kotoko«Ma certo. Che ne potete sapere voi? Avete mai sentito il suono di un violino? No. Perché se aveste ascoltato le voci dei violini come le sentivamo noi, adesso stareste in silenzio, non avreste l'impudenza di credere che state ballando. Il ballo è... è un ricamo... è un volo... è come intravedere l'armonia delle stelle... è una dichiarazione d'amore... Il ballo è un inno alla vita».

Il prefetto Gonnella in La voce della luna (Federico Fellini, 1990)


Prologo: immagine di una bambina in riva al mare, silhouette che danza al ritmo di una musica tribale. Armonia vergine immersa nella natura. Qualcosa però disturba: è la luce, fredda e bluastra, che viaggia più veloce del suono, e lo anticipa in tutta la sua drammaticità. Poco dopo, un urlo agghiacciante invade lo schermo, la mdp sobbalza, la bambina scompare. Prima del titolo, alcuni fotogrammi fuori fuoco mostrano dei fiori di colore rosso (sangue).

Shinya Tsukamoto si affida unicamente all’immagine (e al suono) per evocare l’evento traumatico che ha segnato l’infanzia della sua protagonista, la giovane madre Kotoko. Il suo cinema, d’altronde, si è sempre collocato al di fuori dei canoni convenzionali della narrazione, lavorando in un primo momento per accumulo anarchico, in velocità (soprattutto Tetsuo), per poi distendersi, scoprendosi più teorico (A Snake of June, Vital), ma mantenendo pur sempre una sua originale e  pura visionarietà. La voce narrante di Kotoko che avvia e attraversa l’intero film, dunque, non assurge a quella che normalmente sarebbe stata la sua funzione didascalica (raccontare gli eventi della storia) ma diventa espressione insicura della sua psiche disturbata. Per tutta la durata della pellicola, in un estenuante dialogo con la sua mente, Kotoko non si rivolge che a se stessa. In questa maniera, se da un lato affiora chiaramente la sua malattia, dall’altro se ne percepisce la sua dolorosa coscienza latente. A ben vedere, ogni elemento del film è piegato allo sguardo fragile e infermo della sua protagonista: in questo senso Kotoko altro non è che una lunga, sofferta, soggettiva indiretta; benché Kotoko sia quasi sempre in campo, è attraverso i suoi occhi che percepiamo il mondo che la circonda. Tsukamoto, letteralmente, mostra la condizione del suo personaggio, portando ai limiti estremi la soglia di sopportazione dello sguardo, rendendo questa pellicola una vera e propria esperienza sensoriale, psico-fisica perché aggredisce mente e corpo, claustrofobica perché priva di facili vie d’uscita.

Il disturbo di cui soffre Kotoko la porta a vedere doppio: ogni persona che incontra si manifesta sotto una duplice veste, una buona e innocua, l’altra malvagia e violenta. E si sa che il tema del doppio serpeggia da sempre nell’opera di Tsukamoto, tutta incentrata sullo scontro natura/cultura, sullo studio corpo/spirito, sul conflitto luce/oscurità. La sua stessa filmografia può essere letta come una serie di dittici colorati a metà, composti, cioè, da film girati l’uno in bianco e nero e l’altro a colori, in un contrasto che non trova soluzione. Tetsuo e Tetsuo II: Body Hammer, Tokyo Fist e Bullet Ballet, A Snake of June e Vital sono tutti film speculari e complementari, gemelli chirurgicamente (in)separabili, due volti dello stesso organismo che si riflettono e si guardano allo specchio come i personaggi delle loro storie. In quest’ottica un primo titolo chiave è Gemini, che contiene e imprigiona (in un pozzo) il suo doppio, rivelandosi «vero film cerniera di tutta la filmografia di Tsukamoto, dove la mutazione (dell’immagine, dell’autore, doppio sogno tra immagine e autore) è totale, ritornante su sé stessa, in cui la dialettica perversa della mutazione resta cristallinamente indecifrabile, in una parabola ellittica dove il ritornare coincide con il proprio perenne differirsi, riperdersi» (Fumarola 2004, pp. 6-7).

Anche in Kotoko il doppio è racchiuso all’interno del quadro. Nel film, nella mente della protagonista, i piani della realtà e dell’immaginazione si confondono non permettendole di vivere e mettendo a repentaglio la vita di suo figlio. Kotoko è un personaggio che si è smarrito tra due mondi, probabilmente gli stessi scoperti dal giovane studente Hiroshi in Vital. Se in quest’ultimo film era attraverso l’autopsia del corpo-cinema di Tsukamoto che si trovava un varco, sospeso tra sogno e memoria, che conduceva in uno spazio altro, dove la natura tornava a germogliare, la luce regnava incontrastata, i personaggi potevano librarsi leggeri nell’aria: uno spazio che era pura Immagine; in Kotoko quel varco sembra aver inghiottito la realtà, sovrapponendo i livelli e creando il caos. Una scena fondamentale in questo senso è quella in cui un uomo viene colpito da un soldato, il quale un attimo dopo non esita a rivolgere il suo fucile contro la mdp e fare esplodere un proiettile contro di essa e quelli che sono dall’altra parte. Solo un momento e si scopre che si tratta di un film che Kotoko sta guardando alla televisione. La scena la spaventa; prova a sintonizzarsi su di un altro canale, non ci riesce; la sequenza, breve e violenta, in cui il soldato spara contro la camera si ripete in loop. L’apparecchio televisivo questa volta viene inquadrato, dunque è possibile distinguere le immagini del subfilm da quelle del film principale. E mentre il frammento continua a ripetersi, in un montaggio serrato, progressivamente, l’inquadratura si fa sempre più vicina, fino ad occupare di nuovo tutto lo schermo. È così che le immagini del subfilm, come proiettili – letteralmente –, vengono sparate nel campo visivo, invadendo lo spazio di Kotoko. Una scena molto simile a quella vista in televisione si presenterà più avanti, quando alcuni soldati faranno irruzione nell’appartamento di Kotoko: le immagini del subfilm, dunque, si materializzano, assumono vita propria e si (con)fondono con quelle di Kotoko.

Questa incessante frammentazione/commistione/ricomposizione delle immagini, l’uso aggressivo del montaggio, che da sempre caratterizza l’opera di Tsukamoto, traducono visivamente le difficoltà della protagonista di godere continuamente della propria vita. Se per riscoprirsi viva ha bisogno di farsi del male, ferendo il proprio corpo, lacerando la stessa pellicola (“Non mi taglio per morire. Ho solo bisogno di confermare se mi è ancora concesso di esistere”), è nel canto che Kotoko trova il suo equilibrio e la sua pace interiore. In un memorabile piano sequenza, unico in tutta la filmografia del regista, Kotoko intona una canzone: l’immagine per la prima volta non si scompone e sostiene l’intera durata della scena. Non ci sono tagli. Il canto permette alla giovane madre di ricomporre il quadro e l’universo (di figure, di volti, di elementi) che la circonda: l’unità è – momentaneamente – raggiunta. E dunque l’utilizzo del piano sequenza, massima espressione cinematografica del tempo e della sua continuità, depone proprio in questa direzione, poiché «il tempo è l’unità stessa che si anticipa e si succede proiettandosi senza fine avanti a sé, cogliendo in ogni momento – in questo momento inafferrabile – il presente in cui si presenta la totalità dello spazio, la curva dell’estensione in una visione unica, in una prospettiva di cui il tempo costituisce il punto cieco così come il punto di fuga oscuro» (Nancy 2002, p. 23).

Come in quasi tutti gli altri suoi lavori, anche in questo Shinya Tsukamoto compare nelle vesti di attore; interpreta Tanaka, uno scrittore di successo che aiuta Kotoko a rimpadronirsi della sua vita. Qui tuttavia il suo personaggio diviene il suo vero e proprio alter ego. È lo stesso Tsukamoto che sembra suggerirlo quando nel film si dice che il titolo del primo libro di Tanaka è “Bullet Ballet”, come l’omonimo film del regista. Ma vi è di più: il suo personaggio interviene direttamente nella vicenda, raccontando Kotoko e illuminando una strada salvifica per il suo personaggio. Se lui è “l’uomo che illumina la luna”, come recita il titolo di un altro suo libro che legge Kotoko, lei è la luna: qualcosa a cui bisogna dar forma (attraverso la luce) ma che preesiste e che vive di vita propria, in un moto che è continua rivoluzione. Non stupisce, dunque, che il personaggio di Tanaka a un certo punto svanisca: è Tsukamoto che sta scomparendo per lasciar spazio all’immagine vergine di Kotoko, al cinema.

Nel finale, allora, ci si trova di fronte a qualcosa di assolutamente puro; materia prima che si bagna e muta sotto la pioggia, energia cinetica che insegue una forma, immagine (in) movimento perché profondamente viva, corpo che danza alla ricerca di un suo ritmo; ritmo che le permette di farsi Arte e di sopravvivere a quel flusso incessante e invadente di non-immagini che quotidianamente bombardano lo sguardo. Kotoko è il cinema che danza e, così, esiste.


Bibliografia

Fumarola D. (2004): L’immagine muta, in AA. VV.: La mutazione infinita di Tetsuo il fantasma di ferro, Gianluca & Stefano Curti editori, Milano.

Nancy J-L. (2002): Immagine e violenza, in Tre saggi sull’immagine, Edizioni Cronopio, Napoli.





Titolo: Kotoko
Anno: 2011
Durata: 91
Origine: GIAPPONE
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: SHINYA TSUKAMOTO PER KAIJYU THEATER, MAKOTOYA

Regia: Shinya Tsukamoto

Attori: Shinya Tsukamoto; Cocco
Sceneggiatura: Shinya Tsukamoto
Fotografia: Shinya Tsukamoto
Montaggio: Shinya Tsukamoto


Riconoscimenti

Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=ILChkxK-w70

 

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