altQuesto è il luogo delle mute cose

Sabato 26 aprile 1986. L'umano comincia alla fine di una settimana di fatica, con un’esplosione e una nube che arriva dal cielo, fumi tossici e tinte fosche a sgomentare l'infanzia. Chernobyl più che il nome di un luogo fisico, è la definizione della minaccia aerea, un terrore impalpabile che si insidia nella pelle e modifica il respiro. È l’ombra nera che arriva di notte per portare via dai sogni, un voto alla terrestrità, la fuga furibonda e la perdita improvvisa di un celeste fondamento.

La fine dell’innocenza avviene in un pasticcio lussureggiante di luce che intossica e non abbaglia; nella ricerca costante di un rifugio franante, stabilità senza fondamento, urto di tutti contro tutti; un farsi folla per tenere lontana la morte.
L'accumulo di energie ignote e la percezione collettiva di una resa spirituale senza appello si proiettano nell’immagine del reattore 4 in fiamme: non la rappresentazione dell'invisibile (com’era per esempio il vulcano fumante di Herzog ne La Soufrière) ma rappresentazione invisibile perché non c'è più niente da guardare; nessuna denuncia edificante è ancora possibile, il ricordo delle vittime è insensato dal momento che manca la possibilità del ricordo di un tempo antecedente alla catastrofe. Chernobyl è la prima vera minaccia silenziosa di morte globale. La sola re-azione tollerabile in uno scenario festosamente apocalittico è l’immobilità frenetica senza ricerca, un dimenarsi perpetuo e disperato di parti che si perdono nella disgregazione definitiva di ogni legame.
Se la questione del morire si faceva saggio strumento di memoria in Hiroshima mon amour, e la paura pura, come forma di mobilitazione trascendente, riabilitava in modo immaginifico l’innocenza nei confronti del futuro, in Innocent Saturday il non sapere è il solo strumento di una sopravvivenza istintiva e muta mentre la nube avanza.

Degli alberi senza voce

La storia la conosciamo, nessuno si salva dai frammenti disseminati della catastrofe, non c'è niente che debba ancora essere rivelato, nella natura è concentrata ogni forma di dissimulazione e l'uomo, che ne è parte disgregante, compensa la sua finitudine con la forza dell’illusione.
Come nell’ultimo dei teatri della crudeltà, reale e finzione sono inestricabili; l’immagine del reattore testimonia l’esistenza del fantasma, della morte cioè del sistema perfetto (quindi fragilissimo) impiantato dall’uomo nel cuore del mondo.
Più che un cinema di denuncia, si tratta di un cinema di reazione a distanza: assistiamo all’ennesimo spettacolo ma senza crederci perché la partecipazione allo sfacelo disperso è essa stessa priva di ogni logica, un non-evento, fumo.
Al pari della pornografia, il mistero è concretamente disvelato: il principio di realtà è andato perduto: il Deus è absconditus.

Delle cose nel fisso e nel duro

La sola cosa da cui non si può abdicare è una sorta di movimento apotropaico, il ballo rituale che scatena energie vitali. Essere giovani e belli è garanzia sufficiente di esistenza, i fumi sono ancora lontani, la minaccia è remota e parte di un domani che non si aspetta.
Fissato da una camera a mano che insegue il movimento impossibile e deforme di corpi già morti, il film appare come l'inguardabile: il fumo ha assorbito ogni forma, non restano che proiezioni fantasmatiche di un sabato come tanti, di un sabato come avrebbe dovuto essere se quell’infinitesimale margine di errore non si fosse realizzato.
Per dirla con Baudrillard, la velocità rappresenta il trionfo dell'effetto sulla causa, dell'istantaneo sul tempo come profondità, della superficie e dell'oggettualità pure sulla profondità del desiderio.
L'assenza di prospettiva e di profondità di campo, l'inseguimento di movimenti deformanti e di primi piani stravolti dall'esaltante e inverosimile prossimità di una fine che non si immagina riflettono il processo di una malattia invisibile e già in circolo nei corpi, nella società e nella storia a venire.

Dei metri e delle quantità

Perpetuare l'innocenza è allora una colpa che espone il mondo alla deformazione e al contagio. La fine non è una possibilità tra tante, ma l’unica in atto, il massimo della messa a fuoco, il solo cinema ancora possibile.
L'accumulo del superfluo, il consumo dell'eccesso e poi l'espulsione, la dislocazione, la reiterazione degli atti, – mangiare cantare bere ballare vomitare, ballare bere cantare mangiare vomitare – dilatano la fine, esasperando una durata finalizzata alla proliferazione oscena e inutile di quantità assorbite e rigettate; rigettate per essere immediatamente riassorbite.
Come scrive M. Sardone a proposito del tema della catastrofe, centrale nell'esperimento televisivo Zaum: «Esemplificativo è lo spezzone tratto da Sabato [Innocent Saturday], film (anche questo dissezionato e diluito) del regista russo Mindadze sul primo giorno della catastrofe di Chernobyl, scene in cui vengono descritte le reazioni dei tecnici e dei burocrati che lavoravano nella centrale. Il capo responsabile si rifiuta di credere che il reattore possa essere esploso perché “è scritto nelle carte”: le sue convinzioni poggiano su un Logos fideistico, un misto di fanatismo tecnocratico e dogmatismo di stato. Un Logos che si dissolve dinnanzi all’immagine epifanica del reattore in fiamme: un’unica immagine che non ha bisogno di alcun Logos, che si dà per quello che è in tempo reale, il tempo della realtà».
Tempo della realtà che manca, appunto. Solo mostrando impudicamente il punto estremo di invisibilità, il presente della civiltà dell'immediato registrato si azzera.
L’umano inizia e finisce oggi come ieri con i bombardamenti in Ucraina, ripresi in tempo reale e quindi invisibili all'Europa.
La fine è un bacio nero come lo stelo d'erba, a dare il nome a un posto che non esiste: Chernobyl

«Questo è il luogo delle mute cose
degli alberi senza voce
delle cose nel fisso e nel duro
dei metri e delle quantità»
(M. Gualtieri)







Titolo: Innocent Saturday
Titolo originale: V Subbotu
Anno: 2011
Origine: RUSSIA, UCRAINA, GERMANIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: CINEMASCOPE, 35 MM
Produzione: PASSENGER FILM, BAVARIA PICTURES, GEISELGASTEIG NON-STOP PRODUCTION, MOSKVA SOTA CINEMA GROUP

Regia: Aleksandr Mindadze

Attori: Anton Shagin (Valerij); Svetlana Smirnova (Vera); Stanislav Rjadinskij (Chitarrista); Vasilij Gusov (Pianista); Aleksej Demidov (Bassista); Vjacheslav Petkun (Karabas); Sergej Gromov (Petro); Uljana Fomicheva (Lara); Aleksej Shljamin (Segretario di partito); Aleksej Galushko (Malovichko); Georgij Volynskij (Gorelik)
Sceneggiatura: Aleksandr Mindadze
Fotografia: Oleg Mutu
Musiche: Mihail Kovalev
Montaggio: Dasha Danilova, Ivan Lebedev
Scenografia: Denis Bauer
Costumi: Irina Grazdankina, Ekaterina Himicheva

Riconoscimenti


http://www.youtube.com/watch?v=YeG4eZO-a30

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