Provando a decriptare l’Angelus Novus di Paul Klee, incuneandosi nel ghigno misterico, quasi leonardesco del volto sgomento, tremante davanti al marasma, Benjamin esplica la sua visione della storia: nel fatuo attendere la rigenerazione, scongiurando il dovere della testimonianza – unica redenzione possibile verso la contemplazione delle cose che ci circondano – e quindi della ricerca, acuminata e soprattutto controversa, nell’ambito delle “possibilità non date”, l’uomo-angelo viene trascinato via, sospinto dal vento e dal tempo di quegli orrori che, invece, vorrebbe stare a guardare, contemplare.

Così come in Tramonto Irisz Leiter «vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto» della sua storia. Tuttavia, si finge di non vederla, scansandola in quanto presenza ri-destante, epifanica: spaventosa.

Fermarsi, esplorare le rovine e conoscerle le è negato, e più si procede più si deve affrontare che la ricerca, il suo indomito incalzare, aggrovigliarsi continuo e labirintico, tra lo spazio della cappelleria e gli esterni che non sono mai tali, se non per un brevissimo scorcio sul Danubio, sarà vana. Su questi movimenti ondivaghi, mai conclusi, della protagonista (e poi dello spettatore) dice Laszlo Nemes: «Non si può razionalizzare ogni cosa, ci sono eventi su cui dobbiamo interrogarci, ma la cui ragioni sfuggono a qualsiasi classificazione, come quella del perché il mondo sia arrivato alla Grande guerra partendo da premesse luminose e così piene di promesse. Avendo studiato Storia, so che le cose sfuggono a ogni tentativo di codificazione». E non si può così non pensare a una vicinanza tra Nemes e tutta una corrente letteraria e cinematografica che si fa largo nel Novecento: si è parlato di racconti di sopravvivenze, presenze fantomatiche segnate dagli orrori bellici e post-bellici, di sopravvissuti che si aggirano in un mondo sospeso, in un certo senso già finito – il ruolo, essenziale ma inevitabilmente suicida della testimonianza: Primo Levi – eppure destinato a non conoscere una reale fine. Dietro ogni crisi c’è sempre il fantasma di un inizio, e Tramonto, che già dal titolo ne definisce l’ambivalenza, riflette proprio questa tensione della narrazione, del mito (del tempo, quindi) a non finire, a tornare sui propri frammenti, avviluppandoli. 

Le cose sfuggono a ogni tentativo di codificazione: la dualità, che non è gratuito manicheismo, su cui il cineasta ungherese costruisce l’architettura del film è subito resa manifesta dalla prima, baluginante inquadratura sul volto di Irisz, già lacerato tra il chiarore e l’oscurità, giorno e notte, bene e male l’uno contenuto nell’altro, da cui però ci si vuole dipanare insieme alle laocoontiche spire a cui Nemes “costringe”, volendo per forza decodificarle per trarne una solita, rassicurante, spiegazione: e ansante, sfibrato come Irisz, lo spettatore è condotto alla frustrazione, poiché non cedere all’immediatezza, all’esemplificazione del reale, in tal caso i prodromi della Grande Guerra, costituisce il senso stesso dell’operazione condotta sul racconto (a)storico. Accettarla, divenire partecipi di questa frustrazione che è piuttosto un’insicurezza, rispetto ai passages e al fermento di una cultura, e quindi di un mondo che sta per cambiare, piuttosto che esserne intimiditi e rifiutarla: attraverso Irisz e la cappelleria come contrazione di un male endemico («dietro la loro bellezza si cela tutto l’orrore del mondo...») Nemes pone questo interrogativo, riflettendo sul tempo non da una posizione data per scontata, immodificabile, diluendone anzi gli orizzonti, facendo sì che si intersechino, giacché, tornando a Benjamin, il passato viene visto come il controcampo del presente, da esso derivato e generato. 

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