Con l’invenzione degli specchi, ma ancora prima, rimirandosi come Narciso nelle più varie superfici riflettenti, e poi con l’arte del ritratto (pittorico o scultoreo), l’umanità, come sosteneva Borges, ha coltivato l’arte abominevole di moltiplicare se stessa? Io direi piuttosto che ha messo in opera tutti i mezzi possibili per moltiplicare la propria effige, e poi per eternarla, farla esistere anche dopo la propria morte: tentativi di sopravvivenza.

L’invenzione molto più tarda della fotografia è andata in questa stessa direzione, rendendo possibile a tutti di accedere a qualcosa un tempo riservato a una classe ristretta di privilegiati. Il cinema, poi, ha segnato l’ulteriore sviluppo di questo processo, coinvolgendovi la riproduzione del movimento, cioè il tempo.

Fissare le immagini (la memoria) di un’azione che si è svolta in un certo arco di tempo, dopo che l’azione è cessata, conservandone il carattere di movimento nel tempo (Deleuze), significa fissare il tempo, confezionarne la mummia (Bazin), resuscitare i fantasmi che vi hanno operato (Derrida). Per questo bisogna dire che, al di là d’ogni divisione in generi, ogni film (documentari compresi) è un film di fantasmi, come avevano capito i registi dell’espressionismo tedesco, come aveva capito Artaud.

Questa natura spettrale del cinema viene mascherata alla meglio, tramite vari trucchi ed espedienti, nei film narrativi, che formano poi in gran parte il prestigio e la maestria dei registi, capaci di assicurare la verosimiglianza realistica delle immagini in movimento; ma alcuni (per esempio Dreyer, Tod Browning, Pasolini e pochi altri) hanno tentato in modi diversi, di praticare la strada più difficile, ossia quella di veicolare e imporre la flagranza dei corpi malgrado il processo di spettralità che pure inevitabilmente (perfino nel cinema porno!) li coinvolge.

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