alt«So in this great disaster of our birth
We can be happy, and forget our doom.»
(George Santayana)







Fare (ancora) cinema, resistere, per liberare la vita, oltre l’immagine. È un ritorno a un tempo perduto quello che ci porta oggi a Monte Hellman, autore leggendario, confinato spesso nei settanteschi ricordi cinefili del beckettiano deserto de La Sparatoria/Le colline blu, o dell’ultimo fotogramma bruciato nella bressoniana Strada a doppia corsia. Poi la memoria si offusca, se ne perdono le tracce sull’isola dell’Iguana, sino all’improvviso e folgorante ritorno al suo tempo ri(n)tracciato in questa diamantina Road To Nowhere. Un film (?) girato a bassissimo budget che sfrutta a pieno la leggerezza di una fotocamera digitale, riflettendo in tempo-reale sulla sopravvivenza di certi statuti del cinema novecentesco nell’epoca della sbandierata iperrealtà dei simulacri. E allora il set di un film da farsi – il divenire della nascita di un’immagine a partire da un’altra immagine (Laurel/Velma, odierna donna hitchockiana che visse due e infinite volte…) – diventa nuovamente lo spazio ideale per rilanciare ogni questione sulla vita, sul cinema, sui continui cortocircuiti tra queste due dimensioni.

Il (nostro) film inizia con il dettaglio di un dvd masterizzato, “Road to Nowhere”, che sta per essere inserito in un pc: ci troviamo in un carcere dove il regista del film nel film, Mitchell Haven (M. H. proprio come Monte Hellman…) sta scontando la sua condanna. La nuova piattaforma mediale che “contiene” il film viene subito associata ad un carcere per il cinema, esiliato dal proprio spazio (la Sala, quanti rimandi incrociati a The Canyons di Schrader?) e dal proprio tempo (quello analogico del cinematografo Lumière). È da qui che si parte per un ennesimo viaggio noir a ritroso nella memoria: chi era Velma Duran? E chi era Laurel Graham, solo l’attrice che la interpretava? Ma “Laurel è Velma”, come ogni personaggio insiste nel sottolineare, decuplicando l’abisso delle identità avatarizzate nell’attuale panorama ipermediale. Pertanto se nel noir classico il perturbante veniva configurato da chiaroscuri espressionisti che configuravano al meglio i non detti, qui si viaggia esattamente all’opposto: l’epoca delle ridondanti informazioni che si autoriproducono per partenogenesi (il “soggetto” noir è tratto da un blog) viene configurata con una luce quasi accecante. Una ciclica esplosione dei segni messi costantemente in potenza e consegnati a noi spettatori smarriti nella fitta rete.

Road to Nowhere è un’impressionante ragionamento sull’odierna proliferazione funerea delle pictures (il corpo) opposto all’inafferrabilità dell’image (il fantasma, l’immagine) che gli sopravvive. Velma Durant è la versione 2.0 della femme fatale classica, una-nessuna-e-centomila: da ribelle castrista a truffatrice, ora attrice reincarnata in Laurel? Ma tutto questo raffinato impianto teorico viene consapevolmente e istantaneamente superato da Hellman, diventando materia caldissima: immanente estasi godardiana sulla potenza dei sentimenti, nuovo e disperato eloge de l’amour che riconsegna un referente all’immagine solo nelle sue fragili epifanie visive. Mnemosyne abbaglianti come le splendide scene romane tra Michell e Laurel (mangiare un gelato, ammirare una chiesa, camminare nei vicoletti di Trastevere), una sorta di naissance de l’amour garrelliana posta prima dell’abisso identitario che avvilupperà i due.

E allora: la presa d’atto ormai incontrovertibile dell’impossibilità sopravvenuta di chiamare in causa uno sguardo, si riflette qui negli infiniti punti di vista potenziali e nella coalescenza insistita di marche enunciative in forte opposizione tra loro (esempio più evidente: i titoli di testa del nostro film sono quelli del film nel film, “Directed by Mitchell Haven”). Ma il riferimento palese alla poesia di George Santayana, che Mitchell recita interamente, illumina il disperato tentativo di opporre ancora un realismo critico configurato negli scarti (con)fusi tra storia e discorso. Laurel/Velma dà forma ai pericolosi abissi identitari del nuovo millennio, ma resta comunque una baziniana “finestra per entrare nella storia” come ripete testardamente Mitchell. Il cinema sopravvive, oltre l’immagine, come un cristallo che riflette presente(e)passato proiettando ancora una memoria emotiva: la Hollywood fordiana letteralmente tirata in ballo nella battuta “print the legend or the fact?”, i film di Sturges, Erice, Bergman visti-e-vissuti nelle pause della lavorazione dai due giovani amanti, o ancora i costanti ed esibiti disvelamenti del meccanismo (sino ad arrivare all’ultimo e più dirompente: la troupe dello stesso Hellman inquadrata nel luogo dell’omicidio di Laurel/Velma), sono tutti riferimenti specchio che non servono più a riflettere wendersianamente lo stato delle cose del cinema, ma semmai a chiedersi/chiederci dove “quel” cinema (dei Bergman e degli Erice) si possa ancora rintracciare. L’ultima inquadratura di Road to Nowhere è ancora un carcere. Il regista è recluso dopo la morte della donna e del film, confinato in una privata e inestricabile strada verso il nulla. Ma l’immagine di Laurel/Velma, che sovrasta l’anonimo muro/schermo nella sua cella, attrae ancora e ancora l’inquadratura in un lento e fatale zoom: l’ultima finestra possibile sul “cinema”?

Il cinema, allora, sopravvive negli scarti. E Hellman lo di-mostra con il suo sublime Future Reloaded girato per Venezia 70: un minuto e mezzo in piano sequenza, un’identica zoomata in avanti, partendo dalle origini. Si parte dal bianco e nero e dal 4.3, si prosegue con il colore e il cinemascope, sino ad arrivare all’ontologia digitale. L’inquadratura è su una coppia appena divisa, un amore finito, due giovani interpretati dagli stessi attori (Shannyn Sossamon e Tygh Runyan) che prestavano il loro corpo/immagine a Laurel e Mitchell. Poi una voce fuori campo urla “stop!”, il take è chiuso, il film è finito, ma il cinema no: Hellman continua a inquadrare Shannyn/Laurel/Velma/nessuna-e-centomila, che commossa piange e asciuga le sue lacrime. Ecco: questo “scarto” filmico, arrivato sino all’abissale primo piano, configura una romantica (r)esistenza di quegli affetti deleuziani posti oltre le cose e i personaggi. Nello spazio e nel tempo del Cinema. Monte Hellman ci crede ancora: il suo cortometraggio si intitola Vive L’Amour





Titolo: Road to Nowhere
Anno: 2010
Durata: 121
Origine: USA
Colore: C
Genere: THRILLER
Specifiche tecniche: CANON 5D MKII
Produzione: MONTE HELLMAN, MELISSA HELLMAN, STEVEN GAYDOS, PETER R.J. DEYELL

Regia: Monte Hellman

Attori: Shannyn Sossamon, Dominique  Swain, John Diehl, Cliff De Young, Waylon Payne, Tygh Runyan, Fabio Testi, Bonnie Pointer, Lathan McKay, Mallory  Culbert, Rob Kolar, Gregory Rentis, Nic Paul, Michael Bigham, Joe Watts.
Sceneggiatura: Steven Gaydos
Fotografia: Josep M. Civit
Musiche: Tom Russell
Montaggio: Céline Ameslon
Scenografia: Laurie Post
Costumi: Chelsea Staebell
Effetti: Robert Skotak

Riconoscimenti

Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=mo9jHiGBoP0

Tags: