eyes_wide_open--400x300Storia d’amore omosessuale, ambientata a Gerusalemme, tra due ebrei ultra-ortodossi. Uno dei due è però sposato e padre di quattro figli, nonché membro rispettato della comunità religiosa, che si opporrà al loro rapporto.




[Film in concorso al primo Bari Queer Festival]


Eyes wide open non è un film western, eppure ne riprende gli stilemi figurativi più rappresentativi: ambientazione scarna, con i vicoli di Gerusalemme che potrebbero essere quelli di un pueblo del New Mexico, in cui si aggirano uomini vestiti tutti uguali, le barbe incolte e i cappelli a larghe tese. Nessuna pistola, ma due criminali braccati per il loro rapporto gay. Più che un film omosessuale, un film unisessuale, proprio come nei western classici, con le donne a far da comparsa, relegate nel ruolo di moglie e madre, che agiscono solo in funzione dell’uomo. Uomini ebrei ultra-ortodossi, per i quali il tempo è morto, refrattari a qualsiasi innovazione: se non fosse per qualche particolare, sarebbe difficile individuare in quale delle ultime decadi collocare la vicenda.

Ma oltre alla composizione degli elementi dell’immagine, è un tratto dello stile di Haim Tabakman, al suo primo lungometraggio, a sembrare uscito da un classico americano dei Quaranta: l’uso del grandangolo per ottenere il pan-focus (ripreso, tra l’altro, in maniera maniacale nel quasi omonimo Eyes wide shut), in modo tale che ogni particolare possa essere nitido sotto l’occhio completamente spalancato della macchina da presa. È uno sguardo cui non sfugge nulla, che fa male (un po’ come in un altro film presente al Bari Queer Festival, L. A. Zombie di Bruce LaBruce, nel quale lo squatter-zombie-erotomane lacrima sangue come una madonna): è l’effetto dell’insostenibilità di una visione lacerata, o meglio, della lacerazione che provoca una visione sul telo delle rappresentazioni standardizzate della religione.

Ciò che l'osservanza ortodossa della religione non riesce a sopportare non è la trasgressione del divieto, l'atto omosessuale in sé, quanto la liberazione della coscienza: il vero peccato è sentirsi vivi, aver svelato la mortifera oppressione del comando. Tutto un sistema costruito sul divieto crolla dinanzi alla libera scelta bollata come innaturale, dimostrando a sua volta la propria innaturalità di organizzazione del potere ormai avulsa dall'uomo e prima causa dell'umana alienazione. Famiglia, credo religioso, società: tutte strutture impersonali che hanno come unico fine la propria perpetuazione piccolo-borghese.

Una piccolezza predominante, come rappresentato in una delle ultime sequenze del film: ancora rifacendosi alla tradizione americana, Tabakman cita una delle sequenze più famose di Citizen Kane. Piazzata la telecamera in basso, si colloca in primo piano il padre omosessuale, mentre sullo sfondo si intravede da una porta socchiusa il figlio giocare: con un rovesciamento della scena girata da Orson Welles, è la coscienza del padre a subire il potere del piccolo figlio, a essere succube dei legami parentali e costretto ad adeguarvisi.
Una via d’uscita consolatoria per la vicenda è preclusa: l’uomo è ricondotto a immergersi (letteralmente) di nuovo nella sua quotidianità, condannato al rimorso. Ciò che resta è la sensazione dell’esistenza di un fato che influenza gli uomini, una forza erotica che li attrae, come un movimento di camera che conduce sulla scena, quasi per mano, personaggi simili a marionette, desiderosi ma incapaci di autodeterminarsi.





Titolo: Eyes Wide Open
Anno: 2009
Titolo Originale: Einaym Pkuhot
Durata:    91
Origine: ISRAELE
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: PIMPA PRODUCTIONS, TOTALLY PROD.

Regia: Haim Tabakman

Attori: Zohar Strauss (Aaron); Ran Danker (Ezri); Ravit Rozen (Rivka); Tzahi Grad (Rabbino Vaisben).
Sceneggiatura: Merav Doster
Fotografia: Axel Schneppat
Montaggio: Dov Shtoyer

Riconoscimenti

Reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=9LIZfwJVf8Y

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