L’immagine come struttura potenziale, l’immagine come scorcio di un tempo nel paesaggio dell’immagine, l’immagine come una riviviscenza di un punto nel tempo che ritorna e che è sempre un altro, pieno del Senso e delle cose. Viaggio a Montevideo rappresenta una lontananza che, come tale, non è mai raggiunta, è un viaggio che ammette la partenza, il ritorno mentre «il tempo  è scorso, si è addensato, è scorso» (Campana 2003, 49). Il titolo del film di Giovanni Cioni – presentato nella sezione Satellite alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2017 – recupera tutta la cosmogonia poetica di Dino Campana il cui movimento squama il paesaggio su cui l’occhio si posa per aprire un varco, «un ponte di passaggio» che anticipa la visione.


Montevideo è un fantasma o un ricordo, è una ricerca di senso o un’invocazione alla Musa, quello stato di grazia che per Campana è un canto che si posa sullo sfondo della natura, del fiume, dell’acqua, dei complessi architettonici, delle montagne e smuove il paesaggio, lo rimaterializza, è sempre un altro, «nello spazio, fuori del tempo»(Campana 2003, p.44). Così per Giovanni Cioni la macchina da presa diventa occhio che preme e che disfa quello che vede (Montevideo non c’è, Montevideo diventa la Val d’Aosta e le sue montagne), diventa punto di mediazione verso una dimensione che è quella della (sua) suggestione, tempo dell’infanzia, tempo di luoghi vissuti, attraversati.

Non è un diario, eppure potrebbero suggerirlo i frammenti di parole e di scorci, lo stesso respiro del regista diventa pensiero, fiato che cede alla dissolvenza; Viaggio a Montevideo è invece memoria, l’unica possibile: «un ricordo che non ricorda nulla» scriveva Dino Campana a Sibilla Aleramo e cioè un ricordo attualizzato che nel presente diventa altro, varco temporale; stacco musicale e, ancora, il poeta: si corre sempre il rischio di inciampare troppo nelle parole e dimenticare le immagini quando si decide di mischiare cinema e parola, ma Cioni lo sa bene che il suo viaggio è una pupilla che si dilata e che i Canti Orfici sono una Cinematografia sentimentale fatta di «vedute»: una vera e propria struttura “per sequenze” (le strofe sono divise una dall’altra da asterischi che alludono allo stacco del montaggio cinematografico mentre in Cioni il corpo del film è diviso in cinque atti) in cui il verso è mobile e cioè si muove verso una eventuale proiezione delle immagini che «fioriscono, sfioriscono» nel piano-sequenza, spettri vaganti come gli spettri lasciando la parola poetica aperta alla sua essenza sonora. La dissonanza di cui parla Cioni è l’ultima sonata di Beethoven, è la fuga, il transito, questo continuo scarto temporale tra un presente e un passato che ritorna.


Bibliografia

Campana D. (2003): Canti Orfici, Einaudi, Torino.





Titolo:
Viaggio a Montevideo
Anno: 2017
Durata: 56'
Origine: Italia
Colore: C
Genere: Documentario
Produzione: Laboratorio Oltreconfine

Regia: Giovanni Cioni

Sceneggiatura: Giovanni Cioni
Fotografia: Giovanni Cioni
Montaggio: Giovanni Cioni

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