alt«Le cinéma est un art d'une fantomachie, si vous voulez, et je crois que le cinéma quand on ne s'y ennuie pas c'est ça, c' est un art de laisser revenir les fantômes» (Jacques Derrida)







C’è nel fondamento magmatico dell’immagine cinematografica un baluginare di sagome, ombre, che si smuove, sin dai tempi della fioca proiezione d’immagini, della lanterna magica, che diviene fantasmagoria, proiezione di fantasmi, di paure. Una paura albeggiante come quella che attraversò i corpi in tumulto, difronte a una visione che si sommava allo sguardo, alla prima proiezione di L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat nel 1896. Una paura di ritorno, come quella di Roma città aperta, che nel 1945 ri-occupò le strade e gli occhi di una Roma strappata, con la musicalità atroce delle marce naziste, solo pochi mesi dopo la loro dissoluzione, come se la realtà nel dissolversi repentinamente avesse lasciato una traccia tra le strade, che tardava a svanire, e che resta latente.

E del ritornare, di luoghi, di immagini, di figure fantasmatiche, si occupa La Ciudad de los Signos, traslucendo a carboncino tra le rovine e le colonne pompeiane, dalla voce frammentata di Katherine Joyce di Viaggio in Italia (1954), un'eco spettrale quanto lo è la natura stessa del cinema, quanto lo è la natura di un ricordo. Per Derrida il fantasma cinematografico è incarnato già nel momento di ripresa, dall’enunciazione attoriale, dalla phoné; il corpo è dunque sin da subito infestato, parlato, ventriloquato, e così appare Katherine, quando rievocando una poesia dal suo passato sembra svelare la voce di Rossellini, la natura cinematografica, tra corporale e spirito, vita e immagini: «Tempio dello spirito, non più corpi, ma pure ascetiche immagini, al cui confronto persino il pensiero diventa grave, opaco, pesante».

Il cinema sembra dunque questo ritorno, che è un ricordo incessante, e non sembra casuale che sia lo stesso spettro cinematografico a ricordare il suo oltrepassare la fragilità della vita. Che sia il fantasma di Katherine, di passaggio tra le vestigia di una storia d’amore, lì per ricominciare, a ricordare che il corpo è un tempio transitorio, e che i fantasmi sono ritorno, come rende lampante il francese con revenants, ritornanti: i fantasmi sono coloro che ritornano. Ritorna allora ne La Ciudad de los Signos tutta la realtà del neorealismo rosselliniano sotto forma di fantasmi, poiché in questo senso il neorealismo sembra essere stato il momento in cui più si è rimessa in scena la vita sotto forma di ombre, in cui più dalla realtà si è dato vita a spettri.

Se il cinema di Rossellini era una ricomparsa della realtà sotto forma di fantasmi, di ombre, che diveniva un incessante ritorno negli occhi, quello di Alarcón è specularmente una ricomparsa del paesaggio traslucido del cinema, negli occhi, che diviene una riapparizione dei paesaggi, delle strade del cinema del neorealismo, poiché ne La Ciudad de los Signos tutti i luoghi hanno memoria, e tutte le storie sopravvivono, e dunque è possibile percepire quell'incessante, quel baluginare fantasmatico che non smette di smuoversi, traslucido a carboncino in una Roma città eterna, tempio eletto della città dei segni, del grande passato, sino ad arrivare al cristologico Ettore pasoliniano di Mamma Roma (1962). Ombre, sagome fantasmatiche, abitanti dell’immagine ritornante, che vagano in quell'atto di morte momentanea, miracolo di vita incessante che è l'immagine cinematografica.





Titolo: La ciudad de los signos
Durata: 63'
Anno: 2009
Colore: C
Genere: DOCUMENTARIO
Specifiche tecniche: Canon 5D, Sony MiniDV, Kodak Ektacrome super-8

Regia: Samuel Alarcón

Sceneggiatura: Samuel Alarcón, Mercedes Cebrián, Juan Pablo Heras
Fotografia: Javier Cardenete
Musiche: Eneko Vadillo

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