LINCONSOLABLEDopo Femmes entre elles, un altro Dialogo con Leucò.









Arduo pensare a una rimozione più grande di quella che opera nei confronti della morte. Non basta neppure averla vista da vicino: da questo punto di vista siamo inconsolabili. Non c’è nulla come la morte di cui si parli così tanto da mai nominarla, come una profezia che dal momento stesso che si dà si nega (sempre avuto il sospetto che anche le due opposte mitologie terminologiche di Freud/Jung – perturbante versus inconscio collettivo – è di questa rimozione che parlassero).Eppure non si è inconsolabili per non (voler) sapere l’aldilà, ma al contrario per l’impossibilità a rientrare appieno aldiquà (come direbbe Leopardi, essere presenti è l’illusione più grande e insieme necessaria). La questione è la vita, non la morte. La questione è l’immagine che, come la parola, riesce a farsi giuntura inattesa dell’inesorabile divaricazione, a essere proprio l’occasione di resistenza e di sopravvivenza che rilancia un po’ d’altrove qui (rovesciamento sotteso già nell’apparente linearità dialettica del qui e altrove/ici et ailleurs di Godard-Mieville, che invece custodiva la complessità e la durezza dello slancio e della sconfitta, non a caso in un film ripreso a distanza di anni e di cui gli "attori" erano ormai tutti morti).
Inconsolabile è dunque la terra sulla quale battiamo i passi, perché è qui che si compie il destino di chi si è allontanato altrove. Qui è il luogo della battaglia, o perlomeno quello in cui Jean-Marie Straub, come un novello Orfeo, continua a cercare di far «trasalire il mondo dei vivi» (altro sospetto: che la morte al lavoro di Cocteau, della trilogia orfica non fosse nota conseguente, ma chiosa critica, laddove la metamorfosi ininterrotta di Orfeo che scende agli inferi risultasse infine la base per una trasformazione da compiere fra i vivi e non fra i morti: cioè che cinema-morte-al-lavoro significasse solo lavoro della morte per ridare vita).

Ancora Dialoghi con Leucò (stavolta da L’inconsolabile), ancora Cesare Pavese, ancora il bosco toscano nei dintorni di Buti, per quella che ormai, nonostante la bellezza della luce smeriglia e del vento che scuote foglie e volti, sembra una personalissima discesa nell’Ade che non si risparmia né l’ebbrezza né il sangue, ma che anzi proietta in superficie il proprio mondo sotterraneo cercando disperatamente di rilevarne ciò che in lui è irrimediabilmente sotterrato, dimenticato, rimosso. Se fosse possibile pensare al cinema come a un albero (e si sa, un albero è un albero), Straub sarebbe l’Orfeo dannato che risale in superficie per scuoterlo, pronto poi subito a raccogliere le foglie strappate ai rami e a rimetterle alla terra come semi che germoglieranno.
Non si tratta di autobiografia, ma del modo in cui l’immagine riaffiora sempre dove sembra maggiormente nascosta: si guardano in faccia i morti per trovare se stessi («Non si cerca che questo»), la donna amata non c’è più, ma c’è l’albero («Queste cose hanno un nome, e si chiamano uomo»). Ecco allora che anche le posizioni del dialogo (un monologo interiore?) sono incerte, cangianti, rovesciabili come le illusioni, e ciò che ci rispondeva alla nostra destra è invece alla nostra sinistra (un’apparizione? un sosia? un contraltare? una voce?) ed è questo dubbio bellissimo a segnare il destino dei vivi. «La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo».

Se non sbaglio Straub-Huillet si prendevano il rischio di questo ascolto fin da Troppo presto troppo tardi, film addirittura profetico oggi, che scandiva le secolari lotte di classe in Egitto cercando la militanza nell’asimmetria dei testi e dei documenti rivoluzionari, cioè appunto nel loro riaffiorare dove poteva sembrare troppo tardi e invece, come dimostrato in questi ultimi mesi, era troppo presto (la parola "morta" di allora è come l’immagine censurata di oggi, che lotta per superare le maglie dell’interruzione di rete, e bisognerà scrivere prima o poi senza retorica della pinacoteca in diretta che è diventato per esempio twitter, dove i vivi, spesso poco prima di morire, spediscono video della battaglia rubati all’inferno, immagini brevi e sporche via cellulare, che proprio perché rimosse prendono le mosse dalla verità, svolgendo il compito che Straub-Huillet allora assegnavano alla pellicola e cioè misurare con «sensi più precisi dei nostri» il luogo fisico del fuori campo, autentiche incursioni e risalite orfiche, che dal sottosuolo, ancora con Pavese, gridano «visto dal lato della vita tutto è bello. Ma credi a chi è stato fra i morti…»: Tunisia, Algeria, Egitto, Libia, Bahrein, Iran, Yemen, Giordania, Iraq, Kuwait e speriamo, prima o poi, la Palestina).
Si vive sempre dopo la morte (soprattutto quella altrui). Si vive nella bruciante scissione, che forse è il nostro dono, di un presente che è già stato e che ora è il bordo liquido dove dobbiamo sporgerci (incompreso e variamente equivocato come film sull’aldilà, è invece di questo aldiquà che si occupa per esempio il vertiginoso Hereafter di Clint Eastwood, che de L’inconsolabile di Straub è fratello e compagno).





Titolo: L'inconsolable
Anno: 2011
Durata: 15
Origine: FRANCIA, ITALIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM (1:1.37)
Produzione: LES FÉES PRODUCTIONS

Regia: Jean-Marie Straub

Attori: Andrea Bacci; Giovanna Daddi
Soggetto e sceneggiatura: Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese
Fotografia: Renato Berta, Christophe Clavert
Montaggio: Catherine Quesemand

Reperibilità

Tags: