alt«Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna […]. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. […] Sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione» (Leopardi 1982, p. 151).


Lo sguardo segue il lento movimento delle nuvole, in un deragliamento dell’anima, che si smarrisce nella danza del tempo sospeso. Tra le luci e le ombre, tra i riflessi di uno specchio d’acqua che racconta il cielo in una sinfonia lieve di immagini, la memoria si cristallizza sospesa nell’incanto sacro di luoghi alchemici, in cui è lo spirito a raccontare fiabe arcaiche di uomini antichi.
La forma del tempo è un racconto lirico di anime in una danza mossa dal vento, tra il presente e il passato, in un futuro in cui l’uomo è un granello di assoluto. «Il tempo è uno stato. È la fiamma nella quale vive la salamandra dell’anima dell’uomo. Il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra, sono le due facce di una stessa medaglia» (Tarkovskij 2002, p. 139). L’armonia si fa cantico e risuona tra le fronde degli ulivi, tra le mani bambine e scorre lungo i solchi delle rughe degli anziani, nel propagarsi di un mistero che pochi ricordano. La musica è quella del vento che arpeggia la sua melodia tra i rami, tra la tenerezza soffice delle nuvole, è quella della goccia, che si fa infinito cadendo nello specchio di una pozzanghera, è la sinfonia della natura che sussurra la sua esistenza, la sua potenza, la sua sacra e mistica essenza, come il tempio baudelairiano «dove incerte parole mormorano pilastri che sono vivi, una foresta di simboli che l'uomo attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari» (Baudelaire 1994, p. 17).

La natura ha la sua voce, benigna e maligna, il suo mutarsi, morire e rinascere, l’alternarsi continuo di gioia, dolore, sofferenza e diletto, un linguaggio cui non si può che sottomettersi; conoscerlo, riconoscerlo ed accettarlo nel suo compiersi, nel suo forgiare elementi ed archetipi per l’umanità. Triokala, l’antico nome greco di Caltabellotta, paese siciliano arroccato su una montagna, etimologicamente il significato del suo nome è le tre cose belle, tre doni ricevuti da Madre Natura. L’antico si riflette nel presente, in un continuum temporale in cui la materia della memoria si srotola e prende forma nel tempo dell’esserci, in cui i ricordi hanno una struttura tangibile, nelle pietre, nell’acqua e nell’agire umano, consistente di misticismo e di tradizione.
Perché proprio come riportato in apertura del film, citando I grandi iniziati, di Edouard Schuré: «…l’anima viene dal fuoco o dall’acqua o da entrambi e, sottile emanazione degli elementi, non sfugge da essi che per rientrarvi. La natura eterna è cieca ed inflessibile. Rassegnati alla sua legge fatale. Il tuo solo merito sarà di conoscerla e di sottometterti a lei».

Triokala è una forma filmica non ascrivibile ad un genere, sfugge a coordinate, ha un linguaggio anarchico, indipendente e si affida all’immagine, alla sua purezza, a quell’immagine che, tarkovskijanamente, «non può essere interpretata […] che possiede una quantità illimitata di legami con il mondo, con l’assoluto, con l’infinito» (Tarkovskij 2012, p. 1). Una narrazione sensoriale, epidermica, che scorre sulla pelle e attraverso i ricettori più sensibili, una trasposizione immaginifica e reale del tempo, dilatato e sospeso, in una realtà in bilico tra l’onirico e l’esperito, tanto tangibile quanto intangibile, in maniera equanime. La luce apre varchi tra le ombre, tra le radure erbose, tra le braccia degli alberi, accende i verdi ed illumina le ombre palpitanti di vita, il respiro della natura è bellezza che si esprime nel suo essere più vivo, conducendo lo sguardo nella profondità arcaica della bellezza e della sua ricerca. La purezza di sguardo che attraversa il vivere vissuto e il vivere sognato, si scioglie in una cartografia mistica che narra del reale attraverso l’arcano della tradizione, di un’umanità che è incarnazione di magia misterica, tra religione e mantiche. La visione si smarrisce tra le nebbie che avvolgono Triokala, in un varco temporale che conduce negli abissi dell’esistere ed al contempo dell’essere, nella sua totalità.

