sanzimei_05In un villaggio di montagna dello Yunnan, provincia cinese sudoccidentale, vivono insieme al nonno tre sorelle. Le bambine raccolgono tuberi, preparano il pastone per i maiali, mangiano riso e verdura, sfangano gli stivali, accompagnano le pecore al pascolo, riempiono le gerle di sterco e lo ammonticchiano in una casupola. Dopo tanto tempo ritorna il padre per portare via con sé le due figlie più piccole in città, dove ha trovato un'altra donna e un altro lavoro. La maggiore resta al villaggio per badare al nonno e continuare a studiare in una scuola lercia quanto la baracca in cui viene raccolto lo sterco.


Wang Bing prende alla lettera il termine "documentario", intendendolo proprio come una raccolta di documenti. Il regista si limita a rare didascalie strettamente informative, nessuno spiegone o commento accompagna il filmato, né tantomeno i personaggi vengono invitati a parlare di sé o di quel che loro accade. Il racconto emerge spontaneo dalla mera ripresa delle situazioni quotidiane delle bambine, mentre i soli mezzi per intervenire nel racconto sono quelli filmici, propri della sintassi cinematografica: montaggio, movimenti e posizionamento della camera, fotografia.

Wang dimostra così un'incrollabile fiducia nell'immagine pura: di solito nei documentari la parola, spiegando ciò che si vede, indica un solo significato tra i possibili e cancella tutti gli altri, sottraendo senso all'immagine. L'immagine senza logos, slegata dalla parola, fluisce viva, lenta e imperturbabile, in una dimensione fuori dalla storia, in un mondo arcaico che non conosce le epoche e che ad ogni epoca è sopravvissuto resistendo in un eterno presente al corso del tempo.
Quando invece la parola entra in scena, ecco che dai dialoghi si avverte minaccioso l'incombere della storia: da quello fra il padre e il nonno delle bimbe si desume il fenomeno di abbandono delle campagne dei figli dei contadini per raggiungere le città dove lavorare in fabbrica; nel conciliabolo tra i rappresentanti dei vari villaggi c'è tutta l'impotenza dinanzi a quel processo di urbanizzazione cinese che ha tutta l'intenzione di cancellare l'identità e le tradizioni delle minoranze etniche e culturali. Sebbene il termine "identità" possa risultare a volte urticante (specie se strumentalizzato dai fondamentalisti del provincialismo, come accade anche da noi) non si può provare un profondo senso di ingiustizia nei confronti di un potere economico-politico che, attribuendosi i crismi della modernità civilizzatrice, distrugge tutto ciò che gli si oppone.

In Three sisters (premiato quest'anno a Venezia come miglior film della sezione Orizzonti) sembra prevalere un sentimento di fatalismo nei confronti di ciò che accade, come se gli abitanti dello Yunnan oscillino tra l'accettazione di quel che è stato deciso per loro e l'inconfessata speranza di poter resistere anche stavolta al corso del tempo. Oppure è solo un atteggiamento di attesa, come se fossero consapevoli che lo stato delle cose sia a lungo andare insostenibile: un po' quel che avviene nel corto Diamond Sutra di Tsai Ming-Liang (presentato fuori concorso sempre in Orizzonti) nel quale un monaco fatica terrbilmente a camminare, ad andare avanti, e la sua tensione nel corpo e nei tendini è analoga a quella di una pentola a pressione che ribolle e sfiata, col borbottio e il fumo che riempiono infine lo spazio ricavatosi resistendo all'oppressione di un muro spinoso.





Titolo originale: San Zimei
Anno: 2012
Durata: 153
Origine: FRANCIA, HONG KONG, CINA
Colore: C
Genere: DOCUMENTARIO
Produzione: ALBUM PRODUCTIONS, CHINESE SHADOWS, IN ASSOCIAZIONE CON ARTE FRANCE, LA LUCARNE, FUORI ORARIO, RAI CINEMA

Regia: Wang Bing

Fotografia: Huang Wenhai; Li Peifeng; Wang Bing
Montaggio: Adam Kerby; Wang Bing

Riconoscimenti


Reperibilità


 

Tags: