THE BAY 1Chesapeake Bay, Claridge, 4 luglio 2009. La Festa dell’Indipendenza invade la piccola cittadina, stand, barche, parate, gare di cibo stanno per occupare ogni spazio e ogni momento della luminosa giornata, mentre la giovane reporter Donna del canale locale WVBR cerca di realizzare un reportage dell’avvenimento. Pian piano, però, alla gioia e al calore della festa si sostituisce l’orrore e il caos: una strana forma di epidemia virale inizia a colpire la gente del posto e un numero altissimo di pesci viene ritrovato morto nelle acque della baia. Tre anni dopo il disastro, Donna ricostruisce quanto avvenuto…



Un anno fa, su altri lidi, scrivevamo nell’esergo ad un pezzo sul sonico Pontypool come l’emica storia del genere – horror, fantascienza, noir ecc. – possa fornire una lettura in nuce, perfino laterale, dell’etica storia del cinema: evoluzioni narrative, aggiornamenti attoriali, avanzamenti tecnologici, schemi economici/produttivi/distributivi, destrutturati e rilanciati da un segmento cinematografico particolare ad una dimensione generale per tracciare una storiografia della settima arte. Questo andamento sotterraneo e vertiginoso, questo rise and fall, molte volte è controintuitivo, mutante, e piuttosto che svilupparsi in modo osmotico mostra dinamiche parassitarie, diacroniche. La filiazione appare ingarbugliata, e più che il classico albero evolutivo finalistico il suo profilo è quello del cespuglio di Gould, con lunghi periodi di stasi intervallati a veloci e profondi cambiamenti: questa è la storia della soggettiva e dei pov movies.

Dallo sguardo spettatoriale assoluto de La grande rapina al treno di Porter all’incubo tremendo di E.A. Poe – essere sepolto vivo – filmato da Dreyer in Vampyr, passando per uno dei più grandi progetti filmici irrealizzati – Cuore di tenebra tutto in prima persona girato da Orson Welles –, la soggettiva ha attraversato trasversalmente il cinema tout court, fino ad essere intercettata e iniziata a praticare dall’horror. L’ascesa definitiva all’interno del genere avviene nella seconda metà dei settanta, grazie alla Steadicam di Garrett Brown e alla Panaglide della Panavision, innovazioni tecniche che nei generi sono ontologicamente legate al procedimento narrativo: sulla scia di Bandirali e Terrone (2008), la capacità di creazione e gestione dei mondi fantastici e fantascientifici dell’horror e della sci-fi è intimamente connaturata alla possibilità di manipolazione del piano reale (ontologia primaria) per quello filmico (ontologia secondaria), e ciò è reso possibile dal design e dagli effetti speciali – Shining è la Steadicam, Halloween è la Panaglide.

L’altra grande spinta in avanti appare alla fine del secolo scorso, con il lento ma definitivo affermarsi del video digitale: The Blair Witch Project e il suo 1999 annus mirabilis americanus (Matrix, Fight Club, Star Wars I – La minaccia fantasma, eXistenZ, South Park). La sommatoria di avanzamenti tecnologici ed evoluzioni narrative salda in modo finale la soggettiva e l’horror, tanto che questa definitiva appropriazione vede la nascita di un nuovo sotto-genere all’interno del già esteso cespuglio orrorifico: i point-of-view movies. La nidiata post-Blair è numerosa e segue essenzialmente le due direttrici del video/economie ridotte e delle tematiche possessione diabolica/alien abduction/serial killer. Il superamento di questa beta version avviene nel 2007, con il proliferare di un trio di pellicole che esplorano differenti possibilità narrative e produttive: [Rec], Redacted, Diary of the Dead. Abbiamo, senza soluzione di continuità, una produzione europea che arriverà presto al quarto sequel, due autori oramai storicizzati, il massimo nome del filone zombie che firma con questa modalità il quinto capitolo della sua personale saga, un film politico vincitore a Venezia. Il terreno è dunque spianato e solido per il blockbuster e il box office, ed ecco l’uscita esattamente a gennaio 2008 di Cloverfield e l’anno dopo – ma girato nel fondamentale 2007 – di Paranormal Activity. Anche qui assonanze e divergenze stridono fortemente – il film di Reeves ha un budget di 25 milioni di dollari ma sfrutta pesantemente il virale, quello di Oren Peli è nato come progetto a basso costo per poi essere intercettato e rilanciato due anni dopo dalla Paramount e da Spielberg –, avvisaglie di una propagazione di appena dodici mesi fa dei pov verso altri lidi, il superhero movie di Chronicle e il teen-movie di Project X.

La lunga e teorica e storica prima parte di questo pezzo è il sostrato sul quale poggia The Bay, consapevolissima operazione filmica strutturata sull’apporto di diverse e particolari personalità: Barry Levinson, regista tra i più capaci e acuti nel costruire drammi e melodrammi di pura classicità hollywoodiana, spesso cuciti addosso ad unici corpi attoriali (Robin Williams e Good Morning, Vietnam, Dustin Hoffman e Rain Man – L’uomo della pioggia, il plurale Sleepers); Automatik Entertainment, la casa di Brian Kavanaugh-Jones che ha all’attivo titoli come Bullet to the Head e The Lords of Salem; Hydraulix, la compagnia di vfx dei fratelli Greg e Colin Strause, al lavoro su numerosi blockbuster recenti e alla regia di Aliens vs. Predator: Requiem e Skyline; Michael Wallach, sceneggiatore esordiente che per il cinema ha lasciato il suo precedente impiego come analista al Dipartimento di Stato. Questa rete pregressa ha direzionato il film verso un attento posizionamento all’interno del filone dei pov/mockumentary, poiché The Bay sta vigile al guado tra le diverse direzioni già battute o che stanno per essere intraprese, dalle ricadute locali e ibride – il punto di vista personale e singolo potrebbe portare ad una particolare visione antropologica interna a determinate società, popolazioni, come in parte è già avvenuto con l’interessante e norvegese Trollhunter o come poteva avvenire con Paranormal Activity: Tokyo Night (c’è più Giappone nei monitor della base sotterranea di Quella casa nel bosco…) –, allo sforamento verso altri generi. Levinson sceglie di rimanere dentro il pov/mockumentary horror, affrancandosi però di 180° gradi: la prospettiva di ripresa è moltiplicata, l’orrore è solo di superficie.

La singola handycam perennemente in movimento si spalma su qualunque dispositivo diretto o remoto atto a produrre immagini (CCTV, videocamere amatoriali, Skype ecc.), eludendo così quella sorta di unità aristotelica a cui molti pov vanno incontro, moltiplicando non soltanto le fonti di sguardo che passano velocemente da un formato ad un altro, da un media ad un altro, ma anche lo spazio e il tempo della narrazione, con jump immediati e continui tra diverse localizzazioni spaziali e temporali. Si hanno in questo modo numerosi personaggi e storyline che partecipano alla vicenda collettiva, tutti singolarmente portatori di differenti modalità di riprese e formati – si potrebbe anche tentare un azzardo teorico provando a ragionare sulla forma che veicolano ognuno dei vari frammenti di questo puzzle visivo, dalle intime e rotonde riprese di Alex e Stephanie a quelle asettiche e piene di rumore di fondo dei poliziotti, prendendo anche in considerazione il passaggio tra point of view che effettuano alcuni personaggi (Stephanie in giro da sola con il bambino, il sindaco nella macchina della polizia). Certo, il procedimento non è nuovo, e ha forse la sua massima attuazione in Redacted, con il quale The Bay ha in comune anche il passo successivo: l’estensione visiva avviene non soltanto verso i vari device produttori di immagini o forme comunicative che ne fanno uso come le breaking news o il web, ma investe tutta la realtà della storia narrata, visualizzando chiamate al 911, conversazioni su WhatsApp, documenti cartacei.

Questo ci porta al secondo punto prima svelato, quell’orrore che è soltanto di superficie. Il trailer e la campagna pubblicitaria sono ingannevoli, poiché sì il trittico sangue/interiora/mostro è presente, ma in un contesto che incide non sulla quantità ma sulla qualità. The Bay all’orrore ci arriva lentamente, ma per pura consequenzialità, e non si sofferma nemmeno tanto, non potrebbe: il film è un political-thriller che scalcia sotto le vesti di un eco-horror. Soderbergh lo aveva fatto con il suo Contagion, cioè discorsivizzare il genere per elencarne le dinamiche, le tempistiche, i feticci. Levinson agisce nello stesso modo con The Bay, mostrandoci passo dopo passo l’innalzamento della tensione, la convergenza delle varie storyline, le modalità di svolgimento dell’azione – attuando così la seconda grande intrusione all’interno del palazzo e dell’ente che negli ultimi anni ha scalato le vette della realtà e della fiction, il CDC – Center for Disease Control and Prevention. Al duo regista-sceneggiatore interessa la vicenda reale o immaginaria che sta dietro l’orrore, interessa ricostruirla e renderla razionale e leggibile, e così il pov/mockumentary esce dalla porta come un horror e rientra dalla finestra come un’inchiesta giornalistica. E questo viene fatto prima dei titoli di testa e dopo i titoli di coda.

Prima dei titoli di testa: uno degli aspetti dei pov/mockumentary è il loro essere a volte dei found footage, incipit che a volte destabilizza l’intera architettura di quello che vediamo. La natura di tale girato guida la nostra fruizione nella misura in cui abbiamo di fronte handycam, riprese multiple, un montaggio già preordinato ecc. A cascata, l’interesse viene posto sulle modalità di ritrovo dei filmati e ai presunti (film)maker che lo hanno realizzato. Comunque sia, nella quasi totalità dei casi il reperto venuto a galla è inerme, atrofizzato (vedremo poi quale è la significativa eccezione). The Bay non segue questa prassi. Il film, infatti, nonostante si basi su materiale pre-registrato, si compone davanti ai nostri occhi: Donna, tre anni dopo il disastro di Claridge, ricostruisce durante la nostra stessa visione gli eventi vissuti nel 2009 e che noi stiamo adesso osservando. Il real time della vicenda si sposta sul real time della visione-fruizione, al found footage si sostituisce un founding footage. Il cortocircuito è in atto. Se The Bay si apre con le consuete scritte sul nero di avvertimento sul tipo di materiale che stiamo per guardare – una digitazione apparentata ai maker sovra-umani di Fuori orario, Matrix, Lost –, subito dopo la conversazione su Skype tra Donna e un misterioso interlocutore ci introduce la realizzazione stessa di The Bay: un’inchiesta giornalistica sull’outbreak del 4 luglio 2009 nella Chesapeake Bay. Il lavoro, poi, è dichiaratamente collettivo nell’avere le fonti in un sito di storage e analisi di materiale come l’inesistente ma chiaro govleaks.org, e altrettanta comunitaria sarà la sua diffusione e verifica – come avvenuto recentemente su Giap, il blog di Wu Ming, riguardo la vicenda dei due marò italiani – post-visione. Di più, sul sito del film è presente una timeline che permette una ricostruzione alternativa rispetto a quella di Donna – e la vertigine è presto in arrivo: tale ricerca potrebbe portare a chiarire buchi di sceneggiatura come la diffusione dell’epidemia avvenuta in un solo giorno…

Dopo i titoli di coda: scrivevamo poco sopra che c’è un’unica eccezione al found footage inerte della maggior parte dei pov/mockumentary: c’è, e si va a situare specularmente alla fine del film. Il gradiente di forza del ritrovamento iniziale si innalza in rapporto all’incisività che sul reale, sull’extra-diegetico, ha la vicenda narrata. Nonostante il finale aperto sia d’obbligo nel genere, poche sono le opere che hanno un post-titoli di coda che sia contundente, perturbante – Trollhunter ne è privo, come Cloverfield. The Blair Witch Project al contrario possiede ciò, tanto che il seguito, Il libro segreto delle streghe: Blair Witch 2, si basa proprio sulla reazione alla visione del primo film; e anche Paranormal Activity, con Katie libera e posseduta in giro per il mondo, tanto da incrociare le vicende degli altri due seguiti e forse dello spin-off giapponese. The Bay ha, di nuovo, la sua penetrazione nel reale non per la sua superficie eco-horror ma per la sua essenza political-thriller. Il moto che spinge lo spettatore dopo la visione a cercare informazioni sulle possessioni diaboliche, sui casi di abduction, sulle gesta dei serial killer, troverà qui un non casuale e causale riscontro: il Cymothoa Exigua esiste realmente, l’Eastern Shore del Maryland è realmente pieno di industrie del pollame, la Chesapeake Bay è realmente una dead zone. Il mockumentary agisce in questo modo, spostando sottilmente la barriera degli eventi, dei tempi, dei protagonisti.

Ma quello che stupisce di The Bay è non il lavoro sul verosimile, ma sul probabile, sul possibile. Forse su quello già avvenuto: nel 1997 una grande quantità di letame e liquami prodotti negli allevamenti di pollame furono per errore riversati nella Chesapeake Bay, cambiando la composizione chimica del suo ecosistema e favorendo l’azione del batterio Pfiesteria piscicida che causò la morte di più di 300,000 pesci e lo sviluppo di rash cutaneo nella popolazione della zona; o nel 1993 a Milwaukee, dove il batterio Cryptosporidium trasmesso tramite il sistema idrico provocò un’epidemia che colpì 400,000 persone – e andatevi a leggere il lungo articolo del Washington Post che spiega in che stato versa la Chesapeake Bay, il più grande estuario degli Usa… È qui che viene a galla il Levinson regista di Sesso & potere e produttore de La seconda guerra civile americana, e il Wallach analista al Dipartimento di Stato, che partendo da una normale traccia horror innestano un racconto folgorante nella sua esemplarità giornalistica, politica, civile. Partendo dal 4 luglio, dal giorno dove gli americani fanno quello che fanno: “They just doing the american thing: trying to make a leading, dealing with their children, enjoying their lives”.


Bibliografia

Bandirali L., Terrone E. (2008): Nell'occhio, nel cielo. Teoria e storia del cinema di fantascienza, Lindau, Torino





Titolo: The Bay
Anno: 2012
Durata: 84
Origine: USA
Colore: C
Genere: Horror
Produzione: Automatik Entertainment, Hydraulx

Regia: Barry Levinson

Attori: Kether Donohue (Donna Thompson), Kristen Connolly (Stephanie), Stephen Kunken (Dr. Jack Abrams), Christopher Denham (Sam), Frank Deal (Sindaco John Stockman)
Sceneggiatura: Micheal Wallach
Fotografia: Josh Nussbaum    
Montaggio: Aaron Yanes    
Scenografia: Lee Bonner
Costumi: Emmie Holmes
Musiche: Marcelo Zarvos

Riconoscimenti

Reperibilità



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