025_meeks_cutoff_blurayOregon, 1845. Una carovana di tre famiglie diretta verso le montagne di Cascade ha smarrito la strada maestra seguendo una scorciatoia, non tracciata, indicata loro dalla guida Stephen Meek. Con l’esaurirsi delle scorte di sopravvivenza, la tensione nel gruppo crescerà fino ad esplodere all’apparizione di un indiano.

 

 


Meek’s cutoff
è apparentemente un western, o meglio, è piuttosto un’apparente rivisitazione del western – aperta alla prospettiva e alle ragioni indiane – sulle orme dei lavori di demistificazione del mito americano, di quel processo di deromantizzazione già presente in embrione nella parabola conclusiva dell’opera di John Ford, e che avrà grande seguito negli anni Settanta.

Assimilando e rimodellando l’ultima lezione fordiana, la Reichardt, al suo quarto lungometraggio, dà luce, con coraggio, lucidità e forza stilistica, a un’opera affascinante incentrata sul grande West, sulla nuova frontiera, ma con uno sguardo più ampio, acuito da una vena di provocazione e sobrio spirito polemico verso l’intera storia della patria “a stelle e strisce”, esportatrice esemplare dei valori di libertà ed uguaglianza, di una democrazia plastificata e fittizia, nella cui ombra s’avverte l’arraffare parassitario e prepotente di un’avida e perpetua speculazione economica.


Infatti la pellicola è ambientata in un preciso momento storico ma al contempo ne è al di fuori. Il paesaggio desertico, arido e crepato dall’eterno bagliore della morsa solare, tanto uniforme quanto dilatato, da scontornare qualsiasi mappa geografica e annichilire le coordinate spaziali, sembra essere un non-luogo, uno spazio direttamente filmico fuori dalla storia, un varco allucinatorio, un miraggio in cui i personaggi perseguono la propria indole di spettri erranti e disorientate marionette in costume, lungi dall’assurgere a significanti della Storia. La dilatazione spaziale, inoltre, viene sublimata da quella temporale: il tempo sgorga; deborda i limiti filmici – esce dai suoi cardini (per dirla con Deleuze) –  appaiandosi (quasi) con il piano reale, naturale; e in questo senso non si può non pensare al Gerry di Gus Van Sant.


È un minuzioso lavoro di decostruzione del western passando attraverso il western, scarnificando, sfibrando e addirittura polverizzando l’azione, già come sclerotizzata da inquadrature fisse o dal movimento lieve del punto di vista. Tacciono le sontuose ed epiche partiture musicali morriconiane mentre riverberano vellutati stridori di archi e afflati di fiati: l’“invisibilità” veste la colonna sonora di Jeff Grace; e sovente ritorna una litania cigolante a logorare e “simulare” il movimento dei carri, che, in questo ambiente così omogeneo e senza riferimenti, spesso ritratto con macchina da presa fissa, sembrano porsi come falso movimento.
La fotografia lucente e dorata, a tratti fiammeggiante, frutto dell’eccelso lavoro di Harris Savides – pupillo di Gus Van Sant, con il quale ha iniziato a lavorare agli inizi dello scorso decennio in occasione di Finding Forrester, maturando un forte sodalizio nella successiva fase sperimentale di ispirazione tarriana (Gerry, Elephant, Last Days), suggellato in seguito con l’ultimo lavoro Restless –, imprime una forma rovente e visionaria alla scena – e rimanda ancora a quell’ampia allucinazione che è Gerry: un’impronta lisergica si scorge sulla superficie informe e sabbiosa della prateria, tra le rocce aride e l’artemisia, e, sopra, nel grigiore impenetrabile delle nuvole e nel celeste pastello del cielo.

Le bestie coi carri sembrano fluttuare nella lenta dissolvenza delle immagini; immagini in 4:3 che conferiscono un’ulteriore dimensione alla visione, una profondità capace di magnificare il paesaggio dell’Oregon. E la proporzione dei 4:3 – molto vicina ai 1:66:1 – e la dosata contrapposizione tra campi lunghi e primi piani richiamano in qualche modo le dinamiche del Bartas di Freedom, scavando su questo binario di inquadrature un solco psicologico attorno ai personaggi e caricando, da subito e poi in maniera crescente, il clima di una tensione che tracimerà dalla canna del fucile della signora Tatherow (Michelle Williams, già protagonista del delicato Wendy & Lucy) puntata contro Meek (un barbuto Bruce Greenwood), la guida – in ipotesi – onnipotente, affetta dalla patologia wayneiana della virilità.


Questa tensione, in origine rappresa, trasuda, inquadratura dopo inquadratura – la macchina da presa sembra essere-insieme ai personaggi (soprattutto quelli femminili, le cui minori capacità di agire sono inversamente proporzionali alle capacità di vedere e sentire, proprio come accadeva alla topica, strumentale figura del bambino nel cinema neorealista), il cui sguardo  viene sottoposto a qualcosa di insostenibile, di più grande e incommensurabile come gli infiniti spazi del deserto, e fa emergere il punto di rottura definitivo col cinema d’azione, col western, e l’approdo al cinema moderno - ; la tensione trasuda dai movimenti felpati di camera – ora sospesa, inerte e distante in un’ansiosa attesa, ora morbosa, smarrita, incalzante –, diventando palpabile, talvolta, in feroci scatti di violenza, e denotando affinità dialettiche, malgrado le differenze formali, con l’ultimo Haneke del Nastro bianco. Da una parte il bianco e nero, un rigido grigiore mortifero, claustrofobico e civistico di un villaggio della Germania alla metà degli anni Dieci dello scorso secolo, in cui i bambini (dis)educati alla vita saranno gli adulti del domani nazista; dall’altra un bagliore accecante e perpetuo di un deserto del nord-ovest americano di metà Ottocento, nuovo territorio di espansione di europei e americani, di quella neonata America democratica e repubblicana, le cui radici s’imbevono del sangue di un grande, e forse un po’ dimenticato, genocidio.


Meek’s cutoff è un film apparentemente irrisolto, col finale che sembra apertissimo – e lascia lo spettatore disorientato – ma in realtà già scritto nella memoria storica. E l’albero, weerasethakuliano (l’occhio della Reichardt sembra avere lo stesso approccio contemplativo alla materia informe, alla natura, del regista thailandese) nella sua miracolosa epifania finale, promessa di vita, rinsecchito in sommità, appare spiritualmente distante (e non solo geograficamente) da quello rigoglioso, verdeggiante e pullulante di lucciole che ammalia nella notte di Tropical Malady. La magia s’è dissolta: il mito è svanito, la nuova frontiera è perduta. Meek’s cutoff è ipnotico sconfinare in un incubo luminescente.


La Reichardt, oramai da annoverare tra i grandi registi del cinema indipendente americano, con questa scottante e penetrante pellicola prosegue, pur rinnovandosi, un personale percorso cinematografico distillato lungo le strade della sua terra adottiva: l’Oregon. Tra presente e passato, distanze calcolabili in miglia e in giorni, ricalca quelle strade già battute dai reietti ed emarginati della Mala Noche, di Drugstore Cowboy, My own private Idaho ecc.: urbane, desolanti, perdute, alienanti, e affollate di solitudine (come quelle di Wendy and Lucy), sentieri selvaggi (poi asfaltatisi) di un vagabondare estenuante – il movimento della vita stessa, il sogno di un nuovo Eden, un Ovest dove ricominciare.





Titolo: Meek's Cutoff
Anno: 2010
Durata: 104
Origine: USA
Colore: C
Genere: WESTERN
Specifiche tecniche: 35 MM
Produzione: EVENSTAR FILMS, FILM SCIENCE, HARMONY PRODUCTIONS, PRIMITIVE NERD

Regia: Kelly Reichardt

Attori: Michelle Williams (Emily Tetherow); Bruce Greenwood (Stephen Meek); Will Patton (Soloman Tetherow); Zoe Kazan (Millie Gately); Paul Dano (Thomas Gately); Shirley Henderson (Glory White); Neal Huff (William White); Rod Rondeaux (Cayuse); Tommy Nelson.
Sceneggiatura: Jonathan Raymond
Fotografia: Chris Blauvelt
Musiche: Jeff Grace
Montaggio: Kelly Reichardt
Scenografia: David Doernberg
Costumi: Victoria Farrell

Riconoscimenti

Reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=5rhNrz2hX_o
 

Tags: