NothingPersonal_2_750pxIn campo  lungo, sotto una densa e plumbea coltre di nuvole foriere di pioggia, una donna sola, crine scarlatta, cammina  su terre battute dai venti. L’aria è fredda, la luce bluastra. Sta fuggendo da qualcosa o qualcuno. Non è permesso saperlo, a noi, così come all’uomo che decide di darle ospitalità. Tra loro non deve esserci nulla di personale. Lei stabilisce che anche il conoscere i rispettivi nomi sarebbe un’infrazione del contratto stipulato: solo lavoro in cambio di cibo. Una severità che verrà però mitigata da piccoli gesti infinitesimali, reciproca dimostrazione di mutuo soccorso.




«La solitudine: bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata».
(Pier Paolo Pasolini, Versi del testamento)


Questi versi posti ad epigrafe sono adottabili come puntuale commento delle immagini di Nothing personal di Urszula Antoniak, rivolte ad esplorare lo spazio della solitudine. Parola abusata; concetto confuso, inflazionato dall’accezione negativa con cui si è soliti evocarlo. Ognuno sa cos’è e per ognuno è diverso. Se due lo intendono uguale si stanno fregando. C’è quasi vergogna a pensare alla solitudine con un senso di gioia. Eppure è la solitudine che apre ai regni della creazione. Apre alla mente, al proprio essere conforme. La solitudine è una ricchezza capace di arginare sia la noia che la logica del branco.
È da questo che sfuggono i due protagonisti del film; solitari, più che soli. Lasciati volutamente anonimi. Tra loro un patto relazionale preciso: nessuna domanda personale, solo lavoro in cambio di cibo. È forte, sia per lei che per lui, l’ingombrante e incombente presenza del passato, eppure la regista non si avventura nei meandri della loro psiche, limitandosi solo a “mostrare” singole azioni scaturite da “emozioni”. Azioni compiute come piccoli cristalli di significanza che schiudono interi mondi. Del resto dovrebbe essere regola deontologica per ogni regista quella di tenere sempre fermo a mente che nel cinema tutto deve accadere come azione, e non come introspezione.

Sul finire del film è detta una frase leggibile come precetto stilistico dell’opera: «I talenti sanno quando fermarsi». E la Antoniak costruisce il proprio lavoro isolando una manciata di attimi decisivi, dilatandoli e rivelandoci tutta la loro complessa e stratificata banalità. Visioni parziali, scorci di quelle Vite che non verranno mai rincorse in lunghissime digressioni. La sua attenzione è concentrata su eventi minimi, descritti però con una tensione crescente, come se qualcosa di speciale dovesse succedere da un momento a l'altro. E quello che accade è che l’uomo e la donna trasformano la solitudine che segna la loro esistenza in solidarietà, mutuo sostegno reciproco, solo che tutto ciò si verifica non per mezzo d’un evento scatenante ma attraverso la sommatoria di piccoli gesti infinitesimali. Sentimenti sempre in divenire e mai già divenuti, senza nessuna pretesa, da parte dell’autrice, di “spiegare”, preferendo, invece, aprirsi all’immenso potenziale nascosto dietro ad una singola scelta, ad un pensiero futile, ad un unico accadimento isolato.


La regista, per dirci del mondo emotivo, nascosto e represso, dei suoi  personaggi, delle loro meravigliose idiosincrasie comportamentali, adopera le sequenze a mo’ di proverbiali locuzioni secche e coincise. Blocca il “reale” in un momento, riuscendo costantemente a dialogare con un Fuori (racconto/quadro) che è sempre presente, facendone avvertire l’imponderabile influenza. Ci sono sempre l’uomo e la donna in primo piano, ma dietro di essi si agitano forze oscure. Fragili arbusti battuti dal vento del loro universo interiore. Un’operazione che permette di relativizzare la storia narrata e aprendola al Tutto che la ingloba.

Lo sguardo dell’Antoniak parte dalla materialità dell’esistenza quotidiana per farne racconto, senza mai cadere nell’astrazione. E la storia procede per piccolissimi passi, come per tentativi, per accumulo di incertezze. Nothing personal è un film quasi scandaloso per come riesce mostrare quanta fantasia c’è nel reale, nella vita di tutti i giorni. La difficoltà sta nel ritrarla nel modo giusto, di darle forma o parola, ombra o silenzio, luce che immobilizza o buio che sospende. E Urszula Antoniak dimostra d’esserne all’altezza.





Titolo: Nothing personal
Anno: 2009
Durata: 85
Origine: IRLANDA, OLANDA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 16 MM (1:1.85)
Produzione: RINKEL FILM & TV PRODUCTIONS BV, FAMILY AFFAIR FILMS, FASTNET FILMS

Regia: Urszula Antoniak

Attori: Stephen Rea (Martin); Lotte Verbeek (Anne).
Sceneggiatura: Urszula Antoniak
Fotografia: Daniël Bouquet
Musiche: Ethan Rose
Montaggio: Nathalie Alonso Casale

Riconoscimenti

Reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=PuNxINUR-R0

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