altJames Franco, dopo essersi misurato con As I Lying Dying, altro grande romanzo faulkneriano, riparte dal capolavoro The Sound and the Fury, da Benjy e da quel lamento che prova a dire il tormento indicibile dell'esistenza prima di spegnersi nell’odore malinconico dello stramonio.

 



 «La storia è tutta qui, nella prima parte narrata da Benjy». Ecco quanto scriveva Faulkner sulle pagine del Mississippi Quarterly nell’estate del ’73 introducendo una nuova generazione di lettori al suo The sound and the Fury. E aggiungeva, confidandosi come si fa con un amico: «E da allora ho imparato almeno una cosa riguardo alla scrittura. Ovvero, che l’emozione definita e fisica e tuttavia nebulosa da descrivere che la stesura della parte di Benjy mi diede – l’estasi, la fede impaziente e gioiosa e il presagio della sorpresa che i fogli ancora intonsi sotto la mia mano celavano, inviolata e immancabile – non tornerà» (Faulkner 2010, pag. 203).


E dunque, quell’inafferrabile Sette aprile 1928 - che non è solo il Sette aprile del 1928 per l’infinito intrecciarsi e sovrapporsi dei piani temporali - che passa per gli occhi di un idiota che si muovono furiosamente tra le ombre e le forme lucenti, e disperatamente cercano Caddy che aveva l’odore degli alberi, rafforza, ancor più per le trame opache della sua creazione, la sua potenza ineffabile.
Così, James Franco, dopo essersi misurato con As I Lying Dying, altro grande romanzo faulkneriano, riparte da Benjy – dandogli corpo magistralmente – e da quel lamento che prova a dire il tormento indicibile dell'esistenza prima di spegnersi nell’odore malinconico dello stramonio. Allora con un tocco malickiano - sfumato dalle bellissime melodie liquide di Tim O'Keefe - prenderà forma quel flusso torrenziale di percezione che scorre nomade e imprendibile sulle cose, sulle forme, sulle ombre. A ben vedere, emerge con prepotenza il carattere fortemente cinematografico di Benjy. Sì, perché «lui è colui che vede. Colui che passa in rassegna – quasi dall’esterno – le proprie percezioni. Lui è uno sguardo che si auto- sostiene» (Tadini 1997, pag.24). Non è un caso che spesso vediamo attraverso i suoi occhi – con l’espediente della soggettiva indiretta - brancolando nell’inconsistenza di una realtà dilaniata in frammenti di tempo, le cui traiettorie imprevedibili sono preda di «costellazioni affettive» (Sartre 2004, pag.187) che sembrano illuminare la caduta della famiglia Compson.

Il romanzo, e di riflesso il film, che ne segue fedelmente l’andamento e la ripartizione - accorpando però l'ultimo capitolo al penultimo, cioè quello in cui a parlare è Dilsey a quello del delirio di Jason - , sta tutto nella condanna di Benjy, Quentin, Caddy e Jason a un tempo fermo e immutabile. Tant’è che si potrebbe azzardare, per dirla con Cioran, che essi siano caduti dal tempo, estromessi dal divenire, allontanati irrimediabilmente dal campo del possibile. Ecco l'annunciarsi dell'ineluttabilità di un destino nelle parole del signor Compson padre quando dà in dono un orologio a suo figlio Quentin: «Non te lo do perché tu possa ricordarti del tempo, ma perché ogni tanto tu possa dimenticarlo per un attimo e non sprecare tutto il tuo fiato nel tentativo di vincerlo. Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L'uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un'illusione dei filosofi e degli stolti.» (Faulkner 1997, pag.67). Allora la passeggiata di Quentin sarà un rapido cammino verso la fine. Egli non può distogliere il suo pensiero da quell’azione estrema. Niente accade, tutto è già accaduto. Ecco perché Faulkner nel secondo capitolo, il Due giugno 1910, non scriverà mai del gesto irreparabile del povero Quentin, ma ne lascerà trasparire l’ombra, il riflesso, il tormento. Ce lo dirà Jason, più tardi, in uno dei suoi soliloqui imbevuti di odio e cinismo. Ma bisognerà arrivarci. Inevitabilmente, però, Franco, a rimarcare l’inesorabile compiersi di un disegno fatale, dal quale nulla e nessuno può sfuggire, aprirà il capitolo con la figura del giovane che taglia il cielo e scompare oltre la vivida e silenziosa luce del sole sul fiume.

Ma al di là di questi piccoli e funzionali aggiustamenti, sorge spontanea una domanda: cosa aggiunge questo film alla potenza e alla grandezza del romanzo? Poco, pochissimo. Diremo, almeno, che James Franco concede a Faulkner, alla sua scrittura fortemente cinematografica – ecco un esempio di magnifica inquadratura: « […] le loro ombre un’ombra sola la testa di lei si erse era sopra la sua le due teste sullo sfondo del cielo […]”(Faulkner 1997, pag.137) – ciò che le manca: l’immagine. Sì, perché la scrittura di Faulkner non è altro che cinema senza immagine. Cinema rimasto in una forma latente ed embrionale e che è un pugno di luce terra e ombra negli occhi di chi legge.


Bibliografia

Faulkner W. (1997): L’urlo e il furore, Einaudi, Torino.

A cura di James B. Meriwether (2010): W. F. Scritti, discorsi e lettere, Il Saggiatore, Milano.

Sartre J.P. (2004): Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano

 




Titolo: The sound and the fury

Anno: 2014
Durata: 101
Origine: USA
Colore: C
Genere: Drammatico
Produzione: RABBIT BANDINI FILMS, LEE CAPLIN/PICTURE ENTERTAINMENT, NEW FILMS INTERNATIONAL IN ASSOCIAZIONE CON MADE IN FILM-LAND

Regia: James Franco


Attori: James Franco (Benjy Compson), Scott Haze (Jason Compson IV), Tim Blake Nelson (Padre), Joey King (Miss Quentin), Janet Gretzy (Madre), Loretta Devine (Dilsey), Ahna O'Reilly (Caddy Compson), Jacob Loeb (Quentin Compson)
Soggetto: William Faulkner (romanzo)
Sceneggiatura: Matt Rager
Fotografia: Bruce Thierry Cheung
Musica: Tim O'Keefe
Montaggio: Ian Olds
Scenografia: Kristen Adams

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