Jean-GentilIl professore haitiano Jean Remy Genty cerca un lavoro da contabile a Santo Domingo. Passa da un ufficio all’altro lasciando curricula, ma nessuno è disposto ad assumerlo. In città non c’è lavoro e viene oltretutto sfrattato dalla sua misera abitazione. Con una borsa di plastica in mano, decide di affrontare un lungo, solitario e disperato viaggio all’interno della foresta tropicale. Fino a perdersi in mezzo alla natura incontaminata, isolato da tutto il mondo e solo in comunione con Dio e con la spiritualità dell’isola.


«Larghe spiagge lastricate dal sole.
Calore bianco.
Una fiumana verde.
Un ponte,
gialle palme bruciacchiate
giù dalla casa in letargo estivo
appisolata per tutto l’agosto.
Giorni che ho stretto, giorni che ho perduto,
giorni che sono troppo grandi, ormai, come figlie,
per rifugiarsi nel porto delle mie braccia».
(Derek Walcott, Mezza estate, Tobago)


Sono molti gli haitiani che ogni giorno sbarcano nella Repubblica Dominicana alla ricerca di un’occupazione. Ma, mentre in passato la maggior parte di loro era impiegata nelle piantagioni di canna da zucchero, recentemente gli immigrati hanno iniziato a lavorare vicino alle città dove c’è grande bisogno di manodopera per l’edilizia.
È in questo scenario di crescente sviluppo contraddistinto dal rumore e dal movimento, in cui grandi edifici prendono il posto delle vecchie e fatiscenti baracche, che Jean Remy smarrisce il senso del suo essere sulla Terra, di appartenenza ad un luogo. “Bandito” da un’operosa comunità di giovani working men a caccia di un salario per sfamare le famiglie, l’intellettuale è protagonista di un calvario senza fine tra le contraddizioni del progresso.
La confusione ed il tormento (che gli provocano un’insopportabile emicrania) si impossessano di lui, scavando pian piano alle radici della sua cristianità, minando anche ciò che di più saldo sembrava avere: la fede. Incapace di comunicare con gli altri, pur parlando quattro lingue, l’umiliato professore ha un unico referente a cui si appella costantemente durante le sue infinite peregrinazioni nell’antro più selvatico del pianeta.
In maniera quasi asfissiante, Amelia Guzmán e Israel Cárdenas seguono con la macchina a mano i monologhi di Jean Remy rivolti a Dio, fatti di bisbiglianti preghiere e sofferte richieste d’aiuto. Il loro è un pedinamento fisico ma anche contemplativo, colmo di amore per la verità, in cui ricercare quel mistero dell’esistenza che la contingenza del dramma civile e sociale delle indigenti popolazioni caraibiche ha privato di ogni possibile orizzonte.
Quando l’uomo giunge sulla costa, prova a costruirsi un alloggio primitivo utilizzando i resti delle altre case distrutte. Ma neppure qui, malgrado il fortuito incontro con qualche nativo dell’isola, riesce a recuperare la sua dimensione. Jean, al pari di un antieroe di Herzog, si scopre completamente isolato dal mondo e in balia delle proprie ossessioni. Al cospetto di una natura magnificente nella sua bellezza (i lussureggianti colori come le oscurità vengono ben calibrati dalla fotografia, curata dagli stessi registi), ma prepotente nelle sue reazioni. E, soprattutto, indifferente alle pene dell’anima:

«Le inascoltate, onnivore
fauci di questa foresta pluviale,
non solo divorano tutto,
ma non ammettono nulla di vano;
non si placano mai,
macinando il loro ripudio,
della sofferenza umana».
(D. Walcott, Aria).

Una ripresa aerea, nel finale, mostra i terribili esiti del terremoto che ha devastato Haiti nel gennaio del 2010: bidonville squarciate ed interi villaggi sotto le macerie. Una ferita ancora aperta grava simbolicamente sulle spalle stanche e ricurve di un sopravvissuto che, nel suo panteistico fondersi con il territorio, ha tragicamente incontrato il suo destino. E forse ritrovato il proprio senso dell’esistenza.
Dopo il felice esordio con Cochochi del 2007, la giovane coppia di autori centro-americani sofferma nuovamente il suo sguardo neorealistico su un’umanità vera (i personaggi sono tratti dalla realtà locale e interpretati da attori non professionisti). Disagiata, in rovina e senza salvezza. Eppure sempre fiera delle proprie radici geografiche e arroccata a difendere la propria dignità. Anche quando il degrado fa di tutto per vilipenderla.
Se la lentezza, forse eccessiva, del racconto rispetta i tempi di una ricerca tutta interiore e spirituale, l’angoscia e la prostrazione che si respirano finiscono però per soffocare lo spettatore e le sue aspettative di redenzione. La solitudine della foresta riecheggia in un vuoto assoluto, dove si apprende il lamento delle acque che abbracciano anche l’ultima speranza di vita:

«(…) Finiamo nella terra, dalla terra siamo cominciati.
Nelle nostre viscere, genesi.
Se ascolto posso udire il polipo al lavoro,
il silenzio infranto da due onde del mare».
(D. Walcott, Il Naufrago).


Bibliografia

Walcott D. (1992): Mappa del nuovo mondo (trad. di Barbara Bianchi), Adelphi, Milano.





Titolo: Jean Gentil
Anno: 2010
Durata: 84
Origine: MESSICO, REPUBBLICA DOMENICANA, GERMANIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM
Produzione: PABLO CRUZ, BÄRBEL MAUCH, ISRAEL CÁRDENAS, LAURA A. GUZMÁN PER AURORA DOMINICANA, CANANA FILMS, BÄRBEL MAUCH FILM

Regia: Laura Amelia Guzmán, Israel Cárdenas

Attori: Jean Remy Gentil (Jean Remy); Yanmarco King Encarnación (Yanmarco); Paul Henri Presumé (Polo); Nadal Walcott (Agrimensor); Lys Ambroise (Ciryl).
Sceneggiatura: Laura Amelia Guzmán, Israel Cárdenas
Fotografia: Israel Cárdenas, Laura Amelia Guzmán
Montaggio: Israel Cárdenas
Scenografia: Sylvia Conde, Patricia Grassals
Costumi: Patricia Grassals

Riconoscimenti

http://www.youtube.com/watch?v=qRDqYihLWCo

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