altA volte capita di essere colti di sorpresa da un'immagine, magari entrando in una chiesa o in un rudere scalcinato: crediamo di aver visto o di poter vedere tutto, nella quotidiana tempesta di percezioni che ci avvolge come una selva indistinta, ma dinanzi all'epifania dell'inconsueto non possiamo che rimanere straniti, come se avessimo aperto gli occhi per la prima volta.


Comincia allora un'investigazione intorno alle forme, sebbene non ci sia alcuna domanda da porre. Lo sguardo scorre in senso verticale, dal basso verso l'alto o viceversa, in una pervicace ricerca di unione tra due dimensioni, due strati disconnessi tra loro, il visibile e il tangibile. Piuttosto che una domanda, quello che fa muovere lo sguardo è un desiderio apparentemente irrealizzabile: toccare le immagini con gli occhi, scorrere le pupille lungo gli oggetti per creare una connessione differente, non mediata dal senso ma dalla sensitività.
Deposizione in due atti è una dichiarazione di poetica, o almeno la definizione di una tensione, di un atto diviso in due movimenti. Il cinema di Schirinzi si presenta a prima vista passivo nei confronti del visto, ma è attivamente critico nei confronti dell'attualità, ponendosi in antitesi alle convenzioni attuali imposte al modo di vedere le cose.

Del resto anche nel precedente I resti di Bisanzio si sentiva la fascinazione di Schirinzi per le forme avulse dal senso, come ad esempio per quelle costruzioni che insensatamente provano a scalfire e a ritagliare il cielo, opprimenti e ottuse nella loro mistica linearità verticale. In entrambi i film ciò che è statico, che si oppone alla mutazione, è avvertito come già morto: negando l'esistenza di qualsiasi fine, la materia (sia che segua una immaginifica decadenza bizantina o che si deponga strato dopo strato, polvere su polvere, in due atti distinti e contigui) continua a muoversi, a pullulare nella marcescenza.

Il paradosso della marcescenza invade tutto, anche la scelta di Schirinzi di girare in digitale. Se la pellicola decade naturalmente, reinventando il filmato e continuando il processo creativo fuori dal controllo del suo autore, di contro l'immagine digitale, seppure facilissima da cancellare, resta immutabile, perfettamente duplicabile all'infinito senza subire alcuna alterazione: si dà per morta nel momento stesso in cui nasce, impalpabile come un fantasma, sfuggente e irriducibile alla fisicità del fascio di luce con cui viene proiettata l'immagine in pellicola.
L'insofferenza per le forme, l'iconoclastia programmatica, è allora una reazione più sonora che visiva. L'oblio è impossibile, ogni cosa pare immersa in un indistinto chiacchiericcio. Per emergere dal brusio, dalla medietà audio, Schirinzi prova ad andare sotto la media, a scivolare nel silenzio, o tenta di surclassarla attraverso il punk, il rumore stridente, la declamazione. Oggetto del furore iconoclasta diventa quindi il legame tra senso e parola.

Se quel che resta di Bisanzio è l'immagine di Lei (amata, desiderata, magari solo sognata e immaginata) che si lima le unghie (e sotto i colpi della limetta tutto diventa lamina: l'immagine, il colore, il suono), ciò che resiste nel fondo della memoria della Deposizione è il ricordo residuale per il dettaglio inatteso, per la sensazione che rimane una volta fuori dall'inconsueto, di ritorno nella selva di immagini e suoni del tempo contemporaneo.





Titolo: Deposizione in due atti
Anno: 2014
Durata: 15
Origine: Italia
Colore: C
Genere: CORTO SPERIMENTALE
Produzione: KAMA, IN-CUL.TU.RE, MIUR, APULIA FILM COMMISSION
Specifiche tecniche: DCP

Regia: Carlo Michele Schirinzi

Soggetto, fotografia, montaggio: Carlo Michele Schirinzi
Musiche: Stefano Urkuma De Santis
Suono: Marco Saitta

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