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Così immediate le rovine
Da assomigliare alla certezza dell’amore.

(Vladimir Holan)






Un uomo e una donna avanzano faticosamente lungo un sentiero di montagna. Come un’ombra silenziosa, la mdp segue la loro andatura riprendendoli in controluce. Raggi bianchissimi penetrano tra i rami selvatici e bruciano lo schermo: forse è lì che i due si stanno dirigendo, verso quel bagliore accecante, verso quella luce primordiale e salvifica.

In un presente apocalittico, l’umanità rischia l’estinzione a causa di un’epidemia che si diffonde attraverso il semplice contatto umano: chi contrae la misteriosa malattia sprofonda in uno stato depressivo che conduce inevitabilmente al suicidio. Una coppia è riuscita a mettersi in salvo in un piccolo villaggio abbandonato e sopravvive grazie al latte di una capra chiamata come un’antica divinità greca: Ananke.

Ananke è l’opera prima di Claudio Romano, scritta a quattro mani con Betty L’Innocente, prodotta da Gianluca Arcopinto e presentata all’ultima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Mentre la si guarda, si ha la sensazione di essere attorniati dal nero. L’oblio è a un passo, dietro ogni inquadratura. L’occhio si aggrappa a ogni apertura, a ogni spiraglio di luce, per non soccombere al buio. Qualcosa di molto simile accadeva nell’ultimo film di Béla Tarr, Il cavallo di Torino, dove pure si raccontava di un’apocalisse.

Tutto è spoglio, essenziale: non vi è traccia di colore, le immagini sono granitiche e consumate, i movimenti di macchina semplici e molto lenti, i dialoghi trattenuti, la musica assente. Si avverte l’esigenza di tornare a un cinema originale, incontaminato. Non è un caso che i due protagonisti trovino rifugio in una costruzione in rovina: «la vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte talvolta riesce a ritrovare» (Augé 2012, p. 8).

Il film di Claudio Romano, coraggiosamente, si avventura in questa difficile ricerca con risultati sorprendenti. Parafrasando l’etnologo francese, si potrebbe forse parlare di “cinema in rovina”, cinema «che ha perduto la storia o che la storia ha perduto» (ivi, p. 135). Senza dubbio si tratta di un gesto radicale e vitale allo stesso tempo, che nel panorama odierno non può non assumere una forte connotazione politica, giacché «la spettacolarizzazione del mondo è, di per sé, la propria fine; in questo senso, essa vuole esprimere la fine della storia, la sua morte. Le rovine, invece, danno ancora segno di vita» (ibidem).

Ananke appare dunque un atto di rigore e di resistenza, proprio come quello compiuto dai due protagonisti del film, che si isolano dal mondo per sopravvivervi. «La solitudine è dura, ma necessaria», dirà la donna di cui non si conosce il nome: solo attraverso il dolore lancinante della mancanza si può tornare a sentire la vita. La mancanza è gridare l’alterità, è supporre una presenza oltre il sé. Fino all’estremo finale: la nascita del figlio e il suo abbandono (il farlo mancare, ed essere nella mancanza). Il pianto del neonato richiama in casa la capra Ananke, sarà lei a occuparsi di lui: tra le rovine, un nuovo inizio sembra possibile. Lo sguardo della madre, poco prima che la pellicola finisca, è la certezza dell’amore.


Bibliografia

Augé M. (2012): Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino.





Titolo
: Ananke
Anno: 2015
Durata: 69'
Origine: Italia
Colore: B/N
Produzione: Axelotil Film

Regia: Claudio Romano

Attori: Marco Casolino, Solidea Ruggiero
Sceneggiatura: Betty L’Innocente, Claudio Romano
Fotografia: Juri Fantigrossi
Montaggio: Ilenia Zincone

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