L’immagine è una lirica che abbraccia l’assoluto, racchiude l’essenza di luoghi, distanti e presenti, traslando l’anima sul corpo filmico, impregnato dalla poesia di un altrove di cui si avverte l’esigenza e la necessità della sua presenza. Il murmŭr del vento accompagna l’occhio nell’infinita bellezza della natura, tra gli argentei alberi di ulivo, nelle campagne, tra le zolle brulle della terra scura lavorata dagli uomini, si insinua sottile nei silenzi assoluti di un patio vissuto da felini sornioni, gatti che accompagnano con gli sguardi assonnati la quotidianità umana. Il paese si accende del suo rumoreggiare brulicante, le vie si animano per le feste, tutto è vivo, tutto è vita. Un racconto antico affidato ad un tempo ancestrale, il cui ritmo dilatato e placido evoca la poesia di un luogo presente ma alieno, dipinto dall’estasi di un’immagine immaginifica e reale, «perché l’uomo è immagine e questo suo essere immagine lo pone al centro dell’architettura filmica […], un’immagine scultura del tempo» (Tarkovskij 2012, p. 2). Così «la specificità del cinema è una scultura. Il cinema non possiede una lingua propria, intesa come un determinato sistema di segni. Il cinema non usa una lingua, usa la realtà (poiché il tempo è la realtà), usa le immagini del tempo che scorre» (ibidem).
Tra le atmosfere innevate, emergono scene che riecheggiano alla pittura fiamminga, stilizzazione e visionarietà, in un contesto decisamente realistico, catturano lo sguardo che rimane incatenato dalla fascinazione delle immagini.

A tratti fortemente herzoghiano, dalla poesia apocalittica di Herz aus Glas e di La Soufrière, passando attraverso la lirica tarkovskijana di Zerkalo, fino alle tele di Brueghel, Vermeer e De La Tour ed ai giochi di luci che feriscono le ombre del Merisi, è un cinema che brucia, ammantandosi di misticismo. Come per Herzog, qui è la materia pittorica che prende vita, si trasforma in materia organica, palpitante e viva; una celebrazione orgasmica della pura visione, attraverso un’estetica espansa oltre la visibilità che arriva dritta al cuore e lo frantuma in mille pezzi di vetro. La matericità degli elementi primitivi, acqua, aria, terra e fuoco, artefici dell’immortalità e creatori dell’assoluto, completa il miracolo dell’immagine e la sua tensione all’infinito, perché «una goccia è l’immagine dell’universo» (ibidem).

Leandro Picarella con la sua opera Triokala, suo primo lungometraggio, menzione speciale della giuria del Regard Néuf a Visions du Réel 2016, Festival Internazionale del Cinema di Nyon, si affida ad una narrazione filmica visiva, tra il realistico, l’onirico e l’immaginifico, costruendo uno stato parallelo tra il visibile e l’invisibile, sospeso in una forma linguistica complessa, tra ciò che è reale e ciò che è astrazione dallo stesso, in una metamorfosi continua attraverso le stagioni, il tempo e la natura che scandisce il ritmo dell’umanità. Picarella si muove su una strada diversa, usa un linguaggio che è derivazione di un approccio strettamente personale alla materia filmica, in una contorsione del tempo e dello spazio, in un oltre di liriche sospese, tra la magia del passato, tra i riti antichi, la spiritualità della religione e le credenze tramandate di generazione in generazione.
Triokala è un’astrazione dal presente in un movimento ellittico, tra le nuvole e il vento, riconcilia ciò che è con ciò che è stato, armonizzando la natura dell’uomo con il suo essere, quell’uomo che Tarkovskij amava definire come «un granello di assoluto» (ivi, p. 33).


Bibliografia

Baudelaire C. (1994), I fiori del male, Feltrinelli, Milano.

Leopardi G. (1982), Storia di un’anima, Rizzoli, Milano.

Tarkovskij A. (2002), Diario. Martirologio, Edizioni della Meridiana, Firenze.

Tarkovskij A. (2012), La forma dell’anima, RCS libri, Milano.


Filmografia

Lo specchio (Zerkalo) (Andrej Tarkovskij 1975)

Cuore di vetro (Herz aus Glas) (Werner Herzog 1976)

La Soufrière (La Soufrière - Warten auf eine unausweichliche Katastrophe) (Werner Herzog 1977)





Titolo:
Triokala
Origine: Italia
Anno: 2015
Durata: 75'
Colore: C
Genere: DOCUMENTARIO
Produzione: Centro Sperimentale di Cinematografia

Regia: Leandro Picarella

Sceneggiatura: Leandro Picarella
Fotografia: Andrea Josè Di Pasquale
Suono: Marco Falloni, Jacopo Ferrara, Marcos Molina
Montaggio: Leandro Picarella

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