4Jack goes boating
. Jack va in barca. Non come Robert Louis Stevenson, lo scozzese malaticcio che girava il mondo da un sanatorio all’altro facendo leva sulla sua malattia – sfruttandola – per placare la sete di corsa e di vita, tanto da arrivare nel 1880 a biasimare profondamente gli inglesi per il disprezzo che provavano per le storie avventurose; no, piuttosto come Jerome K. Jerome, altro figlio della Britannia – e non è un caso: l’Impero Britannico non si reggeva forse sulla trinità albionica composta dalla regina Vittoria, il golden standard e la Royal Navy? –, precursore di uno dei massimi paradigmi della società moderna, il tempo libero e il viaggio turistico, le zone d’ombra illuminate dalla sottile e indolente ironia di Tre uomini in barca.


D’altronde è tutto inscritto nella Storia Pregressa che va oltre la carriera e la vita di Philip Seymour Hoffman, l’attore che più di tutti da fine anni ‘90 rappresenta il cinema indie (e indiewood) statunitense, sfera delle più complesse e incomprese di cui noi simbolicamente focalizziamo una precisa locazione che non risiede nel Sundance Festival ma nell’immagine iconica che gli sta dietro – Butch Cassidy e Sundance Kid e Etta Place in viaggio per l’America, Butch Cassidy e Sundance Kid nel fermo immagine finale: un cinema che è messo di traverso, ma in modo diverso rispetto a quanto scrive Franco La Polla, il quale afferma che l’ “indipendente” non può essere – subito? – riconosciuto per le sue caratteristiche estetiche e narrative: l’indie degli anni ’90 ha il suo scarto rispetto al passato altmaniano e cormaniano nel saldarsi con la cultura pop dei nineties, con la generazione x, con la musica, con Seattle – Jerome K. Jerome e non Robert Louis Stevenson.

Jack (Philip Seymour Hoffman) va in limousine, guidandole per lo zio Frank (Richard Petrocelli) assieme al fraterno e anche lui solitario amico Claude (John Ortiz). Poiché sono interscambiabili i due: entrambi hanno un lavoro, una donna che è moglie per Claude e amica per Jack, Lucy (Daphne Rubin-Vega), e un amico che è Claude per Jack e Jack per Claude. L’autosufficiente e specchiante triangolazione viene squadernata da Connie (Amy Ryan), nuova assunta presso l’impresa di pompe funebri dove lavora Lucy e che subito viene buttata nella mischia di un appuntamento alla cieca con Jack…

Il film inizia, naturalmente, su di lui: Philip Seymour Hoffman si incornicia nell’immagine fin dal primo fotogramma, corpo particolare da osservare nell’essere in scena e fuori scena, davanti e dietro la macchina da presa. Ed è un’evocazione di doppelgänger: la pièce da cui è tratto il film è stata messa in scena nel 2007 dalla LAByrinth Theater Company di New York, co-diretta per molti anni da Seymour Hoffman e John Ortiz, e che vedeva sempre loro (e la Rubin-Vega e Petrocelli) come protagonisti; la crew proviene in massima parte dall’indie – e per riportare il tutto all’affermazione di prima, anche dall’indie musicale: i Fleet Foxes e i Grizzly Bear sono alla colonna sonora –, e alcuni di loro dall’esemplare La famiglia Savage (il montatore Brian A. Kates, il direttore della fotografia W. Mott Hupfel III); è la seconda pellicola prodotta dalla Cooper’s Town Productions, la società fondata dall’attore di Rochester assieme a Emily Ziff, e che stava dietro anche all’Oscar come miglior attore protagonista vinto nel 2005 per Truman CapoteA sangue freddo

Il regista-attore assume e rilancia questa rete significante, ragionando continuamente sulla sua filmografia da interprete: Jack è la risultante di diversi frammenti vaganti, da una prima parte di carriere con ruoli piani e rotondi (il Mitch di Patch Adams, il Brand de Il grande Lebowski, Joseph di Hollywood, Vermont) ad una seconda stagione più affilata e spigolosa, dove appare senza soluzione di continuità in pellicole mainstream, blockbuster, indie. E in questo modo sembra trovare la sua cifra recitativa, estetica, narrativa, che non sta nei film incentrati unicamente sulla sua presenza scenica tout court (Flawless, Truman Capote, Il dubbio), che avvolge fino a coprire, ma nei ruoli a margine, nella brevità (… e alla fine arriva Polly, La guerra di Charlie Wilson).

Seymour Hoffman incide nel ritaglio, nella nicchia, ma rispetto ad altri sleepers come Stanley Tucci o Paul Giamatti, assume su di sé presenze disturbanti e inconcepibili, programmaticamente lontani dalla vicenda principale come dalle rispettive figure e valori fondamentali – l’anima contro Lester Bangs di Quasi famosi, il disgustoso Dean Trumbell di Ubriaco d’amore, l’inintellegibile Owen Davian di Mission: Impossibile III (e su questo teorema consapevolissima la scelta di George Clooney di opporlo a Giamatti in Le idi di marzo, o P.T. Anderson nel raccogliere tutte queste schegge per ricomporle nel Lancaster Dodd di The Master).

E il colpo di mano è svelato: Jack, ben lontano dall’essere un pacato e spaesato personaggio che veleggia leggermente sopra il film – degenerazione emotiva di tanto indie falso e ipnotico –, è un dolente e sempre pronto a crollare uomo che ha pochi oggetti e persone nel suo mondo. Le sue ferite dell’anima non vengono continuamente e melodrammaticamente alla luce come in Two Lovers di James Gray, ma rimangono sepolte sotto l’attorcigliamento invernale di cappelli, sciarpe, giubbotti (e dreadlocks), pronte a farsi strada tra un fiocco di neve e l’altro, ma non riscaldando bensì raffreddando ancor di più, immobilizzando, come la paralisi e il silenzio che precede e segue la lotta greco-romana di Mosse vincenti (rivelazioni: regia Tom McCarthy – il Dr. Bob dove lavorano Connie e Lucy – e attore Paul Giamatti…). 

Si dubita, si sbanda, e così il film diviene laterale, controintuitivo, la superficie si spacca e appaiono momenti e dialoghi e figure inattese, fuori posto – l’aggressione di Connie in metro, Jack che cerca un nuovo lavoro. Il regista avvicina questa piega con un montaggio che in alcuni momenti, in alcuni piani, salta, va verso qualcos’altro, con la lunga sequenza di Jack e Clyde tra il diner e la limousine, la mal riuscita cena a casa di Clyde e Lucy. E il tutto culmina nella sempre maggiore consapevolezza che il film non appartenga a Seymour Hoffman ma a John Ortiz, al suo Clyde in perenne ondulazione tra un sorriso e una gentilezza purissimi e un’arrendevolezza alla piccolezza della vita. La sua vicenda lavorativa, personale, familiare, è una sorta di palinsesto per quello che attende Jack una volta fatto collidere il suo mondo con quello di Connie. Una collisione che passa attraverso il dolore e lo smarrimento, e il reggae che ascolta Jack non è un vezzo o un inside joke, ma la giusta colonna sonora che accompagna questo passo, ben lontana com’è dall’essere soltanto good vibrations ma come dice Jack difficoltà nel capirne le parole, il senso, tutto, tutto l’accumulo di Jack goes cooking, Jack goes fucking, Jack goes working che si susseguono per il film, arrivando finalmente a quel Jack goes boating che è, solo, Jack goes living.

P.S. Le più belle e semplici parole sul senso emozionale della vicenda – non del film – le ha scritte Ben Brantley recensendo per il New York Times la pièce, in un pezzo intitolato The Zen Art of Life Maintenance (Pass the Bong, Please): “This gentle portrait of pothead losers in love is a reminder of how engrossing uneventful existences can be in the hands of the right actors”. Come direbbe Jack grattugiando un limone e pronto ad infornare il dolce, yeah, perfect.





Titolo:
Jack Goes Boating
Anno: 2010
Durata: '91
Origine: USA
Colore: C
Genere: Drammatico
Produzione: Big Beach Films, Cooper's Town Productions, Labyrinth Theater Company, Olfactory Productions

Regia: Philip Seymour Hoffman

Attori: Philip Seymour Hoffman (Jack), John Ortiz (Clyde), Amy Ryan (Connie), Daphne Rubin-Vega (Lucy), Thomas McCarthy (Dr. Bob Thomas), Richard Petrocelli (Uncle Frank)

Sceneggiatura: Robert Glaudini
Fotografia: W. Mott Hupfel III
Montaggio: Brian A. Kates
Scenografia: Thérèse DePrez
Costumi: Mimi O'Donnell
Musiche: Grizzly Bear, Evan Lurie

Riconoscimenti

Reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=VEPjHlQlItY

Tags: