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In un oggi non ben definito, due sorelle e un fratello, nonostante l’evidente maggiore età, vivono come se fossero ancor dei bambini. Questa condizione d’infantilità è il risultato di una dottrina educativa assoluta ed intransigente. È il padre a volere dei figli addestrati come se fossero dei cani. Questi devono accettare incondizionatamente come unica realtà quella che la figura genitoriale decide di far conoscere loro. 

 

 

 

 

 

«Famiglie! Vi odio!
Focolari chiusi;
porte serrate;
geloso possesso della felicità»
(André Gide, I nutrimenti terrestri)



 

Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco, come sostenuto da Pier Paolo Pasolini in Lettere luterane, è quello della predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Lo ha sicuramente tenuto a mente Giorgos Lanthimos per la realizzazione di Kynodontas, così come deve aver tenuto presente la lezione dell’ultimo Pasolini, per l’esattezza quello di Salò o le 120 giornate di Sodoma, di cui il film in questione sembra essere il logico prosieguo. La macchina da presa di Lanthimos si muove lungo le traiettorie tracciate dallo sguardo pasoliniano ed arriva a rintracciare l’origine del Male all’interno della famiglia ristretta, coniugale, “cellulare”. Tre figli, ormai adulti, sono costretti ad un’infanzia prolungata, protratta oltre i suoi limiti anagrafici; questa diviene vero e proprio modus vivendi, una condizione esistenziale, mentale e spirituale, messa in atto dal pater familias per mezzo di una spietata fascistizzazione del comportamento attraverso la quale impone norme e principi. I valori abitualmente riconducibili al concetto di famiglia, quali la capacità di provvedere a tutte le esigenze del singolo, di proteggerlo, di avvolgerlo, vengono così esasperati da Lanthimos tanto da mutare di segno e tradursi in disvalori.

Appare evidente sin dalle prime sequenze che la vita delle due sorelle e del fratello ha le caratteristiche di un mostruoso processo pedagogico di apprendimento coatto. Il loro lessico è il risultato di un’operazione genitoriale di manomissione semantica; padre e madre, a testimonianza della loro arbitrarietà, stravolgono i significati delle parole al fine di mantenere i figli in una condizione letargica. Il mare è “una poltrona di pelle con spigoli di legno”; per farsi passare il sale a tavola, si dice “mi passi il telefono?” esempi questi che evidenziano la negazione, anche solo potenziale, di un rapporto con il mondo esterno, le cui regole vengono sospese, a vantaggio di dinamiche completamente interne a questa realtà asfittica. Tutto è regolato secondo i criteri che formalmente richiamano l’ordine e la normalità, le aberrazioni sono identificate con la quotidianità, la violenza si traduce così in abitudine, e in quanto tale non viene messa in discussione, ma al contrario assimilata ed imitata. La villa, dove la famiglia vive, altro non è che un collegio infernale dove bisogna conformarsi a regole e dogmi e chi vi si sottrae o li infrange viene punito con sanzioni crudeli e spietate. Questi sono i cardini d’una dottrina sociale coercitiva e repressiva che non ammette obiezioni, che non chiede solo ubbidienza ma pretende adesione totale. Scopo ultimo è quello di obbligare i ragazzi a sottomettersi incondizionatamente, ad accettare lo stato delle cose, rendendosi così sordidamente complici, trasformandosi da vittime a collaborazionisti del potere, in quanto questo viene da loro accettato e legittimato.

La dialettica tra regola e libertà, in Kynodontas, risulta annullata da un’impostazione educativa assoluta ed intransigente, incapace di contemplare il dubbio, e di conseguenza coercitiva e violenta. Ogni forma di comunicazione è regolata da un sistema a circuito chiuso, è quindi autoriferita soltanto all’ambiente domestico e alle persone che lo abitano: tv e videoregistratore servono esclusivamente per rivedere i filmini di famiglia; le canzoni fatte ascoltare ai ragazzi (ai quali viene fatto credere, ad esempio, che Frank Sinatra sia loro nonno) sono tradotte simultaneamente dal padre, che distorce completamente il significato dei testi trasformandoli in un inno alle regole di vita della casa.

Unico personaggio avente nome proprio, dato che tutti gli altri sono identificati attraverso il ruolo che rivestono all’interno del nucleo famigliare, è Christina. Lei è la sola estranea alle dinamiche affettive, ed è anche l’unica ad avere un’esistenza oltre i confini del giardino. Pagata dal padre, deve soddisfare i bisogni sessuali del ragazzo, in modo che questo non abbia desideri che non possano trovare immediato soddisfacimento all’interno della villa. Nonostante sia stata istruita sulle rigide norme che regolamentano l’esistenza della famiglia, passa alla sorella maggiore dei film in videocassetta in cambio di prestazioni sessuali. Una leggerezza causante dapprima solo delle leggere increspature nella piatta esistenza dei ragazzi, ma che poi andranno acuendosi determinando incrinature da cui affioreranno fondali di tenebra. Ad entrare in scena, seppur filtrata sottoforma di fiction, è la realtà.

