altÈ nel continuo palesarsi di un’ombra, nel suo espandersi attraverso gli spazi vuoti eppure quasi claustrofobici delle stanze e dei locali, della notte riversa sul cemento dei palazzi, dei corridoi deserti di un ospedale, che David cerca, con tenera inconsapevolezza, di uscire dal bozzolo buio della sua adolescenza.




La luce, sempre inseguita, è un taglio netto, illumina i profili di tre ragazzi in lotta con se stessi, si concentra sul pezzo epidermico e cioè sulla pelle desiderante che si pronuncia poi nel bit di una techno abissale ballata a occhi chiusi da Paulinha (amore conteso), ammassandosi sulle schiene, sui volti, tra i capelli bruni e medusei, mentre fuori la vita scorre lentamente, in assenza di figure stabili (il padre che non c’è, il nonno malato, la madre fragile).

Ribelle, David gira in tondo, irrequieto e sperduto, illudendo se stesso (prima degli altri) di conoscere la strada, nascondendosi dietro la durezza morbida del suo sguardo, sfidando il vento in una corsa cieca senza casco né parabrezza. Il suo è un viaggio al termine della notte: il film finisce laddove era iniziato e l’ultima scena, speculare alla prima, segna l’ingresso di David nel mondo dell’età adulta. Nel tragitto, lungo i sentieri impervi della montagna che si sta scalando, qualcosa, dolorosamente, si perde, ma altro si conquista, con l’emozione e il fremito della prima volta.

In Montanha di João Salaviza si ritrova il gesto, lo scontro, l’attrito affettivo che è proprio dell’età adolescenziale. In maniera per certi versi analoga a quanto accade nei film di Céline Sciamma, il cui cinema si muove in territori e ambienti simili, si esplora il corpo attraverso il gioco: qui, in particolare, il gioco si palesa nel contendersi un’intimità. In entrambi i casi, tutto è accompagnato dal suono nevralgico, interiore e nascente, inquieto e ignoto, della musica elettronica. Si sperimenta il bacio, il sesso, si circumnavigano le pareti di una stanza da letto dove finalmente si scopre l’amore. David, Rafael e Paulinha sono dei freaks arenati in un luogo decentrato, vuoto perché privo di alternative o soluzioni alla futura scomparsa di chi ci è accanto. La scalata si fa dunque già statica, desiste all’interno di inquadrature fisse, immobili; il silenzio si fa duro, corteccia di un urlo che ancora si trattiene.

Non è dato sapere quel che accadrà, eppure a un tratto ci si ritrova in cima, su questa montagna chiamata adolescenza, in equilibrio su noi stessi, sospesi tra baratro e futuro, paura e speranza. Una nuova luce invade la stanza avvolta ancora nel silenzio gracile di un’alba sconosciuta.

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