germanLa spedizione di un gruppo di scienziati sul pianeta Arkanar, praticamente una copia della Terra, ferma al medioevo. Devono agire in incognito per cercare di favorire il progresso della popolazione locale e salvare gli intellettuali dalle persecuzioni, senza però commettere violenze o uccidere. Ma uno degli osservatori, Don Rumata, si spinge oltre…


Ci si perde per sempre nell’immensità di Hard to Be a God, film postumo, sesto lungometraggio in cinquant’anni di attività di Aleksej German, presentato in anteprima mondiale nel Fuori Concorso del Festival di Roma da poco concluso e accompagnato da un Premio alla carriera ritirato dal figlio e dalla moglie del regista scomparso a febbraio, Aleksej German Jr. e Svetlana Karmalita, (lui fra i nomi più innovativi del nuovo cinema russo, autore di titoli come Garpastum, del 2005, e Paper Soldier, del 2008, lei co-sceneggiatrice del film, come in altre opere precedenti del marito). Una lunga lavorazione (2000-2013), dopo Chrustalev, la macchina! (1998), per un progetto in realtà ideato nel secolo scorso, negli anni Sessanta, sulla base dell’omonimo romanzo di fantascienza (1964) dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij, ma poi abbandonato a causa della censura di regime − particolarmente feroce con il suo cinema, come nei casi di Controllo sulle strade, realizzato nel ’71 ma vietato fino all’85, e Il mio amico Ivan Lapšin del 1982, approdato e premiato a Locarno quattro anni dopo.

Hard to Be a God come radicale, personalissima deviazione, oggetto caotico fra Sokurov e Tarkovskij (magari non tanto quello sci-fi, più quello dell’Andrej Rublëv del 1966), ma soprattutto visione impossibile, eccessiva, che si frantuma in una efflorescenza di altre visioni e dunque di livelli e letture fragili, cangianti, di occlusioni che si scoprono aperture. German filma il disfacimento, filma la fine dentro l’assurdo, la tragedia come inafferrabile rivelazione permanente, filma il ribrezzo, la merda, sputi, ani e interiora, vomito e orina, la repellente coreografia di corpi e liquidi, la puzza, l’orrore, ma riesce a donare la meraviglia del cinema. Hard to Be a God come indomita tensione a  farsi rigorosa e al contempo folle geografia di immagini, la ricerca di un gesto conoscitivo, di una eventuale rappresentazione più che di una narrazione, a racchiudere tutto e poi a esondare,  esplorazione di spazi, di confini, di inquadrature, del set, del cinema non come macchina ma come imperscrutabile desiderio. Fissa il tempo e lo interroga, lo percorre e forse, segretamente, lo apprende, disperde il senso, ogni senso, nella diramazione, nei dettagli, negli istanti, obbliga continuamente al deragliamento ipnotico mutevole, quando si vorrebbe solo la parzialità dello scrutare da un buio profondo.

Figura straordinariamente fuori norma, tragica, sinistra, geniale, Don Rumata (Leonid Yarmolnik), attorniato da schiavi e poeti, è artista, intellettuale, giustiziere che non ammazza ma mozza orecchi,  temuto e riverito dagli abitanti del luogo che lo considerano figlio di un dio pagano,  è cinema come presenza, ferita nella dilatazione del bianco e nero, nel flusso lavico abbacinante delle tre ore di  paura e delirio degli occhi, in mezzo a capanne e fango, lerciume e maiali, spade, cenci, prigioni, in un mondo terribile e brutale che proibisce la bellezza, punisce le arti e la cultura, Ecco qui, oltre la metafora politica, oltre il Potere e le barbarie, dal concepimento in epoca di autocrazia sovietica alla realizzazione in era di zarismo putiniano, un testamento sul mondo nelle sembianze e nella carne di inferno dantesco, la galleria di una umanità boschiana, bruegeliana, successione interminabile, accumulo di deformazioni e decomposizioni dentro i grigi sudici delle immagini, fra atrocità e violenze, volti idioti e terrificanti, punizioni corporali e teste mozzate, carcasse, sangue.

In Hard to Be a God Aleksej German, da «posseduto dal cinema», come lo ha descritto suo figlio, immagina il mondo, mette in crisi ogni percezione, polverizza il reale nel pulsare disperato di una messa in scena continua di invenzioni dove la forma e  la vita confluiscono stridenti o intrecciate nella profondità di campo, negli spazi dei piani sequenza e nella mobilità misteriosa della macchina da presa, cinema in un fuoriuscire e rientrare, un comporsi e ricomporsi di segni, che muore e rinasce altro negli sguardi in macchina  dei personaggi, nello scarto improbabile, solo provvisorio, fra il campo e il fuoricampo. Ci si perde per sempre nell’oscura, stratificata complessità di questa opera, nella potenza distruttrice delle sue immagini, estenuante allucinazione, incubo visivo, cinema (ri)scritto dagli occhi, ridefinizione incessante e violenta di ogni sguardo possibile. Non permette distanze, non c’è protezione, non c’è salvezza. Forse, dopo, non resta più neanche il cinema. Perché nel vuoto profondissimo, fra ogni putrefazione e l’Arte, quello schermo è già diventato Assoluto.





Titolo: Hard to Be a God
Anno: 2013
Titolo originale: Trudno byt’ bogom
Durata: 170
Origine: Russia
Colore: B/N
Genere: FANTASCIENTIFICO,  GROTTESCO
Produzione: STUDIO SEVER, RUSSIA 1 TV CHANNEL

Regia:  Aleksej Jurevič German

Attori: Leonid Yarmolnik, Yuriy Tsurilo, Aleksandr Chutko, Natalia Moteva, Evgeniy Gerchakov, Dmitriy Vladimirov
Sceneggiatura: Svetlana Karmalita, Aleksej J. German
Fotografia: Vladimir Ilyin, Yuri Klimenko
Musiche: Viktor Lebedev
Montaggio: Irina Gorokhovskaya, Maria Amosova
Scenografia: Sergei Kokovkin, Georgi Kropachev, E. Zhukova
Costumi: Yekaterina Shapkaitz


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