alt«Io non sono mai stato innamorato, sono stato solo malato.»
(A. Ż.)


Naturalmente di tutti quei rovesci votati all'annientamento – a quello stato insomma che si fa cadavere dell'altro, nevrosi – ora non resta che una pallida risonanza. E quel che pareva essere rapacità per l'osceno, per il mostruoso, secrezione, mutilazione, bestiame, ora qui è candore.


Di contro l'idea di banda, di gruppo è più totalitaria e compressa, ad esempio: in Possession (1981) il gruppo-famiglia svuotava il suo nucleare e poi ne mostrava il fallimento. Ma il suo fallire presupponeva una pre-organizzazione funzionante, un'ideologia smarrita insomma, smarrita a partire dallo spazio – stessa paranoia urbana del resto in Decoder (1984, Muscha). L'idea del doppio, doppio come alleanza, coppia, familiarismo, fratellanza, ora qui si fa segregazione, razza, banda, corpo autistizzato che sgorga in mezzo a popolazioni sottomesse alle loro stesse infermità. In Kosmos (1965), Gombrowicz forma una nuova idea di noia, un circuito sessuale di soglie organiche inespresse, orride, degradanti, un nuovo visibile attraverso l'immagine mentale: una veggenza; qualcosa di molto simile avveniva nel Diario (1953-1958), del resto, qualcosa di apparentemente caotico, assurdo, ma pur sempre limpido, poliziesco. Come dichiarava nel 1953: «Le idee mi interessano sempre meno, ciò a cui tengo è l'atteggiamento verso un'idea. L'idea è un pretesto, un accessorio». È quell'atteggiamento fisso che Żuławski tenta platonicamente di disciplinare, quel caos di strati e corpi sovrasensuali limitati però solo a dilazionarne l'ossessione. Se arbitraria, non-esistente, improbabile, allora, in quanto estranea [l'immagine] corrisponderà all'esigenza di essere indagata nella sua fuoriuscita. Si potrebbe ammettere quindi l'esistenza di una realtà cosmica già data, un movimento in disordine a cui apporre una resistenza ordinata. La forma cosmologica come visibile, sensibile, corporea, decifrabile... Del resto Żuławski stesso descrive Cosmos come una storia della mente umana, un attacco contro la mancanza di immaginazione – l'interazione, l'immagine, l'universo immaginato delle cose, attraverso quel corpo che si vede e si pensa: «this is a Cosmos: here, this bottle, this thing, your reflection in the mirror, the mosquito that just bit me. I never saw him, he was so little, so small. It’s a cosmos. This was strongly appealing to me, by the end of my life, to see that it’s absurd but not in an absurd way» (Żuławski, 2015).

Gide racconta come la storia della letteratura francese nasconda un ampio imbarazzo e orrore per l'informe, per il non-formato, il larvale. Il contraddittorio creerebbe opposizioni dalle quali sarebbe impossibile soddisfarsi o accontentarsi. Così il labbro di Catherette è qui unità di misura dell'inesplicabile, e si schiude in visioni, organi, spire e impiccagioni ( «...the hanged sparrow, the Catherette's lip... why hang it? who hang it?»). Sicché dalle spire d'umidità si entra nella sostanza rifulgente di eventi impenetrabili; queste spire, questi umori colati sono ferite aperte da sanare, consumare; invaginazioni di etere in cui entrare, simulazioni vaginali da raggiungere (le lacrime d’urina di Bataille «Uno sciame che mi annullava, che scorreva con me, il soffitto con l’arcipelago e le macchioline d’umidità; una zona scura contagiata dall’umidità, con una complicata geografia di continenti, strani cerchi concentrici…» (Gombrwicz, 2004, p.54, 34)). Un insieme di strati, bocche, cavità, segmenti, caverne – la gamba di Lena, il metallo, la carne, l'eco della rete, le bocche a confronto: quella turgida di Lena che balugina il labbro deforme di Caterina, «Lena who pulses like blood»... L'allucinazione, la moltiplicazione del numero, la fusione dei rigonfiamenti deformi nel legame boccale a frammentarsi, a favorire combinazioni di cosce, rigonfiamenti di carne, pieghe, labbra immonde, epidermidi, sogni di salive… objets petit a. «Perché le loro bocche vomitanti capitavano a me? Che cosa sapevano queste bocche delle bocche che nascondevo in me? Da dove proveniva questo mostro boccale strisciante? (…) Per un istante vidi il passero, il bastoncino, il gatto, assieme alla bocca come dei rifiuti (…) avrei potuto avvicinarmi, afferrarla, sputarle in bocca, perché l’avevo deturpata così?» (Gombrowicz, 2004, p. 163, 160, 124); «Il tuo collo… se ho spezzato il collo del gatto, potrei spezzare anche il tuo, e impiccarti» (Żuławski, 2015). Ma è necessario tener presente una cosa. Accordandoci a Bellmer, perché quel particolare, quella bocca, quella gamba, quella porzione sia percettibile, quindi accessibile alla memoria, il desiderio non deve essere confuso con l'oggetto, e in questo caso non deve essere scambiato per una semplice bocca o gamba. Esiste nella sua eccedenza, nel suo resistere al soggetto, nel suo differirsi, nella sua impossibilità a essere riempito, nel suo riflesso interrotto. In Cet obscur objet du désir (Buñuel, 1977), l'alternanza delle due attrici che interpretano Conchita rende impossibile la codifica e l'identificazione dell’oggetto stesso; l’oggetto del desiderio potrebbe scorgersi, semmai, nella sostituzione stessa, nel travaso. Qualcosa di simile insomma...

Certo, l’edonismo gore poi è solo un ricordo, ma ognuna di queste proliferazioni paranoidi aggiunge all’allucinazione del testo una disperata iniezione di movimento, un corpo surreale frammentato in mille parti, ma compatto, monolitico, sequenziale. Quel che di fatto (gli) si sottrae è la bestialità dell’organo raggiunto. Ne rimane perciò un corpo svuotato ma moltiplicato. Se da una parte la camera contribuisce all’ingresso in questo corpo, l’attorialità, di contro, la dissolve, la respinge. Il dolore è un dolore sordo, congelato, idealizzato, sospeso, contemplato, «ogni oscenità viene sospesa, e tutte le descrizioni sono come trasferite dall'oggetto stesso al feticcio. Sussiste solo un'oscenità pensante, simile a un profumo troppo forte che si espande nella sospensione» (Deleuze, 2007). Witold sperimenta il legame tra proprio dolore e proprio piacere attraverso un'astrazione traslata, un mise en abîme della pulsione immaginale, libidinale da cui egli stesso apaticamente tenderà a sottrarsi; ma qual è allora l'oggetto pulsionale? Forse lo spettro della pulsione stessa? Se, come dice Sade, il male è un movimento perpetuo di molecole furiose, allora potremmo dire che in questa eccitazione astrale, questo male è, proprio in questo suo differirsi, un male completo, totale: nelle «Centoventi giornate il libertino si dichiara eccitato non dagli oggetti che sono presenti, bensì dall’oggetto che non è presente, vale a dire dall’idea del male. Questo è il senso della ripetizione e della monotonia sadica» (Deleuze, 2007, p.31, 32) «a sadist, a bad man out of work»…

