Corpi elettriciAlessandro Cappabianca

In Blade Runner 2049, come già nel Blade Runner di Ridley Scott, avviene l'incontro d'amore, d'odio e competizione, l'incontro/scontro, tra due tipologie corporee diverse, per quanto imparentate. I replicanti sono stati creati da un uomo, a immagine e somiglianza degli umani e gli umani pensano di essere stati creati da un Dio, a sua immagine e somiglianza - per logica conseguenza, forse lo scienziato Wallace, creatore della nuova generazione di replicanti, si crede un Dio. Ma nel film di Villeneuve risalta con maggiore evidenza,  rispetto a  quello di Scott, una differenziazione ulteriore: il corpo dell'agente K è un corpo-immagine (nel senso di Bergson), sul quale le immagini-corpo del mondo si riflettono, al tempo stesso ricevendo nuovi impulsi da questa riflessione. L'ologramma domestico della ragazza ama K e ne è amato. In questo senso, come corpo-cinema, quello di Bryan Gosling non è diverso da quello di tutte li gli altri attori o attrici, sia che interpretino ruoli d'esseri umani, di replicanti o di ologrammi. La distinzione, del resto, diventa sempre più difficile, con il cinema dell'era elettronica, che permette di giocare facilmente sull'ambiguità. L'unica vera distinzione avviene allora con un altro corpo-cinema, quello di Harrison Ford-Deckard che, invecchiando (e ri-presentandosi in quanto invecchiato, senza abbellimenti di maquillage) acquista una singolare concretezza, una presenza, una flagranza, tali da farlo ascrivere naturalmente al registro del reale, per quanto collegate alla memoria del cinema. È come se le scenografie virtuali, la luce arancione, gialla o bluastra d'un mondo artificiale, i corpi conservati in vitro, in attesa di anima (vita, memoria), si trovassero all'improvviso di fronte all'incomprensibile miracolo della carne che invecchia. Allora l'incombere della morte, che per K restava una possibilità, annunciata dal romanzo/poema Fuoco pallido di Nabokov, si concretizza nel freddo, sui gradini della scalinata coperta di neve d'un vecchio edificio, dove si confezionano i sogni.


Il sex appeal dell'inorganicoLuigi Abiusi

L'impossibile coincidenza tra Joi, l'ologramma amante per coazione ad amare e la prostituta cibernetica dotata di corpo, porta in sé, dentro i pori, la fibra prismatica della sequenza, il dramma innato, endemico del cinema, di ogni immagine cinematografica, persa come fantasma nell'intercapedine tra realtà e fantasticheria. Due diverse manifestazioni dell'ente, di quello che è un essere generico latente, nel pieno esercizio delle sue potenzialità (ad apparire finalmente), che appunto si fa immagine, si mostra declinandosi in due esistenze femminili (quello che Derrida chiama esserci, cioè l'accadere in questo mondo, dell'essere indeterminato) la cui sovrapposizione non combacia, si disallinea di continuo, si disincarna in un limbo, in un continuo transito, tra carne e simulacro, che è lo stessa tragica perdita di Solaris, e tutto il pathos del film di Villeneuve, brulicante in disperati vagheggiamenti di immagini perdute. Film sulla memoria allora, unico modo per vivere brandelli di memoria rimasti in archivio (Elvis Presley, Frank Sinatra, ecc.): memoria inscritta nelle cose abbandonate (non è questo il punto di partenza di tutto il memorare e poetare trascendentale, ermetico? La chiusura mistica dell'oggetto reduce, della parola scampata, che dà origine a una realtà ricordata, inventata), nella loro decadenza, nell'apparire improvviso della luce artificiale dentro l'ombra del mondo. I neon, ancora (vedi neonismo), crepuscolo sintetico in cui tracima l'inevitabile attrazione per l'inorganico (e non è un caso che Joi abbia l'aspetto di una sovrumana, fantoccesca Ana De Armas), la sua umbratile, lasciva fissità, il crepitare per silici e smalti e cose morte, ricordi.




