strange_case_of_angelicaIl fotografo ebreo Isaac viene chiamato da una ricca famiglia per scattare alcune foto alla loro giovane figlia Angelica, morta per una fatalità subito dopo le nozze. Davanti all’obiettivo, il volto della ragazza riprende incredibilmente vita. Per l’uomo, l’immagine di Angelica diventa un’ossessione che conduce a un tragico e ineluttabile destino.


«Ballate, stelle, che seguite costanti vertigini matematicamente fisse.
Delirate, e fuggite per pochi istanti dalle traiettorie che percorrete ammanettate.
Tempo, fermati! E anche voi creature antiche, che errate per celesti, irreali strade.
Angeli, apritemi porte dei cieli, che nella mia notte c’è il giorno…e in me c’è Dio».
(José Régio)


«Le immagini sullo schermo sono un sortilegio della camera e non sono mai che dei fantasmi di una realtà che nasconde altri fantasmi che ci accompagnano già nella vita reale». (De Oliveira, 1997, p. 24). Fantasmi dietro altri fantasmi. Visione di una visione. Gioco fantasmagorico dello spirito che anima la vita dell’universo. Qualcosa di immateriale. Un atto di stregoneria. Tutte definizioni del maestro portoghese, che racchiudono un’idea di cinema e insieme un’idea di tempo, un pensiero cinematografico in cui si combinano l’invisibile, l’impensabile, il fantastico.
Ancora prima di fissare con la sua macchina caricata a pellicola il sorriso della bellissima sposa cadavere, Isaac rimane stupefatto soltanto a varcare la soglia della cristiana casa patrizia: sulla porta, si ferma a guardare verso l’alto prima una scultura raffigurante una colomba bianca e poi l’imponente soffitto a cassettoni. Una sorta di vertigine, di estasi, coglie l’ospite urgentemente convocato nel cuore della notte, sotto una pioggia battente. Il mistero metafisico della trascendenza alberga già fra quelle mura, che accolgono in seno uno “straniero” perché immigrato sefardita.

Nella stanza buia dove è adagiata la donna, vegliata dalla premurosa madre, si ri-compie, come per miracolo, la magia del cinema. Il massimo dell’illusione. Il fotografo si ritrova allo stesso tempo in mezzo ai silenziosi parenti “spettatori”, e solo davanti allo “schermo”. Mentre cerca di mettere a fuoco il soggetto e si prepara a scattare, l’obiettivo registra un movimento, l’immagine di Angelica all’improvviso si anima (il prodigio si ripeterà anche nella fase di sviluppo, nella “camera oscura” della pensione dove alloggia Isaac): «se la foto esprime, barthesianamente, ciò che è stato, il cinema esprime ciò che continua ad essere nei modi del divenire, offrendo l’illusione del ritorno» (Cappabianca, 2011, p. 138). Il cinema restituisce i fantasmi della realtà concretizzando il desiderio di immortalità. Questo mezzo può fissare, conservare la vita altrimenti evanescente, sequenza di momenti che sono sempre trascorsi e che non esistono già più nel momento in cui hanno luogo.

Ma intanto il turbamento cresce sempre di più, l’immaginazione sconfina nell’allucinazione, nella falsa (?) credenza di uno spazio assoluto… . Nel regno dell’antimateria. Dove una particella incontrandosi con un’antiparticella corrispondente si fonde in un abbraccio che si trasforma nella sua essenza più pura: l’energia. Isaac sogna che dal balcone della sua stanza la donna lo viene a prendere: si alzano così in cielo, sorvolano la città abbracciati, sfiorano le acque del fiume Douro. Entrambi coperti da vesti immacolate, come figure fantasmatiche di Chagall, anime elettroniche sospese senza gravità in un universo parallelo in bianco e nero. Una visione quasi cosmica, in cui si perdono e si ritrovano le tracce di «una memoria ultrafanica, resurrettiva» (Roberti, 2011, p. 110).


Come il giovane orfano João di Mistérios de Lisboa di Raúl Ruiz, anche il personaggio di De Oliveira giace su un letto di vitamorte, in preda a lamenti, incubi, enigmatici presentimenti (come quello finale della morte del cardellino), dinnanzi ai quali soltanto il rumore dei camion che circolano sotto la sua finestra sempre aperta può riaffermare l’esistenza del reale. Isaac, che nella sua inquietudine, nelle sue letture, tradisce ataviche ferite e persecuzioni di un popolo, è un corpo in progressiva dissoluzione: la materia che dà carica allo spirito se ne va giorno dopo giorno. Fino al definitivo smaterializzarsi delle forze che lo sorprende in un campo di ulivi.

Lui, che riesce ad amare solamente attraverso la morte in un’attrazione ossessiva con chi non c’è più (un po’ come Vanda che ne Il passato e il presente vive nel ricordo del primo marito), è isolato in un circuito comunicativo chiuso in cui si alimenta in maniera bulimica solo della sua follia mistico-visionaria: quando è in compagnia, ha lo sguardo immobile, assente, rivolto frontalmente verso un altrove invisibile, e chiama insistentemente il nome della giovane sposa-spettro a voce alta nella speranza («saudade» direbbe il regista) di rivederla.


Lo strano caso di Angelica è davvero un «film-sogno» - come osserva giustamente Cappabianca: dopo l’ennesimo sonno agitato, Isaac si sveglia di soprassalto e va a rivedere le foto scattate, che scorrono come inquadrature in uno strano montaggio per associazione libera somigliante a quello del lavoro onirico. Le immagini di letizia della bellissima ragazza, che appare e scompare come un angelo intermittente, si alternano a quelle ben più “minacciose” (così le apostrofa la proprietaria della pensione Justina) dei contadini impiegati nei vigneti in collina, che, immortalati con la vanga in mano, assumono quasi le sembianze di diavoli col forcone. Entrambi questi due soggetti fotografati sono impregnati di un ineluttabile senso di finitezza, perché votati a un comune destino fatto di terra, dissodata: madre che dà la vita e che accoglie la morte. Nell’immaginario di De Oliveira, la frustrazione per un amore mai vissuto corrisponde alla nostalgia per un passato e un’epoca, quella del lavoro agricolo (alla vecchia maniera), ormai sepolto.

Mentre la macchina da presa fissa il paesaggio della Valle per lunghi minuti e le note al pianoforte di Chopin “omaggiano” i commenti musicali nei film muti, i tradizionali abitanti scavano al ritmo di propiziatorie quanto funeste cantilene, senza curarsi della modernità. “Os gigantos do Douro” (come era intitolato un progetto mai realizzato del 1934) rimangono gli ultimi depositari di un sapere agreste fondato sulla fatica (di vivere).
Soltanto la fotografia, grazie a una riproduzione meccanica oggettiva, e successivamente il cinema col suo dispositivo cinetico, possono rubare qualcosa al reale presente e custodirlo gelosamente al riparo dal tempo. Un tempo conservato, imbalsamato, in cui corpo e anima si scindono (come nell’ultima sequenza in cui Isaac si unisce in volo ad Angelica seguendo la scia di un “amoroso” flusso di elettroni) per dar vita a una dimensione altra. Incorruttibile. L’antimateria di cui sono fatti i sogni.

Bibliografia

Cappabianca A. (2011): Visioni/Angelica/Lisboa, «Filmcritica», n. 613, marzo 2011.
De Oliveira M. (1997): Petit dialogue, «Positif», n. 436, giugno 1997.
Roberti B. (2011): I misteri del cinema, «Filmcritica», n. 613, marzo 2011.





Titolo: O estranho caso de Angélica
Anno: 2010
Durata: 95
Origine: PORTOGALLO, FRANCIA, SPAGNA, BRASILE
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM (1:1.66)
Produzione: FILMES DO TEJO II, LES FILMS DE L'APRES MIDI, EDDIE SAETA, MOSTRA INTERNACIONAL DE CINEMA SAO PAULO

Regia: Manoel de Oliveira

Attori: Ricardo Trêpa (Isaac); Pilar López de Ayala (Angélica); Leonor Silveira (Madre); Luís Miguel Cintra (Ingegnere); Ana Maria Magalhães (Clementina); Isabel Ruth (Cameriera); Adelaide Teixeira (Justina).
Sceneggiatura: Manoel de Oliveira
Fotografia: Sabine Lancelin
Montaggio: Valérie Loiseleux
Scenografia: José Pedro Penha Lopes; Christian Marti
Costumi: Adelaide Trêpa

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