Lanthimos lavorando sulla messa in discussione del modello familiare e della figura paterna, che da simbolo rassicurante si trasforma in elemento cardine di un disegno educativo violento, costruisce una parabola complessa ed agghiacciante sul totalitarismo. Secondo il regista l’origine è da rintracciare in una situazione di malessere in cui non esiste speranza alcuna, dove si è sovente umiliati e torturati mentalmente. Tutto ciò finisce per spingere le persone ad afferrare un’ideologia, ossia un’idea seducente, che diventa pericolosa quando è innalzata a principio assoluto. E se si considera assoluto un principio o un’ideale, questo perde umanità e porta al terrorismo. Kynodontas ci precipita in un universo repressivo, dominato dall’assurdo, da regole velleitarie, da una manipolazione continua, da una crudeltà sottile e perversa, da un lavaggio del cervello permanente, da una distorsione sistematica del significato delle cose.

Lanthimos rilegge l’assioma pasoliniano sull’anarchia del potere, sulla “sua volontà di agire arbitrariamente, secondo proprie necessità che sfuggono completamente alla logica comune” (Bachmann e Gallo 2001, p. 3025). Il regista non si preoccupa di darci una spiegazione della disgregazione, della rottura della normalità della quale siamo spettatori, si limita a mostrarne le conseguenze. L’obiettivo è quello di delineare l’effetto retroattivo e perverso della violenza subita, che trasforma la vittima in carnefice, inculcando nelle sue vene il veleno della crudeltà. Perché, come sostiene Pasolini, “l’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti” (Pasolini 2003, pp. 7-10).

La regia è strutturata su lunghi piani fissi che scrutano i movimenti dei personaggi nello spazio riflettendo, attraverso l’immobilità dell’obiettivo, la staticità della loro vita. La dimensione temporale è come sospesa, il tempo è un presente perpetuo, c’è una totale dispersione di indici cronologici che rendono le giornate indistinguibili. La freddezza formale dello stile registico tende ad un realismo visivamente disturbante, con l’obiettivo di porre lo spettatore in una condizione di difficoltà, di fronte ad un delirio (dei comportamenti) ingiustificabile. Proprio come Pasolini per Salò, anche Lanthimos ha cercato una struttura ‘follemente razionale’ da usare come ‘contenitore’ per una rappresentazione cinematografica dove la ‘sgradevolezza’ del soggetto effettivo fosse dissimulata e, insieme, esasperata dalla ‘sgradevolezza’ della dieresi” (Chiesi 1977, p. 187). Il cinema di Lanthimos non è “falsa illustrazione o manipolazione narrativa dei bisogni indotti del pubblico, (…) strumento ‘politico’ di addormentamento e di consenso” (Fofi 2001, p. 7), ma mezzo poeticamente dirompente capace di far deflagrare la realtà, di farsi luogo della teatralizzazione del male. Il suo è un cinema “che smette di essere gioco, lo svago di una serata effimera, per diventare una specie di atto utile, e assumere il valore di una vera e propria terapeutica” (Artaud 2003, p. 119).

 

 

p.s.

 

“Gli artisti devono fare – e i critici difendere, e tutti i democratici appoggiare in una decisiva lotta dal basso - delle opere estremistiche, tali da riuscire inaccettabili anche alla più larghe vedute del nuovo potere”  (P.P.P.)


Bibliografia

 


Artaud A. (2003): A proposito di un testo perduto, in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino


Chiesi R. (1977): Visioni di Misteri, massacri ed ultimi rituali. Salò o le 120 giornate di sodoma e un progetto non realizzato, in Novello N. (a cura di), Il trionfo dell’esserci. Teoria e prassi nell’ultimo cinema di Pier Paolo Pasolini, Manet, Firenze


Fofi G. (2001): Antonin Artaud. Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, Minimum Fax, Roma


Pasolini P.P. (2003): I giovani infelici, in Lettere luterane – Il progresso come falso progresso, Einaudi, Torino


Intervista rilasciata a Bachmann G. e Gallo D. (2001) in Siti W. e Zabagli F. (a cura di): Pasolini per il cinema II, Mondadori, Milano

 

 

 


 

 

Titolo: Kynodontas
Anno:
2009
Durata:
96
Origine:
GRECIA
Colore:
C
Genere
: DRAMMATICO
Specifiche tecniche:
35 MM (2.35:1)
Produzione
: BOO PRODUCTIONS, GREEK FILM CENTER, HORSEFLY PRODUCTIONS

Regia:
Yorgos Lanthimos

Attori:
Christos Stergioglou (Padre); Michelle Valley (Madre); Aggeliki Papoulia (Figlia maggiore); Mary Tsoni (Figlia minore); Hristos Passalìs (Figlio); Anna Kalaitzidou (Christina).
Soggetto:
Yorgos Lanthimos, Efthymis  Filippou
Sceneggiatura:
Yorgos Lanthimos, Efthymis Filippou
Fotografia:
Thimios Bakatatakis
Montaggio:
Yorgos Mavropsaridis
Scenografia:
Elli Papageorgakopoulou
Arredamento:
Elli Papageorgakopoulou
Costumi:
Elli Papageorgakopoulou

 

Riconoscimenti

Reperibilità

 

http://www.youtube.com/watch?v=JgHiWaovhrA

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