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Il Kinoglaz all'ombra dei Frammenti di un discorso amoroso

Matteo Marelli

Io sono il cine-occhio. Io [...] vi mostro il mondo, tale come soltanto io posso vederlo. Io libero me stesso [...] dall'immobilità umana, io sono il movimento incessante, io mi avvicino e mi allontano dagli oggetti, io striscio sotto di loro, io mi arrampico su di loro, [...] io piombo a tutta velocità nella folla, […] io cado e mi innalzo con i corpi che cadono e si innalzano [...] Liberato dai limiti temporali e spaziali [...] decifro in modo nuovo un mondo a voi sconosciuto.
Un être de fuite, questa è la mia cifra caratteristica; la mia pupilla, che tutto ingloba senza eccezioni o riduzioni, percorre, inafferrabile, traiettorie impreviste alle vostre abitudini. Procedo senza trama, se non quella dell’indagine dei movimenti amorosi, il cui discorso è di un'estrema solitudine, perché parlato da migliaia di individui, ma non è sostenuto da nessuno. Un discorso che è la sommatoria di quei discorsi – quindi mai completamente ricostruibile: solo frammenti di una frantumazione più grande - che partono da un io e arrivano a un tu – anche se quel tu è assente –. Quello che vi propongo è, se si vuole, un ritratto [...]: esso presenta una collocazione della parola: la collocazione di qualcuno che parla dentro di sé, amorosamente, di fronte all’altro (l’oggetto amato), il quale invece non parla. Io vi riferisco di quella condizione in cui versa l’amore quando non è né normato né sovversivo, ma è l'amore nella propria condizione di anonimità, ciò che non siete ancora in grado di nominare, ciò che resiste a ogni tentativo di nominazione. Vi metto difronte ad uno specchio bellissimo per riflettere, pensare, decidere, paragonare la vostra storia; ma soprattutto vi dono un respiro più ampio in cui emettere il vostro rantolo.


Ritorno alla terra

Luigi Abiusi

L'impressione è di un atto finale, per quanto totale, un epicedio, dopo il canto protratto che è il cinema di Malick da The Tree of Life fino a ora, eppure sembra solo l'inizio, e così intimamente legato a quel passo iniziale (o quasi), così deciso eppure già inscritto nella crisi del dire, vedere, suonare, un preludio però in forma di prosa che è I giorni del cielo, verso il fluttuare, il sorvolo in totale, disarmata trasparenza che sarebbe stato. Il salmo ponderoso (The Tree of Life) e dolente (To The Wonder: nel rimuginare disperato del prete) si è secolarizzato quasi del tutto in quello che ora è il capolavoro di Malick, Song to Song, rapsodia di crepuscoli e smarrimenti, slittamenti (come quelli di Adieu au langage: per tornare semplicemente lingua, nuda, lirica eppure privata di figure retoriche), perenne crepuscolo tra piscine, stanze traslucide, vuote, vaste, devastate dall'impossibilità di essere se non nel continuo errare e smarrire, da pilastri di cemento tra vetrate, intercapedini di plexiglass; il visibilio di natiche, bocche, macchine levigate, la fama dei concerti (dove tentare di poter essere), fino all'epilogo inatteso, ritorno alla terra, ritornello della terra, ora a costruirli quei pilastri, quelle case lussuose (ed ecco una questione politica mai così attuale come ora in Malick se non forse proprio in quei Giorni del cielo), con le braccia sporche di calce, i nuvoli di polvere tutt'intorno, l'inadeguatezza rispetto alla velocità imposta dai processi di lavoro (sfruttamento): ma adesso, fuori dalla gabbia e dalla solitudine di pilastri e vetrate, la terra nuda e l'altro; e sembra una liberazione quando il canto o il lamento si trasformano in inno.


Canzone da organettoGemma Adesso

Il trailer del restaurato Manhattan che nell’attesa della Visione passa sullo schermo è già una rivelazione di senso: il serrato dialogo pieno di grazia e vuoto di enfasi (– Tu ti credi Dio; – Io a qualche modello dovrò pure ispirarmi) diventa nel film di Malick un basso continuo in cui il peccato di incompletezza che ci rende donne e uomini coincide con la condanna alla forma perfetta e con il godimento di questa sofferenza. Molto lontani dall’essere Woody Allen, questi sono corpi sublimi per postura, aureolati e ingiudicabili, al di qua del male e molto oltre ogni concepibile bene; attraversano tempi e spazi incalcolabili alla ricerca di un invisibile che vuole essere trovato proprio da loro. Nel cinema gli idoli si adorano, nelle chiese si prega un dio morente, nei film di Malick gli idoli-cantanti e gli dei-attori precipitano sugli spettatori che li adorano o li affossano.
Se la musica da sempre predica l’amore, Malick affida ad una canzone da organetto l’insignificato. “Ti amo”, ripete meccanicamente  che la verità è indicibile (“ora ripetilo come se fosse vero”) azzerando le parole maiuscole e le presunzioni della ragione – in una scena piena di grazia perché vuota di enfasi – forse nella speranza di restituire al silenzio ciò che per definizione non può essere trovato (nemmeno dal cinema).


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Per Song to Song

Alessandro Cappabianca

In Knight of Cups, a un certo punto, c'era un terremoto. In Song to Song, invece, tutto il film è interamente, intimamente, terremotato - un film fatto di frammenti di film, spezzoni che durano pochi secondi, giusto il tempo per farcene intuire la bellezza e subito sottrarcela, come se ormai (ma forse da sempre) il cinema per Malick non potesse risultare altro che dalla tensione tra due pulsioni contrastanti: l'amore per le immagini provenienti da un mondo affascinante, ma in qualche modo contaminato, e la necessità di sfuggire all'ambiguità del loro fascino, sottraendole subito alla percezione tramite la rapidità del loro passaggio: il che, beninteso, non esclude che esse tornino, o cerchino in tutti i modi di tornare, anche a distanza, o durare, magari con piccole modifiche (spesso basta un semplice stacco tra inquadrature riprese da punti di vista ravvicinati, ma non coincidenti).
Così, ci si chiede la ragione di gesti appena accennati che gli attori eseguono, magari sullo sfondo, magari in campo lungo, ma che non hanno seguito. Ci si chiede chi siano certi personaggi che appaiono all'improvviso e all'improvviso scompaiono. Ci si chiede quale sia la reale dinamica temporale dell'incrocio d'amori e tradimenti di coppie diversamente assortite. Ci si chiede perché, in un film girato in un universo così tipicamente musicale, si senta, in fondo, così poca musica, e perché dei musicisti stessi (Iggy Pop, Patti Smith ecc.) sia filmata più che altro la flagranza corporea, spesso superiore a quella dei pur bravissimi protagonisti. Ci si può chieder tutto ciò, certo, e arrabbiarsi con Malick, anche da parte di fedeli malickiani, per una sorta di "semplicismo filosofico" - ma come faranno, costoro, a estrarre, o dedurre, una particolare "filosofia" da un film che non può non interessare (anche al di là di quanto suggeriscono i sussurri delle voci off) principalmente per la sperimentazione sulle immagini, sul loro destino e sul loro (s)montaggio? Chi dice, poi, che non si possa fare sperimentazione, anche utilizzando star hollywoodiane?
La realtà, mi sembra, è che ormai le immagini malickiane tendono a volare, come gli uccelli che affollano a stormi i suoi cieli nuvolosi - i corpi delle sue attrici e dei suoi attori tendono a cercarsi in assenza di gravità, nella rarefatta atmosfera di un'alta quota metafisica. Sono corpi, tuttavia, non uccelli. La perdita d'equilibrio incombe. La loro presa reciproca può mancare in ogni momento, l'epifania miracolosa del contatto continuamente sfugge.
E in ultima analisi: c'è del manierismo malickiano, in certi punti? Sì - ma non importa.


La cornice intorno allo specchio

Michele Sardone

Verrebbe facile prendersela con il doppiaggio per spiegare lo sforzo richiesto nell’ascoltare la voce-off di Song to Song; ma proviamo a fare il gioco opposto: di quanti film degli ultimi anni non si è criticato il doppiaggio? Forse si risalirebbe a Transformers 3. E del resto doppiare Patti Smith è impresa improba per chiunque.
A rendere faticoso l’ascolto della voce-off (quella cara voce cui ci eravamo affezionati nei film di Malick, che spesso era estensione dell’immagine oltre se stessa, volta a tessere un dialogo con quel che avrebbe potuto essere potenzialmente fuori campo) è l’inversione di senso di chi la emette: è la voce di chi parla per lo più e preferibilmente di sé, di chi vede nei segni esteriori del mondo il riflesso dei propri drammi interiori. Ad estenuare l’udito è questa riduzione del creato (non sembra blasfemo definirlo così se si ha presente la filmografia di Malick) a paesaggio, a sfondo nel quale incorniciare le proprie vicissitudini amorose. Messi poi a confronto con la curatissima colonna sonora, i monologhi-off sembrano testi di canzoni senza musica, in vana cerca di melodia nelle immagini.
Al ripiegamento dei personaggi su se stessi corrisponde la scelta stilistica di far aderire il più possibile la macchina da presa ai loro volti, alle mani, ai ventri, ai piedi: sezioni anatomiche che poi vanno a ricombinarsi in pose fetish da soft-core, in continua allusione all’atto sessuale, cercato e pruriginosamente occultato, con gran sperpero della bellezza dei corpi degli attori (avvezzi già in film precedenti, anch’essi penitenziali, a cincischiare intorno alla loro nudità: basti pensare a Fassbender in Shame e alla Portman in Closer – film che sin dal titolo rimandano a temi di Song to Song: vergogna per il sesso e sguardo più vicino al corpo). Personaggi che dicono di cercare misericordia, ma che trovano una più accomodante autoassoluzione.
Da cosa ci si autoassolve? Dall’aver mancato quel meraviglioso film porno che Song to Song avrebbe potuto essere, dall’aver barattato una liberatoria e fisica masturbazione con la masturbazione mentale cui Malick ci induce.


Danzando nella luce

Mariangela Sansone

La dilatazione dell’occhio rincorre i deragliamenti emozionali, l’immagine espansa, debordata, racconta il fremito di corpi che si cercano, si accarezzano e si perdono, per poi ritrovarsi.
La profondità della visione si muove incondizionata oltre la matassa narrativa, creando nuovi spazi per una danza dionisiaca, nello spettro diafano di un raggio luminoso di luce abbacinante, dove si canta la canzone della vita. E così la composizione visiva si sottrae alle regole narrative per regalare all’occhio curvato, ora concavo, ora convesso, la libertà di danzare in un’eufonia anarchica di immagini, in cui è il cromatismo della luce, in tutte le sue declinazioni, che compone il testo filmico.
«Di canzone in canzone, di bacio in bacio,[…] in cui ogni bacio sembrava la metà di quello che doveva essere...»
La profondità di campo che cattura i movimenti rapsodici dei corpi e dei sentimenti, trattenuti in cattività dalla pelle, liberati da una mdp scrutante, osservatrice dei moti dell’animo, narratrice delle coordinate sentimentali, fissa sui visi; così vicina da penetrarli e, allo stesso tempo, essere un’emanazione emotiva del sentire, viscerale e doloroso. E’ la sperimentazione di una dialettica sentimentale in cui gli interlocutori adoperano composizioni linguistiche tra dimensioni diverse, non schiacciate dalla bidimensionalità, ma che affondano tra gli abissi e le pieghe dei paesaggi interiori, in un flusso continuo di immagini in movimento, mai statiche, tra note appena accennate e la musica dell’anima, ossessiva e carnale, in perenne mutazione.  La forza dell’immagine risiede in un oltre che è superamento del dato concreto e nella sua mutazione in materia emozionale, in un’anarchica libertà destrutturante, meravigliosa vertigine dei sensi, sessuale e sensuale, voce della vita nel suo mutevole e incessante movimento. «Ho giocato con il sesso, ho toccato il fuoco della vita», attraverso la ramificazione delle mani, cercandosi, sfiorandosi, emozionando.


Frammenti di un miraggio

Vincenzo Martino

È ancora, inevitabilmente, la luce: il cinema di Malick è sempre più sintesi tra il desiderio di raggiungere qualcosa e la necessità di farlo attraverso l’assenza. I suoi personaggi troppo spesso arrancano, passeggiano eleganti in un limbo che è a metà strada tra la presentificazione delle loro paure e l’aspirazione al divino; vogliono ergersi ma lo fanno solo con lo sguardo, sono come irrimediabilmente scissi da un profondo senso di perdita, di qualcosa che non hanno mai avuto e che tuttavia perdono continuamente.
Song to Song è un po’ questo, un mosaico di schegge impazzite, un film on the road in cui la strada è la vita e il corpo il mezzo, il tramite tra emozioni e sensazioni, tra fede e tradimento, tra delusione e annichilimento, tra amicizia e amore; e che cos’è l’amore se non un bagliore visto da una fessura troppo stretta? Come il cinema stesso visto attraverso la mdp. E proprio come Faye, l’occhio ha bisogno di lasciarsi annientare dalle immagini, perdersi nei frammenti di essenza che pregnano ogni inquadratura e ogni sfondo, lasciarsi accecare dai raggi del sole che squarciano i rami al tramonto, smarrirsi nell’immensità di luoghi deserti.
E questa sensuale commistione, che va di canzone in canzone, non ha bisogno di affidarsi a quelle che sono le comuni coordinate filmiche, al tempo consueto della narrazione; le immagini scorrono come un fiume senza una corrente precisa, come in un vortice senza fine che scinde il senso e dona la pace visiva, appunto la luce, il sogno, la meraviglia.





Titolo:
Song to Song
Durata: 129'
Origine: USA
Anno: 2017
Colore: C
Genere: DRAMMATICO, SENTIMENTALE, MUSICALE
Specifiche tecniche: 2,35:1
Produzione: BUCKEYE PICTURES, WAYPOINT ENTERTAINMENT, FILMNATION ENTERTAINMENT
Distribuzione (Italia): Lucky Red

Regia: Terrence Malick

Attori: Michael Fassbender (Cook), Ryan Gosling (BV), Rooney Mara (Faye), Natalie Portman (Rhonda), Cate Blanchett (Amanda), Val Kilmer (Duane), Holly Hunter (Miranda)
Sceneggiatura: Terrence Malick
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: A.J. Edwards, Keith Fraase, Rehman Nizar Ali, Berdan, Hank Corwin
Scenografia: Jack Fisk
Costumi: Jacqueline West

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