Futuro postumoMatteo Marelli

Ci sono disturbi di definizione nei loghi di produzione che precedeono i titoli di testa di Blade Runner 2049. Chi mi sedeva accanto, infatti, si è chiesto se non si trattasse di problemi di proiezione. Si tratta di glitch, termine immediatamente traducibile con “errore”, o più sottilmente con “incongruenza”, “problema tecnico”, “anomalia”, “inconveniente”. Per una tendenza quasi connaturata alla tecnologia moderna i media cercano sempre più di sparire, di cancellare il proprio lavoro, come a voler concretare la formula ciò che è è ciò che appare. Questa sparizione viene riscattata attraverso il glitch, che rimette in evidenzia il dispositivo rendendolo osservabile e interrogabile. L'interruzione (in questo caso volontaria) del flusso della linearità di trasmissione obbliga lo spettatore a porsi domande sullo statuto dell'immagine: qual è la sua natura? Sì, perché così come la tecnologia, che si affina sino alla scomparsa, anche la rappresentazione è un processo che si occulta, che cela il proprio processo di rielaborazione formale, l'effetto visivo artificiale: l'immagine, del resto, come ha efficacemente sentenziato Paolo Bertetto, non è in sé rappresentativa, semmai simulativa e differenziale. Non vorrei che tutto questo risultasse accessorio e masturbatorio: la questione sulla percezione della realtà e dell'identità, oltre a essere una delle costanti del cinema di Villeneuve, e a toccare nell'intimo la struttura dell'immagine (che qui è il risultato di un cortocircuito tra opposti: vero e falso, riproduzione fotografica e digitale) è il perno attorno a cui ruota tutta la narrazione, una costruzione di rappresentazioni simulate che, giocando con l'inganno delle apparenze, impediscono di stabilire un livello incontrovertibile di verità (in questo 2049 l'uomo, quando non è sostituito dai replicanti, s'assottiglia a dimensione catodica, a immagine dislocabile, monodimensionale). Mi si potrà dire che quanto accennato non è di certo nuovo. Ma  non è innovativo nemmeno il lavoro fatto da Villeneuve che, come già con Arrival, mostra la natura derivativa del suo gesto registico (tanto a livello di scrittura, quanto di estetica): «un film ambientato domani che sembra girato ieri», per riprendere quanto già detto da Ridley Scott a proposito del suo Blade Runner. Non un giudizio di merito, ma un dato di fatto.


RachaelMichele Sardone

Inaspettatamente, dopo quasi due ore di film, compare lei, ed è il primo sussulto che provi: lei, con le sue spalline espanse in 70mm, la frangia panavision, gli occhi di un colore indefinibile (marroni, verdi, forse anche dai riflessi rossi, non ricordi bene: inganni della technicolor) ed hai la sensazione che un miracolo è possibile, grazie alle stregonerie del digitale. Un ricordo magari non può (ancora) farsi carne, come in Solaris, però puoi averlo lì dinanzi a te e vederlo nitidamente, avere l’illusione che viva ancora nel presente della visione. Ricordi la prima volta che l’hai vista al cinema (galeotto fu quel director’s cut) e di come subisti la fascinazione di un mistero, di un segreto che desideravi credere che si celasse dietro quell’inscalfibile viso algido e fragile.

Hai appena iniziato a riavvolgere il nastro della memoria e già Villeneuve le ha fatto saltare le cervella. Così, brutalmente. Terminato il film, passato lo shock, inizi a rielaborare e a pensare che un tempo che non c’è più non è replicabile se non per fugaci e instabili apparizioni. In un film che già si pone come interminabile e continuo rimando, tutto il resto del campionario delle citazioni e dei tributi – Elvis che canta a Las Vegas, l’amore virtuale (dopo Her, o Simone et similia) per un ologramma (che si ingigantisce come la Ekberg ne Le tentazioni del dottor Antonio o che “possiede” un corpo umano più o meno come faceva Patrick Swayze con Whoopi Goldberg in Ghost), le scene d’interni della Megaditta girati come spot su una linea di parquet – tutto questo non è più rimembranza, ma si ricolloca nel già visto, in una dimensione popolata più da ritornanti che da replicanti: e forse bisogna constatare che abbiamo gli occhi troppo pieni di immagini, più che di visioni. E col tempo perduto scivolano via un’estetica, un modo di fare cinema, l’illusione e il sogno: tutto si confonde e si perde, a voler essere sino in fondo stucchevolmente citazionisti, «come lacrime nella pioggia».

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