«This movie should be played loud».

L’esergo che apre The Driller Killer di Abel Ferrara potrebbe tranquillamente stare in apertura di questo Damned Summer senza disattendere le aspettative implicite nel motto. Se però il film di Ferrara si presentava da subito in tutta la sua forza importante, quello di Pedro Cabereira si innesca con lentezza, secondo una studiata progressione.



Damned Summer inizia nella luce, sbiancata di varechina, per terminare nelle plaghe della notturnità. Di quella notte però dei giorni nostri, in cui l’antica forma della tenebra è bandita e rimpiazzata da un buio postmoderno intermittente, sciabolante di luci psichedeliche e perforato di stroboscopiche. Anzi della luce, come del suono, quello pre musicale degli agglomerati frequenziali e dei loro super poteri evocativi, Cabereira fa strumento primario nella narrazione di quello sradicamento a-prospettico che affligge la gioventù che ritrae, infoibata in un presente assoluto, scempio di legami con la sua storia e incapace di proiezione nel futuro per mancanza di utopie traguardabili e sogni.

Si cerca scampo da questa ferrettiana «noia normale, noia mortale», e in fuga tutto aiuta: corpi e labbra come rifugi impermanenti, che dopo una notte o un'ora ti rigettano alla pioggia battente, prove di auto eliminazione e pratiche psicotrope, che perlopiù si risolvono in momenti di blanda anestesia, buoni al massimo per il mal di testa (per fartelo venire la mattina dopo), ma decisamente inefficaci contro gli attacchi acuti di vita. Cabereira sventa ab origine qualsivoglia tentazione mitizzante. Chico, così si chiama il nottambulo protagonista di Damned Summer e tutta la variopinta cerchia di anime-proiettile con cui incrocia le traiettorie di tiro, non vogliono avere nell'intenzione del loro regista alcuna solennità di simbolo, non vogliono essere l'emblema di un'intera generazione, o l'incarnazione delle distopie del tempo e per questo è demitizzante anche il loro trattamento filmico, il modo quasi schivo con cui occupano la scena e i giorni.

Siamo ben lontani dagli atteggiamenti iper iconici, roboanti nel loro palese darsi, di un Renton o di uno Spud di un film-totem generazionale come Trainspotting (D. Boyle, 1996) o dalla tragicità emblematica delle creazioni deaniane e con la loro rappresentatività epocale. Un' (anti)epica della normalità, una narrazione che avanza di quotidiano in quotidiano e in assenza di gesta o caratteri eccezionali, ma che proprio in questa poetica della prossimità trova uno dei suoi motivi di forza. Questi personaggi così “normali”, così come noi, che ci sembrano amici nostri dei tempi dell'università, finiscono per coinvolgerci in maniera più intima di come potrebbero fare i grandi simboli, perché inscenano la normalità disperata dei nostri oggi suscitando un senso di condiviso, di vissuto in comune. E più dei simboli forse rappresentano, senza volerlo né loro né il regista, l'empasse in cui latitano le nostre speranze e proiezioni.

Cabereira si getta letteralmente in mezzo a questo brulicare vitale, con la macchina a mano squassata dal pogo nel centro della pista, schiacciata trai corpi nel fitto del dancefloor o molleggiata sui letti, a ridosso di sudori, capelli, lingue e muscoli. A volte invece è discreto, specialmente nel raccontare la normalità della vita diurna, la sua presenza d'autore si rincantuccia per qualche scena e i dialoghi per strada e tra le lenzuola, o la scena iniziale con i parenti anziani, si danno in una trasparenza di stile quasi documentaristica, di latitanza espressionistica apparente, momenti di mimesi in cui Pedro trova una luminosità sensibilissima e una nitidezza visiva e sonora sorprendenti (si faccia caso alla iper precisione frequenziale del sound design, alla pallonata contro la rete metallica, al gracchiare nella cornetta del citofono, al crepitare impercettibile di una canna che resta udibile nel fragore della techno).

Nei momenti di abbandono semiestatico, nelle scene orgiastiche e lisergiche di liberazione degli istinti Cabereira è un pintore di luci cromatiche in stato di grazia, un Matisse strafatto che ricolora i corpi e il mondo avendo sulla tavolozza i colori della notte bulimica dell’età giovane. I blu e rossi abbacinanti delle luci psichedeliche, i bianchi illividiti della stroboscopica, le sfumature molteplici del nostro buio detronizzato. Sono quadri espressionisti e fauvisti quelli che dipinge, in cui l'esuberanza evocativa delle cromie travalica i confini del mimetico regalando alle forme e alle superfici quel surplus di indefinito, di potenzialmente significante ed emozionale che difficilmente si descrive a parole, una forma inesprimibile, ma esperibile, dell'auraticità. Strategia della saturazione delle percezioni. Questa volontà di estensione libidica delle qualità sensoriali non investe la sola immagine ipercromica ma anche il suono, sovreccitato sotto il profilo frequenziale, espanso e debordante sui bassi, formicolante di infinite variazioni e micro presenze interne, eliso e tacitato in certi istanti.

E' questa una vocazione all' iper-corporeità, alla supersensorializzazione dell’esperienza che in certa misura invera quella dei giovani protagonisti così stacanovisticamente votati alla deradicazione della dolorosa coscienza in un rituale perpetuo del godimento sensorio puro. Le sensazioni, e dunque la dimensione dell'istantaneità, sostituiscono il senso, anzi sono esse stesse il senso, l'unico ancora praticabile quanto meno. La pratica filmica di Cabereira, con le sue divagazioni cromatiche, gli sprofondamenti nei sub bassi, non sembra avere nulla del distacco compiaciuto del manierismo, non cerca il gioco facile dei virtuosi, ma si radica per una forma inoppugnabile di necessità alla condizione dei personaggi, ne è espressione sensorializzata, è la formalizzazione audiovisiva (una di quelle possibili) del loro svuotamento.
Personalmente ritrovo sottopelle a questo cinema una vocazione proficua all'”artigianato”, la propensione operosa di chi i materiali del suo mestiere, la luce e il suono in questo caso, li manipola, li intaglia e li leviga godendo di questo sporcarcisi le mani.

Da qui deriva un trattamento dell'audio sorprendente e manipolatorio. Leggo in giro che molto si è apprezzata la soundtrack di questo film, la scelta musicale, e il modo significativo con cui Pedro associa queste composizioni alle immagini e alla situazione drammatica e poco si può aggiungere in questo senso. Sembra però di una certa utilità porre l'attenzione anche sulle modalità con cui questa musica si innerva nel tessuto filmico. Sì perché come si noterà i brani non arrivano mai al nostro orecchio di spettatori nella loro forma originale, in un ascolto di primo grado, ma sempre o acusmatizzati a livello diegetico, cioè riprodotti da un qualche dispostivo tecnologico interno alla diegesi, o manipolate, deformate per ragioni meccaniche (si sente la musica da un'altra stanza, o in stato di alterazione psicofisica ecc.) o espressive. Sono acusmatici quei suoni che sono scissi dalla propria fonte naturale.

Il caso più frequente è quello dei suoni riprodotti da un qualche dispositivo tecnologico, come televisori, impianti stereo o cinematografci, che di fatto ne separano l'esistenza dalla causa meccanica di origine (gli strumenti e i musicisti reali che hanno eseguito una musica, la pistola di scena che ha emesso lo sparo, ecc.). Le musiche di Cabereira (che in quanto musiche di un film già di per sé si presentano a un primo grado di acusmatizzazione) sono spesso riprodotte nel film dagli impianti audio di feste e locali notturni e di questa origine recano le tracce evidenti nella qualità timbrica e nella definizione frequenziale. Ecco allora che gli amplificatori e gli impianti audio di seconda mano delle feste di Chico e sodali “sporcano” il suono di qualcosa di familiare, di noto, che attiva la ricezione empatica, l'emozione e il riconoscimento. Il suono della memoria. Perché è questo suono imperfetto che ci portiamo nel cuore, ben più di quello adamantino e asettico dei Cd o delle tracce di studio, il suono mugghiante e “clippante” sulle basse dei concerti, delle feste, dei rave che ci restano nella memoria, il suono sgangherato delle feste con gli amici, i bicchieri di carta, il vino e tutto il resto. Suono della memoria.

La musica è pasta sonora, cosa malleabile e scolpibile, al di sotto degli aspetti strutturanti, del musicale puro, ed è assunta  nella sua natura di materiale bruto, da distorcere e sporcare, caricare d'emozione e vilipendere. Anche nelle tracce usate con sola funzione extradiegetica il suono musicale è soggetto a mille accidenti e deturpazioni, filtri e riverberi, sovrapposizioni stratificate di presenze altre, frequenze, rumori, voci, disturbi che ne mutano l'aspetto originale e spesso il senso. Quello della manipolazione sonora, pratica post moderna d'elezione, rituale del dj e del sound designer, sovrascrive un livello di significazione ulteriore su quello musicale puro e sulle sue possibilità di “agganciamento” semantico del testo visivo e drammatico.

Succede allora che quando Chico sperimenta l'estasi dell'ecstasy il suono esterno, oggettivo e diegetico della techno slabbrante di bassi che satura la scena riproduca per via percettiva il suo progressivo inabissamento nell'incosciente: il suono inizia a perdere definizione, un filtro passa bassi progressivamente lo elide dall'alto; più Chico si sprofonda più il suono si fa opaco e scuro sino a perdere ogni fattezza musicale e a ridursi a pura massa sub bassa, una scura e informe frequenza prolungata e bassissima, ovattata, lontana, come se la sentissimo pulsare da qualche remota profondità nel sub cosciente di Chico. Quello che era un suono oggettivo ed esteriore, la musica che realmente i ragazzi stavano ascoltando alla festa, tramite una pratica di manipolazione dell'assetto ferequenziale, diventa il suono interiore della perdita di contatto di Chico. Il processo sottrattivo è analogo, il filtro che mano mano elide gli alti, la definizione, la forma e la riconoscibilità della musica, sino alla polpa minima della sola frequenza più bassa, è del tutto simile per principio alla perdita di coscienza del personaggio, che perde anch'egli progressivamente definizione e lucidità nella percezione del reale sino al limbo dell'incosciente, della sua frequenza interiore.

Quando la sostanza sospinge i giovani psiconauti verso il rito orgiastico liberatorio, la lunga scena di sfregamenti e intrecciar di corpi e membra che era iniziata col selvatico ritmo della techno improvvisamente cambia di registro quando irrompe una suite per archi dall'andamento soave, interrompendo di malo modo il pompatissimo pezzo a cassa dritta. La ferina carica sessuale delle immagini dei baccanti, che con l'appoggio ritmico e debordante della musica elettronica andava montando come marea, d'un tratto, e per solo effetto del repentino cambio musicale, evapora, e tutto il senso sessuale della scena si stempera nel miele dell'elegia dei corpi in amore, un balletto cinetico e sensuale di membra avviticchiate e fisici giovani di infinita e dolcissima poesia. La cosa si spiega, nuovamente, con un passaggio dal suono oggettivo esteriore a quello soggettivo interiore, dalla durezza sintetica del suono ambientale, la musica che agita la festa, alla dimensione tutta interna della “musica” delle emozioni dei personaggi, strafatti di “droga dell'amore”, che dunque vivono con inusitato trasporto emotivo questo incontro dei corpi, i violini che sentiamo sono il suono delle loro emozioni dolcissime e dilatate.

A vincere su tutto, e così chiudo, mi pare sia l'idea di un cinema profondamente “cinematografico”,  che vuole far nascere senso ed emozione dall'impiego strategico delle proprie caratteristiche specifiche, dai mezzi peculiari e unici di cui dispone, la luce e l'immagine, il suono, il montaggio ecc. un cinema in cui riguadagna centralità assoluta anche il corpo, che con i suoi sensi e le sue percezioni infinitamente stimolabili e orientabili da parte del regista, si pone come centro di significazione nevralgica del film.

 

Filmografia

The Driller Killer ( Abel Ferrara, 1979)
Trainspotting (Danny Boyle, 1996)

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