Di qui l’ossessione per la camera in movimento, per i massacranti primi piani, le angolature, i raggelanti parossismi come sopravvivenza del reale nell’artificiale, sopravvivenza nell’apparenza – nell’apparenza carnale (per dirla alla Bazin) –, salvare l’essere attraverso quest’apparenza, ma un’apparenza che è già morte: la verosimiglianza, l’inquadratura ravvicinata, quindi l’insistenza prossimale su questa crudeltà riprodotta è già morte: lo spettacolo è la messinscena della morte quanto più se ne avvicina nell’artificio che la riproduce. Ci integriamo nelle cose solo una volta che sono morte... In Femme publique (Żuławski, 1984), Lucas parla del cinema come di una spettrale cristallizzazione del defunto: il cinema serve a conservare questa immagine infestante, quella del morto, perché continui a ripetersi nell'elettricità disperata. Resta il fatto che nulla è ancora cadavere, neppure il cadavere stesso (un Monsier Lucien impiccato alla sua cintura, per intenderci), e il tempo è un vuoto infinito, una fuoriuscita di vuoti che si versano l'un l'altro (l'abitazione, il giardino, la spiaggia). Lo spazio è idealizzato, profondo (in quanto proiezione, informazione prospettica necessaria, artificio di un mondo esistente in quanto pensato).

Nell'Aprile del '52 Filmcritica pubblicò un saggio di Bazin in cui (citando Bresson) analizzava il rapporto tra film e romanzo, sottolineando come la traslazione abbia maggior successo quanto meno tenti di (in)seguire l'opera letteraria. E qui, la traslazione è qualcosa che si rispetta alla lettera, diremmo: «i momenti più emozionanti sono giustamente quelli ove si ritiene che il testo dica esattamente la stessa cosa dell'immagine; e invece lo dice in un altro modo. Così l'immagine si ritira tra gli elementi secondari dello schermo» (Bazin, 52, p.104). Nonostante la grande influenza gombrowiziana (30 Door Key di Skolimowski, Pornografia di Kolski, Verbrechen mit Vobedacht di Lilienthal), in fondo, per Żuławski il romanzo è solo un pretesto per interiorizzare ed esplorare l'abisso stratificante della connessione ossessiva, la lacerazione virale del desiderio violento che sgorga in un tempo sottoposto a quello dell'ingombro mentale, dell'immaginazione pura: «la violenza che non parla» (quindi una violenza sopita, sanzionata  – proprio per questo moltiplicata, trasferita, travestita, sdoppiata), «l'erotismo di cui non si parla» (Deleuze, 2007). Una simile densità non può essere che fittizia, affetta, eccedente proprio nel suo fuoriuscire, nel suo fuggire infine la scena stessa. Dal fallimento del verosimile, verso una nuova illusione più defunta.


Bibliografia

A. Bazin (1952): Il diario di un curato di campagna e la stilistica di R. Bresson, (in) Filmcritica - Aprile

H. Bellmer (2001): Anatomia dell’immagine, Adelphi, Milano

G. Deleuze (2007): Il freddo e il crudele, SE, Milano

A. Gide (1946): Dostoevskij, Bompiani, Roma

W. Gombrowicz (2004): Diario 1953-1958, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano

W. Gombrowicz (2004): Cosmo, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano

W. Gombrowicz (2004): Testamento, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano

E. Mazierzka, M. Goddard (2014): Polish Cinema, in a transitional context, University of Rochester Press, NY

S. Monetti (2008): Jacques Lacan e la filosofia, Mimesis, Milano

N. Pinkerton (2015): Locarno interview: Andrzej Żuławski, Film Comment Published by Film Society of Lincoln Center - August Issue, NY





Titolo:
Cosmos
Anno: 2015
Durata: 103'
Origine: Francia/Portogallo
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 1.85 : 1
Produzione: LEOPARDO FILMES, ALFAMA FILMS PRODUCTION

Regia: Andrzej Żuławski

Attori: Sabine Azéma (Madame Woytis); Jean-François Balmer (Léon); Johan Libéreau (Fuchs); Jonathan Genet (Witold); Victória Guerra (Lena); Andy Gillet (Lucien); Clémentine Pons (Catherette / Ginette)
Soggetto: Witold Gombrowicz (romanzo)
Sceneggiatura: Andrzej Żuławski
Fotografia: André Szankowski
Montaggio: Julia Grégory
Scenografia: Paula Szabo
Costumi: Patricia Saalburg
Musica: Andrzej Korzynski

Riconoscimenti

http://www.youtube.com/watch?v=z2P2R0mAZJE

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