Cronofobia è la storia di Anna e Michael, i due protagonisti dalla temporalità sospesa, ai quali è dato incontrarsi in una Svizzera cinerea, dove la luce appare silenziosa, nascosta tra tessuti ipertrofici di un cielo che sta lì a serrare le coscienze.

Francesco Rizzi filma uno scambio equo e simbiotico sull'elaborazione della perdita - chi ha perduto il marito, chi, d'altra parte, una propria appartenenza, solidità stabile nel mondo - sulla solitudine che ne consegue, o meglio, sull'impossibilità di una rigenerazione futura nel mondo. Per non soccombere alle linee di tempo future i due protagonisti decidono di raggrumarsi in profuse lacrime di neve ormai sciolte, tentando quindi un ricongiungimento delle loro parti impossibili.

Anna cerca di tracciare in Michael il passato trascorso con il suo ex marito; Micheal si fa carne di questo processo: inizialmente ne prende le sembianze, ma poi cerca di cancellare anche questa identità, tornando alla ricomposizione di una nuova solitudine annunciata. Film sull'identità dunque, sulla ricerca disperata di identità, tanto più in ambiente alienante, slavato, schiacciato dal cielo sempre ghiacciato.

Un'opera feroce, tagliente, pur nelle sue troppo esplicite derivazioni (il Sorrentino delle Conseguenze dell'amore, soprattutto), con alcune imbarazzanti cadute di tono - anzi si direbbe alzate di voce - come quando Michael imita il grido di Anna al treno di passaggio. Poi però gli occhi e i repentini scambi di sguardo tra i protagonisti tornano ad acuire l'intensità del film: occhi siderali, due fanali incalcolabili nella loro condensazione, muniti di bianche ciglia, cascanti nel rifugio di vetro del loro kairos, perché incapaci di vivere nel kronos terreno.

Eppure la cronofobia, il temere che gli avvenimenti corrano accanto senza poter fare nulla, ci viene mostrata solo ipoteticamente: Anna e Michael non hanno paura del tempo, anzi, essi deliberano arbitrariamente il suo flusso confondendolo con le loro identità confuse.

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