Non sarà certo la parola, laicamente intesa, né tantomeno il Verbo a salvarci, se lo si chiede a Sharunas Bartas. Quand’essa infrange il silenzio – cosa che avviene a maggior frequenza da Seven Invisible Man (2005) in poi, rispetto ai suoi lavori degli anni Novanta – non è mai per risolvere, sgrovigliare, dirimere, ma, al massimo, per fabulare, tamponare i fiotti amari dell’impotenza, continuare a sorreggere l’impalcatura incerta dell’esistenza.


Frost
, in questo, non fa eccezione. Rokas si dice “volontario”, ma sa a malapena quali aiuti umanitari sta trasportando dalla Lituania all’Ucraina. Il suo è un continuo perdersi, smarrire il senso, ammettere di non sapere. «I don’t know», confessa spesso. I giornalisti che lui ed Inga incontrano in Polonia non sanno far altro che usare espressioni astruse (“guerra ibrida”) o infantili (“un gran casino”) per definire un conflitto a loro sconosciuto ed estraneo, infuriante ben lontano dallo sciccoso albergo polacco, ozioso serraglio in cui gozzovigliano, starnazzando tra voluttà, vacuità, compunzioni. Un scontro fratricida di cui il protagonista stesso conosce una parte infinitesimale, avendo guardato un video su Youtube la sera prima di partire.

I dialoghi più pregnanti sono affidati, significativamente, ai soldati ucraini di stanza a pochi passi dalla linea immaginaria e malferma della guerra coi separatisti russi, necrofori e segugi del trapasso, avvezzi al puzzo dei cadaveri in putrefazione, talmente annessi alla morte da farne proprio il potere disvelatore, l’ermeneutica.
Del resto il finale interviene a chiarire senza più equivoci che morire, per dirla con Pasolini, è assolutamente necessario1. È la morte, troppo tardi ormai per potere (re)agire, a rendere d’improvviso tutto più chiaro per Rokas. Tutto, fuori di essa, era indistinzione, insignificanza del sé, frammentato negli specchietti mentre il rombo del motore accelerava verso la terra di nulla e nessuno e la percezione della neve infangata sul ciglio della strada si faceva turbinio vorticoso di linee e ombre, l’intrico dei rami ripetizione videoartistica – brachiblasti, macroblasti, tronchi, ricordi di foglie – potenzialmente infinita. Presagio di un’ultima confusa notte di smarrimento, prima di morire silenziosamente nella neve e tornare ad essere parte della natura indifferente, con la mdp che sale fino a sfumare ogni contorno.

Man mano che si avvicina alla fine, spinto inizialmente in Ucraina da una inspiegata corrività, Rokas inizia a sentire dentro di sé la responsabilità di «partecipare all’invisibile», di guardare finalmente davvero, pur attraverso i fugaci scatti dello smartphone «le cose che tocchiamo e usiamo», che «sanno della nostra miseria e gioia». Come «ape dell’invisibile” il ragazzo raccoglie il «miele del visibile»2 che pian piano, dalla seconda parte del film in poi, ha imparato a riconoscere e immortalare, nei palazzi sventrati e abbandonati, nelle strade minate. Per illudersi di poter ricostruire una Storia ormai irrimediabilmente iperfrazionata, disseminata in ogni dove, sepolta dalla macchina infernale del divenire storico, dei corsi e ricorsi dell’imperialismo.

Ma nella visione bartasiana l’uomo non ha energie, né scopi saldi e convinti, è agito più che agente, condannato (d)all’abiezione di microcosmi senza più macrocosmo, senza neanche più la sensuale interconnessione con la natura che permetteva alla violinista protagonista di Peace to us in our dreams (2015) di tuffarsi, in meravigliosa posa passiva, nelle acque del lago, alla ricerca di un momentaneo ristoro.  
Restano i frantumi nelle case, delle case; nell’animo, dell’animo. E l’intussuscezione del reale è intossicazione e inguai(n)amento cui solo il silenzio, la contemplazione dell’accadere, la percezione dell’immagine possono restituire sincerità e udienza. La pace, allora, è davvero solo nei sogni ormai. A Rokas e Inga non resta, appunto, che sognare d’incontrarsi in sogno. Come in Corpo e anima (Enyedi, 2017), ma senza che speranza alcuna si materializzi in campo. Mentre il fuoricampo, continua a fare domande.


Note

1 “Perché finché siamo vivi manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile» (Pasolini 2003, Empirismo Eretico, pp.240-241)

2 Tratti dalla lettera datata 13 Novembre 1925 di R.M. Rilke al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz. Presente In Poesie e Prose.


Bibliografia

Pasolini, P.P.(2003), Empirismo eretico, Garzanti, Milano.

Rilke, R.M.(1992) Poesie e Prose, Edizioni Le Lettere, Milano


Filmografia

Seven Invisible Man (Sharunas Bartas, 2005)

Peace to us in our dreams (Sharunas Bartas, 2015)

Corpo e anima (Ildikò Enyedi, 2017)

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