Libert1Francia, 1943. Una famiglia di zingari attraversa il Paese durante l’occupazione nazista. Sul suo cammino trova Claude, un bambino abbandonato, e decide di portarselo dietro. Quando i gitani mettono le tende vicino ad un villaggio, apprendono dagli abitanti che le leggi del regime di Vichy vietano il nomadismo. Pur avendo la protezione del sindaco e di un’istitutrice, vengono arrestati e internati. Grazie all’aiuto del sindaco, che offre loro una proprietà, vengono poi rilasciati. Nonostante però la nuova sistemazione, gli zingari tornano di nuovo a spostarsi. Fino a quando le guardie francesi non irrompono nell’accampamento e li prelevano a forza caricandoli sui camion.



Il filo spinato separa il nostro campo visivo da quel luogo del Novecento che più ci ricorda i limiti dell’abiezione umana: il lager. Pochi istanti dopo, sullo sfondo di un cielo gravido di nuvole che si rincorrono nervosamente, compare in sovrimpressione la parola “Liberté”. Da una buia galleria escono ad uno ad uno, chi a piedi, chi a cavallo, chi ancora a bordo di traballanti carri di legno, un gruppo di venti persone tra uomini, donne e bambini, accompagnato da una stuolo di animali. Sono i protagonisti invisibili del secolo scorso, i dimenticati dalla storiografia ufficiale, che marciano senza sosta e senza meta, arrancando tra i viottoli di una campagna assolata e, a loro insaputa, “interdetta”. Per colpa prima di un ordinamento ghettizzante del 1912 (la carte d’identità antropometrica), e poi di una guerra che non hanno voluto. E di cui si scoprono inaspettatamente attori, o meglio comparse, visto il ruolo che la Storia ha riservato loro. Schedati, controllati a vista, marchiati non solo coi timbri delle autorità locali sui documenti ma sui loro corpi. Nella loro dignità, offesa, tradita e calpestata in nome di folli mire imperialiste mascherate da teorie evoluzioniste.

Un’odissea di proporzioni indicibili, senza nome e senza memoria cinematografica: tra il 1940 e il 1945 almeno 500 mila rom e sinti, di cui 6500 in Francia, furono sterminati nei campi di concentramento insieme a ebrei, handicappati ed omosessuali L’apolide Tony Gatlif, artista attivo e partecipe di questa comunità di cui va raccontando da trent’anni cultura, usi e costumi, aveva già tracciato un segno sulla via della verità con il suo primo cortometraggio Canta gitano, quando raccontò la deportazione degli zingari. E qui (la vicenda è basata su fatti reali) non fa altro che riprendere un discorso, mai interrotto, sulla insopprimibile volontà di libertà di un popolo, fino in fondo orgogliosamente artefice del proprio destino. Immobili, con lo sguardo fisso davanti all’obiettivo del regista, si succedono dietro le invalicabili recinzioni i volti sporchi e anonimi dei nomadi, religiosamente in colonna per un pasto caldo. Seppur disarmante e barbaramente realistica, non è questa la scena ultima e significante dell’opera, che semmai appartiene all’aspetto più retorico dell’immaginario filmico concentrazionario. Come risposta alla politica discriminatoria (la stessa che ha ispirato Sarkozy in materia di immigrazione), l’autore mostra l’unica alternativa percorribile, ma mai presa in considerazione dal potere, quella dell’inclusione sociale. Reciproca.

L’integrazione come necessaria regola di convivenza albeggia nella Francia dei primi anni ‘40, dove non solo Théodore e Mademoiselle Lundi aprono le porte al “diverso” e abbattono le staccionate, ma anche alcuni comuni cittadini. Questi ultimi acquistano stoffe e tessuti dai rom commercianti (e braccianti nelle vigne), offrono ai forestieri cibi e bevande di ogni genere e partecipano alle loro feste e balli. L’iniziale diffidenza nei confronti dei loro due “benefattori” si stempera nell’episodio del ferimento del sindaco e veterinario del paese ad opera di un purosangue bianco imbizzarrito (figura alludente uno “scalcinante” anelito di libertà): alcuni zingari soccorrono l’uomo medicandolo con un prodigioso amalgama di uovo e sterco, e riescono pure a rimettere in piedi un altro cavallo malato invocando l’aiuto divino. Nonostante l’arretratezza e l’analfabetismo dei rom (ignorano cosa sia un bagno e, a scuola, pensano che inchiostro e gesso siano commestibili), la gente autoctona non giudica, ma accetta ed accoglie gli ospiti con impensabili gesti di solidarietà.

Quando vengono internati per la prima volta e il loro accampamento rimane abbandonato, il piccolo ed affezionato Claude si prodiga per rimettere tutto al proprio posto: dalle tende alle coperte, dalla legna alle vettovaglie. Viaggiare, spostarsi, correre. Intere sequenze, costruite sull’idea di movimento, pulsano gioia di vivere. Liberté è strutturato come un’infinita sinfonia zigana, fatta di approdi e ripartenze. Ma soprattutto di drammatici esili e di fughe. Come quelle affannose del ribelle Taloche, colui che incarna al meglio la leggerezza e la sregolatezza gitane, la frustrante condizione di chi è straniero senza casa, l’attaccamento vitalistico alla natura e a tutti i suoi elementi. L’eccentrico quanto ingenuo personaggio è costantemente ossessionato dagli spiriti (fantômes), che vede e sente ovunque, e si aggira smarrito in un mondo civilizzato che non gli appartiene. Mentre si trova a suo agio tra la terra e nell’acqua, dove si agita come fosse un bambino e dove gli piace confondersi.


 




Titolo: Korkoro
Anno: 2009
Altri titoli: Liberté; Freedom
Durata: 111'
Origine: Francia
Colore: C
Genere: Drammatico
Produzione: Princes Films, France 3 Cinéma, Rhône-Alpes Cinéma

Regia: Tony Gatlif

Sceneggiatura: Tony Gatlif
Attori: Marc Lavoine (Théodore Rosier); Marie-Josée Croze (Mademoiselle Lundi); James Thiérrée (Félix Lavil dit Taloche); Mathias Laliberté (P'tit Claude); Carlo Brandt (Pierre Pentecôte); Rufus (Fernand); Arben Bajraktaraj (Darko); George Babluani (Kako); Ilir Selmoski (Chavo); Kevyn Diana (Zanko); Bojana Panic (Tina); Raya Bielenberg (Puri Dai); Thomas Baumgartner (Tatane); Francisc 'Csangalo' Mezei (Tchangalo); Tincuta-Anita Mezei (Marina)

Reperibilità

Riconoscimenti

http://www.youtube.com/watch?v=NV6xyNpidFU

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