreto, misurabile» di continuare a divergere nel caos, con un'azione troppo a lungo immaginata ma che ora germina al di fuori di ogni concorso, al di là di ogni istanza di approvazione. Rivoluzionari, fumogeni a oscurare il sole.
Titoli di coda in questo fumo.

Registi fuori dagli scheRmi XIII

Harvey Keitel sul tappeto rosso per il Premio alla carriera, Abel Ferrara con la sua bimba biondissima e paffuta, Roger Corman alla cui Factory negli anni Novanta il festival – allora diretto da Marco Mueller – aveva dedicato un magnifico omaggio, ospite d’onore della Filmmaker Academy per la formazione di nuovi registi, sono stati i protagonisti di questo primo lunghissimo fine settimana del Festival di Locarno 69, a sottolineare quel legame con un’idea di cinema «indipendente» che è nella cifra della manifestazione ticinese sin dalle origini.

La storia inizia con una lite, di quelle banali tra vicini – che la cronaca ci insegna possono sempre finire male – per un giardino incolto che somiglia a una giungla, tanto fitto che il sole non ci entra e nemmeno le luci delle altre case pure se siamo in pieno centro cittadino. Solo che il proprietario accusato dal vicino di non tagliare i rami e di lasciare crescere selvaggiamente l’erba a rischio di animali – topi, serpenti … – dovrebbe essere la legge, Gigi, il vigile di San Michele al Tagliamento, un piccolo centro nel mezzo della campagna friulana, che con l’accento cantilenante del luogo risponde a quella voce arrabbiata di cui non vediamo (non vedremo) mai il viso. Non sarà la prima volta – anzi questo lunghissimo inizio si fa quasi dichiarazione di stile – che il controcampo rimane «parallelo» o addirittura invisibile, per sorprenderci in modo inaspettato quasi a dirci di un personaggio che nonostante il ruolo pubblico abita una dimensione segreta, e forse persino un po’ stridente rispetto al resto.

CHI È GIGI, dunque? Un vigile che non fa multe e che ama le donne, seduttore «pirata e signore» alla Julio Iglesias (sparato a palla in macchina) che corteggia ogni nuova voce (femminile) alla radio della centrale, vive solo e non ha famiglia, ogni tanto si prende delle «libertà» che in servizio non dovrebbe prendere – come sconfinare nei comuni vicini. E che segue piste tutte sue, indagini che somigliano a fantasie, quasi a ossessioni, o che forse racchiudono le domande sulle cose del mondo vita al di là del lavoro: perché tanti ragazzi si buttano sotto al treno chiede a un certo punto a uno di lì, la cui casa confina coi binari dopo che hanno ritrovato qualche giorno prima il corpo di una donna, e Gigi (Pier Luigi Mecchia) sospetta di un ragazzo, un tipo un po’ bizzarro che lo ha segnalato.
Per il suo nuovo film, presentato nel concorso di Locarno, Alessandro Comodin torna ai paesaggi della sua terra (San Michele al Tagliamento è il paese in cui è nato), che erano già nell’esordio L’estate di Giacomo (2011), il racconto dei vagabondaggi estivi sulle rive del Tagliamento di un giovane sordomuto e di una sua amica nel passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta, che lo ha rivelato e proprio al festival svizzero – dove vinse i Cineasti del presente. E che nel successivo (e molto bello) I tempi felici verranno presto (2016) ha trasformato in una terra astratta, lo spazio di una foresta ideale dal tempo sospeso in cui avanzano i protagonisti.

MA IL PAESAGGIO per Comodin non è «reale», esprime piuttosto una sua geografia interiore e il desiderio di un immaginario cinematografico nei quali prendono forma le storie e le fisionomie dei suoi personaggi, tutti «veri» e tutti invenzione, le cui vite nella distanza narrativa portano in sé il quotidiano e si fanno ugualmente qualcos’altro. Come accade a Gigi (Pier Luigi Mecchia) che è vigile e zio del regista – «Quando mio nipote mi ha chiesto di interpretare me stesso sono rimasto un po’ perplesso, poi mi sono convinto» ha detto nell’incontro stampa al festival – pure lui vagabondo in un’estate sulla sua macchina della polizia locale, le cui conversazioni con la collega Annalisa svelano poco di come è, non più degli incontri casuali con qualche ragazzo che ha elaborato il motorino o delle battute galanti che scambia con Paola, la collega più giovane (Ester Vergolini, la sola figura di «finzione» che infatti non è vigile ma ostetrica) attratto dalla sua bella voce. E intanto va su e giù a cercare un incendio segnalato da qualcuno che per fortuna non c’è, sbircia i passanti, si ferma a fumare sul bordo della strada o scambia due chiacchiere.

FUORI DAL FINESTRINO si scorgono una campagna sempre uguale, piccoli centri quasi deserti dove la calura sembra avere fermato gli istanti e l’unico movimento risuona nelle parole di Gigi, personaggio maschile tipico verrebbe da dire, quasi da commedia nel suo modo di essere galante e sfuggente, di rispondere con qualche battuta e di evitare di affrontare i discorsi spiacevoli nascondendosi dietro altro – per esempio l’amore per gli alberi. Però di Gigi – appunto – non sappiamo nulla di più di quel ripetersi ogni giorno, non entriamo mai a casa sua, non vediamo cosa fa fuori dal ruolo pubblico. È proprio questo scivolare su una superficie possibile che interessa il regista: Gigi la legge non è un film «sulla» provincia italiana ma su un rito (e un ritmo) del tempo e sulle possibilità di scoprire la corazza dell’apparenza, il mistero di un personaggio, il suo essere creatura enigmatica nel rapporto con la sua «giungla» un po’ alla Apichatpong Weerasethakul – coi suoi fantasmi notturni tenuti dentro fino allo svelarsi che esplode nell’ultimo pezzo del film, il più intenso e emozionante; non solo in un controcampo che si fa tale con la presenza di Paola – e la sua canzone, Amore disperato di Nada-  ma perché lì Comodin coglie quell’epifania che ha cercato col suo dispositivo, qualcosa che accade all’improvviso inattesa. Un momento magico che viene dal cuore.

Cinema minerale, elementare – sinfonia degli elementi: acqua innanzitutto, mare disseminato nel quadro, poi riflessi di luce, aria, espanso vociare; e terra, concrezioni terragne, finanche affioramenti che si sviluppano su lamiere –: quello di Helena Wittmann è uno degli immaginari più connotati del cinema contemporaneo, qualcosa che si ricongiunge a visioni classiche, a modalità di rappresentazione eponime (Akerman soprattutto, poi Claire Denis, Herzog, Wim Wenders, Antonioni) sfociando in forme di «presentazione» sperimentali. Non più rappresentazione, al limite, al di là del racconto o riducendosi la trama a un esile canovaccio, a una sfilacciatura narrativa; ma scoperta continua del visibile.

È dagli “Orizzonti” che arrivano ancora una volta, come negli anni passati – al di là di immagini tronfie, altisonanti (il suono, lo stridio dei soldi, delle ricche produzioni) o irretite in narrazioni anodine come quella di Coppola, anche se, a dire la verità, resistono alcune splendide visioni del concorso principale, l’abisso dell’immaginazione: Costanzo, Bonello, Kröger –, alcuni dei film più belli di questa Mostra, a partire dal capolavoro di Shinya Tsukamoto, Shadows of Fire, film di una purezza e di una semplicità disarmante, basculante tra l’espressionismo, l’urlo, l’urto, l’urticante, che era stato già di Tetsuo ed era arrivato fino a Nobi e Zan (immagini affilate, di metallo lacerato, tagliente) e il Neorealismo, la povertà dell’immagine, la frontalità disarmata di un bambino che, finita la guerra, inizia la sua – giocata sulla scorta dell’ingenuità e della pietas -, cerca di interpretare il canovaccio spurio, stracciato della sopravvivenza.

Era stata la colonna sonora più bella della Mostra di Venezia 2021 – per lo più giri notturni, ebbri, di basso elettrico, di drum-machine, casse spezzate, ammiccanti a passi, a plastiche anni Ottanta e Novanta, motivi sintetici, come feticci sonori, a tramare con le insegne al neon dei fast food – quella di Mona Lisa and the Blood Moon, terzo film di Ana Lily Amirpour, in sala a partire da oggi.

Archipel, Fireworks, Stella Maris, I Santi, sono solo alcuni dei cortometraggi di Giacomo Abbruzzese, che hanno preparato il terreno all'occhiuto, eterocromico Disco Boy. Come dire: alle soglie del sogno; un cinema che si nutre dell'avventura umana, dei corpi, dell'amore, la musica, per affacciarsi sullo sfondo luminoso, sognante del cinema che può quasi emendare anche il panorama devastato della Palestina (Archipel, 2010, film straordinario).

Una teoria della separazione - in mezzo agli esseri si frappone un oceano di distanza, tale da divenire, questo spazio liquido, vasto, percorso dalle brezze, dalle tempeste, gli scirocchi improvvisi (l’azione dell’acqua sui sentimenti), i continenti su cui si sedimenta il senso, la verità dell’opera, una verità di lacerazione - sembra essere al centro del nuovo film di Tommaso Santambrogio, Gli oceani sono i veri continenti, presentato alle Giornate degli autori della Mostra di Venezia appena trascorsa, e in sala già da qualche giorno.

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DIRETTORE E FONDATORE

Luigi Abiusi è scrittore, critico letterario e cinematografico (collabora con "Il Manifesto" e le riviste "Critica letteraria", "Filmcritica", "Filmparlato.com", "Duels.it", "Alias", con l'encicolpedia del cinema Treccani); è stato selezionatore per la Settimana Internazionale della Critica del Festival di Venezia; si occupa di letteratura italiana e letterature comparate presso l'Università di Bari; come poeta ha pubblicato i volumi Non un segno (nel 2002) e Dei comprimari riflessi (nel 2008) e ha diretto la collana di poesia "Toblack"; tra gli ultimi saggi pubblicati, i volumi Per gli occhi magnetici. Campana Pasolini Erice Tarantino, 2011; Tempo di Campana. Divenire della poesia tra Nietzsche e Deleuze , 2008; e, a sua cura, Il film in cui nuoto è una febbre. Registi fuori dagli scheRmi, 2012. È autore di racconti pubblicati su riviste e antologie.

CAPOREDATTRICE

Valentina Dell'Aquila si occupa di arti visive e cinema. Ha collaborato con diverse riviste e lavorato per diverse istituzioni come docente nonchè ricercatrice: Accademia Belle Arti Venezia, Dipartimento di Management Ca' Foscari, MIUR, etc, formatasi, tra le altre, presso LUISS Business School Roma.

COMITATO SCIENTIFICO

Alessandro Cappabianca
è architetto, critico d'arte e critico cinematografico. Nell'espletamento di queste attività, ha sempre cercato sopratutto di mettere alla prova la sua scrittura, al di fuori di ogni preoccupazione accademica.
Dopo aver insegnato semiologia alla facoltà di architettura di Firenze, con Giovanni Klaus Koenig,  i suoi interessi si sono rivolti allo studio della scenografia e poi decisamente al cinema, tramite una ormai lunga collaborazione alla rivista "Filmcritica" (diretta da Edoardo Bruno), del cui direttivo fa parte. Tra i fondatori della rivista "Fiction. Cinema e pratiche dell'immaginario" (1977-80, con Ellis Donda, Michele Mancini, Giuseppe Perrella e Renato Tomasino), ha collaborato anche a "Casabella", "La città di Riga", "Fata Morgana", "La Corte", "Spirali", "The Rope" e alla rivista on-line "La furia umana". E' stato redattore di numerose voci dell'Enciclopedia del Cinema Treccani.
Ha scritto monografie su Billy Wilder, Erich von Stroheim, Roman Polanski, Antonin Artaud e Carmelo Bene. Altri suoi contributi sono in convegni e volumi collettivi dedicati alla scenografia cinematografica, alla rappresentazione della città nel cinema e a registi quali Aleksandr Dovženko, Michelangelo Antonioni, Max Ophüls, Martin Scorsese, Clint Eastwood, Fritz Lang, Blake Edwards, Stanley Donen, John Boorman e Raúl Ruiz.

Raffaele Cavalluzzi
già Professore Ordinario di Letteratura italiana presso l'Università di Bari e Direttore del Dipartimento di Italianistica e del CUTAMC della stessa università, è studioso di letteratura del Rinascimento e dell'Otto e Novecento. Si occupa inoltre del rapporto tra cinema e letteratura. Tra le sue recenti pubblicazioniCinema e letteratura (2008), Le immagini al potere. Cinema e Sessantotto (2008), Lo scorpione e il turbante indiano. Su Volponi e altre occasioni di letteratura e di cinema (2010), L'intelligenza della città. Bari e la Puglia tra realtà e progetto (2010).

Lorenzo Esposito
fa parte della redazione di “Fuori Orario-RaiTre” e del direttivo di “Filmcritica”. È autore del saggio Carpenter Romero Cronenberg – Discorso sulla cosa e della raccolta di aforismi Il digitale non esiste – Verità e menzogna dell’immagine. È autore delle trentadue prose brevi de Il prossimo villaggio, pubblicato per CaratteriMobili.

Giovanni Festa è scrittore, critico cinematografico e storico dell’arte. PHD in filosofía della comunicazione e dello spettacolo (Universitá della Calabria), ha collaborato con l’Universitá de La Plata (Argentina) dove ha concluso un postdoc in “Teoria dell’immagine”, e quella di Morelos (Messico). Fra le sue pubblicazioni,  Il montaggio sacrificale delle immagini attraverso Ejzenstejn Warburg e Bataille (2017), Il Cavaliere  e la Donzella. Storia labirintica di un archetipo figurativo (2013), il libro collettaneo Per un cinema del reale (a cura di Daniele Dottorini, 2013), il catalogo Pathos e Estasi. Le orme di Caravaggio nella Napoli del ‘600 (2014), il romanzo Harakiri station e il monologo per il teatro La Ferita Risanata (2012). Scrive per le riviste Fata Morgana, Filmcritica, Reflexiones Marginales.

Anton Giulio Mancino
insegna cinema negli atenei di Macerata e Bari. Autore di volumi su Scorsese, Demme, Rosi, Wayne, Rubini e in particolare sul cinema politico italiano (Il processo della verità, 2008), di numerose voci per l’Enciclopedia del Cinema (Treccani) e del Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi), collabora con le riviste “Cineforum”, “Cinecritica”, e il quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È membro del comitato selezionatore della Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia (2001-2004 e 2009-2012).

Pietro Masciullo
ha conseguito un Dottorato di ricerca in Musica e Spettacolo presso Sapienza – Università di Roma. Cura il laboratorio di Metodologie della Critica Cinematografica nel Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo (Sapienza – Università di Roma). Fa parte della redazione di «Cinema e Storia» ed è caporedattore di «Sentieri Selvaggi». Ha pubblicato diversi saggi sul cinema contemporaneo in testi collettanei e riviste scientifiche. È autore del volume Road to Nowhere. Il cinema contemporaneo come laboratorio autoriflessivo (Bulzoni, 2017) e ha curato il volume Wes Anderson – Moonrise Cinema (GoWare, 2014).

Bruno Roberti
, critico e studioso di cinema, è professore associato di Istituzioni di regia all’Università della Calabria. Fa parte del comitato direttivo delle riviste “Filmcritica” e “Fata Morgana” e del comitato scientifico di “Logoi.ph”. Ha collaborato con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani e con la RAI. Fra le sue pubblicazioni: Raoul Ruiz. Ruiz faber (a cura di E. Bruno con L. Esposito e D. Turco, Minimum fax, 2007), Spazio Wenders (con R. De Gaetano e E. Arnone, Librare, 2009) Manoel de Oliveira: il visibile dell’invisibile (Fondazione Ente dello spettacolo, 12), Cinema alchimia uno, L’ingresso aperto nel palazzo chiuso del re (Caratteri Mobili, 2012); Morfologia dell’Iguana. Anna Maria Ortese tra letteratura e cinema (con M. Ganeri, Edizioni Librare, 2011); Mario Martone. La scena e lo schermo (con R. De Gaetano, Donzelli, 2013); L’arte di Edoardo. Le forme e i linguaggi (con R. De Gaetano, Pellegrini, 2014); Toni Servillo. Oltre l’attore (con R. De Gaetano, Donzelli, 2015). Ha scritto la voce “Maschera” per il Lessico del cinema italiano (Mimesis).

REDAZIONE
: Vanna Carlucci, Marika Consoli, Gianfranco Costantiello, Elvira Del Guercio, Cinzia Giordano, Sergio Grandolfo, Leonardo Gregorio, Clara Patella, Luca Romano, Mariangela Sansone, Domenico Saracino, Arianna Trigiante, Giulio Vicinelli.

COLLABORATORI: Carmen Albergo, Luca Bandirali, Franco Bifo Berardi,  Colin Beckett, Alfie Bown, Andrea Bruni, Massimo Causo, Luigi Coluccio, Cecilia Ermini, Andrea Gropplero, Mariella Lazzarin, Adrian Martin, Michele Moccia, Marco Mogurno, Giona A. Nazzaro, Grazia Paganelli, Luca Pacilio, Giampiero Raganelli, Stefania Rimini, Sara Sagrati, Michael Sicinski, Dorottya Szalay, Brian Wilson.

UFFICIO STAMPA
Cinzia Giordano
Arianna Trigiante

Direttore

Luigi Abiusi è scrittore, critico letterario, cinematografico, musicale (collabora con "Il Manifesto" e le riviste "Critica letteraria", "Filmcritica", "Filmparlato.com", "Duels.it", "Alias", con l'Encicolpedia del cinema Treccani); è stato selezionatore per la Settimana Internazionale della Critica del Festival di Venezia; dirige la rassegna di cinema internazionale "Registi fuori dagli scheRmi"; è professore a contratto in letteratura e in cinema presso le università di Bari e di Lecce; come poeta ha pubblicato i volumi Non un segno (nel 2002) e Dei comprimari riflessi (nel 2008); tra gli ultimi saggi pubblicati, i volumi Per gli occhi magnetici. Campana Pasolini Erice Tarantino, 2011; Tempo di Campana. Divenire della poesia tra Nietzsche e Deleuze , 2008; e, a sua cura, Il film in cui nuoto è una febbre. Registi fuori dagli scheRmi, 2012. È autore di racconti pubblicati su riviste e antologie.

Vicedirettore

Giovanni Festa si occupa di montaggio e teorie dei media. Insegna storia e critica del cinema I e II presso l’Instituto de Artes y Humanidades Botticelli di Cuernavaca (Messico) e impartisce seminari di Teorie dell’immagine presso la facoltà di Arte dell’Università de La Plata (Argentina) dove ha svolto un post-dottorato. Ha impartito seminari e ha partecipato a convegni internazionali organizzati da varie università dell’America Latina (UAM e UNAM di Città del Messico, UAEM di Morelos, UBA di Buenos Aires). È storico dell’arte presso la Fondazione C.R.E.A per la quale è autore di cataloghi di mostre monografiche. Suoi scritti sono apparsi su riviste italiane e straniere fra le quali Filmcritica, Arkadin, Reflexiones Marginales, Fata Morgana e Fellini Amarcord. Fra le sue pubblicazioni, Il montaggio sacrificale delle immagini. Ejzenštejn, Warburg e Bataille (2017) e Il Cavaliere e la Donzella. Itinerari labirintici di un archetipo figurativo (2013). È autore di un romanzo, Hostage City, e di un monologo per il teatro, La ferita risanata (2012).

Caporedattore

Domenico Saracino insegna discipline audiovisive presso il liceo artistico audiovisivo-multimediale di Bitonto (BA). È critico cinematografico e giornalista pubblicista; collabora con "Pointblank", "Il ragazzo selvaggio", "Il Sannio quotidiano". Ha pubblicato due saggi ("Mondi complessi" e "Binge is the new black") sulle nuove modalità di racconto e consumo televisivo in testi collettanei dedicati a Westworld e Netflix oltre ad aver partecipato a diversi dossier digitali su autori e opere del cinema classico e contemporaneo. È risultato vincitore di una selezione da parte del Mibact per titoli ed esperienze professionali come formatore esperto per l'educazione visiva a scuola.

Comitato Scientifico

Alejandra Bottinelli Wolleter è professoressa del Dipartimento di Lettere della Facoltà di Filosofia e Lettere dell'Università del Cile, Coordinatrice dell'Area di Letteratura latinoamericana e cilena e fondatrice del «Diplomado in Letterature mondiali: problemi attuali». La sua ricerca accademica si divide tra due interessi principali: l'estetica e la scrittura del corpo; la violenza nel tardo 19° secolo e nelle ultime generazioni latinoamericane. Fra i suoi libri González Prada: una intelectualidad radical, Mansalva ed.; Nación y cultura en el Brasil finisecular. La Troya de barro contra la república: Os Sertões, de Euclides da Cunha, Cuarto Propio ed; e il libro collettaneo Retóricas de la violencia y ficciones del cuerpo: ensayos sobre literatura y arte latinoamericanos, Editorial Universitaria. Attualmente è ricercatrice invitata presso il Kåte Hamburger Center for Apocalyptic and Postapocalyptic Studies dell'Universität Heidelberg (2021-2022), dove sviluppa una ricerca su “Il corpo ai confini della fine dei tempi”.

Alessandro Cappabianca è architetto, critico d'arte e critico cinematografico. Nell'espletamento di queste attività, ha sempre cercato sopratutto di mettere alla prova la sua scrittura, al di fuori di ogni preoccupazione accademica.
Dopo aver insegnato semiologia alla facoltà di architettura di Firenze, con Giovanni Klaus Koenig,  i suoi interessi si sono rivolti allo studio della scenografia e poi decisamente al cinema, tramite una ormai lunga collaborazione alla rivista "Filmcritica" (diretta da Edoardo Bruno), del cui direttivo fa parte. Tra i fondatori della rivista "Fiction. Cinema e pratiche dell'immaginario" (1977-80, con Ellis Donda, Michele Mancini, Giuseppe Perrella e Renato Tomasino), ha collaborato anche a "Casabella", "La città di Riga", "Fata Morgana", "La Corte", "Spirali", "The Rope" e alla rivista on-line "La furia umana". E' stato redattore di numerose voci dell'Enciclopedia del Cinema Treccani.
Ha scritto monografie su Billy Wilder, Erich von Stroheim, Roman Polanski, Antonin Artaud e Carmelo Bene. Altri suoi contributi sono in convegni e volumi collettivi dedicati alla scenografia cinematografica, alla rappresentazione della città nel cinema e a registi quali Aleksandr Dovženko, Michelangelo Antonioni, Max Ophüls, Martin Scorsese, Clint Eastwood, Fritz Lang, Blake Edwards, Stanley Donen, John Boorman e Raúl Ruiz.

Raffaele Cavalluzzi già Professore Ordinario di Letteratura italiana presso l'Università di Bari e Direttore del Dipartimento di Italianistica e del CUTAMC della stessa università, è studioso di letteratura del Rinascimento e dell'Otto e Novecento. Si occupa inoltre del rapporto tra cinema e letteratura. Tra le sue recenti pubblicazioniCinema e letteratura (2008), Le immagini al potere. Cinema e Sessantotto (2008), Lo scorpione e il turbante indiano. Su Volponi e altre occasioni di letteratura e di cinema (2010), L'intelligenza della città. Bari e la Puglia tra realtà e progetto (2010).

Valentina Dell'Aquila si occupa di arti visive e cinema. Ha collaborato con diverse riviste e lavorato per diverse istituzioni come docente nonchè ricercatrice: Accademia Belle Arti Venezia, Dipartimento di Management Ca' Foscari, MIUR, etc, formatasi, tra le altre, presso LUISS Business School Roma.

Lorenzo Esposito fa parte della redazione di “Fuori Orario-RaiTre” e del direttivo di “Filmcritica”. È autore del saggio Carpenter Romero Cronenberg – Discorso sulla cosa e della raccolta di aforismi Il digitale non esiste – Verità e menzogna dell’immagine. È autore delle trentadue prose brevi de Il prossimo villaggio, pubblicato per CaratteriMobili.

Anton Giulio Mancino insegna cinema negli atenei di Macerata e Bari. Autore di volumi su Scorsese, Demme, Rosi, Wayne, Rubini e in particolare sul cinema politico italiano (Il processo della verità, 2008), di numerose voci per l’Enciclopedia del Cinema (Treccani) e del Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi), collabora con le riviste “Cineforum”, “Cinecritica”, e il quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È membro del comitato selezionatore della Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia (2001-2004 e 2009-2012).

Pietro Masciullo ha conseguito un Dottorato di ricerca in Musica e Spettacolo presso Sapienza – Università di Roma. Cura il laboratorio di Metodologie della Critica Cinematografica nel Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo (Sapienza – Università di Roma). Fa parte della redazione di «Cinema e Storia» ed è caporedattore di «Sentieri Selvaggi». Ha pubblicato diversi saggi sul cinema contemporaneo in testi collettanei e riviste scientifiche. È autore del volume Road to Nowhere. Il cinema contemporaneo come laboratorio autoriflessivo (Bulzoni, 2017) e ha curato il volume Wes Anderson – Moonrise Cinema (GoWare, 2014).

Bruno Roberti, critico e studioso di cinema, è professore associato di Istituzioni di regia all’Università della Calabria. Fa parte del comitato direttivo delle riviste “Filmcritica” e “Fata Morgana” e del comitato scientifico di “Logoi.ph”. Ha collaborato con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani e con la RAI. Fra le sue pubblicazioni: Raoul Ruiz. Ruiz faber (a cura di E. Bruno con L. Esposito e D. Turco, Minimum fax, 2007), Spazio Wenders (con R. De Gaetano e E. Arnone, Librare, 2009) Manoel de Oliveira: il visibile dell’invisibile (Fondazione Ente dello spettacolo, 12), Cinema alchimia uno, L’ingresso aperto nel palazzo chiuso del re (Caratteri Mobili, 2012); Morfologia dell’Iguana. Anna Maria Ortese tra letteratura e cinema (con M. Ganeri, Edizioni Librare, 2011); Mario Martone. La scena e lo schermo (con R. De Gaetano, Donzelli, 2013); L’arte di Edoardo. Le forme e i linguaggi (con R. De Gaetano, Pellegrini, 2014); Toni Servillo. Oltre l’attore (con R. De Gaetano, Donzelli, 2015). Ha scritto la voce “Maschera” per il Lessico del cinema italiano (Mimesis).

Eduardo A. Russo è ricercatore, docente e critico di cinema e arti audiovisuali. Dirige il Dottorato in Arte della Facoltà di Arte dell’Università Nazionale de La Plata (UNLP), Argentina. È professore di Analisi e Critica e di Teorie del Audiovisuale (UNLP) e di Teoria e Estetica del cinema presso la Scuola Nazionale di Realizzazione e Sperimentazione cinematográfica (ENERC) e docente in corsi di specializzazione presso l’Università di Buenos Aires (UBA).
Professore invitato in Cile, Colombia, Brasile, Uruguay, Cuba e Messico. È direttore della rivista accademica Arkadin. Estudios sobre Cine y ArtesAudiovisuales.

Redazione

Eliana Carlucci, Serena Ciccarone, Marika Consoli, Gianfranco Costantiello, Elvira Del Guercio, Cinzia Giordano, Sergio Grandolfo, Leonardo Gregorio, Marilea Laviola, Massimiliano Martiradonna, Silvia Rita Pellecchia, Mariangela Sansone, Sergio Sasso, Rodrigo Sebastián, Arianna Trigiante, Giulio Vicinelli.

Collaboratori

Carmen Albergo, Luca Bandirali, Franco Bifo Berardi,  Colin Beckett, Alfie Bown, Andrea Bruni, Massimo Causo, Luigi Coluccio, Cecilia Ermini, Andrea Gropplero, Mariella Lazzarin, Adrian Martin, Michele Moccia, Marco Mogurno, Giona A. Nazzaro, Grazia Paganelli, Luca Pacilio, Giampiero Raganelli, Stefania Rimini, Sara Sagrati, Michael Sicinski, Dorottya Szalay, Brian Wilson.

Ufficio Stampa

Cinzia Giordano
Arianna Trigiante

Grafica e media

Graziana Castellano

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