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"Un monumento minimalistico: The Turin Horse di Bela Tarr"
[Minimalistisches Monument: Bela Tarrs The Turin Horse, «Perlentaucher.de. Das Kulturmagazin», traduzione dal tedesco di Arcangelo Licinio]

In una casa, un uomo e una donna; in una stalla: un cavallo. Il cavallo "prende" l’acqua dal pozzo, gli uomini mangiano patate. L'uomo è seduto in silenzio davanti al suo piatto, picchia con il pugno sulle patate prima di ficcarsele, ancora calde, in bocca. Allo stesso modo, muto e sordo, siede di fronte al pezzo di legna tagliato che colpisce con l’ascia, o di fronte alla cintura nella quale infila i buchi. La donna – che in tutto quello che fa si comporta in modo un po’ più raffinato dell’uomo, ma che non ha tuttavia nulla da ridere – soffia sulle patate prima di mangiarle con gusto. Quando il cavallo deve essere attaccato al carro, ricalcitra.

 

 


Il cavallo di Torino del titolo è innanzitutto quello abbracciato da Friedrich Nietzsche alle porte della città italiana, dopo aver assistito a come l’animale era stato frustato dal suo padrone. O almeno, all’inizio, una voce fuori campo su sfondo nero ci racconta questo episodio che avrebbe portato Nietzsche direttamente al collasso mentale. Il racconto termina con le parole «sul cavallo non si sa nulla». Che il film non abbia nulla a che fare con lo scioglimento di questo enigma o con l’esercizio di una filologia nicciana, lo si nota velocemente. Soprattutto: Torino è lontana. Il paesaggio desolato, perlopiù arido, fuori la casa della coppia – lì attorno, a resistere testardo, c’è solo un albero, anche se nel vento vorticoso si agitano centinaia di foglie – è tutt’altro che mediterraneo. Il mondo di The Turin Horse – una  casa, un fienile, una fontana, una collina di fronte e nulla di più – è letteralmente in/un Nessun Luogo. È un mondo che non è semplicemente oltre-il-tempo, cioè storicamente indeterminato, ma realmente senza tempo, perché non è compatibile con il tempo che organizza l’esperienza umana.

Tuttavia, si dà uno schema di ordinamento temporale puramente poetico, immanentemente filmico: titoli bianchi su sfondo nero scandiscono sei giornate. Si ha quasi l’impressione, anche se forse questo è un azzardo, che Bela Tarr e il suo cameraman Fred Kelemen vogliano portare indietro i sette giorni della storia della creazione. Ma dando loro un senso inverso. In principio era la luce e, di conseguenza, alla fine la luce si spegne. Il film inizia triste e monotono e diventa, episodio su episodio, più triste, gesto dopo gesto più monotono. Dialoghi quasi non ce ne sono, l'uomo più che altro grugnisce, la donna di tanto in tanto lo “chiama alle patate” con monosillabi. Ad un certo punto fa la sua apparizione un uomo calvo e discorre di qualcosa di oscuramente filosofico, ma non è certo questo il momento più forte del film. A colpire, invece, è invece la carrozza degli "zoticoni", allegri e scomposti, che entrano in scena dallo sfondo a sinistra, si scatenano per un paio di minuti cantando a squarciagola, e lasciano la scena da destra, per essere del tutto dimenticati nell'inquadratura successiva. La cifra del film è data da due elementi di natura non linguistica: l’eterno, indifferenziato, rumore della tempesta e un’orchestrazione di violoncelli che non conosce sviluppo e procede con poche gradazioni: un muro del suono ipnotico che cementa la stasi esistenziale del film, le ripetizioni apparentemente senza fine dei gesti quotidiani e delle azioni.

I colori sbiadiscono in un bianco e nero povero di contrasti, al punto che diventa difficile, anche solo virtualmente, recuperarli pure nella propria stessa capacità rappresentativa. Le inquadrature di Fred Kelemen, armoniche, spesso costruite in modo simmetrico – nature morte in movimento le cui radici affondano tranquillamente nella storia dell’arte più che del cinema –  non riempiono il mondo, piuttosto lo svuotano sistematicamente. Se l’acqua scompare dal pozzo, non ve ne è più da nessun’altra parte. Se l’uomo e la donna, ancora una volta con le loro sette cose e il cavallo, si mettono in marcia, cavalcano letteralmente nel nulla, in un Off dell’immagine che non è accessibile al film. E ritornano velocemente indietro.

Certamente The Turin Horse è anche un film sulle ultime cose, sulle ultime patate, sull’ultimo cavallo. E tuttavia le immagini non contengono mai significati metafisici, non c’è il sussurrare di Tarkowski o le divagazioni di Angelopoulos; la controparte malvagia all’ultimo film di Tarr – questo almeno osserva lui – è andata in onda due anni fa: il canto del cigno del cinema d’autore europeo, senza speranza e sovraccarico, dal titolo The Dust of Time. The Turin Horse al contrario si erge come un monumento al cinema d’autore minimalista, tutto solo nella competizione mondiale cinematografica, come i suoi due personaggi principali, nel mondo.

 

 


 

 

Titolo: The Turin Horse
Anno: 2011
Durata: 146
Origine: UNGHERIA, FRANCIA, GERMANIA, SVIZZERA
Colore: B/N
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM
Produzione: T.T. FILMMÛHELY, MPM FILM, ZERO FICTION FILM, VEGA FILM, WERK WERK WORKS

Regia: Béla  Tarr

Co-regia: Ágnes  Hranitzky
Attori: Erika Bók, János Derzsi, Mihály Kormos.
Sceneggiatura: László Krasznahorkai, Béla Tarr    
Fotografia: Fred Kelemen  
Musiche: Mihály Víg    
Montaggio: Ágnes Hranitzky    
Scenografia: Sándor Kállay    
Costumi: János Breckl

 

http://www.youtube.com/watch?v=tWYoqi4Kpw4

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